GAM, Palazzo Madama e MAO riaprono
I musei riaprono le loro porte. Il pubblico potrà così tornare ad apprezzare le opere custodite e le esposizioni temporanee allestite e pensate per i visitatori: il mercoledì e giovedì dalle 11.00 alle 19.00, e il venerdì con orario prolungato dalle 11.00 alle 20.00.
Nel periodo del lockdown Fondazione Torino Musei ha voluto sempre più tenere attivi i musei, continuando a mettere in campo progetti e iniziative sui canali digitali per essere accanto al suo pubblico, alle famiglie, agli studenti e agli insegnanti, e per mantenere sempre vivo il dialogo.
Oltre al monitoraggio delle sale espositive e al controllo dello stato di conservazione delle opere, si è lavorato per garantire la programmazione dei prossimi mesi, con la proroga delle mostre non ancora visitate dal pubblico, una su tutte Stasi frenetica di Artissima 2020, allestita nelle sale dei tre musei fino al 12 febbraio, con l’allestimento (anche a musei chiusi) di nuove esposizioni e la riapertura delle mostre già in calendario.
Saranno visitabili le sale delle collezioni permanenti e le mostre:
A Palazzo Madama – Museo Civico d’Arte Antica oltre all’allestimento in Corte Medievale di Stasi frenetica che riunisce circa 30 opere individuate con le gallerie delle edizioni 2020, 2019 e 2018 New Entries di Artissima – le più giovani e sperimentali gallerie aperte da massimo 5 anni – sarà possibile tornare a visitare la più importante mostra internazionale di fotogiornalismo al mondo: World press Photo Exhibition 2020 prorogata fino al 14 marzo 2021. Il 5 febbraio inaugurerà in Sala Atelier Ritratti d’oro e d’argento. Reliquiari medievali in Piemonte, Valle d’Aosta, Svizzera e Savoia, organizzata in partnership con il Museo del Tesoro della Cattedrale di Aosta e in collaborazione con la Consulta Regionale per i Beni Culturali Ecclesiastici Piemonte e Valle d’Aosta, iniziativa condivisa con i musei facenti parte della rete internazionale Art Médiéval dans les Alpes.
Alla GAM Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea, oltre alle collezioni permanenti del 900 sarà visibile la nuova mostra in wunderkammer Photo action per Torino 2020. Una chiamata alle arti ideata dai fotografi Guido Harari e Paolo Ranzani per sostenere insieme il progetto di un “Fondo Straordinario Covid-19” creato dall’Associazione U.G.I. ONLUS e dalla Città della Salute e della Scienza di Torino. Anche alla GAM il pubblico potrà visitare Stasi Frenetica al piano terra e nella sala mostre al piano -1, con un allestimento di sorprendente polifonia visiva che comprende cento opere delle gallerie delle sezioni Main Section e Monologue/Dialogue di Artissima. Prosegue inoltre in Videoteca la personale dedicata ad Alighiero Boetti. A partire dal 18 febbraio la Sala didattica ospiterà inoltre una nuova mostra realizzata in collaborazione con Luci d’Artista dedicata a Luigi Nervo.
Il MAO Museo d’Arte Orientale riaprirà con la grande esposizione China goes Urban. La nuova epoca della città, a cura del Politecnico di Torino e Prospekt Photographers con la Tsinghua University di Pechino, che propone al pubblico una prospettiva nuova e ampia mettendo in relazione la cultura della Cina tradizionale con le imponenti trasformazioni delle città cinesi contemporanee.
La sezione del MAO di Stasi frenetica presenta, inserite nel percorso di visita, una selezione di 10 opere “orientaliste” di Artissima 2020. Il visitatore sarà invitato a una speciale caccia al tesoro attraverso l’edificio storico che ospita il museo.
Saranno inoltre visibili le quattro opere di street art realizzate durante le settimane di chiusura nell’ambito del progetto MAO meets URBAN ART e la rotazione di paraventi e spade In punta di pennello, in punta di lama nella galleria dedicata al Giappone.
GAM, MAO e Palazzo Madama riportano in atto le misure atte a garantire una visita in completa sicurezza, con ingressi contingentati e percorsi che consentano l’adeguato distanziamento, nel rispetto di tutte le linee guida ministeriali. La Fondazione Torino Musei assicura inoltre la regolare, costante e periodica pulizia e igienizzazione degli ambienti museali.
Fino a nuove disposizioni ministeriali i musei osserveranno i seguenti giorni e orari di apertura:
PALAZZO MADAMA – GAM – MAO
Mercoledì e giovedì dalle 11 alle 19
Le biglietterie chiudono un’ora prima.
Sabato, domenica, lunedì e martedì CHIUSI
Per informazioni www.fondazionetorinomusei.it
Carlo Giulio Argan: una vita per l’Arte
Ho commesso il terribile errore di chiedere ai miei studenti che cosa pensassero della storia dell’arte, mi hanno risposto in coro che non serve a niente e che non capiscono perché devono studiarla.
Mi hanno anche chiesto se gliela spiego per punirli di qualche comportamento tenuto in classe. Non sto a dirvi che ho riso per non piangere. Nel XXI secolo non siamo ancora in grado di capire quanto l’arte sia importante per l’uomo, tanto più che l’Italia è il paese che detiene il maggior numero di siti inclusi nella lista del patrimonio mondiale Unesco: sono 55 quelli riconosciuti “patrimonio dell’umanità” e 12 quelli iscritti nella lista rappresentativa del patrimonio culturale immateriale.
Il turismo legato all’arte in Italia produce (o produceva fino a poco tempo fa) ingenti entrate economiche al nostro Paese, le meraviglie che il nostro territorio ospita richiamano l’attenzione di moltissimi visitatori stranieri, i quali osservano, si stupiscono, fotografano e vivono l’importanza dell’arte italiana attraverso un’esperienza sentita e immersiva. Non so se si potrebbe dire lo stesso di noi “compaesani”. Ormai “abituati” alla grandezza del Colosseo, alla perfezione della Valle dei Templi, alla preziosità di Pompei ed Ercolano, passeggiamo indifferenti tra le bellezze che il resto del mondo ci invidia, incapaci di “vederle”, le ignoriamo, quasi volutamente, ci basta sapere che sono lì e proseguiamo oltre.
Tale indifferenza deve quantomeno turbarci, i reperti artistici sono testimonianza diretta e concreta della Storia, non renderci conto della loro importanza significa dimenticarci di ciò che stato, nel bene e nel male.
Certamente un concetto difficile da spiegare, così come è arduo convincere i ragazzi che l’arte non è quella materia inutile, prosieguo naturale dell’intervallo o al massimo tempo a disposizione per ripassare o copiare i compiti delle altre discipline. A loro discolpa si può dire che in effetti si è sempre dato poco peso a tale argomento, siamo stati abituati a vivere l’arte come qualcosa di non concreto, che si può approfondire in un secondo momento e, soprattutto, come qualcosa di lontano da noi e dal nostro quotidiano, che in poche parole non ci tocca. È un discorso complesso e che potrebbe arricchirsi di molte altre sotto-questioni e riflessioni puntigliose, e dato che non è questo il luogo adatto per continuare tale controversia, mi limiterò a dire che per fortuna, ogni tanto, c’è qualcuno che non solo non la pensa così, ma che decide di dedicare tutta la sua esistenza all’arte e al suo ruolo primario all’interno della memoria collettiva. Più di tutti, a portare avanti tale impresa fu Carlo Argan, studioso torinese, autore di una sconfinata produzione letteraria, tra articoli, saggi e volumi scolastici, il quale per tutta la vita inseguì le sue passioni per l’arte e per il disegno, tanto da diventare un punto di riferimento per tutti gli appassionati e gli esperti della materia. I testi di Argan sono delle “pietre miliari”, averli, leggerli e studiarli è un passaggio necessario e obbligato per chi vuole saper parlare di arte. Io stessa mi sono imbattuta nei suoi scritti, e ho trovato nelle sue lezioni una solida base per la mia formazione. Certo non è facile leggere Argan, egli non semplifica ciò che per natura è complesso, ma affronta ogni argomento con lucidità, chiarezza e puntualità, così da rendere il discorso fluido e preciso, senza tralasciare alcun dettaglio. Quando si prende in mano un suo volume non bisogna avere fretta, né eccessiva paura, solo tanta voglia di imparare da uno dei maestri più grandi.
Egli nasce a Torino, il 17 maggio 1909, da Valerio Argan, economo del Manicomio provinciale di via Giulio, (Torino), e Libera Paola Roncaroli, maestra elementare. L’infanzia di Carlo è tutt’altro che rosea: il primo conflitto mondiale imperversa e devasta la vita di tutti, e, inoltre, il lavoro del padre costringe la famiglia a vivere all’interno della struttura manicomiale; il costante contatto con i dottori e “la follia” spingono il piccolo Argan verso atteggiamenti seriosi e razionali.
Da bambino Carlo frequenta le scuole elementari De Amicis e Sclopise subito sviluppa un forte interesse per il disegno, passione che lo condurrà verso una breve carriera di pittore e illustratore.
Tra il 1919 e il 1924 è iscritto al Ginnasio del Liceo Cavour, a Torino, e ha come compagni Albino Galvano, con cui inizia a dipingere, Fernando De Rosa e Mario Sturani, amico di Cesare Pavese e valente pittore.
In seguito Carlo tenta di entrare da privatista all’Accademia di Belle Arti di Torino, la sua iscrizione non viene accettata, ma si avvicina ad artisti del calibro di Luigi Onetti e Venanzio Zolla. La “sconfitta Albertina” lo porta a continuare gli studi presso il Liceo Classico Cavour (1924-1927), dove ha come docente di Storia dell’Arte Giusta Nicco, allieva di Lionello Venturi, figura che sarà per sempre il suo principale punto di riferimento; uno zio intanto lo avvicina alla lettura dei testi di Benedetto Croce. Imperterrito nel perseguire i suoi interessi pittorici, Carlo riesce a partecipare alla LXXXIV Esposizione Nazionale della Società Promotrice di Belle Arti di Torino, anche grazie a Felice Casorati, del quale inizia a frequentare la scuola di pittura. Nel 1926 collabora come illustratore alla rivista per ragazzi “Cuor d’oro” e inizia ad avvicinarsi allo studio di Luigi Colombo, in arte “Fillia”, legato al secondo futurismo torinese e aperto all’architettura razionale e ai movimenti d’avanguardia.
Terminati gli studi cavourrini, Carlo si iscrive alla facoltà di Giurisprudenza, ma ancora una volta la sua antica passione lo spinge in un’altra direzione: dopo aver seguito una lezione di Lionello Venturi su Manet, egli lascia Giurisprudenza e si iscrive a Lettere. Determinante l’assidua frequentazione del gruppo di giovani riunito attorno ad Augusto Monti, tra cui Cesare Pavese, Leone Ginzburg e Norberto Bobbio, che si incontrano al caffè Rattazzi o nello studio di Sturani. Particolarmente importante è anche l’amicizia con i compagni storici dell’arte Anna Maria Brizio, Mario Soldati e Aldo Bertini, anche se –come abbiamo detto- la figura per lui più importante rimane Lionello Venturi, in particolar modo negli anni di apprendimento metodologico e militanza critica.
L’ultima tesi discussa da Venturi, prima del rifiuto del giuramento fascista e della conseguente emigrazione in Francia, è proprio quella di Argan, intitolata “La teoria di architettura di Sebastiano Serlio” (13 giugno 1931).
L’ esordio letterario di Argan risale a prima della discussione della tesi, poiché riesce a pubblicare due articoli, il primo concernente la lettura cromatica e anticlassica di Palladio, il secondo sul pensiero critico di Antonio Sant’Elia. Particolarmente significative sono le sue prime collaborazioni con riviste come “La Rassegna musicale” di Guido M. Gatti, “La Nuova Italia” di Luigi Russo e, soprattutto, “La Cultura” che, dopo la morte di Cesare De Lollis e la chiusura de “Il Baretti”, diventa il punto di riferimento degli intellettuali torinesi.
Dopo la laurea, Carlo ottiene una borsa di studio del Rotary Club di Torino; nel dicembre 1931 vince la borsa per la Scuola di perfezionamento in Storia dell’Arte a Roma, e diviene assistente volontario dell’accademico Pietro Toesca. A partire dal 1933 Argan inizia a frequentare la biblioteca di Palazzo Venezia e soprattutto quella Hertziana, luogo in cui stringe amicizia con studiosi tedeschi insieme ai quali si dedica alla stesura di diverse note critiche a libri editi da professori legati al nazismo e fascismo.
Nel 1932 ottiene l’abilitazione per l’insegnamento di Storia dell’Arte negli istituti medi di istruzione e nel 1934 consegue anche la libera docenza per tenere corsi all’Università.
Tra le collaborazioni più importanti ricordiamo quella con Giuseppe Pagano e Edoardo Persico riguardo al tema dell’architettura moderna, ormai intesa oltre i limiti dello standard di Le Corbusier e in sintonia con le conquiste dell’impressionismo.
Nel luglio 1933 Argan vince il concorso per Ispettore aggiunto, presso la Galleria Sabauda di Torino. L’incarico è interrotto per il servizio militare, durante il quale viene trasferito prima a Trento e poi a Modena. In questa città egli dirige per un anno la Galleria Estense, portando avanti sia progetti di riordino delle collezioni, sia piani di protezione in caso di attacco aereo; importante è anche la precoce sperimentazione di radiografie per la conoscenza e il restauro dei dipinti.
La carriera amministrativa prosegue con il trasferimento presso la Soprintendenza alle Gallerie di Roma, poi, nel 1935, con la promozione al grado di Ispettore. L’anno successivo, il ministro dell’Educazione Nazionale Cesare Maria De Vecchi lo promuove Provveditore agli Studi, invitando Argan a trasferirsi ad Alessandria, dove resta fino al 1936. Egli viene nominato Soprintendente di 2ªclasse e di nuovo trasferito a Roma, dove entra alle dipendenze del Direttore Generale delle Antichità e Belle Arti Marino Lazzari sotto il nuovo ministro Giuseppe Bottai, del quale è uno fra i collaboratori piùimpegnati nella serie di riforme legislative e dell’assetto amministrativo della tutela dei Beni Culturali.
Successivamente Carlo assume il ruolo di segretario di redazione di “Le Arti”, rivista ufficiale della Direzione Generale delle Arti, nata a seguito della soppressione del “Bollettino d’Arte”. Nella rivista egli scrive a sostegno di artisti contemporanei come Carlo Carrà, Arturo Tosi, o Lucio Fontana, e intorno al dibattito sulla città e l’architettura razionale.
Al ruolo ufficiale nell’Amministrazione si accompagna un costante impegno politico, come dimostra il legame con l’ambiente artistico milanese della rivista “Corrente” e la protezione di amici ebrei dopo l’emanazione delle leggi razziali.
Nel frattempo prosegue il suo interesse sui temi della scuola e dell’educazione. A proposito di problemi didattici pubblica vari saggi come “Educazione artistica” (1938), “Le università e la cultura”, “L’insegnamento della Storia dell’Arte nel liceo classico” (1942).
Dall’immediato dopoguerra alla nomina a sindaco di Roma, avvenuta nel 1976, Argan continua a occuparsi di tutela e valorizzazione dei Beni Culturali, di ricerca storica e divulgazione e di militanza critica a sostegno delle correnti artistiche più avanzate. La vastità e la complessità della sua azione si basa su una visione programmatica che è insieme storica, critica, politica e sociale.
Anche dopo l’uscita dall’Amministrazione, Carlo continua il suo impegno in difesa del patrimonio artistico, con la lunga permanenza nel Consiglio Superiore delle Antichità e Belle Arti. Convinto della funzione educativa dell’arte, egli prosegue anche la carriera nel settore dell’insegnamento. Dopo il ritorno di Lionello Venturi nel 1945, gli viene affidato il corso di Storia della Critica d’Arte al Perfezionamento dell’Università di Roma «La Sapienza»; nel 1947 tiene lezioni presso il “Warburg Institute” di Londra; per molti anni porta avanti diversi corsi presso l’Università per stranieri di Perugia e partecipa a varie conferenze sia in Italia che all’estero.
Nel 1955 vince il concorso per la cattedra universitaria di Palermo, trasferendosi però poi a Roma. Non va tuttavia dimenticata la sua importanza internazionale, come dimostra la sua costante presenza ai corsi della Fondazione Cini di Venezia e ai convegni del “ComitéInternational d’Histoire de l’Art” (del quale diviene membro per l’Italia dal 1958, nonché eletto presidente nel 1979). Essenziali, negli anni Cinquanta, i suoi numerosi saggi e libri di storia dell’arte rinascimentale e barocca, che rileggono l’arte e l’architettura attraverso la sociologia dell’immagine. Negli anni Sessanta egli approfondisce le teorie sociologiche sull’arte e la città, le cui riflessioni rientrano pienamente nel volume “L’Europa delle capitali”(1964). Grandissimo successo ha il manuale per i licei “Storia dell’arte italiana” (Sansoni, Firenze 1968), in tre volumi, seguito da “L’arte moderna 1770-1970”, con tre milioni e mezzo di copie vendute. Per Argan l’arte è una storia particolare all’interno di una storia più generale, civile e politica, essa è “determinata e determinante”, la storia dell’arte va inserita nella storia sociale, di cui non è un riflesso, ma un elemento di trasformazione. Importanti pubblicazioni evidenziano il contributo di Argan per l’arte e per l’architettura “moderne”.
Egli si oppone alle correnti della Pop Art, del New Dada, del NouveauRealisme, dell’Arte di reportage e poi dell’Arte povera. Le posizioni di Argan si fanno sempre più sfiduciate sul futuro dell’arte, tanto che, nel 1963, riprende la teoria hegeliana della morte dell’arte per portarla a conseguenze legate alla contestazione della società di massa.
Impossibile sintetizzare l’azione intellettuale, molteplice e variegata, di Argan nella cultura italiana del Novecento.
Nel 1975, dopo un grave infarto e una lunga convalescenza, Argan decide di accettare la candidatura come “indipendente” nelle elezioni al Comune di Roma dell’estate 1976; la ricerca di una soluzione tra DC e PCI per concordare il primo sindaco non democristiano del dopoguerra si concentra sull’autorevolezza del suo nome e così il 9 agosto è eletto sindaco di Roma. I tre anni del suo impegno per la Capitale, interrotto per ragioni di salute nel settembre 1979, si collocano in un momento particolarmente difficile e violento della scena politica, che ha il suo apice nel tragico rapimento di Aldo Moro.
Tra le principali azioni politiche da primo cittadino vi sono la lotta contro l’abusivismo edilizio, i problemi delle borgate, la vita delleperiferie e le attività culturali cittadine, in particolare l’avvio delle “estati romane” e il recupero del centro storico.
Nel giugno 1983 Berlinguer gli chiede di candidarsi alle elezioni politiche e Argan diviene senatore per la IX Legislatura, venendo poi rieletto nella X Legislatura e rimanendo in carica fino al marzo 1992.
Nei suoi interventi, si distinguono la determinazione nella difesa del patrimonio artistico e la necessità di riforma delle leggi di tutela e un maggiore collegamento col mondo della scuola e dell’Università.
L’attività di studioso viene costantemente portata avanti attraverso conferenze, saggi, e articoli: egli scrive sulle pagine dei più importanti quotidiani e riviste.
Nel 1959, riceve il conferimento da parte dell’Accademia Nazionale dei Lincei del “Premio Antonio Feltrinelli per la critica dell’arte”; nel 1967 vince il XIV “Premio europeo Cortina-Ulisse” (per il volume “Progetto e destino”, Milano 1965); nel 1976 è insignito della “Medaglia d’oro ai benemeriti della scuola, della cultura e dell’arte”; nel 1983 gli è conferito il titolo di Professore Emerito alla “Sapienza”di Roma. Numerosi sono anche i riconoscimenti da parte di istituzioni italiane e straniere, come la nomina ad Accademico dei Lincei, di San Luca, delle Scienze di Torino, del Belgio.
Una vita dedicata all’arte, quella di Carlo Giulio Argan, un uomo che ha compreso l’essenzialità del patrimonio artistico e la necessità di preservarlo, che ha combattuto strenuamente per tutta la propria esistenza per diffondere la cultura in generale e soprattutto per insegnare l’importanza della Storia dell’Arte come strumento per comprendere la Storia, sia quella passata che quella contemporanea.
Chissà cosa penserebbe degli attuali programmi ministeriali, in cui le ore di arte sono solamente due e non sono presenti nemmeno in tutte le tipologie di scuole?
Alessia Cagnotto
Carlo Magno dormì alle Porte palatine
La giornata della memoria che si celebra ogni anno il 27 gennaio , deve essere, secondo me, non solo il ricordo della follia omicida nazista , scatenata in particolare contro gli ebrei , ma anche il monito perché il razzismo in tutte le sue forme non diventi mai più parte di un programma politico di governo.
Quest’anno voglio parlare dei “buoni”. Di quelli che furono non solo solidali, ma coraggiosi soccorritori degli ebrei perseguitati.
E per ricordarli , mi si perdonerà se porterò una testimonianza personale, diretta , di quanti si misero in gioco dopo l’8 settembre 1943, quando farlo poteva costare molto caro.
Di quei lontani fatti, in casa mia se ne parlava: mia madre e mio padre ( non ancora sposati né conoscenti) avevano aderito entrambi alla Resistenza. Venivano da famiglie antifasciste, vere non quelle che si scoprirono tali il 26 aprile 1945, con i tedeschi in fuga e i repubblichini braccati e arrestati.
Mia madre ( Anna Rosa Gallesio ) fu una dirigente del Cln femminile torinese. Suo padre, sindacalista “bianco”, iscritto al Partito Popolare di don Sturzo, era stato duramente discriminato durante il regime fino a ridurgli la famiglia in miseria, controllato costantemente dalla polizia. Con mia madre operarono anche le mie zie.
Fu dunque “normale” che venisse “arruolata” nel campo partigiano e lo fu nella redazione del quotidiano torinese L’Italia dove lavorava . Così raccontò in un libro edito nel 2008 dalla Federazione Nazionale della Stampa Italiana per ricordare i giornalisti partigiani: “Ho iniziato a fare la giornalista durante la guerra nella redazione torinese dell’Italia. Ero andata a sostituire mio padre, che per tanti anni non aveva potuto lavorare, perchè era un noto antifascista. Il prof Arata ( n.d.r il direttore) lo aveva chiamato a collaborare ( n.d.r nel 1938) .Ma lui si è ammalto e io sono andata a sostituirlo”.
In queste poche righe senza retorica, ci sono già alcune notizie , la prima : il vedersi discriminati fino a perdere il lavoro era il destino di quelli che non volevano piegarsi al regime. La seconda: Mio nonno si “ammalò” di polmonite dopo una aggressione sotto casa da parte di fascisti che volevano vendicarsi del 25 luglio 1943 ( caduta del fascismo). Era inverno , restò alcune ore svenuto in strada, prese una polmonite e morì. Aveva 58 anni. La terza notizia è la risposta alla domanda: come mai un noto antifascista viene chiamato a collaborare a un giornale , dopo tanti anni di discriminazione? Questa domanda si ricollega proprio alle leggi razziali. Ma prima facciamo un po’ di storia .
Precedute dal “Manifesto degli scienziati razzisti” (14 luglio 1938), sottoscritto da 180 scienziati e redatto dallo stesso Mussolini, e sostenute da una campagna di stampa massiccia, le leggi razziali in Italia uscirono a più riprese, a partire dal 5 settembre 1938, e furono immediatamente seguite dalle ordinanze applicative. Le prime ordinanze furono, i provvedimenti per la difesa della “razza” nella scuola italiana che esclusero studenti e professori ebrei da tutte le scuole del Regno.
Bisogna dire che l’antisemitismo non era nel programma originario del fascismo, al quale , anzi , larga parte degli ebrei italiani avevano aderito. Un nome fra tutti: quello di Margherita Sarfatti, già socialista come il duce, ambiziosa ,colta e intelligente donna dell’alta borghesia milanese che era stata una fascista della prima ora, e una delle muse ispiratrici di Mussolini di cui fu l’ amante fino al 1933.
Le leggi razziali, pur precedute da un progressivo avvicinamento del duce a Hitler, piombarono così sulla comunità ebraica italiana come un fulmine a ciel sereno.
Ma anche gran parte dell’opinione pubblica italiana fu sorpresa e incredula ,influenzata dalla aperta ostilità della Chiesa Cattolica .Il papa Pio XI aveva dettato una linea precisa e le condannò anche in discorsi pubblici, come quello del 18 settembre 1938, due settimane dopo la loro emanazione in cui disse : “ L’antisemitismo è un movimento al quale noi cristiani non possiamo affatto partecipare…spiritualmente noi siamo dei semiti”. Discorsi naturalmente taciuti dalla stampa italiana , pubblicati solo sull’Osservatore romano ( spesso sequestrato nelle edicole) e sulla stampa estera. Anche alcuni alti gerarchi fascisti erano contrari , come Italo Balbo che ne parlò al Re ,in visita agli inizi del 1937 in Libia , dove Balbo era governatore: “ Io sono qui in Africa, ma mi arrivano certe notizie sugli ebrei. Non faremo certo l’imitazione dei tedeschi!…” disse a Vittorio Emanuele III . E quando fu approvato il “Patto d’acciaio” con la Germania nazista aveva detto a Mussolini e Ciano : “ finirete tutti a fare i lustrascarpe di Hitler!”.
Rispondo dunque alla terza domanda: mio nonno fu chiamato a lavorare al quotidiano cattolico l’Italia proprio dopo le leggi razziali e la sempre più stretta alleanza dell’Italia fascista con Hitler. La Chiesa cattolica, che già aveva avuto forti dissapori con il regime nel 1931( tentativo di abolizione dell’Azione cattolica) ne voleva prendere decisamente le distanze e radunava i vecchi “popolari” in vista del “dopo” Mussolini . In quei mesi ci fu infatti un complotto internazionale, noto come “Orchestra nera”, di cui il Vaticano era informato, per far fuori Hitler e di conseguenza far cadere il duce, ed evitare la guerra. Tentativo poi messo in opera il 20 luglio del 1944,ma fallito nel sangue, ad opera dell’eroico colonnello von Stauffenberg.
Ma torniamo alle leggi razziali. Nell’azione clandestina di mia madre un posto particolare ebbe il soccorso agli ebrei perseguitati, a cui fu chiamata dal Cardinale di Torino Maurilio Fossati, che aveva ricevuto precise disposizioni dal Vaticano.
Scrive ancora mia madre: “ La redazione dell’Italia era diventata un punto di incontro: non solo preparavamo il giornale antifascista clandestino che si distribuiva attraverso le parrocchie, ma aiutavamo anche gli ebrei in collaborazione con il cardinale Fossati e il suo segretario mons. Barale. La cosa più importante era procurare agli ebrei documenti falsi. A prepararli era un piccolo comune ( n.d.r Santa Margherita Ligure) che aveva i timbri giusti per falsificarli. Poi andavamo a prenderli dal vescovo di Genova”.
Così la giovane partigiana tornava a Torino, con indosso le carte false, contando sul fatto che una ragazza dall’aria innocente non venisse fermata e perquisita .
Un giorno però i tedeschi fecero irruzione in vescovado , a Torino, con prove schiaccianti e arrestarono mons. Barale. Fu tradotto in un campo di transito in Lombardia in attesa di essere inviato in un lager. Si salvò perchè si era ormai alla fine della guerra e poco dopo arrivò la liberazione.
Diretti testimoni come i miei genitori confermavano quanto scritto dallo storico del fascismo Renzo De Felice: “ la persecuzione antisemita è stata una delle tappe più significative della storia del fascismo: Con essa il regime divorziò pubblicamente dal popolo italiano, dalla sua mentalità, dalla sua storia”.
Ma allora perché fu possibile ? perché quasi tutti tacquero? Bisogna tener conto che l’Italia viveva sotto una dittatura severa, che buona parte dei dirigenti fascisti si uniformò, come i più fanatici militanti, e poi la paura delle conseguenze a partire dal posto di lavoro. Naturalmente ci furono anche i vigliacchi, i profittatori , i traditori. Furono forse tanto numerosi quanto i “buoni” più coraggiosi . Ma la stragrande maggioranza della gente non collaborò, soprattutto quando la politica del fascismo nei confronti degli ebrei subì una svolta radicale a partire dal 1943, dopo l’8 settembre e la costituzione della Repubblica di Salò: quando si passò dalla discriminazione all’eliminazione sotto la regia tedesca.
Gli ebrei residenti in Italia , italiani e stranieri, al momento delle leggi razziali (in Italia ne erano arrivati circa 10 mila negli anni Trenta in fuga soprattutto dalla Germania) erano una piccola minoranza: circa 60-70 mila.
6800 furono deportati, circa il 10% dei cittadini di “razza ebraica o parzialmente ebraica” che erano in Italia. Quasi il 90% si salvò.
Dietro a ogni ebreo catturato vi fu la delazione di italiani attratti dalla ricompensa offerta e lo zelo di fanatici repubblichini.
Ma d’altro lato gli ebrei furono aiutati da una vasta rete di solidarietà, che fu favorita in primo luogo dalla fitta rete di contatti familiari e sociali che gli ebrei italiani avevano con non-ebrei.
Privati cittadini, ma anche istituti religiosi, orfanotrofi, parrocchie aprirono le loro porte ai fuggitivi. La geografia dei luoghi di rifugio offre una immagine molto vasta delle dimensioni del fenomeno.
A conferma, cito ancora una testimonianza che mi è stata fornita da un amico valdese. In quelle valli si rifugiarono diverse famiglie ebree . Scrisse la componente di una di esse , Franca Debenedetti Loewenthal ,sulla rivista “La Beidana” di Torre Pellice: “in quel momento sulla testa di ogni ebreo c’era una taglia con una cifra consistente, che veniva data a chi
avesse denunciato la presenza di un ebreo. Molti miei correligionari subirono questo destino, proprio per la delazione di alcune persone. Invece la popolazione di Rorà si dimostrò sempre molto solidale con noi, tacque, non parlò, non ci tradì, nessun ebreo nella Val Lusema venne preso dai tedeschi né venne deportato per la delazione della popolazione.”
Paolo Girola
Primo Levi in piazza Castello
L’esposizione Primo Levi. Momenti si sposta nella Sala Trasparenza della Regione Piemonte in piazza Castello 165 a Torino
Nell’ambito di Io so che cosa vuol dire non tornare, il ciclo di incontri dedicato alla Memoria e alla figura del grande scrittore, organizzato dalla Fondazione Circolo dei lettori in collaborazione con il Centro Internazionale di Studi Primo Levi, la mostra Primo Levi. Momenti si sposta nella Sala Trasparenza di piazza Castello 165 a Torino.
Realizzata in collaborazione con la Regione Piemonte, l’esposizione sarà allestita nella Sala Trasparenza di piazza Castello all’angolo con via Palazzo di Città, dalle ore 16 di mercoledì 27 gennaio, in occasione delle celebrazioni del Giorno della Memoria 2021. Dal momento che la mostra non sarà visitabile in presenza, il particolare allestimento in vetrina consentirà ai passanti di osservare la selezione di ritratti e gettare uno sguardo nella vita di Primo Levi.
Il percorso, curato da Guido Vaglio, presenta alcune significative immagini fotografiche di Primo Levi che rimandano alla sua quotidianità, alla testimonianza sul Lager, alla formazione e alle sue passioni: la chimica, la letteratura, la montagna, accanto al piacere del fantastico, l’umorismo, la curiosità per tanti e differenti campi del sapere. Questa sequenza di immagini si è voluta intitolare Momenti, a sottolinearne il carattere. Si tratta di frammenti, capaci di restituirci il senso di una vita, una storia, un’opera. Brevi testi tratti da romanzi, racconti, poesie, interviste di Levi che diventano una sorta di controcanto alle immagini capaci di rimandarci a un universo denso e multiforme, evocando la sua complessa figura.
In Primo Levi, tradotto in oltre 40 lingue, c’è molta Torino, la sua città natale, ma anche e soprattutto luogo di elezione di cui parla con convinzione, orgoglio e affetto.
Io so cosa vuol dire non tornare è un progetto di Fondazione Circolo dei lettori, realizzato con Centro Internazionale di Studi Primo Levi, in collaborazione con Regione Piemonte, Giulio Einaudi Editore, TPE – Teatro Piemonte Europa, Comitato Nazionale per le Celebrazioni del Centenario della Nascita di Primo Levi, Ministero dell’Istruzione, Fondazione Leonardo Sinisgalli, Comune di Novara e Comune di Settimo Torinese.
Bersaglieri, all’assalto!
Alla scoperta dei monumenti di Torino / Il monumento venne posizionato all’interno del Giardino Lamarmora, un piccolo giardino di 6200 metri quadrati, donato nel 1862 alla Città di Torino da Alfonso Lamarmora (fratello minore di Alessandro). Il monumento celebrativo al Centenario venne posizionato vicino all’opera dedicata ad Alessandro Lamarmora, fondatore del corpo militare
Situata nel giardino Lamarmora, all’angolo tra via Bertola e via Stampatori, si innalza una massiccia struttura lapidea di forma quadrangolare. Nella parte frontale un rilievo bronzeo raffigura un manipolo di bersaglieri che muove compatto all’assalto, animato e guidato dall’allegoria alata della Patria vittoriosa. Dalla rigida struttura di pietra sporgono i corpi dei militari che, macabri e scavati, contemplano e quasi scavalcano un compagno morente completamente nudo.
Le due parti, ossia il gruppo bronzeo e la struttura lapidea, sembranoessere poste in totale disarmonia tra loro, oscillando tra vibrazioni di forme ed instabili equilibri; grazie a tutti questi elementi, la scultura assume un messaggio significante, riflettendo sui temi della morte e della memoria.
Le prime notizie del monumento al Centenario dei bersaglieri risalgono al 1936, occasione in cui si festeggiarono i 100 anni della fondazione dell’arma che, per volere di Benito Mussolini, si svolse con due adunate: la prima a Torino e la seguente a Roma. L’idea di commemorare i caduti di un corpo militare nacque dalla volontà dei commilitoni di ricordare le imprese dell’arma e i loro compagni deceduti.
Fu il presidente generale della sezione del corpo torinese, Luigi Bossi, di concerto con tutte le sezioni dell’Associazione Nazionale Bersaglieri, che decise di commemorare l’anniversario con un segno tangibile e permanente da tramandare a ricordo del grande raduno e a venerazione delle stirpi future.
Durante l’assemblea convocata dal Podestà di Torino per decidere che tipo di monumento erigere in onore della commemorazione, Luigi Bossi fece presente che vi fosse già un altorilievo dedicato ai bersaglieri del IV reggimento della caserma Monte Grappa, sede del reggimento omonimo. Il monumento venne eretto nel 1923 grazie ad una sottoscrizione popolare e fu completamente realizzato dallo scultore Giorgio Ceragioli.
L’opera del Ceragioli, carica dello spirito bersaglieresco, costituì (dal 1923 fino al quel momento) la parte superiore della lapide murata all’esterno della caserma. Nel 1936, però, con il passaggio del IV bersaglieri dalla regione Crocetta a via Asti, secondo il presidente della sezione, l’opera per ragioni ideologiche e di prassi conservative non ebbe più ragione di stare in strutture militari o affini.Venne così proposta, da Luigi Bossi, la nuova collocazione del monumento nel centro di Torino, in onore sia alla stessa città che, sotto Carlo Alberto, diede vita al corpo militare, sia alla commemorazione della nascita dell’arma.
Su volontà del Capo del Governo e in base agli ordini del Ministro dell’Educazione Nazionale, la Città di Torino provvide alla rimozione del monumento dalla caserma e incaricò uno scultore sconosciuto di costruire, in un tempo molto ridotto, il basamento lapideo sul quale, ancora oggi, si inserisce l’altorilievo.
Il monumento venne posizionato all’interno del Giardino Lamarmora, un piccolo giardino di 6200 metri quadrati, donato nel 1862 alla Città di Torino da Alfonso Lamarmora (fratello minore di Alessandro). Il monumento celebrativo al Centenario dell’arma venne posizionato vicino all’opera dedicata ad Alessandro Lamarmora, fondatore del corpo militare.
Anche per oggi la nostra passeggiata alla ricerca delle meraviglie della città termina qui. L’appuntamento è per la prossima volta con Torino e i suoi splendidi monumenti.
Simona Pili Stella
(Foto: Museo Torino)
È partito il 21 dicembre 2020 FARE MEMORIA, progetto digitale dedicato alla Giornata della Memoria promosso dal Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale e dal Liceo Scientifico Carlo Cattaneo di Torino.
Un percorso lungo un mese, realizzato completamente da remoto, in cui 4 classi (per un totale di circa 75 studenti coinvolti, divisi in piccoli gruppi di lavoro), nell’ambito delle ore di Educazione Civica, riflettono e fanno loro i temi della shoah attraverso il teatro e lo studio di alcuni celebri spettacoli dedicati a questo tema, tra cui Se questo è un uomo di Primo Levi e La vita offesa nella riduzione di Anna Bravo e Daniele Jalla.
A dare supporto ai ragazzi, e alle loro docenti che hanno fissato i temi cardine, si sono attivati il settore Partecipazione e Sviluppo Culturale e il Centro Studi del Teatro Stabile di Torino, che hanno fornito preziosi materiali estratti dall’Archivio digitale del TST – https://archivio.teatrostabiletorino.it/ – e collaborato alle attività di ricerca sulle opere teatrali che negli anni hanno affrontato il tema dell’Olocausto.
Il risultato del lavoro svolto dagli allievi, arricchito da foto d’archivio, infografiche e contributi audio incisi dagli stessi ragazzi (come piccoli podcast) verrà presentato il 27 gennaio ai compagni delle prime classi, in un ideale passaggio di testimone.
Un’occasione unica per gli studenti coinvolti, che non solo hanno trovato modi originali per diventare ‘voci’ della memoria, ma hanno acquisito in itinere competenze preziose per la loro futura carriera scolastica e più in generale per la vita di cittadini: un efficace metodo di consultazione dell’Archivio e della biblioteca digitale del TST, e soprattutto lo studio critico delle fonti, bussola per orientarsi con maggiore sensibilità nella sovraccarica mediasfera del mondo contemporaneo.
Magliano: “Lunedì in Consiglio Comunale la mia nuova interpellanza sul tema”
Caro direttore, centotrent’anni: da tanto dura il vincolo che impone di destinare la Cittadella a sede Museo Storico Nazionale d’Artiglieria.
Questa condizione fu posta al momento della cessione del bene al Comune di Torino (1891): dal 2008, tuttavia, data di inizio dei lavori di ristrutturazione, tutti gli allestimenti e i documenti sono sono stati trasferiti presso la Caserma “Carlo Amione” in piazza Rivoli. Qui, le condizioni di contesto non sono adatte non dico all’esposizione, ma forse neanche alla conservazione di un patrimonio storico-culturale di tale prestigio, natura e dimensione; lo stesso locale messo a disposizione dell’Associazione Amici del Museo (la cui attività è ferma da due anni) quale ufficio e archivio è stato dichiarato inagibile. Torno lunedì in Consiglio Comunale, dopo i quesiti da me discussi nel 2018, a presentare un’interpellanza sul tema. Non pare siano stati avviati studi per un riallestimento museale della parte già agibile della Cittadella: per il rifacimento, ritenuto indispensabile, del padiglione laterale manca ancora il finanziamento (circa 10 milioni di euro): tempi lunghi, dunque? Quanto esattamente? Urge sollecitare il Ministero della Difesa a utilizzare al più presto il Mastio per ripresentare al pubblico il patrimonio del Museo. Mi aspetto risposte puntuali e convincenti: il Museo dell’Artiglieria deve tornare a far parte a pieno titolo del patrimonio culturale e dell’offerta turistica di Torino.
Silvio Magliano – Capogruppo Moderati, Consiglio Comunale Torino
Leonardo Bistolfi: finalizzato l’accordo tra famiglia e Comune. Il sindaco Federico Riboldi: «Grazie alla fiducia della famiglia, l’importante patrimonio artistico sarà a disposizione del grande pubblico»
A 88 anni dalla morte, il percorso artistico del grande scultore Leonardo Bistolfi si riunisce e si ricompone nella sua città natale: Casale Monferrato. Dopo la scomparsa dell’ultimo erede, Andrea, nel giugno del 2019, la vedova Vanda Martelli Bistolfi aveva intrapreso un dialogo con il Comune per una nuova collocazione della collezione, individuata al Museo Civico, e in particolare alla Gipsoteca Bistolfi, che, con la firma dei giorni scorsi, diventa proprietario e custode dell’importante patrimonio artistico e documentale appartenuto al celebre scultore.
La firma ufficiale sull’atto di donazione è stata posta martedì 19 gennaio a Torino da parte del sindaco Federico Riboldi e della signora Vanda Martelli, sotto la supervisione del notaio Marina Aceto.
Al Comune di Casale Monferrato giungerà così il patrimonio artistico della famiglia Bistolfi, costituito da sculture, dipinti, disegni, opere grafiche, taccuini, materiali d’archivio e libri, tutti provenienti direttamente dallo studio dello scultore che morì nel 1933 e le cui spoglie sono tumulate nel famedio del cimitero monumentale della città.
Numerosi sono stati i contatti intercorsi nei mesi scorsi tra l’Amministrazione Comunale, il Museo e la signora Martelli al fine di giungere a questo importante obiettivo. Fondamentale è stata anche l’inventariazione analitica dei beni affidata a Sandra Berresford, professoressa, studiosa ed esperta del settore, nonché apprezzata e indiscussa conoscitrice del percorso artistico di Leonardo Bistolfi.
Quella di martedì è comunque solo la formalizzazione di un percorso che ha sempre legato la città di Casale Monferrato, in particolare il Museo, e la famiglia Bistolfi: risale infatti al 1984 la primissima mostra dedicata allo scultore, iniziativa che aveva dato l’avvio allo studio delle opere, alla pubblicazione di un catalogo e a una campagna di restauri. A seguire, nel 1995 la prima donazione di opere d’arte per volontà di Andrea, in occasione dell’apertura del Museo Civico, per poi consolidarsi nel 2001 con l’aggiunta di nuove opere destinate alla quinta sala della Gipsoteca.
I coniugi Bistolfi, inoltre, non mancavano di essere presenti a Casale Monferrato nelle varie occasioni ufficiali: inaugurazioni di mostre, convegni, presentazioni.
Le dichiarazioni
Il sindaco Federico Riboldi: «L’amministrazione è grata e riconoscente alla signora Bistolfi della fiducia riposta nei confronti della città di Casale Monferrato, e in particolare al Museo Civico, e per aver aperto le porte della sua abitazione che hanno conservato finora con tanta cura e devozione ogni minima testimonianza proveniente dallo studio dello scultore».
Il vicesindaco Emanuele Capra: «Riteniamo questa donazione, che implementa e completa la collezione del Museo, di enorme importanza per la nostra Amministrazione, che ha tra i suoi obbiettivi quello di dare a Bistolfi la giusta valorizzazione affinché diventi uno dei principali motivi di richiamo del turismo culturale».
L’Assessore alla Cultura, Gigliola Fracchia: «Con questa donazione la nostra Gipsoteca e la nostra città potranno diventare il polo per gli studi e gli approfondimenti sulla vita artistica di uno dei più importanti scultori simbolisti d’Italia, capace con le sue opere di abbellire e arricchire piazze, teatri, palazzi e cimiteri in tutto il Mondo».
La conservatrice del Museo Civico – Gipsoteca Leonardo Bistolfi, Alessandra Montanera: «È questa un’occasione straordinaria. I materiali che verranno conferiti al Museo di Casale Monferrato rappresentano un’eredità culturale unica, che permetterà di riunire in un solo luogo oggetti preziosi che consentiranno di approfondire il percorso artistico e umano di questo grande artista, concorrendo alla valorizzazione della sua figura. L’acquisizione, il trasferimento e le prime operazioni volte alla tutela e alla conservazione di questo prezioso giacimento culturale, saranno programmate per renderlo il prima possibile accessibile e fruibile a tutti».
La collezione
La collezione che giungerà a Casale Monferrato consiste in opere di diretta produzione di Leonardo Bistolfi: 20 terrecotte e terrecrude, 9 opere in metallo, 20 in plastilina, 170 sculture in gesso, una in marmo, una cinquantina di medaglie in gesso e una quarantina di monete in metallo, una vastissima collezione di disegni di vario formato racchiusi in album e cartelle, 50 dipinti di formato medio e piccolo, 35 taccuini, miscellanea e memorabilia, corrispondenza da e a Bistolfi e l’archivio famigliare. A questo notevole corpus di opere si aggiungono altri materiali di artisti a lui contemporanei: sculture, dipinti, opere grafiche, una vasta biblioteca e una raccolta di riviste d’epoca.
La Gipsoteca oggi
La Gipsoteca di Leonardo Bistolfi (Casale Monferrato, 1859 – La Loggia, Torino 1933), ospita, al pian terreno del Museo Civico, oltre centosettanta opere tra terrecotte, disegni, plastiline, bozzetti e modelli in gesso, alcuni marmi e bronzi provenienti dalla donazione del banchiere casalese Camillo Venesio del 1958 e integrati, in seguito, con donazioni e opere in deposito dalla famiglia Bistolfi.
Tali materiali permettono di comprendere le diverse fasi del procedimento artistico di Bistolfi, uno dei maggiori interpreti, a livello internazionale, del Simbolismo: dal bozzetto in terracotta in cui lo scultore fissava con immediatezza la prima intuizione, al successivo bozzetto in gesso, al modello definitivo che concretizzava l’idea finale e costituiva l’effettiva realizzazione dell’opera, prima della sua trasposizione in marmo e bronzo.
Le opere esposte documentano l’articolato percorso artistico di Bistolfi: dagli esordi che lo legano alle esperienze lombarde coeve della Scapigliatura – Gli amanti (1883) – intervallate da piccoli gruppi di gusto verista – Il boaro (1885) – fino all’elaborazione di un linguaggio proprio, in cui figura e simbolo daranno vita a una personalissima poetica che troverà riscontro in numerose committenze private e pubbliche, molte di queste legate alla scultura funeraria e celebrativa.
Sarà La sfinge (1890) per il Monumento funerario Pansa di Cuneo a consacrarlo scultore simbolista, a cui seguiranno opere memorabili come Il dolore confortato dalle memorie (1898) o Il funerale di una vergine (1899) o ancora Resurrezione (1902) e La Croce (1899). Ma di Bistolfi sono altrettanto noti i monumenti celebrativi, realizzati per Giovanni Segantini (1899), Giuseppe Zanardelli (1908), Cesare Lombroso (1921), Giosuè Carducci (1908-1928) e quelli per Giuseppe Garibaldi (1908 e 1928), a cui si aggiungono numerosi ritratti e targhe commemorative.
La Gipsoteca domani
La ricezione dei materiali a Casale Monferrato, che avverrà a lotti con ditte specializzate nel settore del trasporto di opere d’arte e sotto la supervisione del personale museale, prevede la collocazione iniziale in locali di deposito. Si verificherà lo stato conservativo e le modalità idonee per la corretta conservazione, oltre agli interventi di manutenzione, attraverso la collaborazione della competente Soprintendenza.
Si procederà quindi all’esecuzione di una campagna fotografica ad alta risoluzione e alla digitalizzazione dei materiali cartacei che verrà utilizzata non solo a uso interno del Museo, ma resa disponibile anche attraverso la consultazione online, con modalità di accesso controllate.
Il futuro della Gipsoteca, quindi, sarà quello non solo di sala espositiva, ma di luogo di riferimento per gli studi su Leonardo Bistolfi, a cui ci si potrà rivolgere per la consultazione degli archivi dello scultore. È inoltre in cantiere un progetto digitale di geolocalizzazione delle opere dell’artista collocate sul territorio italiano: tale operazione interessa musei, cimiteri, palazzi storici, enti pubblici e privati a cui il Museo ha chiesto la collaborazione al fine di creare una mappatura elettronica, che verrà resa disponibile sul sito web. Uno strumento turistico, ma anche di approfondimento, che permetterà di mettere in dialogo il monumento realizzato e il modello in gesso o il bozzetto preparatorio o il disegno conservato in Museo.
In attesa di dare attuazione ai progetti di effettiva valorizzazione della Gipsoteca, che oltre a prevedere un intervento di parziale ristrutturazione dei locali attuali non escludono la creazione di un vero e proprio museo dedicato, si stanno valutando le modalità per rendere immediatamente fruibili al pubblico le opere donate: si potranno predisporre esposizioni parziali o a rotazione, la creazione di eventi di valorizzazione, l’inserimento di alcune opere nel percorso espositivo della Gipsoteca o l’istituzione di un “deposito aperto”, oltre alla completa messa a disposizione della collezione ai visitatori tramite strumenti multimediali.
Leonardo Bistolfi
Leonardo Bistolfi nasce a Casale Monferrato il 15 marzo del 1859 da Giovanni, di professione intagliatore e scultore ligneo, e da Angela Amisano. Ottiene nel 1874 una borsa di studio dal Comune di Casale Monferrato per frequentare l’Accademia di Brera a Milano. Condivide con i compagni di studi Segantini, Previati, Sottocornola il clima scapigliato della città lombarda. Desiderando studiare con lo scultore Odoardo Tabacchi si trasferisce a Torino, e da subito partecipa alle annuali Esposizioni della Società Promotrice di Belle Arti presentando piccoli gruppi di ispirazione verista (Boaro, Piove, Terzetto).
La sua originale interpretazione della poetica del simbolismo (di cui Bistolfi è considerato il maggior scultore europeo) trova espressione nei grandi monumenti funerari. Sono dell’ultimo decennio degli anni Novanta La sfinge a Cuneo, La bellezza della morte a Borgo San Dalmazzo, Il dolore confortato dalle memorie a Torino e il grande monumento commemorativo per Giovanni Segantini, La bellezza liberata dalla materia, che verrà eretto a Saint-Moritz nel 1906.
In questo periodo entra a far parte di numerosi circoli culturali torinesi condividendo le idee socialiste di Giovanni Cena e l’approccio alla scienza positivista di Cesare Lombroso.
È promotore, e in seguito vicepresidente, dell’importantissima Esposizione d’Arte Decorativa Moderna tenutasi a Torino nel 1902, per la quale fornirà anche il disegno del manifesto.
Alla VI Esposizione Internazionale della Città di Venezia del 1905 gli viene dedicata una sala personale in cui espone oltre venti opere, tra cui il gesso del grandioso portale per la cappella Hierschel De Minerbi, Il funerale di una vergine. In quell’occasione ottiene la medaglia d’oro per la scultura. Giunge nel 1908 l’incarico, affidatogli “per chiara fama”, dal Comune di Bologna per commemorare, con un imponente gruppo marmoreo, il poeta Carducci.
L’opera terrà lo scultore impegnato per circa vent’anni. Segue il gruppo de Il sacrificio per il Monumento a Vittorio Emanuele II di Roma. Precedentemente Bistolfi era stato nominato nella commissione per il progetto del monumento ma si era subito dimesso per contrasti sull’impostazione complessiva dell’opera.
Sono degli anni Venti lo straordinario Monumento a Garibaldi a Savona, il Monumento ai Caduti di Casale Monferrato e quello per i Caduti di Torino. Di quest’ultima opera esegue i bozzetti e parte dei modelli ma il sopraggiungere della morte, nel settembre del 1933, gli impedirà di portarla a termine.
Contatti e riferimenti
Museo Civico e Gipsoteca Leonardo Bistolfi
Via Cavour, 5 – Casale Monferrato
www.comune.casale-monferrato.al.it/museo
www.comune.casale-monferrato.al.it/gipsoteca-bistolfi
museo@comune.casale-monferrato.al.it