STORIA- Pagina 10

Il Bicerin, quando la storia è una delizia

Nel 1763, quando l’acquacedratario Giuseppe Dentis apre la sua piccola bottega nell’edificio di fronte all’ingresso del Santuario della Consolata, non sa di avere aperto il primo caffè  di concezione moderna in Europa. Ancora oggi è il famoso “Bicerin” che prende il nome dalla dolce bevanda proprio lì inventata.

Il locale all’epoca era arredato semplicemente, con tavole e panche di legno. Nel 1856, su progetto dell’architetto Carlo Promis, viene edificato l’attuale palazzo e in questa sede il caffè assume l’elegante forma che oggi possiamo apprezzare: le pareti vengono abbellite con boiseries di legno decorate da specchi e lampade e fanno la loro comparsa i caratteristici tavolini tondi di marmo bianco, il bancone di legno e marmo e le scaffalature per i vasi dei confetti. Alla fine dell’Ottocento viene posta esternamente la devanture in ferro, con le vetrinette ai lati, le colonnine e i capitelli in ghisa. In questo ambiente viene svolta l’attività di confetteria e di caffè-cioccolateria.

Tra gli ospiti illustri nella storia del locale: il conte di Cavour, Nietzsche, Giacomo Puccini, varie altezze reali. E più recentemente Giovanni Agnelli e Umberto Eco, solo per citare alcuni nomi

L’invenzione del bicerin è stata, senza alcun dubbio, la base del successo del locale e, più che invenzione, fu evoluzione della settecentesca bavareisa, una bevanda allora di gran moda che veniva servita in grossi bicchieri e che era fatta di caffè, cioccolato, latte e sciroppo. Il rituale del bicerin prevedeva all’inizio che i tre ingredienti fossero serviti separatamente, ma già nell’Ottocento vengono riuniti in un unico bicchiere e declinati in tre varianti: pur e fiur (simile all’odierno cappuccino), pur e barba (caffè e cioccolato), ‘n poc ‘d tut (ovvero “un po’ di tutto”), con tutti e tre gli ingredienti. Quest’ultima formula fu quella di maggiore successo e finì per prevalere sulle altre, arrivando integra ed originale ai nostri giorni e prendendo il nome dai piccoli bicchieri senza manico in cui veniva servita (bicerin, appunto).

Dal 1910 al 1975 il locale è stato gestito dalla signora Ida Cavalli, con l’aiuto della sorella e della figlia Olga, nelle cui mani passò quando la madre si ritirò. Le signore Cavalli sono state molto amate e conosciute da tutta la città: più padrone di casa che ostesse, amorevolmente accudivano tutti gli intellettuali squattrinati che nel Caffè Al Bicerin cercavano riparo dai rigori del freddo.

Nel 1983 Maritè Costa ha raccolto l’eredità delle signore Cavalli, portando il locale al livello di notorietà internazionali a cui  è oggi conosciuto. Il suo è stato uno straordinario lavoro di vera archeologia del cioccolato e dei dolci torinesi: la sua ricerca e studio delle ricette originali, dei materiali di qualità e un vero ed autentico amore per la cioccolata e la pasticceria tradizionale piemontese, hanno fatto sì che questo piccolo caffè venisse conosciuto ed amato nel mondo intero.

 

Il segreto per assaporare al meglio il vero bicerin è non mescolarlo, lasciando che le sue varie componenti si fondano fra di loro direttamente sul palato, con le loro differenti densità, temperature e sapori.

www.bicerin.it

Nagasaki, 9 agosto 1945

Nagasaki si estende al centro di una lunga baia, che rappresenta il miglior porto naturale dell’isola di Kyūshū, nel sud del Giappone. Il suo nome, letteralmente, significa “lunga penisola”. Il 9 agosto del 1945 diventò la seconda città su cui venne sganciata una bomba atomica. Il bombardiere B-29 Superfortress dell’aviazione americana (esemplare numero 44-27297, ribattezzato “Bockscar”) portava in pancia “Fat Man” (in italiano “ciccione“). Quel nomignolo era stato assegnato alla Model 1561 (Mk.2), la terza bomba atomica approntata nell’ambito del Progetto Manhattan, il secondo e ultimo ordigno nucleare mai adoperato in combattimento. In origine non era previsto che la città di Nagasaki finisse nel mirino dell’aereo pilotato dal maggiore Charles W. Sweeney. Era, come si usa dire in gergo militare, “una seconda scelta”. L’obiettivo primario era la città di Kokura, non distante da Fukuoka, nella parte settentrionale dell’isola di Kyūshū, sede di un grande deposito di munizioni dell’esercito giapponese. Ma il cielo era coperto di nubi e la visuale pessima. Così si optò per l’alternativa e questa portava il nome di Nagasaki. Così la bomba finì sulle acciaierie Mitsubishi situate poco fuori quella città. “Fat Man” esplose a un’altezza di mezzo chilometro sull’abitato e sviluppò una potenza di 25 chilotoni, quasi il doppio di “Little Boy”, l’ordigno sganciato dal bombardiere “Enola Gay” che esplose tre giorni prima su Hiroshima. Nagasaki era costruita su un terreno collinoso e il numero di morti fu inferiore a quelli causati dal primo ordigno. A Hiroshima morirono istantaneamente per l’esplosione nucleare tra le sessantaseimila e le settantottomila persone e altrettanti furono i feriti. Per due volte in tre giorni, il sole cadde sulla terra. Un numero elevato di persone persero la vita nei mesi e negli anni successivi a causa delle radiazioni e molte donne incinte persero i loro figli o diedero alla luce bambini deformi. Il numero totale degli abitanti uccisi a Nagasaki venne valutato attorno alle ottantamila persone, incluse quelle esposte alle radiazioni nei mesi seguenti. La sorte volle che tra le persone presenti a Nagasaki quel 9 agosto vi fossero anche un ristretto numero di sopravvissuti di Hiroshima. Entrambe città vennero rase al suolo. Un disastro che costrinse, meno di una settimana dopo, il 15 agosto 1945, l’imperatore del Giappone Hirohito a presentare agli alleati la resa incondizionata. Con la firma dell’armistizio, il 2 settembre di quell’anno, si concluse di fatto il secondo conflitto mondiale. Quasi ottant’anni dopo i bombardamenti atomici su Hiroshima e Nagasaki, due ospedali della Croce Rossa giapponese stanno curando migliaia di persone che continuano a patire le conseguenze di questi attacchi. Si calcola inoltre che diverse migliaia di queste persone continueranno ad avere necessità di cure nei prossimi anni per le problematiche legate alle radiazioni. In totale, tra i due centri sanitari sono stati ospedalizzati oltre due milioni e mezzo di persone per le conseguenze legate alle radiazioni. Il 63 % dei decessi registrati nell’ospedale di Hiroshima, in funzione dal 1956, sono stati causati da diversi tipi di cancro. Tra questi, un 20 % per cancro al polmone, il 18 % per cancro allo stomaco, il 14 % per neoplasie al fegato, il 7 % per cancro all’intestino e un altro 6 % dai linfomi maligni. Nell’ospedale di Nagasaki, che cominciò a funzionare nel 1969, i morti per cancro rappresentavano, fino a qualche anno fa, il 56% del totale. Secondo i dati forniti dalla Croce Rossa, l’incidenza di leucemia tra i sopravvissuti dei bombardamenti fu di quattro o cinque volte superiore rispetto alle persone non esposte alle radiazioni durante la prima decade, e diminuì successivamente. Una contabilità tremenda, eredità diretta di quello che fu l’inizio dell’era del terrore nucleare. Dopo tanti decenni, in tempi in cui la guerra scoppiata con l’invasione dell’Ucraina si è combattuta pericolosamente nei pressi delle centrali nucleari, la memoria di ciò che è stato deve indurre a far sì che nessuno debba più scrivere, di fronte alle atrocità del conflitto, quello che il copilota, capitano Robert A. Lewis , annotò sul diario di bordo del bombardiere “Enola Gay” dopo aver verificato con un binocolo gli effetti della bomba sganciata su Hiroshima: “My God what have we done?”, ““Dio mio, cosa abbiamo fatto?”.

Marco Travaglini

De Amicis, il monumento grazie a un amico

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I monumenti di Torino    Ecco un nuovo appuntamento con Torino e le sue meravigliose opere. Quest’oggi vorremmo parlarvi del monumento dedicato a Edmondo De Amicis, conosciuto da tutti per essere l’autore del libro Cuore

Situata in piazza Carlo Felice, all’interno dei Giardini Sambuy, l’opera è formata da due elementi su un’ampia piattaforma con scalini. In primo piano si erge la statua della “Seminatrice di buone parole”, rappresentata dalla “bella figura di una popolana dal largo gesto che diffonde la semente”(cit.), mentre sullo sfondo è situato un muro a esedra (incavo semi-circolare), decorato da un fitto altorilievo nel quale sono raffigurate scena di vita quotidiana, narranti episodi di “amor figliale, amor materno, amicizia, studio, amor di patria, carità e lavoro”(cit.). Sul piedistallo della statua è invece scolpito un medaglione con il profilo di Edmondo De Amicis.

 

Edmondo De Amicis nacque ad Oneglia il 21 ottobre 1846 da una famiglia benestante di origine genevose. Nel 1848 la sua famiglia si trasferì in Piemonte, dapprima a Cuneo e poi a Torino, dove Edmondo frequentò il liceo. All’età di 16 anni entrò al Collegio Militare Candellero di Torino, ma fu subito trasferito all’Accademia militare di Modena dove divenne ufficiale sottotenente. Nel 1866 partecipò alla battaglia di Custoza ma, l’anno dopo, decise di abbandonare l’esercito per dedicarsi alla carriera di giornalista. Divenne quindi giornalista militare e trasferitosi a Firenze, assunse la direzione della rivista “L’ Italia Militare”. Nel 1868, all’età di 22 anni, venne assunto dal giornale “la Nazione” di Firenze, dove continuò come inviato militare assistendo così, nel 1870, alla presa di Roma.

Dal 1879 (ma più permanentemente dal 1885) De Amicis si stabilì a Torino, andando ad abitare presso il palazzo Perini, davanti alla vecchia stazione ferroviaria di Porta Susa; qui (ispirato forse dalla vita scolastica dei suoi figli Ugo e Furio), terminò quella che fu considerata la sua più grande opera. Il 17 ottobre 1886 (primo giorno di scuola di quell’anno), venne infatti pubblicato Cuore, una raccolta di episodi ambientati tra dei compagni di una classe elementare di Torino, provenienti da regioni diverse, costruito come finzione letteraria di un diario di un ipotetico ragazzo: l’io narrante Enrico Bottini.

Il romanzo (nato come libro per ragazzi), ebbe subito un grande successo e venne molto apprezzato sia per il suo carattere educativo-pedagogico, sia perché ricco di spunti morali riguardanti i miti affettivi e patriottici del Risorgimento italiano. Il libro Cuore fece conoscere Edmondo De Amicis in tutto il mondo e lo suggellò autore attento alle problematiche della borghesia, del popolo e dell’educazione. Alcuni avvenimenti spiacevoli della sua vita, come ad esempio la morte suicida del figlio maggiore Furio (nel 1898 si sparò al Parco del Valentino), lo portarono ad abbandonare definitivamente la città sabauda. In seguito scrisse numerosi racconti nel corso dei suoi viaggi in Spagna, Francia, Inghilterra, Olanda, Costantinopoli e Marocco. Morì a Bordighera l’11 marzo del 1908 a causa di una improvvisa emorragia celebrale. Su iniziativa della Gazzetta del Popolo, per onorare la memoria di Edmondo De Amicis ad un anno dalla sua scomparsa, un Comitato propose di erigere un monumento a lui dedicato, che ne onorasse la memoria e ne esaltasse le “doti di educatore e autore immortale”(cit.) del libro Cuore.

L’esecuzione dell’opera venne affidata direttamente (non si proclamò nessun concorso) allo scultore e disegnatore Edoardo Rubino, caro amico di De Amicis, che si propose di realizzare il monumento a titolo gratuito come suo personale contributo. Ad un anno di distanza dall’iniziativa, nel 1910, Rubino presentò il bozzetto del progetto che trovò il consenso e l’approvazione di tutti. Il monumento venne terminato già nel 1914, ma la posa in opera con l’ufficiale inaugurazione, avvenne una decina di anni più tardi a causa di alcune questioni riguardanti la scelta del luogo. Su richiesta della commissione, l’inaugurazione avvenne il 21 ottobre 1923, volutamente dopo l’apertura delle scuole, in modo che “gli potesse essere intorno come aureola gloriosa l’affetto di centinaia di bimbi” (cit.).

Simona Pili Stella

Un pinerolese alle Crociate

C’era anche un pinerolese sulle galee salpate da Venezia e dirette a Costantinopoli in quella sciagurata avventura passata alla storia come la Quarta Crociata del 1204.

Lungo la riva degli Schiavoni, a pochi passi da Palazzo Ducale, Amedeo Buffa s’imbarcò con Bonifacio I, marchese di Monferrato, capo dei crociati e comandante militare della spedizione che, diretta a Gerusalemme per liberare la città santa, cambiò improvvisamente percorso e puntò sulla capitale bizantina conquistandola dopo un orrendo massacro.
Un Buffa di Pinerolo, forse un Buffa di Perrero, che viene citato in vari documenti dell’epoca e da molti storici. Non esistono però testi scritti che comprovino la sua parentela con i Buffa di Perrero ma, come osserva lo storico torinese Francesco Cordero di Pamparato, “pensare che nella Pinerolo del 1200 vi fossero due famiglie di nome Buffa che non fossero imparentate tra di loro sembrerebbe molto azzardato. È quindi molto più probabile che si tratti della stessa famiglia”. Comunque sia, nella primavera del 1202, secondo gli studiosi delle crociate, raggiunse Venezia e partecipò in San Marco alla solenne cerimonia presieduta dal doge Enrico Dandolo. Poi 17.000 veneziani e oltre 30.000 crociati si imbarcarono sulla grande flotta cristiana che l’8 novembre partì per la quarta crociata che nel 1204 cacciò i bizantini da Costantinopoli. Nello stesso anno Amedeo Buffa prese parte anche alla conquista del regno di Tessalonica (oggi Salonicco) insieme a Bonifacio, fondatore del regno e suo primo sovrano, che ringraziò Amedeo concedendogli la baronia di Domokòs nella Grecia centrale. La morte del marchese del Monferrato nel 1207 in battaglia contro i bulgari aprì la crisi del regno che fu subito cavalcata da un gruppo di nobili italiani che puntavano alla separazione del regno di Tessaglia dall’impero latino di Costantinopoli. Con l’appoggio di un nutrito gruppo di cavalieri italiani tentò di consegnare il regno di Tessalonica al figlio di Bonifacio, Guglielmo IV del Monferrato, e magari portarlo sul trono a Bisanzio. L’imperatore Enrico di Hainaut corse ai ripari e dichiarò guerra agli insorti. Il conte Uberto di Biandrate e Amedeo Buffa furono i capi di una vera e propria rivolta che costrinse Enrico di Hainaut ad intervenire in Tessaglia. Fu proprio Buffa a organizzare la resistenza ma circondato dalle truppe dell’imperatore fu costretto alla resa. Unico tra i rivoltosi, Buffa fece la pace con Enrico che nel frattempo aveva stroncato la rivolta. Il pinerolese si sottomise e da allora rimase fedele all’imperatore il quale gli conferì la carica di connestabile, comandante dell’esercito, una delle più alte cariche dell’Impero. Poco tempo dopo, nel 1210, alla testa di cento cavalieri, cadde in un’imboscata e fu catturato dal tiranno dell’Epiro Michele Angelo Comneno, arcinemico del nuovo Impero latino, che lo fece crocifiggere. Una morte atroce per il pinerolese Amedeo Buffa, il cui supplizio è citato in una bolla di papa Innocenzo III.
Filippo Re

Il cinema Vittoria di Giovanni Rosso

L’ultima sala cinematografica casalese che vide passare intere generazioni di spettatori monferrini fu il cinema teatro Vittoria di Giovanni Rosso, classe 1932. Nel piccolo cinema del Valentino, Rosso ha potuto imparare il mestiere di operatore, la grande passione che lo ha accompagnato per oltre mezzo secolo. Il  Vittoria era proprietà del geometra Giovanni Bertinotti, calciatore del Casale campione d’Italia nel 1914  che assunse l’apprendista Rosso nel 1950, il quale divenne operatore del cinema teatro l’anno successivo. La svolta avvenne nel 1984 quando il locale fu rilevato dalla società Gemar con la gestione di Rosso, Piero Musso e Ada Alessio, entrambi suoi colleghi.
Lo staff comprendeva anche Siro Zorzan, anch’esso operatore come Rosso e Musso, la maschera Riccardo, le cassiere Pina e Neta, le addette alle pulizie Renata e Angela e dal 2002 Rosso fu gestore e direttore del cinema Vittoria. Ma la crisi cinematografica causata dall’avvento della TV e dalle videocassette era alle porte. Nonostante i grandi lavori di ristrutturazione degli anni precedenti che portarono il  Vittoria ad avere una acustica perfetta con il sistema Dolby e il progetto del marzo del 2000 che comprendeva la realizzazione di tre sale con circa 900 posti, la chiusura del locale nel gennaio del 2004 fu inevitabile. Nell’ottobre del 2003 a Casale Monferrato ci fu l’inaugurazione della Multisala Cinelandia che dispone di 1200 posti suddivisi in otto sale e Rosso, con grande coraggio, fu l’ultimo a tenere in vita la propria attività anche se per poco tempo, mentre le altre sale casalesi Nuovo Cine, Moderno e Politeama avevano già chiuso i battenti.
Nella cabina di proiezione del cinema, Rosso aveva ritrovato una pellicola in 16 mm risalente alla partita di calcio tra Casale e Torino del 27-1-1929 che rappresenta il filmato più antico della squadra granata, donato a Domenico Beccaria presidente del Museo Storico Grande Torino. L’altra grande passione di Rosso fu indubbiamente il Torino Club Giorgio Ferrini, da egli stesso fondato nel 1977. L’anno successivo Rosso ebbe l’onore di incontrare il presidente del Torino Calcio Orfeo Pianelli nella tribuna d’onore dello stadio comunale di Torino. Alla scomparsa di Rosso, avvenuta nel 2011, il club casalese è stato intitolato Torino Club Giovanni Rosso, il quale nel 1980 era stato nominato cavaliere della Repubblica Italiana dal presidente Sandro Pertini.
Armano Luigi Gozzano

Marco Polo e Ibn Battuta, due grandi viaggiatori tra Duecento e Trecento

Il veneziano Marco Polo (1254-1324) e il marocchino Ibn Battuta (1304-1368) sono probabilmente i due più famosi scrittori di viaggi mai vissuti. Sono quasi contemporanei, quando Ibn nasce, Marco aveva cinquant’anni e visitano più o meno gli stessi luoghi. Marco Polo partì per la Cina nel 1271 e tornò nel 1291 mentre Ibn Battuta viaggiò in Africa e in Asia dal 1325 al 1354 tornando con un prezioso resoconto a ricordo di tante peregrinazioni. Il marocchino fu il più grande viaggiatore arabo del Medioevo, per trent’anni percorse migliaia di chilometri a piedi, sul cammello o per mare, dal Sahara alla Cina, dalla Russia all’India, viaggiatore infaticabile e osservatore attento. Percorrerà molta più strada di Marco Polo e di altri grandi viaggiatori medioevali ma sia il Marco Polo arabo sia il veneziano racconteranno l’esperienza dei loro viaggi nelle rispettive opere, la Rihla (il Viaggio) e il Milione, nel quale Marco narra le sue vicende in prigione a Rustichello da Pisa. Quest’ultimo, prigioniero a Genova, conobbe Marco Polo, viaggiatore, scrittore, ambasciatore e mercante, anch’egli fatto prigioniero dai genovesi nel 1298 in seguito alla sconfitta veneziana nella battaglia di Curzola, isola della Dalmazia. Ibn Battuta fa la stessa cosa con il poeta andaluso Ibn Juzayy. Tante peregrinazioni e due relazioni molto diverse. Poca fantasia e molto realismo nella Rihla di Ibn Battuta, grande fascino nelle pagine del Milione. A detta degli esperti l’opera di Marco Polo ha avuto un’influenza sulla cultura europea molto più forte di quanto il racconto del marocchino ha avuto su quella islamica. A Ibn Battuta interessa solo tutto ciò che è musulmano mentre il mondo non islamico quasi lo impaurisce come il suono delle campane o i cinesi che mangiano gli animali vietati dal Profeta Maometto per cui quando arriva in Cina si nasconde subito nei quartieri musulmani. In Marco Polo invece, che segue il padre e lo zio alla corte di Qubilay Khan, c’è un’ostilità più politica che religiosa verso i musulmani e mai drastica come quella di Battuta verso i cristiani. Il veneziano, che a differenza del marocchino è anche mercante e ambasciatore, tratta bene i non monoteisti come i mongoli di cui descrive usi, costumi e perfino battaglie contro i cristiani e i monaci buddisti dei quali apprezza il modo di vivere. Nei due volumi gli autori descrivono le città visitate, la gente del luogo, l’alimentazione, l’abbigliamento, le case e i mezzi di trasporto.
È invece molto più affascinante capire il modo, quasi opposto, in cui i due scrittori si avvicinano alle diverse culture che incontrano durante i loro viaggi. Mentre Ibn Battuta pensa esclusivamente alla cultura araba e al Corano e vede, viaggiando, solo i musulmani perché, per lui, conta solo il mondo islamico, Marco Polo è più attento alle curiosità e alla fantasia quando incontra usanze e tradizioni molto diverse dalla sua. Non è solo un viaggiatore ma anche un geografo e un etnografo. È vero che definisce “pagane” le altre religioni ma riporta nel libro i riti delle altre fedi. Ibn Battuta deve molto a un altro illustre viaggiatore, quel Ibn Jubayr, poeta arabo-andaluso (1145-1217) che viaggiò molto e inventò proprio la Rihla, un genere di letteratura di viaggio che divenne così famoso nel mondo arabo-islamico da essere utilizzato come modello per le successive generazioni di scrittori-viaggiatori e soprattutto per Ibn Battuta. I Polo ripartirono in nave dal porto di Quanzhou nel 1291per rientrare in patria toccando vari Paesi del sud-est asiatico fino all’India e allo Sri Lanka. Sappiamo tutto o quasi tutto su Marco Polo ma non sappiamo che faccia avesse come se il grande viaggiatore si fosse volatilizzato nell’aria di Venezia. Pur essendo un personaggio di fama mondiale si è dissolto in mille immagini tutte false e inventate. Di Marco non si ha nessun ritratto e non rimane un solo reperto autentico. Lo mette in evidenza la bella mostra su Marco Polo allestita, a 700 anni dalla sua morte, al Palazzo Ducale di Venezia fino al 29 settembre. Non c’è a Venezia un solo monumento dedicato al viaggiatore mentre tanti se ne trovano lungo la Via della Seta, dalla Mongolia al Turkmenistan, da Yangzhou alle sconfinate province cinesi e mongole. In numerosi ritratti dell’Ottocento compare raffigurato in modo solenne, con baffi e barba, giovane e bello nei film che gli sono stati dedicati, ma è tutta invenzione. Così come i ritratti di Marco Polo al Palazzo Doria-Tursi a Genova e a Villa Hanbury, a Ventimiglia, tutta invenzione. Nel Novecento il mito di Marco Polo trionfa tra cinema, fumetti, dischi, francobolli e videogiochi. Anche le sue spoglie sono andate perdute durante la ricostruzione della chiesa di San Lorenzo in cui sarebbe stato sepolto e la casa dei Polo andò distrutta durante un incendio nel 1598. La mostra, nella sede simbolo del potere dei Dogi, è suddivisa in varie sezioni arricchite da oltre 300 opere provenienti dalle collezioni veneziane e dalle maggiori istituzioni italiane ed europee fino a prestiti dei musei armeni, cinesi, canadesi e qatarini. Sono esposti reperti, manufatti, opere d’arte, ceramiche e porcellane, tessuti e tappeti, metalli, monete e manoscritti. Una sezione particolare è dedicata alla diffusione multilingue del Milione e al mito del grande viaggiatore tra Ottocento e Novecento.       Filippo Re 

Torinesi golosi: le prelibatezze da gustare sotto i portici

Torino sul podio: primati e particolarità del capoluogo pedemontano

Malinconica e borghese, Torino è una cartolina d’altri tempi che non accetta di piegarsi all’estetica della contemporaneità.
Il grattacielo San Paolo e quello sede della Regione sbirciano dallo skyline, eppure la loro altitudine viene zittita dalla moltitudine degli edifici barocchi e liberty che continuano a testimoniare la vera essenza della città, la metropolitana viaggia sommessa e non vista, mentre l’arancione dei tram storici continua a brillare ancorata ai cavi elettrici, mentre le abitudini dei cittadini, segnate dalla nostalgia di un passato non così lontano, non si conformano all’irruente modernità.
Torino persiste nel suo essere retrò, si preserva dalla frenesia delle metropoli e si conferma un capoluogo “a misura d’uomo”, con tutti i “pro e i contro” che tale scelta comporta.
Il tempo trascorre ma l’antica città dei Savoia si conferma unica nel suo genere, con le sue particolarità e contraddizioni, con i suoi caffè storici e le catene commerciali dei brand internazionali, con il traffico della tangenziale che la sfiora ed i pullman brulicanti di passeggeri “sudaticci” ma ben vestiti.
Numerosi sono gli aspetti che si possono approfondire della nostra bella Torino, molti vengono trattati spesso, altri invece rimangono argomenti meno noti, in questa serie di articoli ho deciso di soffermarmi sui primati che la città ha conquistato nel tempo, alcuni sono stati messi in dubbio, altri riconfermati ed altri ancora superati, eppure tutti hanno contribuito – e lo fanno ancora- a rendere la remota Augusta Taurinorum così pregevole e singolare.

 

1. Torino capitale… anche del cinema!

2.La Mole e la sua altezza: quando Torino sfiorava il cielo

3.Torinesi golosi: le prelibatezze da gustare sotto i portici

4. Torino e le sue mummie: il Museo egizio

5.Torino sotto terra: come muoversi anche senza il conducente

6. Chi ce l’ha la piazza più grande d’Europa? Piazza Vittorio sotto accusa

7. Torino policulturale: Portapalazzo

8.Torino, la città più magica

9. Il Turet: quando i simboli dissetano

10. Liberty torinese: quando l’eleganza si fa ferro

3.Torinesi golosi: le prelibatezze da gustare sotto i portici

Le persone che sintravedono al di là delle vetrine, intente nelle loro faccende mangerecce, paiono Tableaux vivantsimprovvisati, quadri incorniciati dal legno o dalla ferraglia dei locali, soggetti colpiti furtivamente dalla luce che sintrufola sotto i portici. Gioco spesso a sbirciare, non vista, i film muti che si svolgono dentro bar e ristoranti, provo a soffermarmi sui tipi più eccentrici o sui solitari, è un buon esercizio creativo, fantasticare sulle vite degli altri, pensare agli individui come personaggi di libri e storie poliziesche, chissà se tra quei divoratori di coppe di gelato non via sia qualche fuggiasco, oppure se dietro occhiali da sole e tazze schiumate di caffè non vi si nascondino degli amanti segreti.
Ecco la Torino ghiotta e stuzzicante, ecco latmosfera che resta tutta gozzaniana!
La moda cambia, le donne non alzano più la veletta per mangiare i dolcetti, né si preoccupano dei guanti mentre la panna cola vulcanica dal foro del cannolo, eppure la bellezza della scena rimane intonsa: giovani fanciulle passeggiano con i loro coni gelato Ganduja e crema uscite da Fiorio, signore altezzose sorseggiano caffè shakerato al Caffè Torino, mentre i facoltosi ridono fragorosamente tra i tavoli di Baratti e Milano, certamente meno charmantsdei loro antenati e un popiù “yuppie, ma non meno adocchiati da chi sogna un facile cambio di categoria, e nel frattempo gli intellettuali della precollina sconfinano oltre il Po, non di certo per amalgamarsi alla folla, ma in cerca di leccornie e prelibatezze non sempre da condividere con le amiche di pelliccia.
Torino ha un lato snob, lo si sa, così come è noto che allinterno del suo perimetro ogni quartiere tiene alla propria identità, giudicando goliardicamente i vicini di casa, prendendoli in giro su usi e costumi che variano notevolmente da zona a zona come giustamente ci fa notare il comico Davide DUrso-.

Eppure una cosa fa cedere ogni barriera: la golosità.
Infatti il capoluogo pedemontano non vanta solo primati culturali ed artistici, ma anche diverse vittorie culinarie che rendono tuttoggi la nostra bella città un punto di riferimento anche per quel che riguarda il turismo dei golosi.
Numerosi sono i Food Festivalche si svolgono a Torino, così come sono diversi gli eventi che si incentrano sul wine tasting, suicocktail contest, o le food experiencese via discorrendo, tra questi avvenimenti spicca di certo la celebre kermessedel cioccolato artigianale che ogni anno, dal 2003, si svolge nel centro della città,CioccolaTò”.
Lantica Augusta Taurinorum è sempre stata attenta ai palati dei suoi cittadini, tant’è che proprio qui, nel 1780, presso il Caffè Fiorio, luogo di ritrovo di intellettuali e politici, soprattutto durante il Risorgimento, pare sia nato il cono gelato da passeggio” –anche se il brevetto sarà poi conseguito da altri-.
Diversa invece è la storia del Giandujotto, prodotto inventato dalla Caffarel: quando Napoleone – nel 1806- bandisce tutti i prodotti provenienti dalla Gran Bretagna e dalle sue colonie, i cioccolatai torinesi devono trovare unalternativa al cacao, sempre più difficile da reperire, e finiscono per scegliere la nocciola delle Langhe, oggi prodotto IGP. La prima azienda a passare dalla crema al cioccolatino è stata proprio la Caffarel, che presenta il suo nuovo prodotto durante il Carnevale del 1865, motivo per cui il nome della squisitezza deriva dalla tipica maschera torinese, che, in quellevento particolare, lo distribuiva alla folla: il Signor Gianduja.

Rimanendo in tema dolci, pare che Ferdinando Baratti ed Edoardo Milano siano i genitori del succulento cremino, mentre per i sostenitori del salato” è bene ricordare alcuni piatti tipici della tradizione, come il vitello tonnato, i tajarin, gli agnolotti del plin, il gran bollito misto, il fritto misto alla piemontese, nonché la temutissima Bagna Caoda, letteralmente traducibile con salsa calda, che però è composta da aglio, acciughe e olio. Com’è altrettanto caratteristico, le dispute non mancano quando si tratta di tradizioni e ricette, il gusto per il bon-ton contemporaneo vuole che laglio possa anche essere eliminato dalla preparazione, ma, dallaltra parte, i puristi sinfervorano, precisando che sia necessaria una fiasca maleodorante per ogni partecipante al banchetto.
Il mio consiglio è di tentare con loriginale, almeno una volta nella vita, basta tenere sottocchio il calendario e organizzare una mini clausura di sicurezza, per salvaguardare le amicizie ed i rapporti sociali.
Ma c’è tempo per organizzarsi in tal senso, la Bagna Caoda resta comunque un piatto invernale, nel frattempo concentriamoci sulla ghiottoneria estiva per eccellenza, il gelato.
Ancora una volta gli Stati Uniti tentano di sottrarci il primo premio, additando allinvenzione dell’Eskimo Pie, brevettato nel 1922, prodotto che tuttavia si scontra con il noto Pinguino, lo stecco che permette di mangiare il gelato senza sporcarsi le mani, ideato e brevettato dalla Gelateria Pepino, fondata da Domenico Pepino, maestro gelataio napoletano immigrato a Torino, che, nel 1916, aveva ceduto l’attività al commendatore Giuseppe Cavagnino e al suocero, Giuseppe Feletti (già affermato imprenditore dolciario).
Il Pinguino è uninnovazione senza precedenti, porta con sé una nuova modalità di consumo e una piccola rivoluzione tra gli intenditori di gelato: ora si tratta di un prodotto da passeggio.
Già una svolta di notevole impatto era stata data dallintroduzione delluso del ghiaccio secco per trasportare i prodotti freddi e conservarli, scoperta che contribuisce ad aumentare la notorietà della gelateria preferita di Cavour, anche se la vera svolta avviene proprio nel 1938, con il lancio sul mercato del cremoso gelato alla vaniglia ricoperto di cioccolato e messo su stecco. Loriginale è costituito da uno stecco in legno con sopra un fior di latte alla vaniglia e una sottile copertura di cacao che, oltre a rendere croccante e appetitoso il gelato, è anche funzionale a mantenere intatto il prodotto, evitando che si sciolga troppo velocemente. È un successo indiscusso, che porta lazienda a ottenere il brevetto numero 58033, ossia il primo gelato su stecco al mondo. Il passare del tempo vede la realizzazione di diverse varianti, ripiene di menta o gianduja, senza contare poi le collaborazioni con altre case produttrici, come la Leone (Pinguino alla violetta), la Costadoro (Pinguino al caffè), o le tanto modaiole edizioni limiatatecon tanto di packagingcreativi predisposti alloccorrenza, come quello con la squadra di calcio del Torino o per il compleanno dei 60 anni della Mini Cooper.

Ma se sugli stecchinisi può giocare a cavillare, resta però impossibile battibeccare sulle Cri-cri, le tonde caramelle composte di cacao, nocciole e zucchero, ma unite in un modo decisamente diverso, con la nocciola tostata avvolta nel cacao e poi la copertura di minuscole praline di zucchero. Non si conosce il nome dellinventore del dolciume, tuttavia ad esso è legata una leggenda altrettanto zuccherina: il fidanzato della bella Cristina era solito comprare dolcetti come pegno damore, questultimo una volta era entrato con lamata in pasticceria e laveva chiamata Cri, alla commessa era piaciuto quel vezzeggiativo e lo ripropose al ragazzo Cri?, il quale controrispose Cri!. Da quel frivolo scambio di battute, il doppio Cridiviene una sorta di consuetudine tra il ragazzo e la pasticcera, che decide di battezzare in quel modo la pralina.
Infine perché non citare una bevanda, altrettanto nota tra turisti e torinesi doc, il Bicerìn. Si tratta di un liquore già in voga nellOttocento, soprattutto tra intellettuali e politici, servito allepoca principalmente nel bar della Consolata, poiché lì, un giorno, qualcuno pensò di cambiare la bavareisa” – il solito elisir messo in tavola per i consumatori- servendo cioccolato, latte e caffè in tre contenitori distinti, gli ingredienti venivano poi mescolati con uno sciroppo segreto e versati in un piccolo bicchiere con supporto e manico di metallo, et voilà”, ecco il nuovo trenddel Bicerìn.
Bene, cari lettori, non so a voi, ma a me è venuta una certa acquolina in boccae direi di chiuderla qui, per questa volta.
Mi accingerei, se non vi spiace, a ritornare bambina, intanto che mi appresto a gustare la mia pasta nella confetteria che più mi aggrada: Bon appétit!a tutti!

 

 

Le mitiche origini di Augusta Taurinorum

Torino, bellezza, magia e mistero   Torino città magica per definizione, malinconica e misteriosa, cosa nasconde dietro le fitte nebbie che si alzano dal fiume? Spiriti e fantasmi si aggirano per le vie, complici della notte e del plenilunio, malvagi satanassi si occultano sotto terra, là dove il rumore degli scarichi fognari può celare i fracassi degli inferi. Cara Torino, città di millimetrici equilibri, se si presta attenzione, si può udire il doppio battito dei tuoi due cuori.

Articolo 1: Torino geograficamente magica
Articolo 2: Le mitiche origini di Augusta Taurinorum
Articolo 3: I segreti della Gran Madre
Articolo 4: La meridiana che non segna l’ora
Articolo 5: Alla ricerca delle Grotte Alchemiche
Articolo 6: Dove si trova ël Barabiciu?
Articolo 7: Chi vi sarebbe piaciuto incontrare a Torino?
Articolo 8: Gli enigmi di Gustavo Roll
Articolo 9: Osservati da più dimensioni: spiriti e guardiani di soglia
Articolo 10: Torino dei miracoli

Articolo 2: Le mitiche origini di Augusta Taurinorum

Nelle alte valli delle Alpi era usanza liberare una mucca prima di fondare una borgata; l’animale andava al pascolo tutto il giorno per poi trovare il punto in cui distendersi a terra e riposarsi. Quello sarebbe stato il luogo in cui i montanari avrebbero iniziato ad edificare il borgo: «la mucca può “sentire” cose che all’uomo sfuggono, se il posto è sicuro o meno e se di lì si irradiano energie benefiche o maligne».

Anche la fondazione di Torino potrebbe rientrare in una di tali credenze. Ma a questa versione, tutto sommato verosimile e riconducibile a qualche usanza rurale, fanno da controparte altre ipotesi, decisamente più complesse e letteralmente “divine”, poiché hanno come protagonisti proprio degli dei, Fetonte ed Eridano.  Avviciniamoci allora a queste due figure. Secondo il mito greco, Fetonte, figlio del Sole, era stato allevato dalla madre Climene senza sapere chi fosse suo padre. Quando, divenuto adolescente, ella gli rivelò di chi era figlio, il giovane volle una prova della sua nascita. Chiese al padre di lasciargli guidare il suo carro e, dopo molte esitazioni, il Sole acconsentì. Fetonte partì e incominciò a seguire la rotta tracciata sulla volta celeste. Ma ben presto fu spaventato dall’altezza alla quale si trovava. La vista degli animali raffiguranti i segni dello zodiaco gli fece paura e per la sua inesperienza abbandonò la rotta. I cavalli si imbizzarrirono e corsero all’impazzata: prima salirono troppo in alto, bruciando un tratto del cielo che divenne la Via Lattea, quindi scesero troppo vicino alla terra, devastando la Libia che si trasformò in deserto. Gli uomini chiesero aiuto a Zeus che intervenne e, adirato, scagliò un fulmine contro Fetonte, che cadde nelle acque del fiume Eridano, identificato con il Po. Le sorelle di Fetonte,, le Eliadi, piansero afflitte e vennero trasformate dagli dei in pioppi biancheggianti. Le loro lacrime divennero ambra. Ma precisamente, dove cadde Fetonte? In Corso Massimo d’Azeglio, proprio al Parco del Valentino dove ora sorge la Fontana dei Dodici Mesi.  In un altro mito, Eridano, fratello di Osiride, divinità egizia, era un valente principe e semidio. Costretto a fuggire dall’Egitto, percorse un lungo viaggio costeggiando la Grecia e dirigendosi verso l’Italia. Dopo aver attraversato il mar Tirreno sbarcò sulle coste e conquistò l’attuale regione della Liguria, che egli chiamò così in onore del figlio Ligurio. Attraversò poi l’Appennino e si imbatté in una pianura attraversata da un fiume che gli fece tornare alla mente il Nilo. Qui fondò una città, che dedicò al dio Api, venerato sotto forma di Toro.


Un giorno Eridano partecipò ad una corsa di quadrighe, purtroppo però, quando già si trovava vicino alla meta, il principe perse il controllo dei cavalli che, fuori da ogni dominio, si avviarono verso il fiume, ed egli vi cadde, annegando.  In sua memoria il fiume venne chiamato come il principe, “Eridano”, che è, come abbiamo detto, anche l’antico nome del fiume Po, in greco Ἠριδανός (“Eridanos”), e in latino “Eridanus”.  Questa vicenda ci riporta alla nostra Torino, simboleggiata dall’immagine del Toro, come testimoniano, semplicemente, e giocosamente, i numerosissimi toret disseminati per la città. Storicamente il simbolo è riconducibile alla presenza sul territorio della tribù dei Taurini, che probabilmente avevano il loro insediamento o nella Valle di Susa, o nei pressi della confluenza tra il Po e la Dora. L’etimologia del loro nome è incerta anche se in aramaico taur assume il valore di “monte”, quindi “abitanti dei monti”. I Taurini si scontrarono prima con Annibale e poi con i Romani, infine il popolo scomparve dalle cronache storiche ma il loro nome sopravvisse, assumendo un’altra sfumatura di significato, risalente a “taurus”, che in latino significa “toro”. È indubbio che anche oggi l’animale sia caro ai Torinesi, sia a coloro che per gioco o per scaramanzia schiacciano con il tallone il bovino dorato che si trova sotto i portici di piazza San Carlo, sia a quelli vestiti color granata che incessantemente lo seguono in TV. C’è ancora un’altra spiegazione del perché Torino sorga proprio in questo preciso luogo geografico, si tratta della teoria delle “Linee Sincroniche”, sviluppata da Oberto Airaudi, che fonda, nel 1975, a Torino, il Centro Horus, il nucleo da cui poi si sviluppa la comunità Damanhur. Le Linee Sincroniche sono un sistema di comunicazione che collega tutti i corpi celesti più importanti. Sulla Terra vi sono diciotto Linee principali, connesse fra loro attraverso Linee minori; le diciotto Linee principali si riuniscono ai poli geografici in un’unica Linea, che si proietta verso l’universo. Attraverso le Linee Sincroniche viaggia tutto ciò che non ha un corpo fisico: pensieri, energie, emozioni, persino le anime. Il Sistema Sincronico si potrebbe definire, in un certo senso, il sistema nervoso dell’universo e di ogni singolo pianeta. Inoltre, grazie alle Linee Sincroniche è possibile veicolare pensieri e idee ovunque nel mondo. Esse possono essere utilizzate come riferimenti per erigere templi e chiese, come dimostra il nodo centrale in Valchiusella, detto “nodo splendente”, dove sorge, appunto, la sede principale della comunità Damanhur. Secondo gli studi di tale teoria Torino nasce sull’incrocio della Linea Sincronica verticale A (Piemonte-Baltico) e la Linea Sincronica orizzontale B (Caucaso).Vi sono poi gli storici, con una loro versione decisamente meno macchinosa, che riferiscono di insediamenti romani istituiti da Giulio Cesare, intorno al 58 a.C., su resti di villaggi preesistenti, forse proprio dei Taurini. Il presidio militare lì costituitosi prese il nome prima di “Iulia Taurinorum”, poi, nel 28 a.C, divenuto un vero e proprio “castrum”, venne chiamato, dal “princeps” romano Augusto, “Julia Augusta Taurinorum”. Il resto, come si suol dire, è storia.
Queste le spiegazioni, scegliete voi quella che più vi aggrada.

Alessia Cagnotto

L’Impero Ottomano morì a Sanremo

Chissà se i numerosi piemontesi che trascorrono le vacanze estive a Sanremo sanno che nella Città dei Fiori si spense nel 1926, vecchio, malato e travolto dagli eventi, l’ultimo sultano dell’Impero Ottomano e che in città si trovano ancora oggi i luoghi che aveva frequentato. Maometto VI aveva scelto proprio la Riviera Ligure per trascorrere gli ultimi anni della sua vita in esilio. Il 3 luglio 1918, il neo sultano salì sul trono di Costantinopoli, sempre più instabile e vicino al crollo finale. Visse gli anni del tramonto di un grande Impero, sorto sette secoli prima. Ma anche in esilio non si diede per vinto e cercò di reagire a una disfatta ormai inevitabile. Dopo la sconfitta nella Prima guerra mondiale, l’Impero, già penalizzato dal Trattato di Sèvres del 1920, subì l’occupazione delle potenze vincitrici anglo-italo-francesi e anche della Grecia che occupò Smirne. Una situazione inaccettabile per i nazionalisti turchi che, guidati dal generale Mustafa Kemal Pascià, presero in mano le redini del movimento nazionale indipendentista. Gli Ottomani persero tutti i territori in Medio Oriente e le rivolte popolari e nazionaliste diedero il colpo finale alla monarchia sultaniale. Il Sultanato fu abolito nel novembre 1922 e la Repubblica Turca fu proclamata nel 1923 con Ataturk presidente. Nel 1924 fu abolito anche il Califfato. Il 28 giugno 1918 morì a Costantinopoli il sultano Maometto V Reshad e il 3 luglio salì sul trono il fratello Maometto VI Vahideddin, trentaseiesimo e ultimo sultano dell’Impero nonché centesimo califfo dell’islam. La fine dell’Impero è anche la storia degli ultimi anni di Costantinopoli capitale ottomana. Nel dicembre 1918 dalle navi alleate sbarcarono quasi 4000 soldati francesi, inglesi e italiani. Mentre le truppe tedesche e austriache lasciavano il territorio, in città le forze di occupazione prendevano possesso di prigioni, banche, ospedali e ambasciate. L’evento più plateale avvenne l’8 febbraio 1919 quando il generale francese Franchet d’Esperey, alla testa delle sue truppe, fece un ingresso trionfale a Istanbul. Giunto al ponte di Galata attraversò la città su un cavallo bianco, tra greci e armeni in festa, come aveva fatto cinque secoli prima Maometto II il Conquistatore dopo aver posto fine all’Impero Romano d’Oriente.
La città fu divisa in varie zone: i francesi a sud del Corno d’Oro, gli inglesi a Pera, gli italiani a Scutari sulla sponda asiatica della città e un piccolo reparto greco a protezione del Fanar, la sede del Patriarcato ortodosso. I turchi si sentivano quasi stranieri a casa loro. Pur essendo anziano, sconfitto e schiacciato dagli eventi, l’ultimo sultano mise a disposizione degli alleati l’apparato amministrativo ottomano che estendeva la sua sfera d’azione solo più a Istanbul e nel nord dell’Anatolia mentre il resto dell’Impero era in parte in mano agli alleati. Durante la guerra gli inglesi aiutarono i popoli arabi a ribellarsi al dominio ottomano in tutto il Medio Oriente sotto la guida dell’emiro Hussein e dal colonnello Lawrence, il mitico Lawrence d’Arabia. La frantumazione dell’Impero innescò una fiammata nazionalista. La sconfitta nella guerra causò il disfacimento dell’esercito e con il trattato di Sèvres (10 agosto 1920), firmato dal sultano, gli ottomani dovettero lasciare ai vincitori gran parte dell’Anatolia, cedere la Tracia e accettare l’internazionalizzazione degli Stretti. Nel frattempo emerse la figura dell’ufficiale nazionalista Mustafa Kemal che verrà chiamato dai turchi “Ataturk”, padre della patria”. Kemal, che costruirà la Repubblica turca laica e moderna, attribuì le responsabilità della disfatta dell’Impero al sultano. Avviò la resistenza armata, organizzò un esercito nazionalista e l’8 luglio 1919 fece destituire il sultano Maometto VI. Denunciò inoltre il trattato di pace di Sèvres, firmato dal governo imperiale, che definiva i nuovi confini di ciò che restava dell’Impero. Una larga fetta dell’opinione pubblica turca rimase favorevole alla monarchia costituzionale ma Mustafà Kemal aveva fretta di liberarsi del sultano. Il 1 novembre 1922 l’Assemblea nazionale votò una legge che aboliva il sultanato e Maometto VI fu mandato in esilio, prima a Malta e poi a Sanremo dove morirà nel 1926. L’ultimo sultano non perse mai la speranza di veder crollare Mustafa Kemal, il generale che lo esautorò per fondare una nuova Turchia, e per tre anni lavorò per raggiungere questo obiettivo. Intanto Abdul Mecid II, cugino di Mehmet VI, venne nominato da Kemal ultimo califfo. Il 24 luglio 1923, il Trattato di Losanna, firmato tra il governo di Kemal e il Regno Unito con Francia, Italia, Giappone, Grecia e Jugoslavia, ridefinì i confini della Turchia, annullando quello che era stato deciso a Sèvres tre anni prima. Il Patto restituì ai turchi tutta l’Asia Minore, la Tracia orientale e il controllo degli Stretti. Il 29 ottobre 1923 Mustafa Kemal proclamò la nascita della Repubblica di Turchia con Ankara capitale e nel 1924 il califfato fu abolito. Kemal avviò il Paese sulla strada della modernizzazione, riorganizzando l’apparato amministrativo sul modello europeo e separando la religione dallo Stato. L’Impero ottomano morì in pratica a Sanremo, località già nota alle grandi potenze per aver ospitato, nei saloni del Castello Devachan (oggi lussuoso residence), la Conferenza di pace di Sanremo, tra il 19 e il 24 aprile 1920, che divise i territori dell’Impero Ottomano tra le potenze europee. Mehmet VI trascorse gli ultimi anni della sua vita a Sanremo, prima a Villa Alfred Nobel e poi a Villa Magnolie, dove visse insieme alla quinta e ultima moglie Nimit Nevzad Kadin Efendi, sposata a Istanbul nel 1921. Cinque matrimoni e sei figli. Morì il 16 maggio 1926 a Villa Magnolie dove la sua salma, sigillata in una bara, rimase esposta per un mese. Il 16 giugno si svolse il solenne funerale del sovrano la cui bara fu trasportata su un vecchio carro della Croce Rossa alla stazione e sistemata su un treno diretto a Trieste. Fu sepolto a Damasco nel monastero di Solimano il Magnifico. La storica villa sanremese, in cui soggiornarono anche principesse persiane, zarine e i duchi di Aosta, ospita oggi una scuola ed è di proprietà della Provincia di Imperia. Una piccola curiosità: il presidente-sultano della Turchia moderna, Recep Tayyip Erdogan, nostalgico delle glorie del passato imperiale della Mezzaluna, concentra nelle sue mani poteri pressoché assoluti dopo il recente trionfo elettorale. Proprio come non accadeva dai tempi dell’ultimo sultano ottomano.           Filippo Re

Valle Grana… AAA Foto d’Epoca Cercasi

Serviranno per organizzare una Mostra di “memoria collettiva” nell’ambito del Progetto “Valle Grana Cultural Village”

Monterosso Grana (Cuneo)

Una raccolta di materiali fotografici d’antan per organizzare la prima di tre mostre di “memoria collettiva” della “Valla Grana”, la più piccola delle valli cuneesi (fra le Alpi Cozie e Marittime), enclave linguistica provenzale e patria “nobile” del grande – di tradizione millenaria – “Castelmagno”, fra le “DOP casearie” piemontesi, prodotto nei tre Comuni più alti della Valle: Monterosso Grana, Pradleves e Castelmagno per l’appunto. Questa la lodevole iniziativa promossa dal “Progetto Valle Grana Cultural Village” (su iniziativa dei Comuni di Monterosso Grana e Pradleves ai fini di una “rivitalizzazione socio – economica” dei piccoli borghi, da finanziare nell’ambito del PNRR) e coordinata dall’Associazione di Promozione Sociale “FormicaLab”.

In buona sostanza, l’iniziativa si basa sulla richiesta di “condivisione” di “album di famiglia”, “vecchie fotografie” conservate nel cassetto, “immagini dimenticate” in soffitta o in vecchie scatole. Ogni fotografia “prenderà forma” durante un workshop gratuito e aperto a tutti dell’artista visivo Alessandro Toscanosabato 7 e domenica 8 settembre.

Seguirà un allestimento in programma a fine settembre. È possibile inviare il materiale in formato digitale all’indirizzo e-mail formicalab.info@gmail.com, oppure consegnarlo direttamente presso il Municipio di Monterosso Grana (via Mistral, 22- aperto al pubblico martedì, giovedì e sabato dalle 9 alle 12). Tutti gli originali verranno restituiti insieme a una copia digitale del materiale fornito. Per maggiori informazioni visitare il sito www.formicalab.net oppure contattare il numero di telefono 338/7619170.

Alessandro Toscano è un artista visivo italiano (di origini sarde ma oggi residente a Roma) la cui ricerca e produzione abbraccia videofotografia e installazione. Con un approccio multidisciplinare tra ricerca documentaria, artistica e etnoantropologica, ha sviluppato negli anni progetti video-fotografici “per” e “in” collaborazione con “MAXXI Museo nazionale delle arti del XXI secolo”, “MIC Ministero della Cultura”, “Rai”, “LaEffe Feltrinelli”, “Einaudi editore”, “Financial Times Magazine” e “Le Parisien”.  L’artista sarà ospite tra Monterosso Grana e Pradleves, la prima settimana di settembre.

Quella della “raccolta foto”, ricordiamo, che è solo una delle tante iniziative inserite nel Progetto “Valle Grana Cultural Village”, iniziate con la Festa Patronale di “San Giacomo”, a Monterosso Grana, svoltasi dal 19 al 22 luglio, e culminata con il gemellaggio con il piccolo borgo francese di Le Bar-sur-Loup. Le attività proseguiranno sabato 10 agostoa partire dalle 14,30, con “La Draio de l’Estelo”, escursione per famiglie alla scoperta del sentiero di “land art” fra San Lucio e Rocho de l’Estelo, organizzata da “Comboscuro Centre Prouvencal”. All’arrivo, festa conclusiva sui pascoli con “merenda sinoira” e spettacolo della Compagnia olandese “Snow Appel”.

Altro appuntamento agostano: sabato 24dalle 17, a Santa Lucia di Comboscuro, si svolgerà il “Roumiage de Setembre”. Per tutti i bimbi, dai 5 ai 12 anni, è previsto un atelier ludico con “Persil/Prezzemolo” dedicato ai giochi tradizionali delle Alpi, con l’utilizzo di legno e materiali di riciclo. A seguire il tradizionale “concerto estivo”.

g.m.

Nelle foto: Alberto Toscano e “render” Borgata San Pietro al termine dei lavori attualmente in corso per il progetto “Valle Grana Villaggio Culturale”