RILEGGIAMO LE PAGINE DEL DIARIO DI VIAGGIO DEL SETTEMBRE 2014. A CENTO ANNI DALLA GRANDE GUERRA

Terra di frontiera: nei Balcani il destino del “secolo breve” (Seconda parte)

BOSNIA BANDIERAREPORTAGE di Marco Travaglini – La Bosnia-Erzegovina è un crocevia, tra le Alpi Dinariche, la Croazia e la Serbia. E’ nel proprio nome che questi luoghi svelano il proprio destino. Bosnia deriva dal fiume Bosna che nasce nei dintorni di Sarajevo. In illirico “boghi-na” significa “scorrente” mentre Erzegovina sta per “Ducato”, quale fu l’intera zona dei Balcani occidentali dalla metà del 1400. E’ un po’ ardito tradurre il tutto in “Ducato scorrente” ma aiuta a  cogliere l’essenza di una terra che ha visto scorrere la storia, passare regni e popoli, culture e religioni. Terra di frontiera, “limes” che riassume tanti destini nella porta d’accesso e transito tra Oriente e Occidente

SECONDA PARTE

Jasenovac, l’Auschwitz dei Balcani

Dopo un viaggio di alcune ore, appena varcata la frontiera con la Croazia, arriviamo a Jasenovac.  Quando si pensa ai campi di concentramento tornano alla memoria i lager in Germania,Austria, Polonia o in Repubblica Ceca. Ma c’è anche “l’Auschwitz dei Balcani”, questo terribile campo di Jasenovac, in Croazia, creato dalle forze ustascia di Ante Pavelic,con la collaborazione dei nazisti tedeschi e dei fascisti italiani. Il campo di concentramento si trova ad un centinaio di chilometri a sud-est di Zagabria e  venne costruito tra l’agosto del 1941 e il febbraio del 1942 proprio sulle rive del fiume Sava, che segnano il confine naturale tra la Croazia e la Bosnia-Erzegovina. All’entrata c’era scritto: “Red, Rad, Stega”, cioè “Ordine, Lavoro, Disciplina. In seguito all’alleanza dei croati ustascia con le potenze dell’Asse e con la conseguente adozione da parte di Zagabria dell’ideologia razzista, il campo di Jasenovac doveva essere destinato, per i nazisti –  principalmente a ebrei, oppositori politici e zingari. I croati, invece, aggiunsero un elemento in più, considerandolo il luogo adatto in cui internare e distruggere la popolazione serba. Cosìil maggior numero di vittime del campo furono per lo più serbi (il 56 per cento degli internati), oltre agli ebrei, zingari (quasi sempre uccisi non appena mettevano piede a Jasenovac), bosgnacchi (bosniaci musulmani), dissidenti croati e in generale tutti i membri della resistenza, compresi i partigiani e i loro simpatizzanti, etichettati dagli ustascia come “comunisti”. Le condizioni di vita erano simili a quelle degli altri campi di concentramento sparsi per l’Europa: cibo scarso, alloggi con pessime condizioni igieniche, undici, dodici ore di BOSNIA JASENOVAKduro lavoro, uccisioni e torture. Nei primi tempi molti detenuti furono costretti a dormire all’aperto perché non erano ancora state completate le baracche. Per la mancanza d’acqua, in tantissimi bevvero l’acqua del fiume Sava e frequenti erano le epidemie di tifo, malaria, dissenteria e difterite. Le guardie permettevano ai prigionieri di lavare i loro pochi indumenti una volta al mese nel fiume. Solo chi aveva particolari abilità professionali, come medici, farmacisti, orefici e calzolai, aveva un trattamento un po’ più umano. Per tutti gli altri toccava subire le angherie degli ustascia. Nell’agosto del ’42 nacque una scommessa tra le guardie su chi avesse massacrato il maggior numero dei prigionieri, che venivano uccisi con coltelli, mazze e spranghe, per risparmiare sui proiettili. Ad Jasenovac vennero utilizzati i forni della fabbrica di mattoni come  crematori, per un breve tempo e lì trovarono la morte donne e soprattutto bambini (almeno 20mila tra zingari, serbi ed ebrei). L’inferno finì nella primavera del 1945.Il 22 aprile circa 600 prigionieri si ribellarono, ma le guardie ne uccisero la stragrande maggioranza e solo in 80 riuscirono a fuggire. Prima di abbandonare definitivamente il campo, gli ustascia uccisero i restanti detenuti e diedero fuoco agli edifici, alle fornaci, alle camere di tortura e a tutto ciò che potesse testimoniare le atrocità commesse. Oggi, quello che rimane è un memoriale in ricordo delle vittime e un enorme dibattito nato tra i serbi e i croati sul numero dei morti, laddove i primi parlano di circa mezzo milione e i secondi cercano di impostare le cifre al ribasso. Secondo le fonti più accreditate, a Jasenovac persero la vita circa 100mila persone, di cui 45-52mila serbi, 15-20mila zingari (questo però è il dato più controverso e di difficile verificabilità), tra i 12 e i 20mila ebrei, e tra i 5 e i 12mila croati e bosgnacchi. E anche, leggendo l’elenco, diciotto italiani dei quali una donna. Fuori dal mausoleo, nell’aperta campagna che ospitò le baracche e le strutture del campo, sorge il “Fiore di Jasenovac”, il monumento-simbolo progettato dall’architetto e artista serbo Bogdan Bogdanovic. Tutt’attorno, nel terreno reso paludoso dalla pioggia e dalle frequenti esondazioni della Sava, s’intravedono i tumuli che fanno parte dell’assetto paesaggistico del memoriale. Piccole alture erbose che si ergono dove c’erano le baracche e dove i detenuti conobbero atrocità, sofferenze ed esecuzioni. Il tutto in un paesaggio silenzioso, in un luogo – come Bogdanovic stesso volle indicare – “angoscioso, profanato dal crimine”.

 

Zagabria

ZAGABRIABella, elegante Zagabria, dal profilo austro-ungarico,ci accoglie senza la pioggia fastidiosa che ci ha accompagnati per il resto del viaggio. La capitale della Croazia, adagiata tra le pendici meridionali del monte Medvednica e la sponda nord della Sava, è da sempre un centro importantissimo per gli scambi e per i traffici tra l’Europa centrale e l’Adriatico. Una città che offre una forte immagine di sé, coesa, unita. Pensare che durante il XIV secolo e quello successivo, era divisa in due centri – Gradec e Kaptol – che cercarono costantemente di danneggiarsi a vicenda. Al tempo di quelle lunghe dispute, la città vescovile poteva scomunicare Gradec, che rispondeva con i fatti, incendiando la rivale. I due centri collaboravano solo per motivi commerciali, come le tre grandi fiere, della durata di due settimane, che si svolgevano nel corso dell’anno. Solo all’inizio del XVII secolo, Gradec e Kaptol divennero un’unica città, Zagabria. Durante gli anni della seconda guerra mondiale, dal 1941 al 1945, Zagabria fu la capitale dello Stato Indipendente di Croazia retto da Ante Pavelić, leader degli Ustascia, i croati ultra-nazionalisti che promossero la pulizia etnica dello stato contro i serbi, gli ebrei e i rom. Al termine del conflitto la città divenne capitale della Repubblica Socialista di Croazia. Quarantasei anni dopo la liberazione, nel 1991,l’allora presidente Franjo Tuđman dichiarò l’indipendenza della Croazia, scatenando la reazione bellica della Serbia.

 

Lubiana

LUBIANAAnche Lubiana, capitale della Repubblica Slovena è un gioiello d’arte e architettura, con il suo centro storico in stile barocco e Art Nouveau. Ciascun quartiere conserva la sua impronta storica: medioevale, barocca o liberty anche se, tutta la città porta il segno  delle incredibili opere dell’ architetto urbanista Jože Plečnik a cui, dagli Anni Venti fino all’inizio della Seconda Guerra Mondiale, venne affidato il compito di ridisegnare la città adattandola secondo i suoi gusti. Ovviamente l’intera città risente molto dell’influenza della vicina Austria. Sulla collina, di Grajska Planota la severa moledel castello domina dall’alto la città adagiata sul fiume Ljubljanica  e il centro storico dove si trovano   i maggiori monumenti. Anche Lubiana è un crocevia della storia balcanica e ,durante il secondo conflitto mondiale, nel 1941, fu occupata e annessa dall’Italia. L’intera città e il territorio circostante (la Bassa Carniola) divennero così una provincia italiana della regione Venezia Giulia, di cui Lubiana fu capoluogo con sigla automobilistica LB. Per contrastare la rivolta della popolazione locale, nella notte fra il 22 e il 23 febbraio 1942, le autorità militari italiane cinsero con filo spinato e reticolati l’intero perimetro di Lubiana,disponendo un ferreo controllo su tutte le entrate e le uscite. Il recinto era lungo ben 41 chilometri e furono arrestati circa 19 mila uomini, dei quali poco meno di un migliaio  furono deportati nei campi di concentramento. Le violenze non terminarono lì e, fino all’8 settembre 1943, le autorità militari italiane fucilarono, per rappresaglia, oltre 100 ostaggi presso la cava abbandonata Gramozna jama, nella periferia di Lubiana. Dopo l’occupazione tedesca del Litorale Adriatico nel maggio 1945, esercito del Reich e milizie nazionaliste slovene si arresero all’armata partigiana  di Tito. Così,fino all’indipendenza del 1991, la città divenne capitale della Repubblica socialista di Slovenia.Dopo una breve tappa a Capodistria, il nostro viaggio prosegue verso Trieste.

 

Risiera di San Sabba (Trieste)

La visita alla Risiera di San Sabba è d’obbligo. Il grande complesso di edifici dello stabilimento per la pilatura del riso – costruito nel 1898 nel periferico rione di San Sabba – venne dapprima utilizzato dall’occupatore nazista come campo di prigionia provvisorio per i militari italiani catturati dopo l’8 settembre 1943 ( lo Stalag 339). Poim verso la fine di ottobre di quell’anno, venne strutturato come Polizeihaftlager (Campo di detenzione di polizia), destinato sia allo smistamento dei deportati in Germania e in Polonia e al deposito dei beni razziati, sia alla detenzione ed eliminazione di ostaggi, partigiani, detenuti politici ed ebrei.

Nel primo stanzone posto alla sinistra di chi entra c’era la “cella della morte”. Qui venivano stipati i prigionieri tradotti dalle carceri o catturati in rastrellamenti e destinati ad essere uccisi e cremati nel giro di poche ore. Secondo testimonianze, spesso venivano a trovarsi assieme a cadaveri destinati alla cremazione. Proseguendo sempre sulla sinistra, si trovano, al pianterreno dell’edificio a tre piani in cui erano sistemati i laboratori di sartoria e calzoleria, dove venivano impiegati i prigionieri, nonché camerate per gli ufficiali e i militari delle SS, le 17 micro-celle in SAN SABBAciascuna delle quali venivano ristretti fino a sei prigionieri, Queste celle erano riservate ai partigiani, ai politici, agli ebrei, destinati all’esecuzione a distanza di giorni, talora settimane. Le due prime celle venivano usate a fini di tortura o di raccolta di materiale prelevato ai prigionieri: vi sono stati rinvenuti, fra l’altro, migliaia di documenti d’identità, sequestrati non solo ai detenuti e ai deportati, ma anche ai lavoratori inviati al lavoro coatto (tutti i documenti, prelevati dalle truppe jugoslave che per prime entrarono nella Risiera dopo la fuga dei tedeschi, furono trasferiti a Lubiana, dove sono attualmente conservati presso l’Archivio della Repubblica di Slovenia). Le porte e le pareti erano ricoperte di graffiti e scritte: l’occupazione dello stabilimento da parte delle truppe alleate, la successiva trasformazione in campo di raccolta di profughi, sia italiani che stranieri, l’umidità, la polvere, l’incuria – in definitiva – degli uomini hanno in gran parte fatto sparire graffiti e scritte. Ne restano a testimonianza i diari dello studioso e collezionista Diego de Henriquez (ora conservati dal “Civico Museo di guerra per la pace” a lui intitolato), ove se ne trova l’accurata trascrizione; alcune pagine sono riprodotte nel percorso della mostra storica. Nel successivo edificio a quattro piani venivano rinchiusi, in ampie camerate, gli ebrei e i prigionieri civili e militari destinati per lo più alla deportazione in Germania: uomini e donne di tutte le età e bambini anche di pochi mesi. Da qui finivano a Dachau, Auschwitz, Mauthausen, verso un tragico destino che solo pochi hanno potuto evitare. Nel cortile interno, proprio di fronte alle celle, sull’area oggi contrassegnata dalla piastra metallica, c’era l’edificio destinato alle eliminazioni – la cui sagoma è ancora visibile sul fabbricato centrale – con il forno crematorio. L’impianto, al quale si accedeva scendendo una scala, era interrato. Una canale sotterraneo, il cui percorso è pure segnato dalla piastra d’acciaio, univa il forno alla ciminiera. Sull’impronta metallica della ciminiera sorge oggi una simbolica Pietà costituita da tre profilati metallici a segno della spirale di fumo che usciva dal camino. L’edificio del forno crematorio e la connessa ciminiera vennero distrutti con la dinamite dai nazisti in fuga, nella notte tra il 29 e il 30 aprile 1945, per eliminare le prove dei loro crimini, secondo la prassi seguita in altri campi al momento del loro abbandono. Tra le macerie furono rinvenute ossa e ceneri umane raccolte in tre sacchi di carta, di quelli usati per il cemento. Tra le macerie, fu inoltre rivenuta la mazza la cui copia, realizzata e donata da Giuseppe Novelli nel 2000, è ora esposta nel Museo (l’originale è stato trafugato nel 1981). Triestini, friulani, istriani, sloveni e croati, militari, ebrei: bruciarono nella Risiera alcuni dei migliori ”quadri” della Resistenza e dell’Antifascismo. Quante sono state le vittime? Calcoli effettuati sulla scorta delle testimonianze danno una cifra tra le tre e le cinquemila persone soppresse in Risiera. Ma in numero ben maggiore sono stati i prigionieri e i ”rastrellati” passati dalla Risiera e da lì smistati nei lager o al lavoro obbligatorio.

 

Trieste, molo Audace

Il cerchio sta per chiudersi e seppure il nostro viaggio finirà a Torino, dove è iniziato, l’ultima tappa a Trieste – lasciata la Risiera – è qui: al molo Audace, in pieno centro città, a pochi passi da Piazza Unità d’Italia, sul molo che  separa il bacino di San Giorgio dal bacino di San Giusto del Porto Vecchio. Esattamente lì dove, cent’anni fa (al tempo in cui era ancora chiamato Molo San Carlo) ,gettò l’ancora la corazzata austriaca Viribus Unitis, sbarcando le salme dell’Arciduca  Francesco Ferdinando e della moglie Sofia,morti in quell’attentato di Sarajevo che cambiò la storia del Novecento. Lì, dove il  3 novembre del 1918, alla fine della prima guerra mondiale, la prima nave della Marina Italiana ad entrare nel porto di Trieste e ad attraccare al molo San Carlo fu il cacciatorpediniere Audace, la cui ancora è ora esposta alla base del faro della Vittoria. E’ un luogo simbolico, degli arrivi e degli incontri, nella città stretta tra il Carso e il mare. TRIESTERiassume un po’ l’intero confine orientale che è stato spazzato di continuo dai venti della Grande Storia. Un mosaico di mare, rilievi ed altopiani che è stato teatro di incontri e di scontri.Le battaglie maledette della Prima Guerra Mondiale, il pugno duro del fascismo di frontiera, le crudeltà della seconda Guerra Mondiale, con l’occupazione nazista, il ruolo del fascismo di Salò, la dura lotta partigiana jugoslava, l’orrore delle foibe, l’esodo imposto agli Italiani d’Istria, Fiume e Dalmazia e l’imposizione di confini di Stato nel 1947 hanno soffocato queste  terre tra violenze e fili spinati, sfregiando e prosciugando un’antica e variopinta comunità di genti. Sul confine orientale le linee di confine hanno diviso come mannaie il territorio, prima tra Italia e Jugoslavia, e poi – nel 1991 – fra Italia, Slovenia e Croazia, spezzando tragicamente comunità, famiglie,esistenze individuali, abitudini quotidiane e commerci di lungo corso, segnando per decenni la vita pubblica di quelle terre. E più in giù, in terra erzegovese e bosniaca, dove i ponti che univano furono abbattuti e il “secolo breve”, il Novecento, iniziò cent’anni fa a Sarajevo, per finire poi, nel sangue dei conflitti e degli assedi con le guerre di dissoluzione della Jugoslavia negli anni ’90.

 

 Marco Travaglini

Fine

(La prima parte è stata pubblicata ieri nella sezione DALL’ITALIA E DAL MONDO)

 

Terra di frontiera: nei Balcani il destino del “secolo breve”

eccidioREPORTAGE di Marco Travaglini

La Bosnia-Erzegovina è un crocevia, tra le Alpi Dinariche, la Croazia e la Serbia. E’ nel proprio nome che questi luoghi svelano il proprio destino. Bosnia deriva dal fiume Bosna che nasce nei dintorni di Sarajevo. In illirico “boghi-na” significa “scorrente” mentre Erzegovina sta per “Ducato”, quale fu l’intera zona dei Balcani occidentali dalla metà del 1400. E’ un po’ ardito tradurre il tutto in “Ducato scorrente” ma aiuta a  cogliere l’essenza di una terra che ha visto scorrere la storia, passare regni e popoli, culture e religioni. Terra di frontiera, “limes” che riassume tanti destini nella porta d’accesso e transito tra Oriente e Occidente       

PRIMA PARTE

BOSNIAUn viaggio culturale in Bosnia e nei Balcani dove il “secolo breve”, il Novecento, iniziò più di cent’anni fa a Sarajevo nel 1914 con l’assassinio di Francesco Ferdinando e terminò, sempre a Sarajevo, con le guerre di dissoluzione della Jugoslavia negli anni ’90. Importanti mete per il viaggio,  che qui rievochiamo,  organizzato nel settembre 2014  dalla sezione torinese dell’Associazione nazionale ex deportati politici nei campi nazisti (Aned). Con una scelta dei tempi quanto mai puntuale: quell’anno si celebrava il centenariodella Prima guerra mondiale, la “Grande Guerra” che insanguinò l’Europa con i suoi orrori e lutti.

Partiti da Torino verso il porto di Ancona, nella serata ci s’imbarca su una nave-traghetto della “Jadrolinija” per la traversata notturna dell’Adriatico, verso le coste dalmate. Il mare, tutt’altro che calmo, non aiuta il riposo.   Sbarcati a Spalato, la croata Split, principale centro della Dalmazia, il secondo giorno prosegue con il viaggio in autobus in direzione dell’Erzegovina. Da Mostar, la nostra meta, ci separano 186 km. La Bosnia-Erzegovina è un crocevia, tra le Alpi Dinariche, la Croazia e la Serbia. E’ nel proprio nome che questi luoghi svelano il proprio destino. Bosnia deriva dal fiume Bosna che nasce nei dintorni di Sarajevo. In illirico “boghi-na” significa “scorrente” mentre Erzegovina sta per “Ducato”, quale fu l’intera zona dei Balcani occidentali dalla metà del 1400. E’ un po’ ardito tradurre il tutto in “Ducato scorrente” ma aiuta a  cogliere l’essenza di una terra che ha visto scorrere la storia, passare regni e popoli, culture e religioni. Terra di frontiera, “limes” che riassume tanti destini nella porta d’accesso e transito tra Oriente e Occidente.

 

Mostar

MOSTAREd ecco, in tarda mattinata Mostar, la perla dell’Erzegovina, a cui i croati distrussero il vecchio ponte il 9 novembre del 1993, nel quarto anniversario della caduta del muro di Berlino. Il suo centro storico racchiude un mondo intero, ricostruito completamente dopo che la guerra l’aveva quasi raso al suolo. Le vie acciottolate, lungo le quali spuntano i minareti delle moschee, il Kujundziluk, la via dei commercianti e degli artigiani, i mulini di pietra, le acque impetuose e verde smeraldo della Neretva che attraversa la città. E poi il ponte, simbolo dell’unità e del dialogo che i nazionalismi hanno tentato di spezzare. Quel ponte oggi ricostruito, con la ripida scalinata, da sempre rappresenta l’unione delle due anime di Mostar, quella orientale musulmana e quella occidentale cattolica, vissute insieme per secoli in armonia. Città multietnica dunque, ma con un’anima sola: quella che la guerra ha tentato di dividere con la forza, colpendo anche i suoi monumenti più significativi. Se si guarda con attenzione, i segni del conflitto sono ancora evidenti. Ma le ferite più profondi sono dentro il cuore e la testa  dei mostarini, e sono le più difficili da risanare. Lasciata la città dello Stari Most, si raggiunge Sarajevo in meno di tre ore percorrendo per quasi 130 chilometri  una delle più belle strade del paese, lungo la valle della Neretva, le cui sorgenti si trovano presso Jabuka , nelle Alpi Dinariche ad una ottantina di chilometri a sud della capitale bosniaca. Passiamo da Jablanica, dove sorge il museo dedicato alla seconda guerra mondiale e all’ultimo conflitto, a pochi passi dal ponte. Qui il maresciallo Tito condusse la battaglia della Neretva contro le forze dell’Asse. L’operazione, conosciuta come la “quarta offensiva nemica” (četvrta neprijateljska ofenziva/ofanziva) o “battaglia per i feriti” (bitka za ranjenike) costituì un successo strategico per le forze partigiane jugoslave che, nonostante la situazione apparentemente disperata e le gravi perdite, riuscirono a sfuggire alla manovra d’accerchiamento tedesca e ad infliggere una dura sconfitta ai reparti italiani e dei collaborazionisti cetnici schierati sul fiume. Tra gli appunti anche una nota di colore: a Jablanica è nato Hasan Salihamidžić , ex calciatore bosniaco, soprannominato “Brazzo” (“fratello”), che vestì per qualche anno anche la maglia della Juventus.

 

Sarajevo

SSarajevoarajevo, la “Gerusalemme d’Europa”ci ha accolti con la luce livida di un tardo pomeriggio di pioggia battente. Chi sperava, a dispetto del meteo, in un tiepido tramonto riflesso sulle acque della Miljacka, nel cuore della città, si deve accontentare. Sarajevo è bella sempre, anche con la pioggia. Adagiata in una stretta valle circondata da montagne e aggrappata alle rive del fiume che scroscia spumeggiando nel suo ventre di città serraglio (Sarajevo dal turco saray, serraglio), e stata uno dei più importanti punti di sosta per le carovane lungo le antiche rotte commerciali tra est e ovest. Qui più che altrove Occidente e Oriente s’incontrano e s’abbracciano, confondendosi. E’ qui che gli imperi Bizantino e Ottomano da est, e gli imperi prima di Roma, poi di Venezia e infine di Vienna da ovest ,hanno portato le loro culture, le tradizioni, le religioni. Difficile trovare un altro posto che condivide, in poco spazio, nel cuore della città, i luoghi di culto delle principali religioni: la gotica cattedrale cattolica del Cuore di Cristo e le moschee di Gazi Husrev-beg, Ali Pasha e dell’Imperatore; la barocca cattedrale serbo ortodossa dedicata alla natività di Gesù insieme alla vecchia chiesa ortodossa degli arcangeli Gabriele e Michele, e la Sinagoga di Sarajevo, che s’affaccia sulla Miljacka mentre quella vecchia di mezzo millennio e ben piantata su solide mura nel Velika Avlija, il quartiere ebraico di Sarajevo. Qui si può, meglio che altrove, con tutte le contraddizioni fatte di affinità e diversità, capire il passato, il presente e immaginare il futuro di questa vecchia e un po’ malandata Europa. A Sarajevo la storia d’insinua attraverso la geometria di quartieri, palazzi, piazze, ponti, lapidi e cimiteri. Durante l’assedio della città un’agenzia matrimoniale del posto pubblicizzava cosi i suoi servizi:In questo mondo di guerre e morte l’unica cosa che ha un senso è fare l’amore. Puro distillato d’amaro spirito balcanico. Dopo essersi persi tra i vicoli della Bascarsija, il vecchio quartiere ottomano, eccoci di fronte alla biblioteca nazionale e universitaria di Sarajevo, la “Vijecnica”, uno dei simboli della città.  A 120 anni dalla sua costruzione, ventidue anni dopo il rogo che la distrusse e dopo quasi 18 anni di complesso restauro, è tornata al suo antico splendore. Le tre facciate dell’edificio a base triangolare erano da tempo pronte, illuminate dai colori originari del 1894. Ora, non resta che sperare che tornino anche i libri e i lettori e che queste mura non racchiudano solo gli uffici della municipalità.Le granate serbe, lanciate dopo il tramonto del 25 agosto 1992 da postazioni occultate nelle fitte foreste di abeti che incombono sulla città, trasformarono in rogo l’edificio in stile neo-moresco costruito durante l’epoca austro-ungarica. L’incendio durò tutta la notte e per altre trenta ore almeno. Bruciò così la biblioteca di Sarajevo. E con essa un patrimonio immenso di un milione e mezzo di preziosissimi libri e incunaboli, giornali, riviste e mappe, memoria storica di una città multietnica da secoli e per questo invisa a quelli che volevano separare, dividere, cancellare storie e vicende comuni. Poco distante c’è la piazza della fontana ( o dei piccioni) e più in là inizia la Ferhadija, la più elegante strada di Sarajevo. Messi di traverso sulla Miljacka, come vertebre dell’immaginaria spina dorsale della città rappresentata dal letto del fiume, ci sono i ponti inSARAJEVO2 pietra grigia, erosi dal vento e dalle piogge, con l’erba che cresce nelle fessure, e quelli di ferro, tesi come fili vibranti da una sponda all’altra. Tra questi c’è il ponte Latino dove l’Arciduca Francesco Ferdinando e sua mogli Sofia furono assassinati dall’ultranazionalista Gavrilo Princip in quello che è passato alla storia come l’attentato di Sarajevo. Era il 28 giugno del 1914 e con quegli spari cambiò la storia. Ci sono tante cose da vedere in città, dalla “casa del dispetto” alla famosa Saraievska Pivara, una delle fabbriche di birra di famose dei Balcani, fino al museo del Tunnel, il “cordone ombelicale” scavato sotto la pista d’atterraggio dell’aeroporto che rappresentò l’unica via d’entrata e d’uscita nella città assediata.La Vječna Vatra , la “fiamma eterna”, è il memoriale alle vittime militari e civili della seconda guerra mondiale e ai partigiani. Si dice sia l’unica fiamma che non si è mai spenta nemmeno sotto l’assedio. La lapide ricorda una data, il 6 aprile del 1945. Il giorno della liberazione di Sarajevo dall’occupazione nazista e della vittoria di serbi , bosniaci e croati che, insieme, riconquistarono la liberta. La dimostrazione visiva di una lotta comune, segnata dall’antifascismo degli slavi del sud. La stessa data segnò, provocatoriamente, l’inizio dell’assedio più lungo della storia moderna, protrattosi dal 6 aprile del 1992 al 29 febbraio del 1996. I bombardamenti e i cecchini uccisero 11.541 persone e ne ferirono altre 50.000 durante i 44 mesi dell’assedio. Nei rapporti ufficiali s’indica una media di circa 329 bombardamenti al giorno, con un massimo di 3777 granate il 22 luglio 1993. Gli ordigni che cadevano sull’asfalto lasciavano dei segni che, dipinti con la vernice rossa, diventarono le “rose di Sarajevo”, i fiori della sofferenza e del dolore.  La popolazione della città si ridusse di un terzo e da cosmopolita che era, oggi è perlopiù popolata da bosgnacchi, i bosniaci musulmani. Prossime tappe saranno, in terra bosniaca, Tuzla e Banja Luka.  Ma prima di partire, una visita al vecchio e coloratissimo mercato austroungarico della frutta e della verdura, il “Markale”. Tra la gente che si aggira tra i banchi di ferro che espongono infinite varietà di ortaggi e frutta fresca e secca, proprio sulla parete in fondo, una lunga lapide rossiccia ricorda i caduti delle stragi di Markale. Stragi, al plurale, poiché per due volte le granate serbe hanno massacrato i civili in questo luogo, nel cuore di Sarajevo. La prima volta, il 5 febbraio del 1994:sessantasette morti e centoquarantadue feriti. La seconda, il 28 agosto del 1995,quando l’ultimo di cinque colpi di mortaio stroncò la vita di trentasette persone e il ferimento di altre novanta. I fiori delle corone, sul ciglio della strada, ancora freschi grazie al clima autunnale, ricordano la recente commemorazione di una delle tante ferite che rendono dolorosa la memoria.

 

Tuzla

TUZLAIl viaggio verso Tuzla, sotto una insistente e fastidiosa pioggia che ha deciso di accompagnarci ovunque, è un’altra occasione per attraversare una terra dove le moschee convivono con i boschi di latifoglie e di conifere, le case più vecchie risentono del tratto urbanistico dell’impero viennese , il canto del Muezzin e il suono

delle campane delle chiese ancora oggi, e nonostante tutto, trovano il modo di convivere. E poi tanto verde e acqua, boschi a perdita d’occhio e fiumi gonfi.  Tuzla, con i suoi 120 mila abitanti  è la terza città della Bosnia ed Erzegovina, oltre ad essere capoluogo dell’omonimo cantone che ne conta quasi mezzo milione. La città è collinare ed è legata alla produzione e al commercio del sale. Lo stesso nome lo rammenta:in turco “Tuz” significa proprio sale. Sono immensi i giacimenti di sale minerario che si trovano nel suo sottosuolo. Ed è l’unica città europea ad avere nel centro cittadino un lago salato, creato artificialmente attraverso l’utilizzo delle falde acquifere salate. La “città del sale” è anche uno dei più antichi centri abitati europei, come testimoniano numerosi scavi archeologici che hanno portato alla luce palafitte risalenti al periodo del neolitico. Ogni undici di ogni mese, dal quasi vent’anni, le madri e le donne di Srebrenica organizzano a nel centro cittadino una manifestazione in ricordo delle vittime del genocidio che costò la vita ad oltre ottomila musulmani. Attraversando le sue strade e i suoi vicoli si può comprendere come questa sia stata ( e sia rimasta) la  “citta di tutti”, dove non si chiedeva a nessuno da dove venisse o che fede praticasse. Una città laica,fiera della sua indipendenza dalle anagrafi etniche. Piazza Kapija, nel cuore di Tuzla, è  proprio come la descrive lo scrittore Maurizio Maggiani nel suo ‘Viaggiatore Notturno’: “un selciato spianato tra spigoli legnosi di vecchie case ottomane e composti palazzi austroungarici”. Lì, insieme agli latri partecipanti aquesto viaggio della memoria, si è reso omaggio – accompagnati da Svetlana – ai  ragazzi morti il 25 maggio del 1995. Un gesto semplice per non dimenticare, per non archiviare in qualche angolo sperduto della memoria una delle più crudeli vicende della guerra nella ex-jugoslavia. Tutto si svolse in un attimo: dal monte Ozren, distante quindici chilometri, l’artigleria serba lanciò una granata che scoppiò nella piazza dove c’erano più di mille persone, per lo più ragazzi giovanissimi, raccoltisi per la Festa della Gioventù. Leggendo ad uno ad uno i nomi e le date sulla lapide che rievoca la strage si contano settantuno morti. Sandro Kalesic era un bambino di soli 3 anni ed era il più giovane. Solo due avevano poco più di 45 anni; tutti gli altri fra i 18 e i 25. I feriti furono 236, alcuni dei quali gravissimi. Erano bosniaci, serbi, croati, a riprova che non c’e mai stato un vero e proprio conflitto etnico. Erano tutti slavi. Lì, al numero uno di Via della Gioventu Interrotta, gli abitanti di Tuzla hanno eretto un monumento a ricordo e avvertimento. Sulla lapide è incisa una frase che suona come una condanna senza appello: “Fascisti serbi aggressori”.

L’accompagnano i versi di Mak Dizdar, poeta bosniaco: “Qui non si vive solo per vivere. Qui non si vive solo per morire. Qui si muore per vivere”. Poco distante si è svolto l’incontro con i rappresentanti dell’Associazione che cura la memoria di questi giovani. C’erano due dei genitori e il presidente, un uomo di 47 anni che riportò gravissime ferite in quello scoppio. Nella sala che porta alle pareti i ritratti di quelle ragazze e di quei ragazzi la commozione è stata grande, così come durante la visita alla collina che ospita – accanto al monumento che ricorda la liberazione della città dai nazisti e le vittime dell’ultimo conflitto – le tombe allineate di 51 di queste giova i vite spezzate dalla follia di una guerra assurda.

 

Banja Luka

BANJAA Banja Luka , seconda più grande città della Bosnia, di fatto il centro più importante dell’entità della Repubblica Serpska ( l’altra “entità” della nazione bosniaca), arriviamo sotto l’immancabile pioggia di questa pazza estate. Il capoluogo della storica regione  della Bosanska Krajina, con i suoi 200.000 abitanti, ospita il governo della Bosnia serba  abitanti al censimento ed è un importante centro economico e culturale con una storia importante che risale all’Alto Medioevo. Sviluppatasi su entrambe le sponde del fiume Vrbas che, l’intera città è punteggiata dal verde dei viali alberati, giardini e parchi. Durante l’occupazione Ottomana della Bosnia,Banja Luka conobbe lo sviluppo urbano ed economico che le consentì di diventare uno dei più importanti centri politici e commerciali della Bosnia. In seguito alle frequenti incursioni austriache si definì anche il suo profilo di centro militare strategico. La città, per conoscere una fase nuova e decisa di modernizzazione, dovette attendere la dominazione austroungarica della fine del XIX secolo. Durante la Seconda guerra mondiale gli Ustascia Croati, cattolici e filonazisti, occuparono la città deportando la maggior parte delle famiglie nobili sefardite e serbe presso i vicini campi di concentramento di Jasenovac e Stara Gradiška. Il 7 febbraio 1942 le forze ustascia, guidate da un monaco francescano, Miroslav Filipović, uccisero 2.500 serbi, tra cui 500 bambini, a Drakulići, Motike e Sargovac, località all’interno del comune di Banja Luka. La cattedrale ortodossa della città fu rasa al suolo dalle forze di occupazione naziste, prima che la città fu liberata il 22 aprile 1945 dai partigiani di Tito. Il 27 ottobre del 1969 ( alle 9,11 del mattino, di domenica, come si legge su di un orologio nel centro cittadino), un tremendo terremoto danneggiò molti degli edifici della città. Un grosso palazzo chiamato Titanik, situato nel centro della città, fu distrutto completamente e l’area dove si trovava è stata tramutata in una piazza. Con grandi sacrifici  Banja Luka fu ricostruita ma molti dei piccoli palazzi e negozi dell’epoca ottomana e austroungarica che costituivano il centro della città, danneggiati irreparabilmente, furono demoliti.

 Marco Travaglini

(Continua)