RACCONTO

Il biglietto

IL BIGLIETTO

di GIANLUIGI DE MARCHI

 

15 OTTOBRE 2024

“Uno, ventitre, quarantaquattro, quarantacinque, quarantasette, sessanta…”

Carlo ripeté i numeri e gli sembrò che il cuore gli si fosse fermato.

Erano i “suoi” numeri, quelli che giocava da oltre tre mesi, da quando il jackpot del Superenalotto era diventato altissimo ed aveva scatenato il gioco a livelli mai visti prima.

Li sapeva a memoria, ogni settimana li giocava paziente e cocciuto; ogni martedì, giovedì e sabato, sempre nella stessa ricevitoria del paese. Ed ogni volta scherzava con il gestore, Alberto, suo compagno di scuola fin dalle elementari a Riva del Garda: “Non accettare altre giocate, sono inutili, quella vincente è la mia…”.

E Alberto, paziente, accettava la battuta, passava alla macchinetta la schedina, incassava i due euro della giocata e lo assicurava: “Tranquillo, ci vediamo domani, ho già i soldi in cassa per te…”

Giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, mese dopo mese la stessa scenetta; e mai una volta che uscissero almeno tre numeri, il minimo per portarsi a casa 20-30 euro.

“Meglio così, pensava Carlo “ vincessi un premio di consolazione non potrei certo sperare nel colpo grosso, i numeri o escono tutti insieme o non escono”.

Filosofia spicciola di chi tanti soldi non li ha mai visti, e preferisce “tutto o niente” piuttosto che “poco”; il niente lascia la vita come prima, il poco lascia la vita come prima con in più tanti rimpianti per l’occasione persa, solo il “tutto” cambia totalmente la vita, ti consente di girare pagina per sempre, realizzare mille sogni impossibili, levarti tutti gli sfizi, non avere più problemi con la rata del mutuo, le bollette, il datore di lavoro prepotente, la moglie sempre più scialba…

Già, Luisa, sua moglie…

Non sapeva nulla della sua giocata, non le aveva mai confidato che stava rincorrendo il sogno; solo Alberto ne era al corrente per motivi professionali. Carlo era superstizioso, come tutti i giocatori, non diceva nulla per non attirarsi la iella addosso, aspettava fiducioso, poi dopo gliel’avrebbe fatta vedere a tutti chi era…

Guardò Luisa: era davanti alla televisione con la maglietta di Camaiore, pallido ricordo di una vacanza in una pensioncina a due stelle dove anni prima erano stati a passare una vacanza di una settimana pagata facendo qualche sacrificio.

Stava guardando uno dei tanti programmi d’intrattenimento, fatuo e senza senso: una squallida sequela di personaggi che esibivano le loro “capacità” scimmiottando cantanti celebri (meglio se stranieri, storpiando le parole in maniera indecorosa), arrabattandosi in giochi di magia, facendo esercizi ginnici a sbarre o travi. Una esibizione per un’impresa che gratificava solo chi la realizzava, anche se il pubblico sembrava interessarsi moltissimo, applaudendo le performance di chi riusciva a far meno peggio degli altri…

Era bella Luisa, quando l’aveva conosciuta; la più bella della classe, alla quale tutti facevano il filo anche se non era la più intelligente.

La vita è così, purtroppo…Sei carina? hai uno stuolo di corteggiatori. Sei solo intelligente? Fatichi a trovare qualcuno che ti inviti a ballare in discoteca…

Ora, passati i cinquanta, era spenta, sempre stanca per pulire casa, star dietro ai tre figli che non ne volevano sapere di sposarsi o di andarsene e continuavano a pesare sulle sue spalle.

Carlo uscì sul balcone.

La serata era splendida, il cielo pieno di stelle, l’aria gelida ma frizzante riempiva i polmoni finalmente pulita e senza smog.

Aveva in mente quella cifra mostruosa: ottantanove milioni e qualcosa (il “qualcosa” equivaleva in realtà a 10 anni di lavoro…). centoottanta miliardi di lire suppergiù (dopo tanti anni di euro, per capire bene certe cifre, Carlo se le trasformava ancora in lire).

Una mostruosità, roba da emiro arabo, di quelli che arrivano nel più costoso albergo di Londra con 10 Rolls Royce, uno stuolo di ragazze una più bella dell’altra, cento valigie firmate con tutti gli accessori di superlusso per far capire a tutti che si è “miliardari”.

“Non incasso subito il biglietto, rifletté Carlo” altrimenti mi saltano tutti addosso a chiedermi soldi. Aspetterò magari un mese, lo farò incassare da un notaio o da una banca di un’altra città, qui in paese mi conoscono tutti, mi nasconderò per un po’, poi mi godrò la vita”.

Godersi la vita…

Una villa a due piani, un grande parco intorno, altro che villetta plurifamiliare con un fazzoletto di prato e due rose; una casa al mare, a Viareggio (altro che Camaiore, lì sì che c’è gente all’altezza del “nuovo Carlo”, quello ricco grazie al Superenalotto), una casa in montagna, a Cortina, naturalmente dove soggiornano tutti i VIP che contano.

Un paio di auto di superlusso (“Tanto, con tutti quei soldi, potrò non solo comprarmele, ma anche mantenermele, bollo e assicurazione comprese” sorrise compiaciuto Carlo). Magari una limousine della Buick ed una Ferrari d’epoca, di quelle che aveva visto una volta in un telegiornale, battuta all’asta per una cifra da capogiro che neanche si ricordava.

Ma subito un bel viaggio intorno al mondo per almeno sei mesi, a vedere tutti quei posti da favola che aveva conosciuto guardando programmi di viaggi: non Sharm el Sheikh ma le Galapagos, la Nuova Caledonia, le Seychelles, Bali…

Da solo, tanto la compagnia l’avrebbe trovata ad ogni tappa; sarebbe bastato far vedere la carta di credito “Platinum”, dare una mancia da 100 dollari al facchino, ordinare aragosta per due sere di fila e la sua camera non sarebbe rimasta vuota…

Novantatre milioni e qualcosa sono proprio tanti, ti puoi veramente levare ogni sfizio, fare tutto, bruciare i ponti, cancellare il passato, goderti la vita.

Goderti la vita…

Si voltò e vide Luisa che lo guardava.

Sentì un tuffo al cuore.

Luisa, sua moglie.

Nell’euforia del momento l’aveva cancellata dalla sua vita, l’aveva condannata ad una vita di stenti, a tirare la carretta giorno dopo giorno, a tirar su i figli, a combattere con le rate del mutuo, le bollette, il datore di lavoro prepotente; e con il marito assente perché sparito all’improvviso…

Rientrò in casa, si sedette vicino a lei, la baciò dolcemente, la strinse a sé.

Fecero l’amore lì, sul divano, e fu come se fosse la prima volta.

Andò in cucina, aprì un vecchio barattolo, il suo “salvadanaio” segreto, nel quale, settimanalmente, da mesi nascondeva il biglietto della giocata; lo rilesse con il cuore a mille.

“Uno, ventitre, quarantaquattro, quarantacinque, quarantasette, sessanta…”

Respirò a fondo, attese ancora un attimo, poi con calma lo stracciò in tanti pezzi e lo gettò nella spazzatura.

Tornò in salotto e disse a Luisa “Sai, ho pensato che in fondo ci potremmo regalare una settimana a Camaiore, è da un po’ che non ci andiamo, che ne dici?”.

Luisa lo guardò stupita, non sapeva cosa dire, riuscì solo a sussurrare un banalissimo: “Perché?”

Carlo la guardò sorridendo: “Perché te lo meriti e perché sono felice”.

 

L’amaro gusto dell’acqua

Era sempre la stessa storia. Ogni volta che un gerarca veniva sul lago, in visita alle isole Borromee,  a Stresa o in un’altra località nelle vicinanze, Gino e Lucio finivano ammanettati nella rimessa delle barche, proprio  sotto la passeggiata del  lungolago di Baveno.

Le disposizioni, del resto, erano chiare: tutti coloro sui quali si nutriva anche solo il sospetto d’essere dei  sovversivi andavano controllati e, se necessario, messi a tacere. I due, pur avendo schivato il confino non potevano evitare quella restrizione della loro libertà. E quindi, giù sotto, in riva al lago, al riparo da sguardi indiscreti. Incatenati ai grandi anelli di ferro dove venivano assicurate le cime da ormeggio delle imbarcazioni, non erano in condizione di nuocere. “Anche se si lamentassero, là sotto, nessuno potrà udirli”, sentenziò il maresciallo Rustici. Fascista antemarcia, il graduato dei carabinieri evadeva così la spinosa “pratica” di “quelle due teste calde”. “Oh, Carmelo – disse, rivolgendosi al carabiniere scelto Esposito -; ma ti pare che dovevano proprio capitare tra i piedi a noi questi rompiballe?”. Carmelo, buono come un pezzo di pane, annuì per far piacere al suo superiore ma in cuor suo non li avrebbe costretti a star lì, quasi a mollo nel lago, in quell’antro umido e inospitale. Già l’ultima volta, per un  soffio, non c’era scappato il morto. I due –  ai quali era stato aggregato anche Olimpo Bronzelli – erano finiti ammanettati agli anelli d’ormeggio perché era stata annunciata la visita di un pezzo grosso all’hotel Beau Rivage. L’Hotel era proprio lì, dall’altra parte della strada che attraversava il paese. Olimpo, scalpellino nella cava di granito rosa, era finito ai ferri perché reo di aver canticchiato in un’osteria un motivetto che il Podestà aveva giudicato offensivo nei confronti del regime e del Regno. In realtà, il povero tagliapietre – un po’ brillo – aveva improvvisato un’innocua e vecchia tiritera che più o meno suonava così: “Viva il Re, viva la regina e viva la capra della Bettina”, animale reso famoso dall’eccellente e copiosa produzione di latte. Uno scioglilingua che però era stato mal interpretato e così, ai soliti due reprobi si aggiunse pure il terzo. Il problema derivò dal maltempo. Una forte perturbazione stava imperversando tra il lago e le alture del Mottarone e, in poco tempo, le onde s’ingrossarono trasformandosi in schiumosi cavalloni che s’infrangevano sulla massicciata ricavata dalla passeggiata del lungolago. Immaginarsi che inferno anche là sotto, per i tre prigionieri. A tratti le onde li sommergevano per poi ritirarsi, lasciandoli infreddoliti e in balia di altri, gelidi, schiaffi d’acqua. Tutti e tre furono costretti, loro malgrado, a bere quell’acqua dal cattivo sapore. Soprattutto Lucio che, una volta liberato, giurò di non toccar più una goccia di quel liquido tremendo, limitandosi – pur nelle restrizioni dell’epoca – a sorseggiare soltanto vino, compreso quello aspro e ruvido, che legava in bocca, spillato dalla botte dell’osteria della Miniera, su in  Tranquilla.

Marco Travaglini

Luigino, il cacciatore di serpenti

Luigino “mazzabis” era un serparo. Conosceva i segreti per catturare e maneggiare le vipere. S’intrufolava nelle zone più scomode e rocciose, passando in rassegna gli  anfratti vari, alla ricerca dei rettili. Soprattutto a mezza costa, nelle parti  più assolate dei pendii del Mottarone, tra i sassi nascosti dal brugo, nei pressi delle cave di granito o sui versanti  scoscesi del torrente Selvaspessa. “Caro mio, non si va per serpi in pianura. Bisogna scarpinare e non aver fretta. Ti apposti e, quando la biscia si stende a prendere il sole, l’acchiappi al volo. Bisogna esser lesti, veloci. Altrimenti ti morde e son dolori“.

Luigino “mazzabis”, all’anagrafe Luigi Poldo, aveva studiato medicina a Pavia dando tutti gli esami senza però laurearsi. Tornato sul lago Maggiore, a Baveno, dopo aver fatto diversi lavori,  da un tempo lavorava come assistente di un dentista e s’era impallinato con la storia del serparo.  Dai serpenti che catturava, cavava il veleno per poi cederlo ad un’ importante ditta farmaceutica del milanese tramite il dottor Klever , il farmacista del posto. Le cercava un po’ ovunque: dall’alpe Vidabbia al Monte Zughero, dai valloni sotto i Corni di Nibbio fino in Valgrande. Soprattutto quest’ultima zona, oggi parco nazionale, godeva di una certa fama. La chiamavano, infatti, la “valle delle vipere”, alimentando il mito del  leggendario Bazalèsch (il basilisco) e del Galètt , una vipera nera con la cresta che emanava un profumo talmente insistente da far cadere addormentate le persone. In realtà l’essere così poco teneri con queste serpi è ingiusto. La vipera e’ un animale piuttosto timido e pauroso, che attacca solo per difendersi. Può rappresentare un pericolo per le capre o le mucche ma  i casi di donne e uomini morsi dalle vipere  sono piuttosto rari. “ Quando si incontrano sul percorso, basta semplicemente fermarsi e aspettare che si allontanino”, ci diceva Luigino. “ Questo nel caso riusciamo a vederle per primi, altrimenti se arriviamo troppo vicini e la spaventiamo, la vipera può reagire, prima di attaccare, con quel suo caratteristico “soffio”, che e’ abbastanza impressionante”.

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Le vipere, per loro sfortuna e per nostra fortuna, sono gli unici serpenti velenosi esistenti in Italia (la sola regione dove non esistono vipere è la Sardegna). A seconda della specie, possono vivere indifferentemente in pianura, in collina o in montagna, così come  nei boschi, nelle pietraie, nei prati o lungo le siepi, manifestando una certa predilezione per i luoghi soleggiati. La vipera dispone di un apparato velenifero perfetto ed efficace, una vera e propria “arma letale”: il veleno , prodotto da una ghiandola posta sopra il palato, viene inoculato nella ferita al momento del morso attraverso appositi canalini che porta dentro le due piccole zanne. Altamente tossico, talvolta mortale, è in grado di agire in meno di un quarto d’ora. Ovviamente prediligono le zone dove ci si può  nasconder bene, abbastanza isolate. “ Le serpi le trovi lontano dai posti abitati”, aggiungeva Luigino. “Se incontri un aspide o un marasso,lo riconosci dalla testa triangolare e dagli occhi: le vipere hanno le pupille verticali, simili a quelle dei gatti. Si distinguono così dalle bisce innocue che hanno la pupilla tonda. Anche se, a dire il vero, un sacco di gente non perde tempo a guardarle negli occhi e scappa via a gambe levate”. Noi , curiosi, gli chiedevamo se c’era una  tecnica per catturarle.  Guardate, la serpe percepisce le vibrazioni del terreno, e fugge. Se però ti avvicini lentamente, con passo felpato,  e più o meno conosci la zona, non è difficile scovarla e catturarla anche se si è mimetizzata tra sassi  ed arbusti. Dovete sapere che la serpe è abilissima a mimetizzarsi e la sua colorazione si adatta all’ambiente  dove vive. E’ una grandissima artista nel camuffarsi. A volte si riesce a catturarle anche non in ferma. Sì, perché quando si muovono è più facile riconoscerle. Ma, ricordate: più che la tecnica, conta l’esperienza, l’intuito. Io ne catturo parecchie di vipere  ma capita spesso che per prenderne una ci devo tornare anche tre o quattro volte. Non è né una cosa semplice, né una cosa impossibile. Molto dipende dal luogo dove vive. Per la tecnica di cattura ci vuol mano ferma e occhio vigile:le  afferro per la coda a mani nude e le sollevo in aria. Così neutralizzo la vipera perché non riesce più a risollevarsi e mordere, e la ficco nel sacco. A volte  uso anche   il bastoncino biforcuto ma non mi piace tanto”. Ma c’era anche un periodo “buono” per la caccia? Luigino, sorridendo, rispondeva con un detto ( “ a S. Giuseppe la prima serpe” ) che indicava tra fine marzo e l’inizio dell’estate il periodo migliore. Raccontava che nei  boschi e fra i sassi di Pian di Boit, in Valgrande, c’erano quelli che – catturate le vipere – le chiudevano in apposite cassette di legno con uno spioncino e le spedivano all’istituto sieroterapico di Milano.

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Per quei montanari era  un modesto integrativo finanziario al magro reddito d’alpeggio. “ Sapete,ragazzi: si guadagna qualcosa, ma non si diventava ricchi. Quelle catturate in aprile valgono di più, perché contengono una maggiore quantità di veleno. In una stagione, un bravo viperaio riesce a catturarne 70-80. Io, una decina d’anni fa, ho raggiunto il mio record: centoventitrè. Ma è stato davvero un anno di grazia. A proposito, vi ho mai raccontato di quella volta che ho dovuto soccorrere il Martin Cappella? Lo conoscete, no?”.  Lo conoscevamo sì: era uno dei “fungiatt”, dei cercatori di funghi più esperti della zona del Mottarone. Nonostante questo – stando al racconto di Luigino –  un pomeriggio  si dimenticò della necessaria prudenza. Eppure sapeva bene cos’era bene evitare di fare. Ad esempio,   mai frugare con le mani  tra le felci, vicino ai sassi, senza prima essersi accertati che non vi fosse pericolo. Gli era parso di vedere un fungo e, allungata la mano, la ritirò di scatto, dolorante. La vipera l’aveva “tassato”.. “ L’ho sentito gridare e sono volato lì come un falchetto. La pelle nel punto della morsicatura era già rigonfia, arrossata, con chiazze bluastre. Non mi sono fatto pregare. L’ho fatto distendere e con il mio coltello ho inciso la ferita, succhiando e sputando via il veleno. Con la cintura dei pantaloni gli ho stretto il braccio una ventina di centimetri sopra il segno del morso e l’ho caricato in spalla. Per fortuna non eravamo distanti dalla cava. Con il  fuoristrada di uno degli addetti a far brillare le mine necessarie a staccare le lastre di granito, siamo andati al pronto soccorso a Pallanza dove l’hanno curato. E v’assicuro che da quella volta gira sempre con il bastone e prima di metter giù le mani , fruga dappertutto con quello. Cosa volete, il morso della vipera gli ha messo una fifa addosso che non vi dico”. E concludeva i suoi racconti ricordando a chi l’ascoltava che lui, raramente, aveva ammazzato una biscia perché – in fondo – quegli esseri – un po’ come tutti gli animali – “non erano certo peggio degli uomini”.

Marco Travaglini

Amelia e le tristi letture

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Amelia aveva circa quarant’anni ma ne dimostrava almeno venti di più. Colpa dei capelli incanutiti precocemente e della schiena curvata dalla fatica del lavoro nel cotonificio.

Quanta strada aveva fatto su e giù nei reparti dello stabilimento, tra le spole dei telai  e  le balle di cotone. Non si era certo risparmiata in quel duro lavoro ma nemmeno aveva avuto alternative perché doveva pur guadagnarsi da vivere dopo essere rimasta orfana di entrambi i genitori. Quel pane amaro, con la fatica e il sudore della fronte come companatico, se lo era guadagnato per intero, dal giorno in cui aveva compiuto undici anni, varcando il cancello dello stabilimento. Le donne nel cotonificio lavoravano tanto e guadagnavano poco. Tutti i giorni, dal lunedì al sabato, dalle 7,30 alle 12,00 e dalle 13,30 alle 18,00. Nei mesi freddi dell’inverno entravano che era ancora scuro e uscivano quando ormai era calato il buio. A quel tempo anche le biciclette erano una rarità e molte, come Amelia, abitavano lontano e dovevano compiere lunghi tragitti a piedi, calzando gli zoccoli in tutte le stagioni e con ogni tempo. C’era chi lo chiamava “il calvario delle femmine” e non c’era in quella definizione nulla d’esagerato. La puntualità e la precisione erano fondamentali. A chi tardava anche di pochi minuti  veniva tolta un’ora di salario e se veniva compiuto un errore sul lavoro si era costretti a pagare una multa che veniva detratta dalla paga. Anche Amelia aveva iniziato, come tutte, dalle mansioni più semplici. Lei e le altre ragazzine erano state ausiliarie, attaccafili e spolatrici e poi, dopo un rapidissimo apprendistato, messe al telaio. Si era fatta donna in fabbrica, contribuendo con il proprio lavoro  al sostentamento della famiglia della zia Carla. Aveva fatto i conti con quella dura realtà subendo torti e soprusi, ingoiando rospi in silenzio ma mai  aveva perso l’allegria e l’ironia ereditate dalla sua povera mamma. Nel tempo aveva ottenuto la qualifica di maestra e con quella la responsabilità di insegnare il lavoro alle altre, verificando che non commettessero errori, rispettando tempi e ritmi nell’opificio. Cercava sempre di essere di manica larga, raramente alzava la voce e aiutava le ragazze a trarsi d’impaccio quand’era necessario. Anche per questo era ben voluta e ascoltata. A volte prendeva in giro le più giovani e, in fondo anche se stessa, raccontando una storia di grande dolore e affanno. “Care ragazze, ogni sera apro un libro che mi è molto caro e ogni pagina che leggo mi strappa lacrime e sospiri”. Le ragazze , incuriosite, si stringevano attorno a lei in un capannello. E si chiedevano quale mai fosse questo libro che squassava il cuore della signora Amelia che era una donna fatta e non era certo nell’età dei facili turbamenti. Che storie vi si narravano? Imbrogli amorosi? Intrighi, sotterfugi, indicibili trame che provocavano inconfessabili pensieri? E chi erano gli autori? Era la letteratura rosa di Liala o  l’umorismo un po’ osé di Pitigrilli? O si trattava forse di un racconto di Carolina Invernizio? Amelia lasciava che la loro fantasia corresse, che sognassero a occhi aperti. Cosa costava immaginare d’essere protagoniste di quelle storie dove le eroine erano sempre povere e romantiche, a volte coraggiose e decise, ben disposte a credere nei grandi amori anche se spesso celavano cocenti delusioni che lasciavano i cuore infranti? Non era un peccato regalare speranze, e a volte illusioni, a gente semplice che aveva bisogno di sognare per dimenticare per un istante la dura realtà di tutti i giorni. Ma poi, per non tirarla troppo per le lunghe, svelava il mistero. Quel libro s’intitolava “Lina Curletti,alimentari e affini”. Negli anni che precedettero la guerra anche Amelia, come tante,  faceva la spesa con il libretto. Tanto le serviva e tanto comprava, ben attenta a non fare un passo che fosse più lungo della gamba.La signora Lina,proprietaria dell’emporio dove si trovava un po’ di tutto, dal cibo al sapone, dalle scope di saggina alle candele, segnava gli acquisti e le relative cifre sulle pagine a righe del quadernetto con la copertina nera dove, nell’unico rettangolino bianco, erano scritti il nome e cognome del proprietario e quello del negoziante. Nel suo caso, con una calligrafia chiara e pulita, si leggeva in inchiostro blu il suo come e cognome – Amelia Donati – accanto a quello della Curletti. Fare la spesa con il libretto era un sistema di pagamento posticipato a fine mese, quando arrivava lo stipendio.Si “segnava” sulle pagine l’importo della spesa,generalmente sostenuto presso l’unico esercizio commerciale del paese. Era un credito che il negoziante faceva al cliente sulla fiducia, riempiendo di cifre e parole le righe,giorno dopo giorno. La sua lettura rappresentava un richiamo costante alla realtà e alla consapevolezza che spesso i denari erano scarsi e mancava “il due per far tre” nelle povere tasche di chi viveva del proprio lavoro. Per questa ragione i sospiri e lacrime erano ben più sentiti di quelli che poteva suscitare un romanzo d’appendice. E le risate delle ragazze, di fronte a questa storia, tradirono un po’ di quell’amaro che la vita riserva ogni giorno a chi deve con fatica mettere insieme il pranzo con la cena. E Amelia offrì alcune delle caramelle “Rossana” che portava in tasca per “donare quell’ attimo di dolcezza” che almeno per un istante scacciasse via quella nota di malinconica tristezza.

 

Marco Travaglini

(Foto di Aplasia Wikipedia)

Giacomo e la briscola chiamata

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Quando il cielo lacrimava e sul lago soffiava quell’arietta fresca che intirizziva, la passeggiata sul lungolago verso la Villa Branca finiva immancabilmente davanti alla porta dell’amico Giacomo dove ci attendevano le sfida a briscola e tresette

 

Giacomo Verdi, detto “balengo” perché amava spingere la sua barca a remi tra le onde del lago in tempesta, infischiandosene dei rischi, da un bel po’ di tempo era costretto a stare in casa. Un brutta sciatalgia e i reumatismi rimediati  nel far la spola tra le due sponde del lago e le isole, gli impedivano di stare troppo in piedi. E allora, con la scusa di andarlo a trovare, ingaggiavamo delle tremende sfide all’ultima mano. “ Ah, amici miei, sapeste che rottura di balle dover star qui recluso. Per uno come me che non trovava mai terraferma e che fin da piccolo stava con la faccia contro vento, star qui costretto tra seggiola e divano, tra poltrona e letto, è proprio una gran brutta cosa. Quelle volte che non sento il cambio del tempo e riesco a metter il naso fuori dall’uscio, è una tal festa che non mi potete credere. Guardate, è come se fosse un Natale o una Pasqua fuori stagione. Ah, è talmente bello che mi sento un re”. Ogni volta, prima di tirar fuori il mazzo delle carte dal cassetto, Giacomo –  quasi stesse sgranando un rosario – ci faceva partecipi delle sue lamentele. Ma bastavano due o tre smazzate per sparigliare tutto e come d’incanto si dimenticava di acciacchi e malanni. Faceva smorfie, imprecava, sbatteva le carte sul tavolo. Non nascondeva l’ira o la gioia, a seconda di come gli “giravano” le carte, ma era un’altra persona. Amava quei giochi, vantandosi di essere un grande esperto. A volte ci teneva delle vere e proprie lezioni. “ Vedete, il mazzo con cui stiamo giocando è composto da 40 carte di 4 diversi semi. Ma c’è una grande varietà stilistica nel disegno.

In alcune regioni sono diffuse le carte di stile italiano o spagnolo, con i semi di bastoni, coppe, denari e spade e con le figure del fante, del cavallo e del re. In altre si usano le carte con i semi francesi .Sono cuori, quadri, fiori e picche, con le figure del fante, della donna e del re.Ecco, sono proprio queste che stiamo usando per la nostra partita”. Parlava come un libro stampato, in un italiano corretto e persino raffinato. “Fate attenzione a queste.Sono carte bergamasche, tipicamente nordiche.Hanno caratteristiche in comune con le figure dei tarocchi lombardi. L’asso di coppe si ispira alle insegne della famiglia Sforza”. Era capace di andar avanti così per un bel po’ se non cambiavamo discorso. E allora ci raccontava delle sue avventure, partendo sempre da quella volta che aveva portato sull’isolino una contessa ( omettendo di dire chi fosse, precisando “sapete,io sono una persona discreta e non mi piace far nomi” ) che per tutto il tragitto continuò a fargli l’occhiolino. Immaginando una qualche complicità e una sorta d’invito, appena toccato terra, tentò di abbracciarla e baciarla, guadagnandosi una sberla tremenda. “Madonna, che botta mi ha dato! Cinque dita cinque, in faccia, secche come un chiodo. Ero diventato rosso come un tumatis, un pomodoro, restando lì a bocca aperta, come un baccalà”. “ Ah, cari miei, se beccavo quel maledetto Luigino dell’Osteria dei Quattro Cantoni lo facevo nero come il carbone”. Quella storia l’aveva raccontata un infinità di volte ma, per non contraddirlo, ci fingevamo interessati e lo incalzavamo con le solite domande (“Come mai,Giacomo? Cosa c’entrava Luigino?”). E lui s’infervorava. “Cosa c’entrava, quella carogna? Cosa c’entrava? C’entrava che se l’avevo tra le mani gli davo un bel ripassoLo pettinavo per bene quel mascalzone. Mi aveva assicurato che la contessa era una che ci stava, che gli piacevano i barcaioli. Mi disse che se gli fossi piaciuto mi avrebbe fatto l’occhiolino. E me l’aveva fatto, porco boia; altro che se me l’aveva fatto. Ma era per via di un tic nervoso. Altro che starci. Sembrava una iena. E quel saltafossi lo sapeva, capite? Lo sapeva e mi ha tirato uno scherzo”. Sbollita la rabbia per quella brutta figura che ormai faceva parte dei ricordi, ricominciava a giocare, picchiando le carte sul tavolo come se quello fosse la testa pelata di Luigino. Giacomo abitava in una casa che dava su via Domo. Dalla parrocchiale , dove c’è Largo Locatelli, si scendeva verso l’abitazione per una viuzza stretta, tortuosa, lastricata a boccette che finiva nella piazzetta.

Lì, al numero 12, in una casa piuttosto bassa, coperta da un tetto di piode, stava il Verdi. Quasi in faccia alla cappelletta che ,si diceva, fosse stata eretta come ex-voto per la liberazione dalla peste. Sotto l’arco s’intravedevano ancora gli affreschi raffiguranti la Madonna con il Bambino e ben due coppie di santi : Giuseppe e Defendente, da una parte;Gervaso e Protaso, dall’altra. Era lì che la povera Marietta posava il cero nei giorni in cui suo marito, quel matto di Giacomo, metteva la barca in acqua incurante del “maggiore” che spazzava le onde, gonfiando minacciosamente il lago. Ora che Marietta era  passata a miglior vita era Giacomo – ormai prigioniero a terra per via dei malanni – a dare qualche soldo a Cecilio, il sacrestano, perché non si perdesse quell’abitudine che – diceva, sospirando – “ in fondo, mi ha sempre portato bene”. Ecco, le giornate più uggiose le passavamo in casa di Giacomo, in uno dei rioni più antichi di Baveno.Lì c’è ,ancora adesso, la “Casa Morandi”, un edificio settecentesco di quattro piani, con scale esterne e ballatoi. È forse l’angolo più apprezzato dai pittori e dai fotografi di tutta la cittadina. Sono in tanti, in Italia e all’estero, a tenere sulle pareti del salotto un acquerello, una china o più semplicemente una foto incorniciata della casa Morandi. Segno inequivocabile che da lì è passata un sacco di gente ,portando con sé la storia, quella vera, quella che si legge sui libri. E magari incrociando le carte con Giacomo.

Marco Travaglini

La gazza e il Natale a cucù

L’inverno non era ancora neve ma nell’aria si avvertiva da giorni la sua presenza. Da nord soffiava vigoroso un vento freddo e le nuvole, nel cielo ingrigito, si rincorrevano veloci. I boschi del Mottarone erano silenziosi. Solo qualche passero infreddolito cinguettava senza molta convinzione. Solo Mirella svolazzava tra i rami del vecchio albero sul piazzale della stazione ferroviaria. Saltellava sulle zampe come un’anima in pena.

Mirella era una gazza bella e furba. Bella, poiché possedeva un piumaggio iridescente che la rendeva del tutto particolare, come solo gli uccelli eleganti sanno di poter essere. A prima vista appariva bianconera ma, a seconda della luce, s’intravedevano nel piumaggio riflessi color verde metallico e grigio perla. Ne era consapevole e lo faceva pesare agli altri uccelli durante il volo, quando alternava veloci battiti d’ala a lunghe planate, inarcando il becco con aria altezzosa.

Anche quand’era a terra camminava e saltellava impettita, tenendo la coda sollevata. Si credeva molto furba e scaltra, abituata com’era a turlupinare il prossimo. In quanto gazza si distingueva dagli altri uccelli per un piccolo particolare: subiva il fascino degli oggetti luccicanti, era attratta da quelli particolarmente colorati che adorava rubare e nascondere. “Comunque”, teneva a precisare con gli altri pennuti, “andiamoci piano con le offese: io non sono una ladra. Diciamo che ho la tendenza ad appropriarmi delle cose belle anche se non sono mie. Ma non è un difetto, semmai una qualità. Mi piace il bello e di fronte al bello non resisto. Suvvia, e che sarà mai?“. Mirella andava presa così com’era. Si riteneva, nonostante il difettuccio, una gazza senza aggettivo. E pretendeva di esser chiamata esclusivamente con il nome proprio. Visto e considerato che, pur negandone l’evidenza, un po ladra lo era nei fatti, aveva accumulato un bel bottino nel nido che si era ricavata tra le travi del solaio della signora Brigida, l’anziana proprietaria della locanda del Lago. Lì, nel fitto intreccio di ramoscelli, brillavano gli oggetti racimolati durante le sue scorribande. Un bottone dorato, una spilla di latta, una fibbia argentata, alcuni tappi di metallo a corona, una moneta da cinquecento lire di quelle vecchie, con incise le tre Caravelle, il cappuccio di una stilografica. Tutte cose luccicanti e quindi di valore. Ma da un po’ di tempo Mirella aveva messo gli occhi sull’orologio del capostazione. Amleto Ballanzoni era un omone sulla sessantina, con il volto incorniciato da una folta barba bianca. I bambini, per questo, l’avevano ribattezzato Babbo Natale. D’indole buona, sorridente e pacioso, non se l’era mai presa. Anzi: la somiglianza con il caro e simpatico vecchietto gli garbava, strappandogli un sorriso. Da una trentina d’anni dirigeva con fischietto e paletta la stazione ferroviaria di Baveno, sulla linea Milano-Domodossola. Un tempo era una fermata importante, ora un po meno, ma il signor Amleto, con in testa il suo berretto da capostazione di prima classe in panno rosso e galloni dorati, non si scomponeva.

Il dovere era sempre il dovere. “I treni devono viaggiare in orario”, affermava compito scrutando orgoglioso il suo Perseo meccanico, a carica manuale, con la lucida locomotiva turca disegnata sulla cassa. Quest’orologio da tasca, fissato al panciotto con una catena d’argento, era il tratto distintivo del ferroviere, quasi un segno del comando. L’orologio assumeva un’importanza vitale e serviva a garantire l’assoluta precisione nel calcolo per regolare il traffico su rotaia. Tutto dipendeva dal tempo: tabelle, orari, coincidenze, scambi. E la sincronizzazione degli orologi era indispensabile. Quello in possesso di Amleto non è un orologio comune ma un modello costruito appositamente per le Ferrovie dello Stato e quindi era “l’Orologio”, quello con la “o” maiuscola. Preciso, infallibile, perfettamente funzionante. “L’orologio per noi è un po’ come l’Arma dei Carabinieri: nei secoli fedele”, sentenziava al bancone del Circolo Operaio il Ballanzoni, lisciandosi la barba. Magari non durava proprio dei secoli ma qualche decennio sì. E il suo Perseo era lì, testimone muto ma preciso, a confermarlo. Il destino del ferroviere e quello del suo orologio erano talmente indissolubili che, di norma, andavano in pensione insieme. Deposto il berretto e riconsegnati fischietto e paletta, l’orologio rimaneva di proprietà, quasi fosse una medaglia, un distintivo, un segno di riconoscimento per chi aveva fatto parte della grande famiglia dei ferrovieri. Proprio a quell’orologio mirava la gazza ladra. Per Mirella rappresentava l’oggetto del desiderio. Un lucente e ticchettante trofeo da aggiungere alla sua collezione, il pezzo più pregiato, la “chicca” della quale potersi vantare a destra e manca. Iniziò a svolazzare con aria indolente attorno alla stazione. Un battito d’ali così svagato non avrebbe destato i sospetti del capostazione che, tra l’altro, non pareva avere (così almeno pensava Mirella) grandi conoscenze in fatto di uccelli e quindi particolare timore nell’avvistare nei dintorni il volteggiare di una gazza. Così, in quei giorni che anticipavano l’avvio delle feste di fine anno, proprio mentre iniziò a nevicare, accadde il fatto più inatteso e terribile che l’Amleto Ballanzoni si sarebbe mai immaginato di vivere: il furto dell’orologio.

La cappa grigia del cielo si era rotta e la neve precipitava lieve, a larghe falde. Si rinnovava la magia che nasceva in ogni persona, bambini e adulti; una magia speciale, antica. I più piccoli giravano su se stessi con  le facce rivolte al cielo e le bocche aperte; ogni fiocco che si depositava  sulle lingue aveva un sapore particolare, emettendo una specie di lieve crepitio. Era uno dei suoni dell’infanzia, uno dei ricordi di attesa felice che non avrebbero mai dimenticato. Il capostazione era uscito a guardare il cielo e bastò un attimo di disattenzione, uno sguardo appena distolto dal prezioso oggetto che aveva momentaneamente appoggiato sulla scrivania dell’ufficio, dopo averlo staccato dalla catenella per lucidarlo. L’orologio sparì come d’incanto. Il disperato capostazione, non trovandolo al rientro in ufficio, frugò dappertutto in un crescendo di agitazione e sconforto. Niente. Il suo Perseo non c’era più. Era pur vero che aveva lasciato la porta aperta ma, Buon Dio, era  successo tutto così in fretta che non riusciva a farsene una ragione. Chi poteva essere stato? Il perché lo intuiva: era un signor orologio che poteva senz’altro far gola a qualche malintenzionato. Ma, nonostante si sforzasse di pensare chi potesse essere il colpevole, l’identità del ladro rimaneva un mistero. Si trattava di un furto con destrezza, senz’ombra di dubbio. Come se l’orologio si fosse volatilizzato. Non immaginava il pover’uomo di aver fatto centro con quella definizione. Sì, perché proprio su di un volatile andava concentrata l’attenzione e la conseguente ricerca della refurtiva. Amleto Ballanzoni, però, non s’intendeva per nulla d’uccelli. Sapeva distinguere un passero da un’aquila solo per le dimensioni. Era a conoscenza di tutto quanto concerneva il mondo delle rotaie ma di ornitologia capiva poco o nulla. Non sapendo distinguere un tordo da un merlo, una beccaccia da una poiana, immaginarsi cosa può sapere delle gazze e di quel loro vizietto. Così Mirella impreziosì la sua collezione e per un paio di giorni se ne stette buona a rimirare i suoi trofei senza sentire l’impellente bisogno di dedicarsi al furto, alla rapina, all’altrui alleggerimento. Al capostazione, con il morale a terra, non restò che arrangiarsi in qualche modo. Nell’attesa di comprarsi un orologio nuovo, pur con la consapevolezza che come il suo Perseo non ce ne sarebbe stato più di eguale, recuperò dalla soffitta il vecchio pendolo a cucù.Era un ricordo della zia Ermelinda che, a  sua volta, l’aveva ereditato dal signor Giustinetti, un impiegato alle poste svizzere di Martigny che d’estate e per molto tempo soggiornò in una camera d’affitto sul lago Maggiore.

Per ringraziare la zia delle gentilezze e di un certo qual affetto che la gentildonna aveva in qualche misura corrisposto, lasciò come pegno d’amicizia il simbolo più indicativo del tempo per uno svizzero: un orologio. Nella fattispecie, quell’orologio a cucù. L’oggetto, seppur impolverato e con la superficie tormentata da qualche scalfittura, manteneva un invidiabile funzionamento. Il meccanismo era in buono stato ma il merito del suo pieno recupero fu di Amleto che, con passione e curiosità, si dilettava a smontare e rimontare tutti i meccanismi che gli capitavano tra le mani. Si trattava di un pezzo veramente raro della produzione tedesca di orologi a cucù di fine ‘800 e doveva avere anche un discreto valore economico. Il frontale riproduceva, stilizzandola, una tipica stazione ferroviaria dell’epoca, in foggia neogotica. “Quasi un segno del destino”, commentò l’omone, piacevolmente sorpreso dalla scoperta. Il cucù se lo ricordava vagamente e vederlo ora come riproduzione del suo ambiente di lavoro e di vita gli fece momentaneamente passare  il magone per il furto subito. Il movimento, revisionato e sincronizzato, consentiva allo scoccare delle ore l’apertura di uno sportello dal quale usciva un uccellino che eseguiva un intonato canto del cuculo. Il piccolo volatile canterino sembra quasi vero. “Non è la mia cipolla”, borbottò Amleto, “ma non è neanche poi male e, in fondo, tiene bene il tempo che poi è giusto il mestiere che deve fare”. Così, in quei giorni che precedevano il Natale il pendolo a cucù prese servizio. La cosa non passò inosservata nemmeno a Mirella che, terminata la fase contemplativa, aveva ripreso i suoi giri. Al canto del cuculo si era precipitata a curiosare dalla finestra dell’ufficio della stazione. Ciò che vide la lasciò interdetta, con il becco spalancato. “Mamma mia, che fusto! Che melodia, che ugola intonata”, disse tra se, incantata davanti alla visione dell’uccelletto di legno che faceva capolino dal pendolo al battere dell’ora. Mirella ebbe un tuffo al cuore. Avvertì il fascino irresistibile del maschio canterino e, turbata, guardandolo con occhio languido, se ne innamorò così, su due zampe. Il classico colpo di fulmine, “le coupe de foudre”, come dicono gli svizzeri tra Losanna e Ginevra. Roba da rimarci stecchita, dimenticando d’essere ladra e immaginandosi stretta in un abbraccio a cinguettare appassionatamente con quell’esempio superbo di germanico volatile. Come fare ad attirarne l’attenzione? Come farsi vedere e trasmettere il piacevolissimo brivido che le intirizziva le piume? Aspettò rapita per ore, alternandosi in volo tra il davanzale della finestra e l’albero del piazzale della stazione. Ogni tanto il cuculo faceva la sua comparsa, cantava e poi si ritirava dietro l’anta di legno. Non pareva interessato alla presenza di Mirella. Quasi non l’avvertisse. La gazza era incredula.

Ma come? Non avverte, quel pennuto, il mio fascino? Non incrocia mai il mio sguardo. Anzi, mi pare che tenga sempre gli occhi fissi davanti a se… E quel suo rimanere lì, impettito come uno stoccafisso? E’ una mia idea o quello se la tira un po? “. Mirella, come tutte le gazze, era caratteriale, piuttosto scontrosa, scorbutica. Ma il fascino esercitato da quell’uccelletto del cucù era troppo forte e lei, nonostante tutto l’orgoglio, non poteva (e non voleva) resistergli. “Che sia sensibile ai regali?”, pensò Mirella. Forse subiva anche lui l’attrazione degli oggetti lucenti. Chissà che quell’uccello, forse per timidezza, non avendo il coraggio di volar via da quella strana casetta, non avesse bisogno di qualche incoraggiamento? Mirella volò al suo nido e, preso un bottone dorato, lo posò sulla mensola a fianco del pendolo a cucù. Allo scoccare dell’ora, puntualmente, l’uccelletto fece capolino cantando e, senza rivolgere lo sguardo né a destra né a sinistra, ritornò dietro l’uscio. Forse il bottone era poca e misera cosa, pensò la gazza, e poco per volta si privò di tutto il suo patrimonio, accumulato di furto in furto. Cedette anche il pezzo più pregiato: l’orologio sottratto al capostazione mettendo a segno il colpo più bello della sua vita. Era innamorata persa, la povera Mirella. Innamorata senza speranza, ignara del fatto che l’uccello di legno dell’orologio a cucù non poteva  corrisponderle l’affetto essendo un finto volatile, tutto legno e senza cuore. Così, dopo tutto quel gran darsi da fare senza ottenere in cambio nemmeno uno sguardo, con il cuore gonfio di amarezza, la gazza fece per riprendersi le sue cose ma, colmo della disperazione, oltre al bottone, ai tappi e alla spilla non trovò più l’orologio. Amleto Ballanzoni l’aveva visto sulla mensola e, incredulo, si era dato una gran manata in fronte: “Eccolo lì, il mio Perseo! Vecchio balordo, cominci a perdere i colpi! L’avevo davanti agli occhi e non riuscivo a vederlo da tanto ch’ero agitato. Meno male, va… D’ora in poi starò più attento a dove metto le cose”. Il capostazione, recuperato il prezioso orologio, decise di lasciare al suo posto anche il pendolo a cucù. Ormai faceva parte dell’arredamento. Funzionava bene e, per di più, era perfettamente in integrato con l’ambiente della stazione ferroviaria. L’unica modifica che Amleto decise di introdurre riguardava quel fastidioso cuculo che cantava, monotono, ogni ora. L’eliminazione avvenne senza troppe storie. Bastò spegnere il meccanismo della suoneria con l’apposita levetta e l’uccello restò, segregato e silenzioso, dentro la sua casetta trasformatasi in prigione. Mirella, ormai disperata, vedendo quella porticina sempre chiusa, decise di andarsene via, il più lontano possibile da quell’odioso uccello pieno di boria che chissà poi chi si credeva di essere. Volò via verso Loita dove conobbe, proprio la vigilia di Natale, una gazza maschio. Tra i due scoccò l’amore e di comune intesa, rastrellando oggetti in quattro e quattr’otto, abbellirono la loro dimora nel bosco che saliva verso Campino. Amleto Ballanzoni, intanto, fischiando e agitando la paletta all’arrivo e alla partenza dei treni nella sua stazione, con il berretto rosso in testa e l’orologio ben saldo alla catenella del panciotto, salutava i bambini che si sporgevano dai finestrini dei convogli gridando “E’ Babbo Natale! E’ Babbo Natale!”. L’uccelletto di legno riposò nella penombra della sua dimora in attesa di tornare a cantare allo scoccare di ogni ora. Può darsi che accadrà presto ma noi non lo sappiamo. Forse è anche già accaduto ma questa è un’altra storia.

Marco Travaglini

L’ultima coda dell’Orsa Minore

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Giacinto, maestro elementare in un paese del Canavese, raggiunta la meritata pensione, si è dedicato anima e corpo alla sua grande passione: osservare il cielo.

Impegnando il denaro della liquidazione e buona parte dei risparmi ha ristrutturato la cascina ereditata da una vecchia zia aprendo sul tetto del casale un lucernario dal quale poteva guardare la volta celeste con il telescopio che aveva acquistato.  Giacinto, rapito dai misteri del cosmo, trascorreva  intere nottate con l’occhio incollato a quel potente cannocchiale scrutando stelle, pianeti e galassie. Alle lamentele della moglie prestava poca attenzione. La povera donna, sconsolata, lo rimproverava:“Dovevi sposarti con quell’affare lì, testa dura. Sei quasi sempre con lo sguardo perso in cielo, appollaiato in solaio come un vecchio gufo”. Da quell’angolo del sottotetto, trasformato in ufficio con una vecchia scrivania sulla quale accatastava alla rinfusa mappe e carte di ogni genere, puntava il suo potente terzo occhio e navigava, con sguardo e fantasia, disegnando orbite e viaggi interstellari. Chi andava a fargli visita veniva immediatamente accompagnato nel suo rifugio dove Giacinto, con l’entusiasmo di un bambino, tentava di  introdurlo nel mondo dell’astronomia. Aprendo un quaderno zeppo di appunti, schizzi, calcoli e considerazioni, iniziava la lezione con lo stesso impegno e l’egual passione degli anni passati dietro alla cattedra alle elementari. “Vediamo un poco”, esordiva. “L’Orsa Maggiore la conoscono tutti. E’ la costellazione più famosa, nota anche come Grande Carro per la forma caratteristica della sua parte principale, che ricorda appunto un carro. Se stai attento, non fai fatica a riconoscere quattro stelle, disposte agli angoli di un rettangolo, che ne costituiscono il corpo e altre tre disposte in curva che formano il timone”. Infatti, le sette stelle sono abbastanza visibili da risaltare anche nelle notti meno indicate per osservare il cielo. Dalla collina più alta del paese, tra i filari delle vigne che producevano il miglior Erbaluce, una sera verso mezzanotte, usciti dall’osteria in compagnia di Giacinto, nonostante la vista un po’ appannata per le libagioni intravvedemmo quelle stelle disegnare l’inconfondibile quadrilatero con la barra: il Gran Carro celeste.

Il maestro fece notare come, partendo  da quel punto, si potevano rintracciare tutte le altre unendo con una linea immaginaria le due stelle posteriori e prolungandola per cinque volte fino a raggiungere la stella Polare, l’ultima della coda dell’Orsa Minorecioè del Piccolo Carro, che indica la direzione del nord. “Vedete, vi sarà sufficiente il suo riconoscimento e l’osservazione diretta per individuare il punto cardinale. Siccome le stelle che formano l’Orsa Minore non sono molto luminose, quella Polare di fatica a  identificarla  direttamente. Ecco perché il suo riconoscimento è possibile grazie agli allineamenti di due costellazioni facili da individuare in cielo: l’Orsa Maggiore e Cassiopea. Anche la costellazione di Orione ci può dare un allineamento verso la Polare, però alle nostre latitudini s’intravvede solo dall’autunno all’inizio della primavera”. Appassionato della materia, Giacinto punta l’indice verso stelle e costellazioni, come se il cielo fosse una grande lavagna d’ardesia. “Guardate lì. Seguendo la diagonale del carro nella direzione opposta al timone, arriviamo ai Gemelli. Viceversa dal bordo da cui parte il timone e proseguendo sempre allontanandoci da quest’ultimo, raggiungiamo l’Auriga. Opposta all’Orsa Maggiore, rispetto alla Polare, troviamo Cassiopea, le cui stelle disegnano una doppia “v” un po’ irregolare. E quella linea curva che prolunga il timone? Ci conduce dritti ad Arturo, la stella più brillante del Bifolco”. Il suo più grande amore dopo Rosalinda, la moglie, è sempre stata la luna. La guarda con occhi languidi, seguendone rapito tutte le fasi, sospirando. “Sapete che la luna non ha luce propria ma la riceve dal sole? A seconda della posizione che assume rispetto al sole e alla terra, ci appare completamente o parzialmente in cielo. Come il sole anche lei sorge a oriente e tramonta a occidente. Le fasi lunari sono uno spettacolo. Lo sapevate che la luna sorge e tramonta in orari differenti a seconda della fase?” No, non lo sapevamo. “ Ebbene, è proprio così. Ogni fase dura poco più di sette giorni e tutte le fasi costituiscono il mese lunare che dura ventinove giorni, dodici ore, quarantaquattro minuti e tre secondi ed è il tempo che impiega la luna a ruotare intorno alla terra”. Si agitava, saltellando felice come un bambino di fronte a una nuova scoperta. Si infervorava, dettagliandoci i più piccoli e sconosciuti  particolari. “L’ ultimo quarto si ha quando la luna ha percorso duecentosettanta gradi della sua orbita, per cui si presenta di nuovo come un semicerchio ma con la convessità rivolta verso oriente, lasciando vedere la sua forma a “C”, come la “ci” di casa”. Ride contento e recita proverbi: “Gobba a levante, luna calante”. Giunti davanti a casa sua lo salutiamo, prima che salga in fretta le scale per rifugiarsi nel sottotetto, aprendo il lucernario e rimirando la cupola dell’universo.  Rosalinda ci saluta dalla finestra e parlando del marito che ha avviato il suo dialogo con la luna alta in cielo, punta un dito alla tempia e, rigirandolo, sospira: “Abbiate pazienza con il mio Giacinto. E’ un po’ lunatico ma è buono come il pane”. Ci saluta così, la moglie del maestro che intanto, dal solaio, declama con voce ispirata le rime leopardiane del Canto notturno di un pastore errante dell’Asia:”Che fai tu, luna, in ciel? Dimmi, che fai, silenziosa luna? Sorgi la sera, e vai, contemplando i deserti; indi ti posi…”.

Marco Travaglini

Siviglia, il barbiere di cui nessuno ricorda il nome

Il barbiere di Siviglia… ma qual era il suo vero? Quasi nessuno, se si escludevano sua moglie Rosetta e l’anziana madre Enrica, rammentava il suo vero nomeCon il rasoio era un artista. Aveva la mano e l’idea per sfumature, tagli e colpi di pettine; tra lui e quei suoi colleghi che si limitavano al “taglio a scodella” c’era un abisso. 

Tullio, che per esteso faceva Tullio Gianni Marinetti era stato ribattezzato Siviglia perché fischiettava sempre la sua gioia di vivere, come il Figaro del Barbiere di Siviglia. Così, omaggiando o oltraggiando Gioacchino Rossini, s’era guadagnato l’appellativo sul campo. La bottega di Siviglia era composta da una sola stanza che dava sulla piazza del paese. L’arredamento era modesto, essenziale. Un canapè di legno impagliato, una poltrona in legno con il poggiatesta, uno specchio a muro ovale posto di fronte alla poltrona sovrastava una mensola su cui teneva gli strumenti. I suoi ferri del mestiere erano quelli tradizionali: il rasoio a lama fissa, che ogni quattro o cinque mesi faceva arrotare dall’Asdrubale, un arrotino che girava per i paesi a fare il filo alle lame; una piccola cote dalla superficie levigata su cui versava una goccia d’olio e passava la lama per completarne l’affilatura; la coramella di cuoio, appesa al chiodo, su cui faceva scorrere la lama per ravvivarne il filo; le macchinette tosatrici per i capelli, di grosso e di fino; una catinella d’acqua dotata di un apposito incavo per essere appoggiata al collo, utile a sciacquare il viso al cliente. A differenza del suo aiutanteTullio non amava rapare i clienti. Il taglio a zero era riservato solo a coloro ne facessero specifica richiesta o ai bambini infestati dai pidocchi.

Per tutti gli altri c’era la moda a dettare il taglio: c’era chi preferiva quello all’Umberta, in analogia alla foggia dei capelli di Umberto II° di Savoia ( che poi non era altro del più comune taglio a spazzola ); chi voleva la riga da parte e chi invece la riga in mezzo o un taglio più trasgressivo come quello alla Mascagni. Eseguiva il suo lavoro con scrupolo e passione, attento a non sprecare nulla. Non risparmiava, invece, sulla brillantina. Questa sostanza miracolosa, inventata nel 1928 in Inghilterra, composta da un mix di acqua, oli minerali e cera vergine, veniva spalmata voluttuosamente sulle teste dei suoi clienti. Guai se avesse avuto fra le mani l’americana Brylcreem, quella usata da attori come Humphrey Bogart, Tyrone Power e Fred Astaire: con quella avrebbe frizionato persino le crape pelate. Per le feste di fine anno fu tra i primi a regalare agli amici più affezionati  i calendarietti da tasca profumati. Erano piccoli almanacchi con disegni osé ( per l’epoca) che venivano nascosti nei portafogli per essere poi furtivamente consultati e annusati, quasi fosse quello il profumo del peccato. Insieme a lui lavorava Enea Balzelli – conosciuto come stropacavì – con il compito di servire i clienti che non potevano – per diverse ragioni – frequentare la barberia. Era un barbiere itinerante, lavorava a domicilio e sulla bicicletta trasportava tutti gli attrezzi. Non aveva un granché da portarsi appresso. Il suo corredo, ridotto all’essenziale e infilato nella bisaccia a tracolla, era costituito da un rasoio, un pettine, una vecchia macchinetta per tosare, un paio di forbici, un pennello e una tazza dove scioglieva qualche scaglia di marsiglia  per insaponare il mento e le gote dei clienti. Come arrivava a casa di chi aveva richiesto i suoi servigi, cercava una sedia ed invitava il cliente a sedersi nel caso dovesse farsi radere, oppure lo faceva mettere a cavalcioni della stessa per il taglio dei capelli. Era un vero professionista della rasatura e per fare la saponata versava l’acqua da un fiasco che portava con se nella bisaccia e con uno straccio bianco che teneva in tasca puliva il rasoio dal sapone e dai peli.

Il problema era che il taglio dei capelli di Enea non conosceva le mezze misure e per questo motivo gli avevano cucito addosso l’appellativo di stropacavì, cioè di strappacapelli. Per lui non esistevano la sfumatura alta né quella bassa: appoggiava la macchinetta alla nuca del malcapitato e, rasentando il cuoio capelluto da dietro in avanti, con poche e rapide mosse lo tosava a zero. Se la sua vittima accennava una pur minima protesta, lo guardava con due occhi che esprimevano tutto il suo disappunto e il cliente se ne stava zitto e muto. A sua discolpa va ricordato che in quell’epoca quasi nessuno aveva l’acqua in casa e spesso le fonti erano ben lontane dalle abitazioni e quindi l’igiene dei capelli, e non solo di quelli, lasciava a desiderare. Era così per gli adulti, figurarsi per le criniere dei bambini dove spesso e volentieri si celavano intere tribù di pidocchi. Dunque, il taglio raso zero e i modi bruschi di Enea potevano essere in qualche modo tollerati se non fosse stato per quella vecchia macchinetta che essendo ormai sdentata non tagliava i capelli ma li strappava.

Quando sotto le sue grinfie capitava un bambino, il barbiere errante lo teneva in piedi, stretto tra le ginocchia; con la mano sinistra gli immobilizzava il volto, lasciando alla destra il compito della rasatura. Una vera tortura, grazie ai denti della macchinetta che mordevano la crapa dell’infante. Non era un caso che i bambini lo temessero come il diavolo teme l’acqua santa. I due, nonostante i caratteri diversi, andavano d’accordo e si dividevano di buon grado il lavoro da fare e i modesti guadagni. In fondo, anche tra i più umili il decoro era un punto d’onore e  i due barbieri contribuirono a mantenerlo con i loro tagli e le rasature. E a chi non poteva permettersi quella seppur modesta spesa Tullio ed Enea concessero un illimitato credito nella speranza che un giorno venisse onorato. In caso contrario, pazienza: non sarebbero diventati più poveri di quanto già non fossero.

(Racconto a cura di)

Marco Travaglini

La regola numero uno…

L’allegra combriccola stava marciando da più di un’ora nel bosco di latifoglie, guidata da Serafino Lungagnoni, in versione vecchio Lupo. Il suo cappellone boero grigio spiccava sui cappellini con visiera verde suddivisi in sei spicchi bordati di giallo, segno distintivo dei lupetti.

Tutti in divisa – camicia azzurra, pantaloncini di velluto blu, calzettoni dello stesso colore, lunghi fino al ginocchio,e l’immancabile fazzoletto al collo – , con passo marziale scandito dalla loro guida,erano ormai in procinto di sbucare sulla radura dove, alta e maestosa, li attendeva la quercia secolare. Albero simbolo del bosco Negri , al confine della Lomellina, all’interno del Parco del Ticino, alle porte di Pavia, era stato scelto dal Lungagnoni perché i ragazzini potessero abbracciarlo. Il buon Serafino era convinto che, abbracciando le piante, si potesse stabilire una forma di comunicazione con il mondo vegetale dal quale trarre giovamento. Il bosco, tra l’altro, era bellissimo: una ventina d’ettari che rappresentavano un ottimo campione della vegetazione che ricopriva gran parte della pianura Padana prima dell’arrivo dei Romani. Non solo alberi d’alto fusto ma anche tanti fiori e arbusti come il Biancospino e il Ciliegio a grappoli, che offrivano spettacolari e profumatissime fioriture all’inizio della primavera. I lupetti del suo Branco, disposti in cerchio attorno alla quercia, cinsero l’albero in un grande e tenero abbraccio, sotto lo sguardo compiaciuto di Lungagnoni che, ad alta voce, rammentava non solo il valore del gesto ma anche le due regole fondamentali del branco: “Il Lupetto pensa agli altri come a se stesso” e “Il Lupetto vive con gioia e lealtà insieme al Branco”. L’educazione dei piccoli era per lui una missione alla quale, nonostante l’età e il fisico corpulento che gli strizzava addosso la divisa,non intendeva rinunciare.

Eh, vorrei vedere. Se non ci fossi io a tenere insieme questi qui, chissà come crescono.. Io mi do da fare, cerco di portarli sempre a contatto con nuove realtà che prima mi visualizzo per conto mio, evitando pericoli e sorprese”. Sì, perché il nostro Vecchio Lupo amava “visualizzare” prima ogni cosa: fosse un percorso, un campetto da calcio, una baita o un ricovero per passarci la notte. “Nulla va lasciato al caso,eh?Cavolo, quando mi ci metto io le cose vanno lisce come l’olio e le mamme sono tutte contente. E’ una bella soddisfazione,no? ”.Così era stato anche in quell’occasione, visitando il bosco Negri. E, terminato il rito dell’abbraccio alla quercia, diede l’ordine perentorio di rimettersi in marcia. “Forza, ragazzi. Dobbiamo arrivare alla fine del bosco entro mezz’ora, poi ancora un’oretta e saremo alla stazione ferroviaria dove, con il locale delle 18,30, si rientra al paese. Sù, avanti, marsch!”. Lungagnoni, sguardo fiero e petto in fuori, dettava il passo senza rinunciare a quelle che lui stesso chiamava “pillole di saggezza scout”. Con voce possente, si mise a declamarle. “ Regola numero uno, guardare bene dove si mettono i piedi. Regola numero due, mai scordarsi della prima regola. E’ chiaro? Basta un attimo di disattenzione e si rischia di finire a terra, lunghi e tirati, o di inciampare e farsi male. Il bosco è pieno di ostacoli quindi, state atten…. “. Non terminò la frase che sparì alla vista del gruppo che precedeva di due o tre metri.

Dov’era finito? I lupetti si fecero avanti con circospezione e lo videro, dolorante e imprecante, sul fondo di una buca che era appena nascosta dalla vegetazione. Non senza fatica, usando la corda che si erano portati appresso ( “ in gite come questa non serve un tubo”, aveva sentenziato,improvvido, Serafino “ ma è sempre bene abituarsi a non dimenticare nulla di ciò che potrebbe, in altri casi, essere utile”), scontando una serie di insuccessi, riuscirono alla fin fine a trarre il vecchio Lupo da quella imbarazzante situazione. Così,ripresa la marcia in silenzio, Lungagnoni– rosso in volto come un peperone maturo – non gradì affatto la vocina che , in fondo al branco, quasi sussurrò “eh, sì. Regola numero uno:guardare bene dove si mettono i piedi”. Nonostante ciò stette zitto, rimuginando tra se e se: “Vacca boia, che sfiga. Mi viene quasi voglia di mandarmi a quel paese da solo, altro che regola numero uno”.

Marco Travaglini

Elvio e Aida, Fred e Ginger di periferia

Elvio e Aida condividevano una tal passione per il ballo tanto da esser protagonisti in tutte le feste che prevedevano musiche e danze.

Lui, impeccabile nel suo abito scuro, con la camicia candida dal colletto inamidato e l’immancabile cravattino nero, era pronto a condurre la sua partner nel vortice del ballo. Lei, orgogliosa del nome impostole dal padre Augusto, melomane che adorava Verdi, portava con leggiadria e innata eleganza anche gli abiti più semplici e nello sguardo gli brillava una luce intensa, colma di passione. Non v’era danza o ritmo che li trovasse impreparati al punto da dover rinunciare a quel travolgente amore che li portava a misurarsi ogni volta con i più audaci passi del loro vastissimo repertorio. Dal liscio romagnolo da balera ai valzer viennesi, dalle veloci polke al sensuale tango argentino, dai ritmi sudamericani di samba e cha cha cha all’americanissimo foxtrot: nulla era precluso alla formidabile coppia. E pur scarseggiando l’abilità in pista non mancava loro il coraggio e la voglia d’essere protagonisti. Non importava quale festa frequentassero, da quelle de L’Unità, dell’Avanti o dell’Amicizia alle sagre paesane del coregone o della cipolla ripiena, dagli appuntamenti delle Pro loco a quelli degli Alpini o ai festeggiamenti in piazza del Santo patrono. Ogni qualvolta vi fosse un orchestra, della musica e una pista da ballo, l’immancabile duo non esitava ad esibirsi in volteggi, passi veloci che s’incrociavano e sguardi assassini che tradivano un sentimento che raramente lasciava indifferenti coloro che li guardavano ballare. Ogni volta Elvio e Aida pensavano che il pubblico li stesse ammirando con qualche punta d’invidia. E pensavano che gli incitamenti e quell’averli paragonati a Ginger e Fred da quelli che li salutavano da bordo pista, fosse un giusto seppure un tantino esagerato riconoscimento alla loro bravura. Non osavano pensare che la somiglianza con la Rogers e  con Astaire riguardasse l’aspetto fisico. Ginger era bionda, bella e snella mentre Aida era bruna, piuttosto robusta e dotata di un naso importante. Elvio pareva un parente stretto dei pali del telegrafo da tanto era magro e allampanato. Per di più era quasi completamente calvo e solo un piccolo e solitario ciuffo di peluria rossiccia spuntava sulla parte posteriore della nuca. Dire che fossero belli era ben più che un azzardo ma erano più che certi che agli occhi del pubblico,  vedendoli ballare, ogni difetto spariva, cancellato dal fascino e dal portamento naturale dei due ballerini che si credevano baciati da Tersicore, la musa della danza nella mitologia greca. Per tanto tempo si esibirono  così, disinvolti e spensierati, incuranti del passar degli anni e degli acciacchi. Non c’era sciatica o artrite che potesse tenerli lontani da ritmi lenti o sincopati. Elvio trascinava nel ballo le sue lunghe gambe, calzando lucide e nere scarpe dalla suola antiscivolo. Aida, abbandonate definitivamente le décolleté con il tacco a causa dei calli e della difficile stabilità, aveva optato per delle Superga bianche, impreziosite da luccicanti brillantini. Che cos’è la bellezza se non una delicata espressione del meglio che possa inquadrare uno sguardo, della leggera ebbrezza che regala un gesto di così rara raffinatezza come può esserlo un volteggio, un caschè, un passo doppio perfettamente eseguito? La loro impressione era che il pubblico li ammirasse, sostenendo con affetto le loro evoluzioni. A parere di Elvio non occorreva essere esperti per intuire un segno d’eleganza in quelle loro movenze dove al notevole gesto atletico si accompagnava l’armonia lieve del talento. In fondo bastava crederci e loro, nel più profondo del cuore, ci credevano eccome. Cosa importava se quella che per i due funamboli del ritmo equivaleva ad una straordinaria prova di classe, al pubblico che frequentava feste e balere pareva più un insieme di impacciati tentativi di giri di danza, poco disinvolti e alquanto malfermi e vacillanti ? Nessuno osò mai avanzare una critica, una seppur minima osservazione, un timido e velato consiglio. Per tutti bastava quel binomio – Elvio e Aida – per perdonare tutto. Il senso della gioia del ballo della coppia faceva sognare anche chi non aveva dimestichezza con danze e melodie. Ma il tempo, com’è noto, è tiranno e così i nostri Ginger e Fred sono diventati troppo anziani per cimentarsi sulle piste delle balere. Ma non rinunciano a frequentare i luoghi che conobbero i loro successi e anche la sola presenza è ricompensata da un caldo applauso. Non è più quello caldo e generoso che sottolineava le loro prestazioni e che la coppia salutava con un inchino e un sorriso, ringraziando gli astanti. E’ diverso, quasi un omaggio alla carriera. L’intensità è sempre quella di un tempo, soprattutto da parte di coloro che hanno i volti incorniciati da argentee o bianche ciocche di capelli. Nei loro sguardi si legge una punta di nostalgia che, ben motivata, non guasta. Elvio e Aida, sorreggendosi uno con l’altra, ringraziano con un cenno delle mani e l’abbozzo di un inchino. Il tempo nella clessidra scorre senza guardare in faccia nessuno ma per i due danzatori ha deciso di fare uno sconto, salvando le loro gesta dall’oblio. E da critiche e rimproveri che comunque non si sarebbero meritati nemmeno ai tempi dei loro “anni ruggenti”.

 

Marco Travaglini