Il 28 luglio 1480 i turchi sbarcano sulle coste del Salento portando morte e distruzione. Una strage senza precedenti, diventata nei secoli leggenda per il valore con cui gli otrantini difesero la loro città. Il 14 agosto ottocento prigionieri furono decapitati. Le loro ossa sono conservate in cattedrale.
Ogni anno, ad agosto, nella Terra d’Otranto torna il tempo del ricordo, della memoria e della rievocazione storica per ricordare la tragica estate del 1480. Dal mare in tempesta spuntarono all’improvviso le vele nere della flotta turca, presagio di imminenti bombardamenti. Le mura di Otranto erano troppo deboli e crollarono sotto i colpi delle bombarde saracene nonostante l’accanita resistenza degli otrantini che impedirono ai nemici una conquista rapida e incruenta. Le scimitarre ottomane fecero strage uccidendo migliaia di persone. A distanza di oltre 500 anni, la Perla del Salento racconta quel che accadde tra luglio e agosto del 1480 e commemora l’eccidio e l’eroismo dei suoi martiri con cerimonie e processioni. Per le vie della cittadina salentina restano ancora oggi le tracce di quel drammatico evento. Le grandi palle di pietra che si vedono nelle viuzze bianche, in salita e in discesa, su e giù per il centro storico, accanto a portoni ed edifici o conservate nel cortile del castello sono proprio quelle che durante l’assedio volarono dalle galee turche e sfondarono le difese di Otranto. Era l’inizio della fine. Alcune vie portano i nomi dei martiri mentre i resti umani di centinaia di otrantini, tra ossa e teschi, furono recuperati e sono ben visibili in cattedrale dall’inizio del Settecento dietro alcune grandi vetrate nella cappella al fondo della navata destra e sotto l’altare si trova il ceppo della decapitazione.
Su un colle, poco sopra la città, una chiesetta votiva indica il luogo dove avvenne l’ultimo massacro con l’esecuzione di centinaia di cittadini. Le secolari torri di avvistamento che ancora si reggono in piedi attorno a Otranto e lungo la penisola salentina ci ricordano che il nemico arrivava spesso dal mare, dall’Adriatico e dai Balcani. L’Albania non è lontana dalle coste pugliesi e in giornate serene e limpide non è difficile scorgere le montagne albanesi o quelle montenegrine. Il crollo delle mura di Costantinopoli sotto il fuoco dei cannoni del sultano spense per sempre la fiamma dell’Impero Romano d’Oriente. La “seconda Roma” era caduta nelle mani di Maometto II il 29 maggio 1453. Ma le ambizioni del giovane sultano, appena ventunenne, guardavano più lontano, puntavano all’Europa, al Vecchio Continente, al cuore della Cristianità. Compiere scorrerie lungo le coste mediterranee e riempire le imbarcazioni di schiavi cristiani non era più sufficiente. Dopo aver preso la Roma d’Oriente era giunto il momento di piantare le bandiere verdi dell’Islam nei Balcani e da qui partire per avvicinarsi a Roma. È in questo scenario che il Conquistatore prepara dall’Albania lo sbarco della flotta della Mezzaluna sulle coste pugliesi. È il 28 luglio 1480. Provenienti dal porto albanese di Valona quasi 20.000 turchi a bordo di 90 galee e 48 galeotte mettono piede sul litorale salentino, nella zona chiamata Baia dei Turchi, scaricando dalle navi 1600 pezzi di artiglieria tra cui centinaia di bombarde, armi, munizioni e viveri. All’interno delle mura di Otranto meno di 10.000 abitanti, pochi quelli armati, attendono l’assalto degli ottomani guidati dall’ammiraglio dell’Impero Gedik Ahmed Pascià, un rinnegato greco o albanese, detto “lo sdentato”, il cui piano era molto ambizioso. Non si fermava infatti alla conquista della Puglia ma prevedeva uno sbarco a Napoli, in Sicilia e in Sardegna per poi puntare a Roma. In sostanza voleva impadronirsi di gran parte della penisola. Le difese di Otranto sono deboli e vengono facilmente sfondate dai colpi dell’artiglieria turca. La piccola guarnigione aragonese, a protezione della cittadina, si ritira appena si rende conto della potenza di fuoco dell’armata di Costantinopoli. Il 10 agosto i turchi sono già dentro le mura di Otranto e il muezzin sale in cima al campanile per chiamare i musulmani alla preghiera.
Ahmed Pascià ordina di rastrellare tutti i superstiti maschi di età superiore ai 15 anni mentre le donne e i bambini sono ridotti in schiavitù. Il 13 agosto Otranto è un mucchio di cadaveri e rovine. Diecimila otrantini muoiono combattendo e alcune migliaia, in fuga, vengono uccisi per le vie della cittadina pugliese o fatti prigionieri e ridotti in schiavitù. La tragedia di Otranto è diventata leggenda per il valore con cui gli otrantini difesero la loro città e per il coraggio con cui respinsero la capitolazione chiesta dal nemico gettando in mare le chiavi della città. La rocca sta per soccombere e gli aiuti non arrivano dall’Europa, né da sovrani né da prìncipi e neppure dai veneziani che invece appoggiano segretamente le operazioni militari dei turchi. All’interno del Duomo, che verrà usato dai turchi come stalla per il bestiame, avviene uno dei massacri più orrendi della conquista. In cattedrale trovano rifugio molti superstiti come l’anziano vescovo Stefano Pendinelli che viene sgozzato sull’altare della chiesa insieme ad altri religiosi e a molti civili. Il 14 agosto, vigilia dell’Assunta, si consuma l’atto più agghiacciante della vicenda: ottocento prigionieri cristiani vengono condotti sul colle della Minerva e decapitati su una lastra di pietra… “contarono i primi cinquanta, fra cui capitai anch’io, e ci avviarono al colle della Minerva, in file di cinque, legati alle corde. C’era un grande silenzio. Arrivati sullo spiazzo ci fermammo. Il Pascià sedeva alla turca su un tappeto rosso davanti al padiglione, la mezzaluna d’oro sulla berretta, il boia era pronto. Allora alzai gli occhi e vidi una grande luce su tutta la campagna e gli oleandri che slungavano i rami nel cielo, bianchi e rossi. Quegli oleandri del colle furono l’ultima cosa che vidi in vita mia. Chi l’avrebbe mai detto (dal romanzo di Maria Corti “L’ora di tutti”, 1962, in cui ogni racconto è narrato in prima persona dai vari protagonisti della battaglia di Otranto). Oggi quel colle si chiama la “collina dei Martiri”, nella parte alta della cittadina, dove si trova un tempio a ricordo di quella tragedia.
Decisero di farsi decapitare piuttosto che arrendersi e pagare la tassa di “protezione” come sudditi o convertirsi all’Islam rinnegando la propria fede. I loro cadaveri furono lasciati insepolti per un anno, fino all’estate del 1481, quando Otranto fu riconquistata dalle forze cristiane e i loro corpi degnamente sepolti. Non fu una passeggiata la riconquista di Otranto. Dopo vari tentativi e mesi di preparazione la cittadella salentina fu ripresa dagli Aragonesi, guidati da Alfonso d’Aragona, figlio di Ferdinando, re di Napoli. Sfruttando la notizia della morte improvvisa di Maometto II e delle rivalità scoppiate tra i suoi due figli, Bayezid e Cem, gli aragonesi ebbero la meglio sul corpo di spedizione ottomano, indebolito da un anno di permanenza in terra pugliese. Ma come sostengono alcuni storici, la riconquista di Otranto fu possibile anche grazie ad una specie di “guerra batteriologica”. Sulle teste dei turchi assediati in città e privi del loro capo Ahmed Pascià, gli aragonesi lanciarono carcasse di animali infetti ed escrementi di ogni genere diffondendo la peste e convincendo così i musulmani ad arrendersi. Nel 1539 Papa Paolo III avviò il processo canonico per assegnare agli Ottocento “decollati di Otranto” lo stato giuridico di santi. Ma si dovranno attendere oltre due secoli prima che nel 1771 Papa Clemente XIV li dichiari beati per poi autorizzarne il culto. Il 12 maggio 2013 gli 800 otrantini trucidati sul colle della Minerva sono stati canonizzati da Papa Francesco, secondo quanto aveva già annunciato Benedetto XVI a febbraio dello stesso anno.
Filippo Re