Eccovi un’idea di sicuro successo, dalla semplice realizzazione, delicata ed elegante.
Ingredienti
300gr. di prosciutto cotto magro
150ml. di gelatina
200ml. di panna fresca da montare
2 cucchiai di Cognac o Marsala
Sale, pepe e limone q.b.
Tritare al mixer il prosciutto cotto privato dal grasso. Preparare la gelatina con qualche goccia di limone, lasciar intiepidire.
Montare la panna con sale e pepe.
Mescolare al prosciutto due cucchiai di Cognac o Marsala, aggiungere 100 ml. di gelatina, incorporare delicatamente la panna. Versare il composto in stampini monodose e raffreddare in frigo per almeno quattro ore.
Servire con crostini di pane tostato.
Paperita Patty




Il dovere era sempre il dovere. “I treni devono viaggiare in orario”, affermava compito scrutando orgoglioso il suo Perseo meccanico, a carica manuale, con la lucida locomotiva turca disegnata sulla cassa. Quest’orologio da tasca, fissato al panciotto con una catena d’argento, era il tratto distintivo del ferroviere, quasi un segno del comando. L’orologio assumeva un’importanza vitale e serviva a garantire l’assoluta precisione nel calcolo per regolare il traffico su rotaia. Tutto dipendeva dal tempo: tabelle, orari, coincidenze, scambi. E la sincronizzazione degli orologi era indispensabile. Quello in possesso di Amleto non è un orologio comune ma un modello costruito appositamente per le Ferrovie dello Stato e quindi era “l’Orologio”, quello con la “o” maiuscola. Preciso, infallibile, perfettamente funzionante. “L’orologio per noi è un po’ come l’Arma dei Carabinieri: nei secoli fedele”, sentenziava al bancone del Circolo Operaio il Ballanzoni, lisciandosi la barba. Magari non durava proprio dei secoli ma qualche decennio sì. E il suo Perseo era lì, testimone muto ma preciso, a confermarlo. Il destino del ferroviere e quello del suo orologio erano talmente indissolubili che, di norma, andavano in pensione insieme. Deposto il berretto e riconsegnati fischietto e paletta, l’orologio rimaneva di proprietà, quasi fosse una medaglia, un distintivo, un segno di riconoscimento per chi aveva fatto parte della grande famiglia dei ferrovieri. Proprio a quell’orologio mirava la gazza ladra. Per Mirella rappresentava l’oggetto del desiderio. Un lucente e ticchettante trofeo da aggiungere alla sua collezione, il pezzo più pregiato, la “chicca” della quale potersi vantare a destra e manca. Iniziò a svolazzare con aria indolente attorno alla stazione. Un battito d’ali così svagato non avrebbe destato i sospetti del capostazione che, tra l’altro, non pareva avere (così almeno pensava Mirella) grandi conoscenze in fatto di uccelli e quindi particolare timore nell’avvistare nei dintorni il volteggiare di una gazza. Così, in quei giorni che anticipavano l’avvio delle feste di fine anno, proprio mentre iniziò a nevicare, accadde il fatto più inatteso e terribile che l’Amleto Ballanzoni si sarebbe mai immaginato di vivere: il furto dell’orologio.
“Ma come? Non avverte, quel pennuto, il mio fascino? Non incrocia mai il mio sguardo. Anzi, mi pare che tenga sempre gli occhi fissi davanti a se… E quel suo rimanere lì, impettito come uno stoccafisso? E’ una mia idea o quello se la tira un po? “. Mirella, come tutte le gazze, era caratteriale, piuttosto scontrosa, scorbutica. Ma il fascino esercitato da quell’uccelletto del cucù era troppo forte e lei, nonostante tutto l’orgoglio, non poteva (e non voleva) resistergli. “Che sia sensibile ai regali?”, pensò Mirella. Forse subiva anche lui l’attrazione degli oggetti lucenti. Chissà che quell’uccello, forse per timidezza, non avendo il coraggio di volar via da quella strana casetta, non avesse bisogno di qualche incoraggiamento? Mirella volò al suo nido e, preso un bottone dorato, lo posò sulla mensola a fianco del pendolo a cucù. Allo scoccare dell’ora, puntualmente, l’uccelletto fece capolino cantando e, senza rivolgere lo sguardo né a destra né a sinistra, ritornò dietro l’uscio. Forse il bottone era poca e misera cosa, pensò la gazza, e poco per volta si privò di tutto il suo patrimonio, accumulato di furto in furto. Cedette anche il pezzo più pregiato: l’orologio sottratto al capostazione mettendo a segno il colpo più bello della sua vita. Era innamorata persa, la povera Mirella. Innamorata senza speranza, ignara del fatto che l’uccello di legno dell’orologio a cucù non poteva corrisponderle l’affetto essendo un finto volatile, tutto legno e senza cuore. Così, dopo tutto quel gran darsi da fare senza ottenere in cambio nemmeno uno sguardo, con il cuore gonfio di amarezza, la gazza fece per riprendersi le sue cose ma, colmo della disperazione, oltre al bottone, ai tappi e alla spilla non trovò più l’orologio. Amleto Ballanzoni l’aveva visto sulla mensola e, incredulo, si era dato una gran manata in fronte: “Eccolo lì, il mio Perseo! Vecchio balordo, cominci a perdere i colpi! L’avevo davanti agli occhi e non riuscivo a vederlo da tanto ch’ero agitato. Meno male, va… D’ora in poi starò più attento a dove metto le cose”. Il capostazione, recuperato il prezioso orologio, decise di lasciare al suo posto anche il pendolo a cucù. Ormai faceva parte dell’arredamento. Funzionava bene e, per di più, era perfettamente in integrato con l’ambiente della stazione ferroviaria. L’unica modifica che Amleto decise di introdurre riguardava quel fastidioso cuculo che cantava, monotono, ogni ora. L’eliminazione avvenne senza troppe storie. Bastò spegnere il meccanismo della suoneria con l’apposita levetta e l’uccello restò, segregato e silenzioso, dentro la sua casetta trasformatasi in prigione. Mirella, ormai disperata, vedendo quella porticina sempre chiusa, decise di andarsene via, il più lontano possibile da quell’odioso uccello pieno di boria che chissà poi chi si credeva di essere. Volò via verso Loita dove conobbe, proprio la vigilia di Natale, una gazza maschio. Tra i due scoccò l’amore e di comune intesa, rastrellando oggetti in quattro e quattr’otto, abbellirono la loro dimora nel bosco che saliva verso Campino. Amleto Ballanzoni, intanto, fischiando e agitando la paletta all’arrivo e alla partenza dei treni nella sua stazione, con il berretto rosso in testa e l’orologio ben saldo alla catenella del panciotto, salutava i bambini che si sporgevano dai finestrini dei convogli gridando “E’ Babbo Natale! E’ Babbo Natale!”. L’uccelletto di legno riposò nella penombra della sua dimora in attesa di tornare a cantare allo scoccare di ogni ora. Può darsi che accadrà presto ma noi non lo sappiamo. Forse è anche già accaduto ma questa è un’altra storia.