Cambiamento e resilienza. Sempre più spesso ci capita di leggere o sentire persone che utilizzano questi due termini. Sembrano essere inscindibili, due concetti che viaggiano costantemente assieme e che si competano tra loro. Se fossero persone, potremmo definirle una sorta di Starsky & Hutch della filmografia degli anni ‘80. Noi stessi li usiamo con una certa frequenza quando parliamo di mercato e azienda. Ma cosa intendiamo realmente dire quando parliamo di Cambiamento e Resilienza? Il cambiamento cos’è? Un’importante ristrutturazione aziendale o un cambio di lavoro? E la Resilienza? Ormai tutti in azienda sanno che la resilienza è il vocabolo utilizzato in metallurgia per indicare la capacità di un materiale di resistere all’urto senza rompersi. Altre fonti, invece, per rendere la cosa ancora più affascinante, legano il termine resilienza al latino “salio” (salire) che, con il suo iterativo “resalio”, accostato all’immagine di una barca capovolta, indica l’azione di risalire sulla barca dopo che si è rovesciata. Una cosa è certa: per molti di noi il cambiamento è un qualcosa d’intangibile che ci spinge a modificare quello che abbiamo sempre fatto e, più abbiamo fatto, più dovremo lavorare per adeguarci al nuovo.
***
Noi non condividiamo questa visione, però, a nostro avviso, il cambiamento altro non è che la vita di tutti i giorni, sia quella privata sia quella professionale. Panta Rei, (tutto scorre) diceva Eraclito, uno fra i più grandi filosofi greci presocratici, per indicare l’eterno divenire della realtà, paragonandola a un fiume che solo apparentemente rimane uno e identico, ma che, in effetti, continuamente si rinnova e si trasforma, per cui non è possibile tuffarsi in esso più di una volta, perché la seconda volta non è lo stesso fiume della prima. Se condividiamo questa visione, il cambiamento è qualcosa che ci accompagna durante tutta l’esistenza, nelle piccole cose come nelle grandi cose. Cambiare barbiere perché il nostro è andato in pensione non è forse cambiamento? Cambiare cliente perché quello precedente ha ceduto l’attività non lo è altrettanto? Queste cose, però, non ci preoccupano perché il nostro cervello le cataloga al livello più basso di rischio mentre, invece, se in azienda si passa da un sistema informatico all’altro o se viene modificata l’organizzazione, ci carichiamo di ansia e stress. Tutto ciò è normale, anzi diremmo che è umano, però non ci deve bloccare. Passato il primo momento di destabilizzazione, dobbiamo subito vedere quali opportunità nuove si stanno per presentare. Per molti anni, nella quotidiana gestione delle cose, ci è capitato di definire quest’approccio mentale come la tecnica del “Cosa c’è di buono in ciò” perché è giusto dirlo : Guardando bene troveremo sempre qualcosa di positivo, anche dove non ci sembra proprio.
***
Ci sono due modi di porsi di fronte alla richiesta di cambiamento, che, spesso, non è una nostra scelta, ma una necessità; per cristallizzarli ci rifaremo a due grandi pensieri:
Chi ti vuole diverso, non ti vuole affatto. (Eracle) Approcciare le cose in questo modo è assolutamente da evitare. Significa pensare sempre in negativo e, oltre a non facilitare le cose, questo atteggiamento ci porterà a “ Tagliarci fuori da soli” perché, ci piaccia o no, le cose vanno avanti anche senza dii noi. Il secondo modo, invece, ce lo ha offerto un pensiero di Mahatma Gandhi : La vita non è aspettare che passi la tempesta, ma imparare a ballare sotto la pioggia. Un modo dolce, positivo e forse affascinante che ci porta a vedere le cose in modo diverso, da cacciatori di opportunità.
Questo approccio probabilmente è quello che meglio definisce una persona resiliente, una persona che supera la destabilizzazione iniziale e si pone alla ricerca dell’esperienza, dell’insegnamento che da questa esperienza ne può derivare. La tecnica cioè del: ”Cosa c’è di buono in ciò”. Un atteggiamento positivo che ci aiuta ad affrontare meglio le cose vivendo la vita. Più volte siamo entrati in contatto con persone capaci, intelligenti e competenti che, pur di non affrontare il cambiamento, si erano accontentate di ruoli/situazioni “ inferiori” a quelle che realmente meritavano o che potevano raggiungere. Alcune di loro erano contente e questo era un risultato positivo perché, probabilmente avevano deciso di anteporre i propri valori personali a quelli professionali, e questo li rendeva comunque felici e vincenti. Altri, invece, giustificavano lo status quo con motivazioni legate alla sfortuna o ai torti subiti e questo non era buono nemmeno a livello salutistico perché “stavano male con se stesse”. La resilienza, quindi, potremmo definirla come la capacità di non essere troppo rigidi o troppo morbidi, ma semplicemente “flessibili”, capaci cioè di adeguarsi prendendo il controllo della situazione.
Un esempio di resilienza
***
Questo non significa nascere resilienti, ma allenati alla resilienza e l’allenamento non richiede situazioni “speciali”. E’ sufficiente affrontare la vita quotidiana ponendosi obiettivi misurabili e raggiungibili la cui asticella sarà alzata di volta in volta. Anche il notissimo atleta giamaicano Usain BOLT potrebbe confermare questa teoria se pensiamo che il 2016 l’ha visto vincitore della competizione dei 200 metri a Rio de Janeiro con il tempo di 19″78, mentre nel 2001,ai suoi primi esordi, il suo tempo era “solo” di 22″04 .Il secondo allenamento che possiamo fare è quello di uscire dalle nostre zone di comfort facendo cose che non abbiamo mai fatto o che non facciamo da molto tempo come ad esempio parlare con qualcuno che non abbiamo mai considerato oppure, prendere una seggiovia anche se un po’’ ci intimorisce. Scopriremo mondi nuovi semplicemente allargando il nostro campo visivo e sdrammatizzando le cose che ci capitano perché, come diceva il Saggio“Il mondo è nato prima di noi pertanto saremo noi a doverci adattare a lui, specialmente se poi vogliamo cambiarlo.”
Antonio De Carolis
Presidente CDVM
Club Dirigenti Vendite e Marketing