Scrivevamo in altre recenti occasioni della riscoperta dell’Art nègre alle origini del secolo appena passato, dell’interesse che abbracciò alcuni dei nomi più interessanti delle manifestazioni artistiche dell’epoca, dello stesso interesse che in questi ultimi decenni, grazie ai viaggiatori e agli appassionati, ai collezionisti e a tutti quanti guardano all’arte africana con studi ammirevoli e con rispetto, nei contatti e negli scambi, nelle frequentazioni sempre più costanti di quelle tribù e di quei popoli che ancora sopravvivono alle più differenti contaminazioni, ha trovato un proprio intimo e ragionato posto. Scrivevamo pure delle mostre – con quelle meno recenti apertesi a palazzo Salmatoris a Cherasco e a palazzo Lomellini a Carmagnola, restando in campo regionale – tuttora in corso, alla rivolese Casa del Conte Verde (“Africa, dove vive lo spirito dell’arte”, sino al 29 gennaio) e a palazzo Foscolo a Oderzo (in provincia di Treviso), “Africa, la Grande Madre”, visitabile sino al 28 maggio del prossimo anno. Mostre, queste ultime due, che hanno visto l’apporto principale nel corpus delle varie opere esposte, pittoriche come scultoree, della coppia Bruno Albertino – Anna Alberghina, nelle molteplici e raffinate vesti di studiosi, ricercatori, studiosi, viaggiatori e collezionisti. Fotografa, inoltre, lei a testimoniare i momenti catturati alla vita quotidiana, i visi e le usanze, le vesti e le acconciature, il lavoro e le atmosfere soprattutto che filtrano dalle tante immagini riportate da villaggi, da panorami mozzafiato, da angoli non ancora contaminati. Su ogni immagine colta, sulla più o meno piccola statua, sugli aspetti religiosi che vanno al di là della bellezza del manufatto, sulla sua prima sensazione artistica, balza prepotente in primissimo piano, a testimoniare se stessa, quella genuinità da sempre messa in pericolo che spinge Bruno Albertino a riaffermare che “i nostri studi, i viaggi che compiamo, gli scambi che da sempre sviluppiamo con altri appassionati e studiosi ci dicono la necessità di testimoniare di un’Africa che lentamente si dilegua, travolta dal vortice della globalizzazione, dall’economia di mercato, dalle religioni importate e dal neocolonialismo economico”.
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A testimoniare ancora una volta la passione e l’interesse di studiosi della coppia, è comparso da breve in libreria, per i caratteri di Neos Edizioni, “Mama Africa, la maternità nell’arte africana” (pp. 176, € 27), dove si sfogliano più di un centinaio d’immagini a colori, corredate ognuna dalle schede delle opere composte di dati tecnici, storici e critici – suddivise in vari capitoli, “Bamboline della fertilità”, “Figure di fertilità”, “Il culto dei gemelli”, “Le figure di maternità”, “Maschere femminili”, “Gli antenati mitici” unite a un ricco apparato bibliografico – in cui compaiono diversissimi gioielli d’arte, provenienti da differenti paesi dell’antico continente, dal Ghana al Burkina Faso, dall’Angola al Mali e alla Costa d’Avorio, in uno scenario assai interessante di materiali (dal legno al metallo, dall’avorio alla terracotta e alla pietra) e di tecniche, di visi e di posture, di composizioni e di forme, di colori e di intarsi. Le figure delle madri, stilizzate o no, levigate o agghindate, sedute o in piedi, rappresentate come unico personaggio o unite al proprio piccolo, abbracciato o tenuto in braccio, o a una coppia di gemelli (comunque diverso è sempre il valore formale della figura materna rispetto al bambino, che riveste sicuramente un ruolo secondario), imponenti o semplici, nere o rossastre, armonizzate o sgraziate, a sviluppare i temi della maternità e della fertilità molto rappresentati nell’arte africana come in tutte le arti figurative delle società umane (come quelli del lavoro agricolo e della cura degli animali affidati alle donne e ai bambini: traccia da cui sviluppare discorsi importanti, come la generazioni di molti figli, le giovani braccia e sane che non devono mai mancare, l’assoggettamento femminile ai maschi e agli anziani che delimitano e definiscono ogni cosa).
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Un tema, quello della maternità nell’arte africana, che trova la propria realizzazione in un’ampia area, dall’Africa subsahariana a quella occidentale sino alle aree più inaccessibili di quella centro-equatoriale, e che si rispecchia nelle opere più geometriche, cubiste dei popoli Dagon e Bamana del Mali a quelle estremamente naturalistiche dei Baoulé, dei Dan e degli Attié della Costa d’Avorio e della Liberia. Balza agli occhi la qualità impeccabile nella figura materna (dove è tra l’altro assente un sentimento materno-filiale), mentre spesso il bambino è scolpito in modo informe, abbozzato, quasi a significare la condizione ancora imperfetta prima dei riti di iniziazione e sempre in pericolo per l’elevatissima mortalità infantile. L’immagine principe della madre appare come miracolosa e misteriosa generatrice di vita, scolpita con tratti ieratici, quasi divini, animata da una taumaturgica forza interiore, lontana dalle cure terrene, la forza di una madre che è capace di traghettare il proprio figlio dal mondo dei morti, un passaggio denso di pericoli, come insegna la tradizione africana.
Elio Rabbione