“Ecco, senti la sirena? E’ il Camoscio. Se stai attento t’accorgi che il suono è più cupo, più profondo di quello dell’Alpino. Da non confondersi con la sirena della Helvetia , un po’ meno cupa e un tantino singhiozzante”. Il bello è che aveva quasi sempre ragione
I battelli, Marta, li “sentiva”.Specialmente d’inverno, quando la nebbia lattiginosa impediva di vedere ad un palmo del naso e bisognava segnalare con le sirene ed il lampeggiante l’attracco dell’imbarcadero, lei era in grado di indovinare quale battello stesse per ormeggiare. “Ecco, senti la sirena? E’ il Camoscio. Se stai attento t’accorgi che il suono è più cupo, più profondo di quello dell’Alpino. Da non confondersi con la sirena della Helvetia , un po’ meno cupa e un tantino singhiozzante“. Il bello è che aveva quasi sempre ragione. L’errore era un eventualità piuttosto rara e, quando capitava, era del tutto venale. “Sentiva” i battelli soprattutto nelle prime ore del mattino, quando gli scafi iniziavano le loro corse di linea sulle rotte del lago, tra imbarcaderi ed attracchi sulle isole. “Zitto un attimo… Lo senti anche tu? E’ il vento che va a cavallo dell’onda. Sibila piano, a pelo dell’acqua. Guarda bene il filo della lenza del Peppo: l’aria la tende, dritta come un fuso e poi lascia che si rilassi, molle. E’ quello che mio padre chiamava al “veent cunt’el pàss balòss, quell che vöri mia tiram via da dòss”. Il vento un po’ bricconcello, dal passo svelto, che non si vuol togliere di dosso. Lui, mettendosi controvento qui sul molo, allargava le braccia. Lo annusava, lo abbracciava e diceva che gli prendeva i sospiri e gli portava indietro i sorrisi, dopo aver baciato le montagne d’inverno, quando queste avevano i capelli bianchi per le prime nevicate. Si riempiva i polmoni di quest’aria di lago. Un aria che pulisce la faccia, caccia via le ombre e lascia sulla pelle una carezza prima di soffiar via su un’altra sponda“. L’udito l’aveva ereditato da suo padre, il Ruggero “Cavedano”, grande pescatore a canna fissa e frequentatore fisso del bar dell’Imbarcadero. Il vento, quando soffiava, dava una mano a ”sentire” i battelli. Era un amico, il vento, per Marta. A parte le bufere che, ululando, alzavano onde terribili e coprivano ogni rumore, tutti gli altri venti l’aiutavano a decifrare le imbarcazioni. Se uno specchio riflette la luce, l’aria del lago amplificava i suoni, i cigolii, il ronfare dei motori, lo sfregamento delle fiancate sui lunghi pali di legno degli attracchi. “Mio padre mi raccontava che, da giovane, sentiva il Torino quando si staccava dal molo dell’isola Pescatori. La motonave, quando i motori riprendevano fiato, aveva come un sussulto e lui – dal lungolago – lo percepiva anche se le ombra della sera inchiostravano il lago. Lo stesso difetto l’ho riconosciuto in altri due battelli: il Delfino e il Milano. Nel primo era uno strappo più secco, inconfondibile; nel secondo si doveva proprio avere un bell’orecchio perché era appena percepibile. Comunque, non mi sono mai sbagliata. Era tropo facile, invece, riconoscere il Roma. Era un bestione che poteva portare fino a 840 passeggeri ma, nonostante la sua mole, la sensazione che dava era di agilità e di potenza. Lo sentivo quando si staccava da Pallanza perché aveva un motore che cantava come un tenore”. Rammenta bene il suono emetteva il Piemonte, l’ultimo grande piroscafo – costruito nel 1904 e varato inizialmente con il nome di “Regina Madre” – mentre solcava le onde di questo piccolo mare d’acqua dolce. I suoi viaggi, per un secolo, erano allietati dalle luci delle sue lampadine accese sul ponte principale, mentre suonava l’orchestrina a poppa e la mezza luna di levante rifletteva , vanitosa, la sua luce sul lago. Marta, appoggiata alla ringhiera vicino al molo, mi fa notare che anche stasera la scia di luce che la luna lascia sul pelo d’acqua non turba l’immobile calma del Maggiore. Persino le onde sonnecchiano e lo sciabordio è appena percepibile nel silenzio. Un silenzio che, accompagnato al buio, esalta i sensi, li estende a dismisura. Sul lago, le distanze tra le sponde si riducono, e terra, acqua e cielo sembrano parti di un’unica cosa. Solo l’aria, da una stagione all’altra, cambia. Tiepida, come una carezza vellutata in tarda primavera e d’estate; ghiacciata e carica di un infinità di piccoli aghi di neve nelle tempeste d’inverno, sfregando sulla pelle come carta vetrata. Questa sera di fine estate l’aria è particolarmente fresca ed offre, senza possibilità di scelta, un anticipo d’autunno. Marta mi ha dato appuntamento a quest’ora perché al largo passano i catamarani. Quale dei natanti lascerà scorgere il suo profilo? Il “Foscolo”, il “Pascoli” o lo “Stendhal”? Lei scommette che lo indovinerà prima ancora che sia visibile. Impresa tutt’altro che facile, ma lei è sicura. Si sente, mettendoci tutta l’attenzione del caso, un lievissimo ronzio in lontananza. Sul lago c’è una nebbiolina fine che non consente di vedere al largo. Lei mi guarda e sorridendo, dice: “E’ lo Stendhal. Ne sono certa”. E sorride. Io, perplesso, attendo che s’avvicini fino al punto di poterlo avvistare e, con stupore, vedo sulla fiancata che il nome corrisponde. “Ma come fai?”, dico a Marta. E lei, candida come un giglio, mi confessa una piccola bugia: “Sai,Marco.. Finché si tratta di battelli e traghetti li sento bene ma i catamarani francamente non saprei riconoscerli. E poi lo Stendhal fa servizio tra Arona ed Angera. Questa sera è passato di qui perché è stato “dirottato” dalla navigazione a supplire un servizio nella parte svizzera, alle isole di Brissago. Per questo non avevo dubbi, vedi: lo sapevo in anticipo”. Rideva, rideva come una matta. Ed io feci finta di essere seccato ma la sua allegria era contagiosa e non potei resistere alla tentazione di sorridere anch’io. Bevemmo un tè al bar dell’Imbarcadero e ad un certo punto, alzando improvvisamente il capo, mi disse: “Aspetta un po’. Questo lo sento bene. E’ il Venezia. I motori sembrano avere l’asma. Cos’è successo?”. Meno di dieci minuti dopo, il Venezia attraccava, per uno scalo d’emergenza. Il livello del lago era piuttosto basso ed avevano lesionato l’elica principale su di uno scoglio affiorante poco distante dall’attracco dell’isola Madre. Nulla di grave ma, pur avendo perso delle ore per cercare di riparare il guasto, non potendo rientrare al cantiere di Arona, il comandante aveva deciso di trascorrere la notte a Baveno, assicurando l’imbarcazione a quest’ormeggio. Marta, a parte lo scherzo di prima, i battelli li “sentiva” davvero.
Marco Travaglini