"L'arte è e deve essere popolare: è predestinata a esserlo. Poi se si riesce a mantenere alto il livello del rigore come accade anche in America molto meglio"

VITTORIO SGARBI: "TORINO E' LA CITTA' PIU' BELLA D'ITALIA, HA IMPARATO A METTERSI IN LUCE"

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INCHIESTA: LA CULTURA A TORINO / 3

Negli ultimi 20 o 30 anni, l’unica città che ha puntato seriamente sulla cultura è stata Torino, mi sento di parlare di un nuovo Rinascimento. Forse questa città è partita troppo presto. E oggi vive ancora sugli allori dell’arte povera. L’arte contemporanea è tuttora una peculiarità di Torino, però, occorrerebbe investire maggiormente sulla caratterizzazione delle varie sedi museali, affidando a ciascuna una sua vocazione. Allargherei la  vocazione  di Stupinigi a tutto l’ambito delle arti applicate, per farne una sorta di Victoria and Albert Museum”

 

Intervista di Alberto Vanelli con Vittorio Sgarbi per IL TORINESE

Negli ultimi anni, Torino è riuscita in gran parte a superare la vecchia immagine stereotipata di “città della Fiat”, scoprendo in sé un’identità nuova, di città culturale. Questa, almeno, è la percezione dei torinesi. Ma qual è l’opinione di chi vede il volto di Torino dal di fuori? Qual è, sul piano culturale, l’immagine di Torino in Italia?

Anche se una persona che conosco ultimamente l’ha trovata un po’ malinconica, io la considero la più bella città d’Italia, sia sul piano dell’urbanistica, sia per quanto riguarda l’ordine delle cose e la capacità di riscatto, dopo il tramonto dell’industria automobilistica. Negli ultimi 20 o 30 anni, l’unica città che ha puntato seriamente sulla cultura è stata Torino. Mi spingo a dire che si tratta dell’unica città italiana che ricorda Parigi. Certo, è meno vitale di Parigi – le abitudini di vita sono quelle che sono – ma il paragone non mi sembra azzardato. Una delle cose interessanti di Torino, poi, è la sua illuminazione. Rispetto ad altre città, che trovo represse, Torino ha imparato a “mettersi in luce”. L’esempio più significativo, in questo senso, è quello delle Luci d’artista, che il sindaco De Luca ha voluto portare anche a Salerno, ma mi riferisco anche all’illuminazione normale, che riguarda piazze e monumenti.

 

Come riassumerebbe, in una parola, la Torino culturale?

Se devo definire ciò che ho visto succedere a Torino negli ultimi 30 anni, mi sento di parlare di un nuovo Rinascimento, che in seguito allo sviluppo dell’arte povera, la grande avanguardia artistica torinese, ha visto la riscoperta della Reggia di Venaria, dell’Egizio, della Galleria Sabauda, di Palazzo Madama, e insieme la moltiplicazione di alcune grandi iniziative culturali: la Fiera del Libro, Artissima, Settembre Musica, il Festival del Cinema, il Salone del Gusto, le mostre. È una città in cui capita sempre qualcosa, e dove una persona curiosa e interessata alla cultura sa di avere degli appuntamenti, in diversi momenti dell’anno.

 

Tutto perfetto, quindi?

Naturalmente no: esistono le potenzialità per fare di più. La pinacoteca Agnelli, per esempio, per il valore che ha, viaggia a basso regime. E anche il castello di Rivoli: un museo straordinario, che meriterebbe un rilancio.

 

L’argomento Rivoli offre lo spunto per una domanda precisa. Vent’anni fa, Torino era uno dei poli mondiali dell’arte contemporanea. E ovviamente lo è ancora: oltre al museo di Rivoli, si possono citare le collezioni della GAM, delle Fondazioni Sandretto e Merz, della nuova Fondazione Fico. E anche le OGR, tra non molto, potrebbero diventare un “luogo” dell’arte contemporanea. Non c’è dubbio, però, che l’arte contemporanea stia vivendo, a Torino, un momento di crisi, che solo la vitalità di una manifestazione come Artissima, con tutti i suoi eventi collaterali, riesce in parte a contrastare. Nella direzione del contemporaneo, intanto, centri come Roma e Milano stanno recuperando posizioni, investendo molte energie e riscuotendo un certo successo. Lei cosa ne pensa?

Forse Torino è partita troppo presto. E oggi vive ancora sugli allori dell’arte povera, nella quale è stata centrale, certo, ma nella quale si è anche fermata. Se dopo l’arte povera non è successo più nulla, è probabilmente perché è venuta a mancare la Fiat. Il senso dell’arte povera stava nella contrapposizione ideologica al mondo del capitalismo e all’industria che, in Italia, ne era il simbolo. L’habitat favorevole all’arte povera era quello del marxismo obbligatorio, dove tutti eravamo di sinistra e non c’era nessun democristiano, anche se la DC vinceva le elezioni. Quella, infatti, era la maggioranza silenziosa. La maggioranza parlante, invece, quella che “contava”, parlava le parole dell’opposizione. La stagione della contrapposizione ideologica, però, a un certo punto, è finita. Già alla metà degli anni ’80, era chiaro che il clima stava cambiando, ed è cambiato definitivamente con l’arrivo di Berlusconi. Le contrapposizioni sono rimaste, certo, ma Berlusconi ha stabilito un’altra polarità: non più la polarità capitalismo/anticapitalismo, ma la polarità spettacolo/politica seria. Per l’arte povera è stata la fine. La chiave di lettura del mondo che ne alimentava l’espressione artistica e culturale, si è spenta con lo spegnimento della Fiat. E oggi, mentre a Torino il peso della Fiat si è ridimensionato enormemente, quella stagione artistica emette gli ultimi fiati…

 

Passando al tema dell’organizzazione museale e delle decisioni da prendere, che cosa si potrebbe fare per rilanciare l’arte contemporanea? Forse le istituzioni dedicate al contemporaneo sono diventate troppe?

L’arte contemporanea è tuttora una peculiarità di Torino. Forse, però, occorrerebbe investire maggiormente sulla caratterizzazione delle varie sedi museali, affidando a ciascuna una sua vocazione. Rivoli torni a essere il simbolo unico e riconoscibile dell’arte contemporanea. La Reggia di Venaria, allo stesso modo, diventi il centro dell’arte antica… E’ un esempio, naturalmente. Allo stesso modo, però, è importante evitare che il singolo museo diventi una sorta di ghetto, nel quale puoi trovare una cosa sola. Occorre mescolare le carte, facendo operazioni analoghe a quella che ho proposto io al presidente De Luca, per ospitare una mostra sul Mantegna al MADRE di Napoli, che è un museo di arte contemporanea.

 

Ha appena citato due importanti residenze sabaude: Rivoli e Venaria. Fra i gioielli che compongono la corona delle residenze dei Savoia, uno – la palazzina di caccia di Stupinigi – è in attesa di idee e soluzioni per un rilancio. Lei cosa farebbe?

Stupinigi è già un museo dell’arredamento. Forse allargherei la sua vocazione a tutto l’ambito delle arti applicate, per farne una sorta di Victoria and Albert Museum. Per i mobili, si partirebbe dalle meraviglie di artisti mobilieri come Piffetti e Bonzanigo. Le massime espressioni dell’arte dell’arredamento italiana, è inutile precisarlo, sono piemontesi. Ma poi ci sarebbe la scultura: un’antologia della scultura tra ‘500 e ‘900. Senza spingersi troppo in là nel tempo, però, per evitare un inutile sovrapposizione all’arte povera. Mi fermerei agli anni ’50, con Fontana, Melotti, Mollino…

 

Nel campo della divulgazione culturale, lei è stato certamente un innovatore. Ha saputo mantenere un alto rigore scientifico, unendolo però a un’efficacissima comunicazione pop, che ha saputo esercitare tanto in qualità di scrittore e organizzatore di mostre, quanto servendosi del mezzo popolare per eccellenza: la televisione. Al di là del suo talento personale, che le consente di catturare il pubblico senza cadere nella facile banalizzazione, non crede che la televisione e ancor più internet – luoghi privilegiati della banalità – abbiano favorito un’eccessiva semplificazione della cultura e del modo di raccontare le forme di espressione artistica?

Il processo che lei descrive, in effetti, è reale. Non a caso, ha avuto delle dirette conseguenze anche nell’ambito specifico delle mostre. Gli esiti, però, anche quando l’arte diventa una materia “popolare”, possono essere positivi. Nel campo della cura delle mostre, in effetti, dopo il poverismo e il celantismo (da Germano Celant, importante storico dell’arte, inventore  della definizione arte povera, ndr), si sono affermate due tendenze. Una è la mia; l’altra è quella di Marco Goldin. Se paragonassimo l’arte all’abbigliamento, potremmo dire che quella di Goldin è la strada standard; la mia è quella dell’alta sartoria. Non tutti possono vestire Prada o Armani. Ci sono anche le confezioni di bassa gamma, che sono comunque rispettabili. La bassa gamma dell’arte, di cui Goldin è un buon interprete, è quella della popolarità facile, ottenuta offrendo un prodotto “arte” che non ha timore della semplificazione: è il caso dell’impressionismo, che Goldin ha riproposto molte volte. L’altra specialità di Goldin è la creazione di un caos accattivante, che trova un esempio perfetto nella mostra dedicata a Tutankhamon, Caravaggio e Van Gogh. Inutile dire che sembra fatta apposta per incontrare il consenso più facile.

Nel mio caso, ho seguito una strada diversa. Pur cercando e ottenendo dei risultati di divulgazione, ho voluto mantenere un alto livello. Quelli che mi hanno criticato – per esempio ai tempi della polemica sulla Santa Cecilia di Raffaello alla Venaria Reale – l’hanno fatto in modo chiaramente pretestuoso. Non riuscivano a sopportare la mia invadenza e hanno colpito l’obiettivo sbagliato. Goldin è più criticabile, forse. Ma sicuramente il suo modello di divulgazione, così come il mio, sono inevitabili. L’arte è e deve essere popolare: è predestinata a esserlo. Poi, se si riesce a mantenere alto il livello del rigore, come accade anche in America, molto meglio. Io l’ho fatto anche di recente con la mostra di Bologna (Da Cimabue a Morandi. Felsina pittrice, ndr), e con quella dell’Expo (Il Tesoro d’Italia, ndr), dove, nonostante i contenuti estremamente sofisticati, i visitatori sono stati, negli ultimi fine settimana, quindicimila al giorno. L’arte elitaria e antagonista non esiste più. Occorre essere popolari. Se poi si riesce a esserlo con Mattia Preti a Venaria, come è accaduto qualche anno fa, quando quasi nessuno sapeva chi fosse Mattia Preti, allora è davvero il massimo. In quell’occasione, come ricorderà, per essere “popolari” abbiamo esposto un Caravaggio. Una volta che il pubblico è venuto in mostra, però, si è evitato accuratamente di propinargli la scorciatoia della banalizzazione e delle facili spiegazioni.

(Foto: facebook – Vittorio Sgarbi)