La ricerca dell'acqua diventa una lotta per la sopravvivenza

Il grande caos iracheno

FOCUS INTERNAZIONALE   di Filippo Re

Manca il governo, mancano il lavoro e l’energia elettrica, le proteste e le rivolte contro il caro vita, la disoccupazione e la corruzione infiammano il Paese da nord a sud. Altrochè ritorno alla stabilità politica come promesso dai partiti dopo le ultime elezioni. In Iraq regna il caos e gli ingredienti per una deflagrazione generale ci sono tutti. Ma, almeno per il momento, sembra essere la crisi idrica il problema più assillante. I due grandi fiumi della Mesopotamia sono quasi senz’acqua. Non è difficile in questo periodo attraversare a piedi, in alcune zone, sia il Tigri che l’Eufrate. Se l’acqua è molto scarsa in Siria, il vicino Iraq rischia di rimanerne senza. Per questi Paesi la ricerca dell’acqua diventa una lotta per la sopravvivenza. Con un clima torrido la cui temperatura d’estate sfiora i 50 gradi, e di notte supera i 40, con i ventilatori che funzionano solo qualche ora in assenza di corrente, il governo iracheno è costretto perfino a importare acqua dagli Stati confinanti. Da Mosul a Bassora passando per Baghdad il livello dei due fiumi è calato in modo impressionante. L’acqua manca perchè piove poco, perchè la rete idrica è malgestita ma anche perchè c’è chi la ruba e ne ruba tantissima lasciando città e villaggi quasi all’asciutto e penalizzando gli agricoltori che non riescono a irrigare i loro campi. Sono le grandi dighe del sultano di Ankara costruite sul Tigri a creare i problemi più drammatici. Per affrontare l’emergenza le autorità irachene sono costrette a rifornire gli abitanti con autobotti che stanno raggiungendo molte aree del Paese. Ma l’acqua manca in tutte le regioni irachene, da nord a sud. Sotto accusa ci sono i piani energetici del governo turco sul Tigri e sull’Eufrate. In particolare la diga di Ilisu, nella provincia turca di Mardin, che sottrae l’acqua dal Tigri impoverendo la popolazione circostante, in gran parte curdi, e porta meno acqua agli stessi iracheni. Il riempimento della diga, anche solo parziale, diminuisce la portata del fiume lasciando l’Iraq senz’acqua.

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La contesa sulla diga non è nuova e ha già causato negli anni passati crisi diplomatiche tra Baghdad e Ankara che hanno sfiorato lo scontro armato. Ma quest’anno con la scarsità eccezionale di precipitazioni la mancanza dell’ “oro blu” si fa sentire molto di più. La diga copre una vasta area di 30.000 ettari e fornisce energia elettrica ma viene usata da Erdogan anche per motivi politici. Un’arma in più per sbarazzarsi di migliaia di curdi. Per far posto alla colossale opera idraulica oltre 50.000 persone, tutti curdi, sono stati fatti sfollare e costretti a recarsi in Iraq o nelle città turche dove sono più facilmente controllabili dalle autorità locali. La carenza d’acqua è un problema che riguarda l’intera regione mediorientale a tal punto da spingere il regime iraniano ad accusare Israele di “bloccare le piogge” con tecnologie molto avanzate per mettere in difficoltà i suoi nemici tradizionali. Ci sono seri problemi anche per la mancanza di elettricità. Con l’Iran, che vende l’energia elettrica all’Iraq, i rapporti sono tesi. Baghdad non paga da anni le forniture energetiche e Teheran ha sospeso l’export costringendo il governo iracheno a rivolgersi all’Arabia Saudita per acquistare corrente elettrica. Da Mosul dove c’è un’emergenza sanitaria con il 70% delle strutture non utilizzabili a un anno dalla sconfitta dell’Isis, a Bassora nel profondo sud petrolifero dove le proteste divampano da alcune settimane, l’intero Iraq rischia di trasformarsi in una polveriera. Le manifestazioni sono così violente che aeroporti e porti sul Golfo sono stati chiusi temporaneamente per ragioni di sicurezza. Il sud iracheno sciita rivendica il possesso dei ricchissimi pozzi petroliferi della zona, tre milioni di barili esportati ogni giorno, e chiede la rottura dei contratti con le compagnie straniere che estraggono il greggio. A Bassora e nella regione del Golfo comanda il controverso imam sciita Moqtada al Sadr, vincitore delle elezioni parlamentari del 12 maggio. Alla guida di una strana ed eterogenea alleanza che riunisce comunisti, sciiti radicali e movimenti anti-corruzione, che noi definiremmo populista, ha vinto le elezioni battendo il premier uscente al Abadi e ora dovrebbe governare il Paese nei prossimi anni ma ha bisogno di altri alleati per raggiungere la maggioranza in Parlamento. Al Sadr proviene da una importante famiglia irachena: un suo parente, il grande ayatollah Mohammed Baqir al Sadr fu ucciso dal regime di Saddam nel 1980. Al Sadr, che nel dopo Saddam Hussein capeggiò una sanguinosissima rivolta contro i soldati americani, respinge ogni ingerenza straniera negli affari interni iracheni a partire da americani, iraniani e sauditi. Al Sadr guida un potente esercito di almeno 30.000 uomini ben armati, domina incontrastato il sud iracheno e sarà decisivo, insieme al grande ayatollah al Sistani, per formare i futuri equilibri politici nel Paese.

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In passato “L’esercito del Mahdi” di al Sadr era vicino all’Iran e acquistò fama nel mondo per le cruente azioni militari contro i sunniti iracheni accusati di aiutare i movimenti jihadisti. Oggi è un leader politico che punta a porre fine alle violenze tra sciiti e sunniti che continuano a insanguinare il Paese dei due Fiumi. È così forte e rispettato nel sud che il premier sconfitto al Abadi, giunto a Bassora, culla delle proteste, per placare l’ira delle masse contro il governo, ha dovuto scappare in fretta e furia. Al Abadi non vuole lasciare il potere, d’accordo con gli Stati Uniti, senza prima pacificare il Paese, nonostante i risultati elettorali per lui negativi. Le forze di al Sadr, che oggi si chiamano “Brigate della pace”, rischiano di scontrarsi con le forze dell’esercito iracheno che, per non soccombere anche questa volta, viste le pessime figuracce fatte all’arrivo dei miliziani del califfo, dovranno cercare di allearsi con le milizie sciite filo iraniane. Non solo, ma la ribellione si prepara ad esplodere anche nelle regioni del nord, da Mosul a Kirkuk e nelle province occidentali dell’Anbar. A un anno dalla liberazione di Mosul e della piana di Ninive dall’Isis, il terrorismo jihadista torna a colpire nelle stesse zone dove nel 2013-14 si scontrava con i governativi. Sullo sfondo della crisi irachena il braccio di ferro tra Trump e gli ayatollah iraniani torna ad agitare le acque del Golfo. Si alza pesantemente il livello dello scontro tra Washington e Teheran. Gli americani vogliono impedire all’Iran di esportare il suo petrolio attraverso il Golfo mentre gli iraniani minacciano di chiudere lo Stretto di Hormuz dove transita quasi il 90% del greggio dei Paesi del Golfo. Hormuz è oggi uno dei terminal più importanti al mondo dove ogni giorno transitano superpetroliere da 150.000 tonnellate di stazza con poco meno di 20 milioni di barili di petrolio.

Filippo Re

dal settimanale “La Voce e il Tempo”