REPORTAGE DI MARCO TRAVAGLINI
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Il premio Nobel Orhan Pamuk ha definito l’opera di De Amicis “il miglior libro scritto su Istanbul nel diciannovesimo secolo”, mentre Umberto Eco ha più volte sottolineato come la descrizione offerta da De Amicis della città sia la più cinematografica
“L’emozione che provai entrando in Costantinopoli…”
“L’emozione che provai entrando in Costantinopoli mi fece quasi dimenticare tutto quello che vidi in dieci giorni di navigazione dallo stretto di Messina all’imboccatura del Bosforo”. Così iniziò il suo “Costantinopoli” Edmondo De Amicis, pubblicato a Milano dai Fratelli Treves nel 1877, nove anni prima del suo più grande successo, il libro “Cuore”. Il premio Nobel Orhan Pamuk ha definito l’opera di De Amicis “il miglior libro scritto su Istanbul nel diciannovesimo secolo”, mentre Umberto Eco ha più volte sottolineato come la descrizione offerta da De Amicis della città sia la più cinematografica. E come dar torto a De Amicis quando i suoi ricordi sbiadiscono nella mente dopo visto il Corno d’oro, al punto “ che se ora li volessi descrivere, dovrei lavorare più d’immaginazione che di memoria”. “Perché la prima pagina del mio libro m’esca viva e calda dall’anima – aggiungeva – debbo cominciare dall’ultima notte del viaggio, in mezzo al mare di Marmara, nel punto che il capitano del bastimento s’avvicinò a me e al mio amico Yunk, e mettendoci le mani sulle spalle, disse col suo schietto accento palermitano: – Signori! Domattina all’alba vedremo i primi minareti di Stambul”. Istanbul, approdo dell’Occidente e punto di partenza per l’Oriente, è l’incrocio di culture millenarie: la Bisanzio dei greci, la Costantinopoli dei romani, unica città al mondo a cavallo di due continenti. Città straordinaria, somma di scontri e fusioni di culture raffinate ed opposte, è stata capitale di tre imperi: quello romano, quello bizantino e quello ottomano. E già questo sarebbe sufficiente per descrivere i mille volti di una metropoli di 14 milioni di abitanti ( la più grande d’Europa, la terza al mondo) traboccante di storia, multietnica per vocazione e cultura, in bilico tra passato e futuro.
Sultanahmet, la città vecchia
A Sultanahmet, la città vecchia, bastano pochi passi per incontrare la storia. Si staglia la bizantina Ayasofya, considerata la chiesa più grande del mondo per la sua poderosa mole fino a quando ( nove secoli dopo) non fu costruita la cattedrale di Siviglia, trasformata in moschea da Maometto II a metà del 1400 e , nel 1935, in museo per volontà del fondatore della Repubblica di Turchia, Mustafa Kemal Atatürk. Di fronte si erge l’elegante, Sultanahmet camii , meglio conosciuta come la Moschea Blu, che deve il suo nome dalle 21.043 piastrelle di ceramica turchese inserite nelle pareti e nella cupola, facendone il colore dominante nel tempio. Pareti, colonne e archi sono ricoperti dalle maioliche di İznik (l’antica Nicea), con toni che variano dal blu al verde. La Moschea Blu, che risale ai primi anni del 1600, è anche l’unica a poter vantare ben sei minareti, superata in questo solo dalla moschea della Ka’ba, alla Mecca, che ne ha sette. Secondo una leggenda popolare, questa particolarità è stata il frutto di un fraintendimento: l’espressione delle manie di grandezza del sultano Ahmed I, non potendo eguagliare la magnificenza della moschea di Solimano né quella della prospiciente Santa Sofia, non trovò soluzione migliore per cercare di distinguerla che i minareti in oro; ma l’architetto interpretò male le parole del sultano, capendo “altı” (in turco “sei”) anziché “altın” (oro). E poi l’Ippodromo, con l’obelisco di Teodosio e la colonna Serpentina in bronzo e la bizantina Basilica Cisterna, la Yerebatan Sarnici. Scoperta sul finire del XIX secolo, la cisterna fu costruita sotto il regno Giustiniano I, il periodo più prospero dell’Impero romano d’Oriente, nel 532. Oggi , millecinquecento anni dopo, si presenta come un ambiente incredibile, suggestivo, unico; un enorme spazio sotterraneo, in cui si trovano dodici file di 28 colonne alte 9 metri e distanziate di quasi cinque metri l’una dall’altra.
L’Occidente e il sogno dell’Oriente
Istanbul , com’è stata chiamata fin dalla conquista ottomana del 1453, ma com’è denominata ufficialmente solo all’indomani della Prima guerra mondiale, è una sorpresa continua. “Nèa Ryme”, Nuova Roma, secondo il suo nome ufficiale, per gli amanti della storia. Costantinopoli, il suo vero nome, da sempre e per sempre. Un nome che evoca immagini mirabili: il sogno dell’Oriente, le lontananze raggiungibili attraverso il Bosforo e l’Anatolia. Le moschee, gli harem, i sufi danzanti, gli aromi del bazar delle spezie, il caos dei commerci e delle contrattazioni ad alta voce del Gran Bazar, il cibo e le stoffe, le ceramiche colorate e l’artigianato che riserva mille sorprese. Si dice che da mezzo millennio l’Europa identifica in quella sola città il prezioso anello di congiunzione fra l’antichità perduta e la modernità mai davvero raggiunta, fra il Levante e l’Occidente. Ed oggi, dentro questa megalopoli brulicante di vita, piena di suoni e profumi, è normale e per certi versi inevitabile cercare le tracce d’un passato che in fondo appartiene a noi tutti e che tuttavia, come ha scritto uno storico famoso “inseguiamo nel sogno orientalistico attraverso il quale l’Occidente cerca da secoli di definire se stesso”.
Oltre il ponte di Galata
Se si attraversa il ponte di Galata si può raggiungere la celebre torre di pietra, alta più di sessanta metri, con mura spesse quasi quattro. Quando venne costruita, nel 1348 dai “ceneviz” , dai genovesi) che la battezzarono Christea Turris (Torre di Cristo). In origine la torre faceva parte delle fortificazioni che circondavano la cittadella di Galata e quando venne edificata era l’edificio più alto della città. Galata (o anche Pera) è il nucleo storico situato nella parte nord del Corno d’Oro, l’insenatura che lo separa dal centro storico cittadino. Il Corno d’Oro è attraversato da parecchi ponti e il più importante è proprio quello di Galata che, a differenza di quando pensano alcuni, non attraversa il Bosforo, ma collega solo le due parti della città vecchia (sul lato europeo) di Istanbul, scavalcando appunto il Corno d’Oro. Stando a quanto affermato dallo scrittore ottomano Evliya Çelebi, tra il 1630 e il 1632 ci fu chi ( pare si chiamasse Hezarfen Ahmet Çelebi), utilizzando delle ali artificiali, spiccò il volo dalla torre per sorvolare il Bosforo e atterrare a Üsküdar, quartiere che sorge a sei chilometri, nella zona asiatica della città. Vera o falsa che sia, quella dell’Icaro ottomano, resta comunque una bella storia.
La belle epoque del Pera Palace
Se si sale ancora non si può evitare una sosta al celeberrimo Pera Palas , storico hotel costruito tra il 1892 e il 1895 allo scopo di ospitare i passeggeri dell’Orient Express, garantendo loro, nell’ultima tappa del viaggio iniziato dalla parigina Gare de l’Est, un alloggio paragonabile in eleganza e confort a quanto erano abituati in Europa. Considerato “il più vecchio hotel europeo della Turchia”, dal taglio ibrido sospeso tra il neoclassico, l’art nouveau e lo stile orientale, tipico dell’architettura di Istanbul del diciannovesimo secolo, il Pera Palas si presentò all’epoca come una meraviglia tecnologica: il primo edificio con alimentazione elettrica, dotato di acqua calda e del primo ascensore di tutta la città. Nelle sue stanze hanno alloggiato personalità e celebrità del mondo della cultura e dello spettacolo come Ernest Hemingway, Greta Garbo e Alfred Hitchcock, teste coronate, personaggi del jet set e donne misteriose come Mata Hari. La stanza 101, in cui era solito alloggiare Atatürk , il padre della Turchia moderna, laica e repubblicana, è stata adibita a museo in occasione del centesimo compleanno dello statista. In un’altra, la “411”, Agatha Christie scrisse il suo celebre romanzo “Assassinio sull’Orient Express”. La “patisserie” del Pera Palace vale il prezzo del lusso di sedersi sui divanetti damascati, sorseggiare un tè nelle tazze di porcellana, accompagnandolo con prelibati dolci, dai macaron alla tarte tatin e alle varie leccornie della tradizione francese. E per sottofondo, musica d’altri tempi, soffusa, avvolgente come la nebbiolina sulla Senna nelle foto virate seppia d’inizio novecento.
I manifesti di Davutoğlu
Riattraversando il ponte di Galata, poco distante, c’è la stazione di Sirkeci, il terminale dell’Orient Express. “Istanbul Gar”, dice la scritta fuori all’ingresso. Dentro ci si può sedere nelle sale d’attesa con le loro panche di legno e le vetrate colorate attraverso le quali traspaiono le luci del porto; sulle pensiline di legno dipinto color crema si aspettava l’arrivo del treno più affascinante di tutti i tempi. Attesa che, oggigiorno, si protrae piuttosto a lungo, considerato che nell’arco dei dodici mesi c’è un’unica corsa tra Parigi e Istanbul, a costi proibitivi. La cosa che colpiva, nella frenesia della vita di questa metropoli, era l’invadente, ossessiva,dilagante propaganda elettorale del Partito per la giustizia e lo sviluppo (Akp) del presidente Recep Tayyip Erdoğan. Ovunque campeggiava il volto di Ahmet Davutoğlu, il primo ministro turco. La Turchia si preparava ( l’appuntamento era fissato per il 7 giugno) ad andare alle urne per il rinnovo della Grande assemblea nazionale, il parlamento unicamerale del paese formato da 550 deputati eletti ogni 4 anni con un sistema proporzionale. La campagna elettorale molto spinta e quasi univoca, rendeva chiara la posta in gioco in un voto cruciale per le aspirazioni di Erdoğan, che voleva imprimere al paese una “svolta presidenziale” attraverso una riforma costituzionale. Per avere i voti necessari a far approvare la riforma, l’Akp doveva puntare a guadagnare almeno i tre quinti dei seggi. Nel sistema parlamentare turco, il presidente della repubblica ha un ruolo di garante, super partes e neutrale. Nei progetti di Erdoğan c’era invece una riforma presidenzialista in cui la divisione dei poteri fosse ridotta al minimo con un accentramento nelle mani del capo dello stato.
Il tramonto dei sogni del “sultano”
Il voto dei cittadini ha però infranto i sogni autoritari del “sultano” Recep Tayyip Erdoğan . A sbarrare il passo al presidente turco è stato il quarantenne Selahattin Demirtas, leader dell’Hdp, il partito filocurdo, definito lo “Tsipras turco”, che è riuscito nell’ incredibile impresa di superare la soglia del 10% e sbarcare in Parlamento con una ottantina di deputati (12,9%). Per la prima volta dal 2002 il partito filoislamico ( che ha perso quasi il 10%) non è in grado di formare un governo monocolore. Erdoğan aveva trasformato la contesa elettorale in un referendum sulla sua riforma presidenziale , raccogliendo così un giudizio negativo. Se le elezioni del 7 giugno hanno riconfermato la vitalità della democrazia turca, la sua maturità democratica e un certo dinamismo della popolazione ( ha votato l’85 % degli aventi diritto) , chiudendo un’epoca , rimane l’incertezza della transizione che potrebbe rivelarsi un percorso accidentato. Ma questa è un’altra storia. Intanto, chi rischia il posto è proprio l’onnipresente primo ministro che, all’ombra del Presidente, non ha certo brillato e potrebbe essere “scaricato” quanto prima da Erdoğan.
Gallipoli,1915
Sui muri, campagna elettorale a parte,non era infrequente vedere affissi i manifesti che ricordavano una mostra (ancora visitabile) o una celebrazione (appena svolta) del centenario dell’inizio della battaglia di Gallipoli – il 25 aprile 1915 – in cui l’Impero ottomano respinse l’offensiva della Triplice Intesa che puntava al controllo dello Stretto dei Dardanelli. La battaglia di Gallipoli durò nove mesi e causò 130 mila morti. Nove mesi di carneficina che non portarono ad alcun risultato sul terreno, ma che contribuirono a forgiare le identità nazionali di vari Stati. Infatti, in Turchia, questa battaglia costituì una svolta nella storia nazionale. Respingendo l’invasione occidentale, l’esercito dell’Impero Ottomano, alleato degli Imperi Centrali, forgiò il mito di Mustafa Kemal Atatürk, all’epoca giovane ufficiale, che pochi anni dopo fondò la Turchia moderna. Nessuno dubita che il secolare anniversario dello sbarco, ricordato come una delle peggiori sconfitte delle potenze occidentali durante il primo conflitto mondiale, è stato amplificata di molto anche per un altro scopo. Non occorre essere maliziosi per immaginare l’intenzione, del governo turco, di “mettere in ombra l’anniversario del genocidio armeno” riferendosi al massacro di circa un milione e mezzo di persone. Il fatto d’aver anticipato di un giorno le celebrazioni di Gallipoli ( al 24 aprile, anziché al giorno seguente) non fa che confermare questa tesi.
L’altro centenario, “il grande crimine”
I massacri della popolazione cristiana avvenuti in Turchia tra il 1915 e il 1916 sono ricordati dagli armeni come il Medz yeghern, “il grande crimine”. Le uccisioni cominciarono nella notte tra il 23 e il 24 aprile 1915, quando furono eseguiti i primi arresti tra l’élite armena di Costantinopoli. L’operazione continuò nei giorni successivi. In un mese più di mille intellettuali armeni, tra cui giornalisti, scrittori, poeti e parlamentari furono deportati verso l’interno dell’Anatolia. Secondo lo storico polacco Raphael Lemkin ( l’uomo che ha coniato il termine genocidio) si è trattato del primo episodio in cui uno stato ha pianificato ed eseguito sistematicamente lo sterminio di un popolo. La Turchia però non ha mai accettato la definizione di genocidio, sostenendo che le uccisioni compiute dall’impero Ottomano erano una risposta all’insurrezione degli armeni e alla necessità di difendere le sue frontiere. Di fatto è la storia che non passa, anche se sono trascorsi cento anni. Lo si è visto dalle reazioni del Governo turco alle parole di papa Francesco sul “genocidio”, pronunciate a San Pietro. Lo si è visto, viceversa, nelle parole delle autorità armene. Due posizioni differenti, contrapposte,ostili: gli armeni rivendicano il genocidio e i turchi parlano di un dramma tra tanti altri drammi dell`Impero ottomano in guerra. Alle spalle ci sono decenni di negazione, polemiche, dolori. Intanto le frontiere tra Armenia e Turchia sono chiuse. Ma perché è così difficile parlare di genocidio armeno? “Perché fissa l’orrore dell’annientamento sistematico di un intero popolo, rende visibili gli scomparsi, oltre un milione di persone mandate a morire secondo un progetto preciso. E ha tutto il peso di un crimine che non cade in prescrizione”. Le parole usate in un’intervista da Antonia Arslan, scrittrice di origine armena, autrice de “La masseria delle allodole” cadono come pietre e l’atteggiamento stizzito e negazionista di Erdogan e del suo governo fanno intendere quanto sia ancora lungo e periglioso il cammino di riconciliazione tra popolo armeno e popolo turco.
Il punto di partenza di tutte le strade
Si dice, proverbialmente, che “tutte le strade portano a Roma” e precisamente in un punto, nel Foro Romano, dove nel 20 a.C. Augusto, con l’idea di organizzare e riordinare l’impero, fece costruire una colonna rivestita di bronzo dorato che indicava il punto di partenza di tutte le strade, il punto da cui ogni distanza da allora in poi si sarebbe misurata. Lo stesso vale per Costantinopoli-Istanbul dove, nei pressi della Cisterna e di Santa Sofia s’incontra un modesto pilastro di pietra sbrecciato, seminascosto, sul quale di solito le guide turistiche sorvolano. Quel pilastro è il Milion o Miliarium, il Milliario d’Oro, tutto quel che rimane del Tetrastoon, il quadriportico dell’Augusteion costantiniano dal quale, come a Roma, iniziavano le strade e si misuravano le distanze per tutto l’impero. Una moderna cartellonistica, a fianco, indica le distanze delle principali città del mondo e con un po’ di fantasia ci si sente davvero al centro del vecchio mondo, dove Oriente e Occidente si uniscono in un mosaico di civiltà. Come direbbe Paolo Rumiz, evocando il nostro immaginario, l’Occidente e l’Oriente intesi come “un portale che schiudeva mondi nuovi”, rimpiazzato frettolosamente oggigiorno con dei freddi monosillabi astronomici: “Ovest” e “Est”.
Eyüp, a nord del Corno d’Oro
Infine, Eyüp, il meraviglioso quartiere posizionato nella parte settentrionale del Corno d’Oro. Ci si arriva da Eminönü con l’autobus o in alternativa con un taxi ( è raccomandabile contrattare la tariffa, per evitare sorprese). Si respira un’aria del tutto particolare in questo quartiere religioso che reclama rispetto. E’ a Eyüp che s’incontra una delle moschee più suggestive di Istanbul: la più sacra di tutte, una di quelle che solitamente i turisti ignorano, intenti a visitare le altre, più note e celebrate. La moschea di Eyüp – per essere precisi, la Eyüp Sultan Camii – è tutt’altra cosa: una delle più antiche (se non la più antica, secondo molte fonti) della città, famosa perché sacra proprio in virtù della tomba di Eyyûb/Eyüp, porta-stendardo del Profeta Maometto morto durante l’assedio arabo del VII secolo e poi apparso in sogno per svelare il luogo della sua sepoltura e dare nuova carica nel corso dell’assedio vincente del 1453. Tutt’attorno si trovano le tombe di alti dignitari ottomani, ed era il luogo in cui i nuovi sultani venivano consacrati dal Gran maestro sufi. Da lì paret la teleferica che porta al Pierre Loti Cafè ( dedicato allo scrittore francese che amava Istanbul) da dove si può godere una meravigliosa vista sul Corno d’Oro e sulla città “delle mille e una notte”. Indimenticabile, unica, è una città che lascia il segno. Ci si può innamorare e Istanbul, a quel punto, rubata l’anima, non la lascerà più fuggire.
Marco Travaglini