In un periodo in cui gli schermi di cinema e televisione vanno riscoprendo il fascino delle sovrane di tempi più o meno recenti, con un gran bel bagaglio di intrighi, bellezze, storie e pettegolezzi – ancora una volta la lotta tra Elisabetta I e la cugina Maria Stuarda (Margot Robbie e Saoirse Ronan si fronteggiano da domani), Olivia Colman, già forte di una Coppa Volpi e di un Golden Globe, tra una settimana agiterà come Anna d’Inghilterra i sonni (e le lenzuola) della sua Favorita e poi passerà a indossare gli abiti di Elisabetta II nella serie The Crown su Netflix, in Spagna furoreggia Isabel sulla regina di Castiglia e Helen Mirren si trasforma nella Grande Caterina di Russia, da noi come regina Anna di Dumas Margherita Buy ha nuovamente bisogno dei Moschettieri per salvare la Francia dalle mire di Mazarino -, è giusto che Torino riscopra le sue Madame Reali, ovvero Cristina (o meglio Chrestienne) di Francia e Maria Giovanna Battista di Savoia Nemours, che nello spazio di poco più di un secolo portarono “cultura e potere da Parigi a Torino”, come recita il sottotitolo della mostra allestita sino al 6 maggio nella sala del Senato a Palazzo Madama e curata dalle conservatrici del museo Clelia Arnaldi di Balme e Maria Paolo Ruffino. Un potere che vide la figura femminile in prima linea, nella difesa del proprio ruolo e nella volontà di rafforzare uno stato che potesse competere con capitali quali Parigi, Vienna o Madrid, politicamente e culturalmente. A testimonianza dell’opera delle due sovrane, sono esposte nel percorso dei vari ambienti che compongono la mostra oltre 120 opere, tra dipinti (due di essi, di Claude Dauphin e del Buffi, ritratti equestri dalle grandi proporzioni, ce le mostrano all’apice della loro grandezza, in abiti elegantissimi e cappelli piumati, la spada ben stretta in mano, mentre la Vittoria alata le precede al suono della tromba; altre opere in mostra di Anton Van Dyck, Carlo Maratta, Maurizio Sacchetti, Giovanna Garzoni, Francesco Cairo, Jan Miel), oggetti d’arte, arredi, tessuti (tra gli altri, quelli raffinati che la Compagnia delle Indie portava in Europa), gioielli, oreficerie, maioliche bianche e blu, di importazione cinese, che ispireranno la produzione delle manifatture di maioliche locali; e ancora ceramiche, disegni e incisioni, tutti provenienti da prestiti di collezionisti privati e di importanti musei italiani ed esteri, tra gli altri dalle Gallerie degli Uffizi ai Musei di Belle Arti e dei Tessuti di Lione, dal Museo del Castello di Versailles al Castello di Racconigi, dal Museo del Rinascimento di Ecouen al Prado di Madrid.
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Opere piccole o grandi che ripropongono anche la quotidianità della corte, il momento della toeletta e la tavola, il piacere della conversazione tra dame arricchito da cerimoniali e ambienti che ripropongono il gusto francese nei mobili, nei parati in “corame d’Olanda”, nei servizi di porcellana pronti per assaporare thè e cioccolate e caffè: non dimenticando una citazione all’attrazione per l’Oriente che crebbe proprio in quei decenni tra le corti europee, alla moda con il privilegio a quella d’oltralpe (nuovi tessuti e nuovi gioielli, con la ricchezza di diamanti e perle) che va a sostituirsi a quella spagnola che aveva imperato durante i governi di Carlo Emanuele I e di Anna d’Austria. Cristina, terzogenita del re di Francia Enrico IV di Borbone e di Maria de’ Medici (in mostra i due loro ritratti dovuti a Frans Pourbus il Giovane, provenienti da Firenze), nasce a Parigi nel palazzo del Louvre e tredicenne, nel 1619, giunse a Torino da Parigi per andare sposa a Vittorio Amedeo I di Savoia, compiendosi un matrimonio che avrebbe rafforzato l’alleanza tra il Piemonte e la Francia e dato alla corte torinese un prestigio maggiore tra le corti europee. Cristina predilesse le feste, i balletti di corte, cui partecipò con assiduità e che affidò alle coreografie di Filippo d’Aglié (anche lui rappresentato in mostra), suo amante e fedele consigliere nonché cortigiano raffinato; fece ampliare e arredare due residenze extraurbane, il grandioso castello del Valentino (ad opera del Castellamonte) e la Vigna in collina (ad opera di padre Andrea Costaguta, l’attuale villa Abegg), trasformò quella che era la piazza per il mercato del vino nella elegante Place Royale (la piazza San Carlo di oggi). Rimasta vedova nel 1637 (un quadro di Philibert Torret, appartenente alla collezione Intesa San Paolo, che è partner della mostra, la rappresenta in abiti vedovili), assunse la reggenza del figlio Carlo Emanuele II, di non ancora cinque anni e subentrato al trono in seguito alla morte in giovanissima età del fratello Francesco Giacinto. Lo scontro con i cognati, il cardinale Maurizio e Tommaso di Savoia-Carignano, sostenitori della corte spagnola, fu inevitabile, “principisti” e “madamisti” si fronteggiarono dando il via ad una guerra civile che si protrasse sino al 1642, anno in cui il matrimonio della giovane Ludovica con lo zio cardinale (una dispensa papale salvò prontamente la situazione, anche se lo sposo, pur avviato in giovane età alla carriera ecclesiastica, non aveva mai preso gli ordini sacri) pose fine al conflitto. Mantenendo l’indipendenza del ducato, la sovrana passò il comando al figlio soltanto nel 1648, anche se di fatto fu lei a governare sino all’anno della morte, nel 1663. Due anni dopo, sposa di Carlo Emanuele, giungerà Maria Giovanna Battista di Savoia-Nemours, pronipote di Enrico IV, dama di corte della regina di Francia e cugina del Re Sole.
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Vedova dopo soli dieci anni, si vide costretta a fronteggiare un lungo periodo di carestia, istituì un Monte di pietà e fondò l’ospedale di San Giovanni Battista. Fu reggente fino al 1684 (approfittando del suo potere, tentò di allontanare il figlio dalla corte grazie ad un matrimonio con la figlia del re del Portogallo: un’unione che avrebbe anche sviluppato una nuova rete di commerci con quel paese e con le sue colonie), anno in cui l’erede Vittorio Amedeo II con quello che può essere definito un vero colpo di stato assunse il potere. Privata del comando, si dedicò all’arte e, completandoli, ai vari ampliamenti della città, alle chiese e alla costruzione di nuove vie e piazze (gli ampliamenti verso est, che hanno il loro fulcro nella cosiddetta piazza Carlina), istituì il ghetto ebraico, chiamò Filippo Juvarra per affidargli la realizzazione dello scalone d’onore di Palazzo Madama e l’abate Guarini per la chiesa della Consolata. Fu accusata quest’ultima soprattutto di organizzare feste a palazzo assai dispendiose (al fine di allontanare il figlio dalle occupazioni politiche, si disse), che intaccarono non poco il tesoro della corte: come certi comportamenti piuttosto liberi contribuirono a metterla in cattiva luce agli occhi dei più. Come chi l’aveva preceduta nel comando, espìa omaggiando il Santuario di Oropa e la sua Madonna nera di ostensori o di preziosi pendenti, in oro smaltato e diamanti, sceglie al termine della vita uno stato di devozione e di povertà, per la sepoltura il dimesso abito delle Carmelitane scalze, una veste di panno marrone, lo scapolare con il soggolo bianco, il velo nero. Il corpo di Cristina viene portato in Santa Cristina, in epoca napoleonica sarà traslato nella chiesa di Santa Teresa. Maria Giovanna Battista è seppellita nel Duomo, ma il suo cuore, protetto in una scatola d’argento, è consegnato alle Carmelitane.
Elio Rabbione
Nelle immagini, nell’ordine:
Charles Dauphin, “Ritratto equestre di Cristina di Francia in veste di Minerva”, 1663 ca, olio su tela, Castello di Racconigi;
Giovanni Luigi Buffi (?), “Ritratto equestre di Maria Giovanna Battista di Savoia Nemours”, terzo quarto del XVII secolo, olio su tela, Palazzo Madama – Museo Civico di Arte Antica, Torino;
“Pendente raffigurante la Vergine con Sant’Anna e il Bambino”, dono di Cristina di Francia, prima metà del XVII secolo, oro smaltato e diamanti. Oropa, Tesoro del Santuario. (Ph Paola Rosetta);
Jan Miel (1599 – 1663) e collaboratori (?), “Ritorno di Cristina di Francia con il giovane Carlo Emanuele II a Torino” 1645 post – 1660, olio su tela. Racconigi, Reale Castello.