COSA SUCCEDE(VA) IN CITTA’
Quarant’anni fa, a Vallette … I “migliori” anni della mia scuola

Dome (Domenico) me lo ritrovai praticamente addosso, una mattina di metà Anni Novanta, lungo un affollatissimo (di giornalisti, cameraman, industriali e autorità varie) corridoio del palazzo dell’“Unione Industriale” di Torino, in via Fanti. Microfono, il sottoscritto, in mano e tanto di operatore a seguito, quasi mi sollevò da terra mentre con un’orda indistinta di altri famelici colleghi giornalisti, si inseguiva Cesare Romiti – allora presidente e ad del Gruppo Fiat – alla ricerca di qualche dichiarazione, di una “battuta” (bastava, per costruirci un servizio, se surrogata dall’importanza del personaggio) di quelle che il padre della marcia dei 40mila non mancava mai di elargire, con signorile umorismo – marchio Lingotto e con saggia misura, a noi avidi raccoglitori di notizie fresche fresche di giornata. Collaboravo allora con la redazione torinese di “Videogruppo Tv”. Domenico – dicevo – me lo ritrovai quasi addosso, una barriera umana insormontabile e ben difficile da aggirare, una montagna d’uomo che dimostrava di ben conoscere il suo non facile mestiere. Sì … ma perbacco c’è modo e modo… Le brusche maniere di quel “voluminoso” bodyguard mi irritarono non poco. Ma che diamine! Mi venne da esclamare. Ma … ma … Domenico … che ci fai tu qui? Occhi sgranati … i suoi. Occhi sgranati … i miei! Erano passati oltre vent’anni, dai tempi in cui Dome (diminutivo d’affetto) frequentava le “medie” alla “Carlo Levi”. Ragazzo esemplare, estroverso, compagnone, a scuola era ben voluto da tutti, ragazzi e professori. Educatissimo, rispettoso, sempre pronto ad aiutare i compagni in difficoltà. Mi risulta (non era mio alunno, ma il lungo corridoio al primo piano era casa di tutti) fosse anche, dal punto di vista del profitto scolastico, fra i migliori della sua classe. Domenico era, fra l’altro (e credo che il particolare non fosse di poco conto rispetto alla bontà del suo comportamento e rendimento scolastico) figlio di una delle più simpatiche ed efficienti bidelle – pardon! operatrici scolastiche – della scuola. Come dire: sorvegliato a vista da docenti e mamma-bidella. Anche se lui non ne aveva proprio bisogno, perché era davvero ragazzo serio e coscienzioso di suo, che non avrebbe mai potuto, nonostante le molte tentazioni e scappatoie offerte dal quartiere, imboccare una “brutta strada”. E, per l’appunto, eccolo lì, ad anni di distanza, a far da “guardaspalle” al “mastino” o “sgiafelaleun” (com’era solito chiamarlo l’ex-sindaco di Torino “Penna bianca” Novelli) di casa Fiat. Agente della Digos. Dome era stato assegnato a incarichi speciali e sicuramente delicati, come far da scorta a politici, a personaggi pubblici, agli uomini Fiat e addirittura, in alcuni casi, all’Avvocato e ai membri della famiglia Agnelli. Quella mattina all’“Unione Industriale” tacchinava fiatosulcollo, cercando di proteggerlo dalla mischia orgiastica dei media il presidente Romiti. Vedendomi e riconoscendomi dopo le mie malcelate ed improvvide “proteste”, cercò per quanto possibile – e, diciamola tutta, venendo un po’ meno agli impegni ferrei cui doveva in ogni caso sottostare – di aprirmi un piccolo varco agevolandomi in qualche modo nel far arrivare il mio microfono a portata di bocca del Presidente. Che qualche “battuta” (non ricordo l’argomento) generosamente, bontà sua, ce la elargì. Al termine dell’inseguimento, prima di chiudersi in ascensore con l’illustre protetto, mi strizzò l’occhio … come dire … in fondo glielo dovevo, dopo tanti anni in via delle Magnolie! Grazie Dome. Anche tu ce l’avevi fatta e mi regalavi convinzioni importanti, di quelle che a un povero prof. fanno toccare il cielo con un dito. Per un motivo soprattutto. Perché al tuo “successo” nella vita capivo che
potevano aver contribuito (in parte, oltre all’indiscutibile educazione famigliare, alle amicizie e quant’altro) anche quelle giornate passate fra i banchi della “Levi” e le confidenze rubate agli intervalli e ogni qual volta avevi avuto modo di parlare con quel prof. già allora spelacchiato e con tanti altri suoi colleghi e tuoi docenti che in te e in molti tuoi compagni avevano creduto e puntato il tutto per tutto, giocando le carte più importanti, sfiancanti ma vincenti, del loro difficile mestiere. Domenico lo rividi in altre occasioni. Lui sempre impegnato nel suo lavoro di “scorta” – grisaglia classica come da copione, cravatta blu, occhiali scuri, auricolari d’ordinanza – io calato nei panni del giornalista ma per lui sempre e solo prof. Ho rivisto Dome, per l’ultima volta, nel marzo del 2014. Per caso. Ci incontrammo sulla Metro, nel tratto che da “Racconigi” (dove salivo solitamente) arriva a “Porta Nuova”. Un omone con il cuore da bambino. Una montagna di capelli ricci, neri con qualche grigia sfumatura. L’età ormai superava i primi anta. Sposato, padre tenerissimo. Ora – mi raccontò – mi occupo di sicurezza negli stadi. Il piglio sempre uguale. Il mestiere aveva semplicemente dato struttura a quell’incapacità innata di accettare soprusi e di mettersi sempre dalla parte dei più deboli e indifesi che era propria del Domenico, ragazzotto di belle speranze, alunno che ce ne fossero tanti e idolo incontrastato delle fanciulle di via delle Magnolie. A Vinzaglio ci salutammo. Vengo a salutarti in ufficio, prima che tu vada in pensione, mi urlò. Il tu si sostituisce spesso, e in modo spontaneo, al lei in quegli alunni che hai conosciuto adolescenti, condividendo con loro rapporti di sincera empatia, e che, a distanza di anni (se ancora sei “riconoscibile” e il tempo non ha infierito su di te in modo impietoso) rivedi uomini fatti. In pensione ci andai a fine marzo. Da lì a pochi giorni sarei diventato nonno della bimba più bella di questo mondo. Da allora, non l’ho più rivisto. Il suo bonario sorriso mi accompagnò lungo la scala mobile fino alla ripartenza del convoglio. Ma ne sono certo. Prima o poi, caro Dome, ci sarà ancora un “Racconigi – Vinzaglio” tutto per noi.
Gianni Milani
Fuori, al passaggio del feretro, si alzò un grande applauso. Quell’applauso – mi sono poi detto- era quasi un segno di “indennizzo” per quanto, tutti quelli che stavano lì, sottoscritto compreso, non erano riusciti a fare per lui, negli anni della sua breve vita … Non seguii la lenta processione che lo accompagnò alla vicina Chiesa parrocchiale. Me ne tornai a scuola, un nodo profondo alla gola. Entrai in classe, Ragazzi dobbiamo subito parlare. Sul suo banco vuoto qualcuno aveva posato un fiore rosso. Mi voltai alla lavagna e scrissi Ciao Vincé, ti abbiamo voluto bene, ci mancherai! Fu allora che tutta la classe si alzò e, in silenzio, fece cerchio fitto attorno alla cattedra. Ragazzi, Vincenzo non lo dimenticheremo mai. Quel banco vuoto, con quel fiore rosso messo lì a gridargli ‘amore’ sarà per sempre il suo. Ma attenzione! Vincenzo, ne sono sicuro, ha voluto lasciarci un messaggio e guai a non ascoltarlo. Un messaggio che vi dovrà accompagnare per sempre. Siate fortemente consapevoli della vostra libertà di scegliere. E, soprattutto, non dimenticate mai che ogni vostra scelta avrà sempre le sue conseguenze. Positive. Ma anche negative. Per voi e per quanti vi stanno attorno e si preoccupano per voi. Riflettete bene su questo. Vincenzo ne sarebbe felice!”. Il silenzio inondava l’aula. E qualcuno, ritornando al proprio banco, sfiorò e accarezzò quel fiore rosso.
A quel primo incontro con Roberto (braccia rubate alle spiagge riminesi) si accompagnò il bonario sorriso di un altro collega con cui avrei stretto fin da subito una profonda amicizia, quel Franco Molinaro calabrese di Paola che insegnava Educazione Tecnica e che addosso sembrava portarsi in modo assolutamente garbato e discreto una silenziosa e tenera malinconia, legata forse alla memoria della sua terra e dei famigliari che aveva da poco lasciato. Ben arrivato, mi disse Franco mostrandomi i cassetti personali degli insegnanti. Avanti tutta, fratello!Mi rincuorò, porgendomi la mano con un gesto pontificale, il tonante a valanga – jeans, una piccola croce sul maglione a girocollo blu e ciuffo ribelle catapultato in fronte – don Ruggero Marini, vicentino di Thiene e collega di Religione che quattro anni dopo celebrerà le mie nozze con Patrizia. In fondo il Bronx è tutta un’altra cosa, gli fece eco Rodolfo D’Elia, saggio collega di Inglese che, in ricercato look english riattato alle esigenze del luogo, mi spinse sottobraccio in corridoio ( il braccio della morte mi “rassicurò” un’altra avvenente collega di Lettere che sembrava per caso appena piombata lì da Marte) verso l’aula a me destinata. Una Terza: sezione F. Una ventina di facce incuriosite. Neppure un accenno ad alzarsi in piedi. Comodi, comodi!Voce tremula e battutaccia da “splendido” che non arrivò, manco di sghimbescio, com’era prevedibile, ai mittenti. Così tanto per conoscerci, io mi chiamo Gianni Milani… Embé e a noi?! La muta risposta che mi parve di intuire sulle facce dei più. Alzai lo sguardo e – chissà perché – fu allora che in testa, mi risuonò come pura energia la voce rabbiosa e arrugginita del “Boss”, in quel pezzo memorabile che ogni mattina facevo risuonare, volume a palla, nella raffazzonata autoradio della mia vecchia Carolina: We gotta get out while we’re young/ Cause tramps like us, baby we were born to run /Dobbiamo fuggire finché siamo giovani … o finché siamo in tempo?mi veniva da correggere e interpretare, se non fosse che subito dopo mi sentivo patentato dallo stesso “Boss” ad essere nato per correre.
Restai dunque ancorato a quei giovani occhi – una quarantina – che mi sfidavano, chi più chi meno, con grintosa strafottenza. Ce l’avrei fatta? Dovevo. Dovevo correre. Correre e non fuggire! Ricacciare e spernacchiare quell’ intrigante voglia di vil fuga. Davanti a me, una corsa che più a ostacoli non si poteva. Ma uno per uno, quegli ostacoli me li sarei pappati tutti. A quel punto ne ero fortissimamente e – forse con una buona dose di presuntuosa incoscienza – più che mai certo e convinto.