Facce da scuola

Dome. Proprio tu, in quella selva di microfoni / “Facce da scuola” 8

COSA SUCCEDE(VA) IN CITTA’

Quarant’anni fa, a Vallette … I “migliori” anni della mia scuola

 

Gianni Milani

Dome (Domenico) me lo ritrovai praticamente addosso, una mattina di metà Anni Novanta, lungo un affollatissimo (di giornalisti, cameraman, industriali e autorità varie) corridoio del palazzo dell’“Unione Industriale” di Torino, in via Fanti. Microfono, il sottoscritto, in mano e tanto di operatore a seguito, quasi mi sollevò da terra mentre con un’orda indistinta di altri famelici colleghi giornalisti, si inseguiva Cesare Romiti – allora presidente e ad del Gruppo Fiat – alla ricerca di qualche dichiarazione, di una “battuta” (bastava, per costruirci un servizio, se surrogata dall’importanza del personaggio) di quelle che il padre della marcia dei 40mila non mancava mai di elargire, con signorile umorismo – marchio Lingotto e con saggia misura, a noi avidi raccoglitori di notizie fresche fresche di giornata. Collaboravo allora con la redazione torinese di “Videogruppo Tv”. Domenico – dicevo – me lo ritrovai quasi addosso, una barriera umana insormontabile e ben difficile da aggirare, una montagna d’uomo che dimostrava di ben conoscere il suo non facile mestiere. Sì … ma perbacco c’è modo e modo… Le brusche maniere di quel “voluminoso” bodyguard mi irritarono non poco. Ma che diamine! Mi venne da esclamare. Ma … ma … Domenico … che ci fai tu qui? Occhi sgranati … i suoi. Occhi sgranati … i miei! Erano passati oltre vent’anni, dai tempi in cui Dome (diminutivo d’affetto) frequentava le “medie” alla “Carlo Levi”. Ragazzo esemplare, estroverso, compagnone, a scuola era ben voluto da tutti, ragazzi e professori. Educatissimo, rispettoso, sempre pronto ad aiutare i compagni in difficoltà. Mi risulta (non era mio alunno, ma il lungo corridoio al primo piano era casa di tutti) fosse anche, dal punto di vista del profitto scolastico, fra i migliori della sua classe. Domenico era, fra l’altro (e credo che il particolare non fosse di poco conto rispetto alla bontà del suo comportamento e rendimento scolastico) figlio di una delle più simpatiche ed efficienti bidelle – pardon! operatrici scolastiche – della scuola. Come dire: sorvegliato a vista da docenti e mamma-bidella. Anche se lui non ne aveva proprio bisogno, perché era davvero ragazzo serio e coscienzioso di suo, che non avrebbe mai potuto, nonostante le molte tentazioni e scappatoie offerte dal quartiere, imboccare una “brutta strada”. E, per l’appunto, eccolo lì, ad anni di distanza, a far da “guardaspalle” al “mastino” o “sgiafelaleun” (com’era solito chiamarlo l’ex-sindaco di Torino “Penna bianca”  Novelli) di casa Fiat. Agente della Digos. Dome era stato assegnato a incarichi speciali  e sicuramente delicati, come far da scorta a politici, a personaggi pubblici, agli uomini Fiat e addirittura, in alcuni casi, all’Avvocato e ai membri della famiglia Agnelli. Quella mattina all’“Unione Industriale” tacchinava fiatosulcollo, cercando di proteggerlo dalla mischia orgiastica dei media il presidente Romiti. Vedendomi e riconoscendomi dopo le mie malcelate ed improvvide “proteste”, cercò per quanto possibile – e, diciamola tutta, venendo un po’ meno agli impegni ferrei cui doveva in ogni caso sottostare – di aprirmi un piccolo varco agevolandomi in qualche modo nel far arrivare il mio microfono a portata di bocca del Presidente. Che qualche “battuta” (non ricordo l’argomento) generosamente, bontà sua, ce la elargì. Al termine dell’inseguimento, prima di chiudersi in ascensore con l’illustre protetto, mi strizzò l’occhio … come dire … in fondo glielo dovevo, dopo tanti anni in via delle Magnolie! Grazie Dome. Anche tu ce l’avevi fatta e mi regalavi convinzioni importanti, di quelle che a un povero prof. fanno toccare il cielo con un dito. Per un motivo soprattutto. Perché al tuo “successo” nella vita capivo che potevano aver contribuito (in parte, oltre all’indiscutibile educazione famigliare, alle amicizie e quant’altro) anche quelle giornate passate fra i banchi della “Levi” e le confidenze rubate agli intervalli e ogni qual volta avevi avuto modo di parlare con quel prof. già allora spelacchiato e con tanti altri suoi colleghi e tuoi docenti che in te e in molti tuoi compagni avevano creduto e puntato il tutto per tutto, giocando le carte più importanti, sfiancanti ma vincenti, del loro difficile mestiere. Domenico lo rividi in altre occasioni. Lui sempre impegnato nel suo lavoro di “scorta” – grisaglia classica come da copione, cravatta blu, occhiali scuri, auricolari d’ordinanza – io calato nei panni del giornalista ma per lui sempre e solo prof. Ho rivisto Dome, per l’ultima volta, nel marzo del 2014. Per caso. Ci incontrammo sulla Metro, nel tratto che da “Racconigi” (dove salivo solitamente) arriva a “Porta Nuova”. Un omone con il cuore da bambino. Una montagna di capelli ricci, neri con qualche grigia sfumatura. L’età ormai superava i primi anta. Sposato, padre tenerissimo. Ora – mi raccontò –  mi occupo di sicurezza negli stadi. Il piglio sempre uguale. Il mestiere aveva semplicemente dato struttura a quell’incapacità innata di accettare soprusi e di mettersi sempre dalla parte dei più deboli  e indifesi che era propria del Domenico, ragazzotto di belle speranze, alunno che ce ne fossero tanti e idolo incontrastato delle fanciulle di via delle Magnolie. A Vinzaglio ci salutammo. Vengo a salutarti in ufficio, prima che tu vada in pensione, mi urlò. Il tu si sostituisce spesso, e in modo spontaneo, al lei in quegli alunni che hai conosciuto adolescenti, condividendo con loro rapporti di sincera empatia, e che, a distanza di anni (se ancora sei “riconoscibile” e il tempo non ha infierito su di te in modo impietoso) rivedi uomini fatti. In pensione ci andai a fine marzo. Da lì a pochi giorni sarei diventato nonno della bimba più bella di questo mondo. Da allora, non l’ho più rivisto. Il suo bonario sorriso mi accompagnò lungo la scala mobile fino alla ripartenza del convoglio. Ma ne sono certo. Prima o poi, caro Dome, ci sarà ancora un “Racconigi – Vinzaglio” tutto per noi.

Gianni Milani

Vincenzo. Lui… fra i “sommersi”/ “Facce da scuola” 6

COSA SUCCEDE(VA) IN CITTA’

Quarant’anni fa, a Vallette … I “migliori” anni della mia scuola

 

Gianni Milani

Già, o “sommersi” o “salvati”. Lo so bene. Il paragone è certamente azzardato. Ma quando penso ai miei ex-ragazzi (oggi donne e uomini) di Vallette, il pensiero mi vola, per molti di loro, a “I sommersi e i salvati”, celebre saggio scritto nell’86, un anno prima della tragica scomparsa, da Primo Levi. Un po’ azzardato il parallelismo, me ne rendo ben conto. Vero è anche, però, che per le ragazze e i ragazzi di Vallette fine anni ’70, il margine che separava le due “possibilità” (seguire la strada giusta e salvarsi o sviare in quella sbagliata senza regole né legge, per esserne totalmente “sommersi”) era davvero molto molto sottile. Già a 12 o a 13 o a 14 anni, un buon gruppo dei miei alunni (e alunne) rischiavano infatti, un giorno sì e l’altro pure, di intrappolarsi in dolorosi e tragici “buchi neri” che ne avrebbero segnato l’intera esistenza. A salvarli, solo la libertà e la forza delle scelte. Con chi andare, dove andare, cosa fare, chi ascoltare. Ma spesso la scelta si rivelava sbagliata. Condizionata dal caso. Dalla famiglia. Dagli amici. Dalla scuola. Dal destino? E allora si tramutava in tragico salto all’ingiù verso abissi senza fine e con scarse possibilità di ritorno. Bastava un nulla a imboccare la strada infernale, tutta a curve. E da lì non se ne usciva che a gran fatica e con le ossa rotte. E doloranti, fino all’anima. In pochi, comunque. Volete vedere che in un attimo apro quella macchina e vado a farmi un bel giro per il quartiere? Ululo degli amici Uuuhh, ma non dire cazzate! Replica Scommettiamo? Gli amici Scommettiamo! In questa “scommessa” si riassume tutta la breve storia e le ultime ore di Vincenzo, fra i miei ragazzi della “Carlo Levi”, della succursale all’incrocio fra corso Molise e via Parenzo (oggi succursale del Professionale “Beccari”), primi anni ’80. Vincenzo ha chiuso gli occhi al mondo che forse non aveva ancora quattordici anni. Ripeteva la seconda media. A distanza di anni, il ricordo che ho di lui è ancora oggi più che mai nitido e doloroso. Vincé volò via una notte, alla guida di un’auto che si trovò fra le mani in un baleno (ci metto un attimo ad aprirla!) e in qualche strana via delle “nuove” Vallette, di quelle che allora si incrociavano facendo “paese” all’interno delle cosiddette “case gialle”, più “marroni” che “gialle”, in verità.

Con quell’auto non so bene cosa diavolo sia successo. Quel ch’é certo è che dietro una  curva, lo aspettava – mi par di ricordare – il pancione di un autocarro parcheggiato proprio lì all’angolo. La fine arrivò immediata. Ricordo la tragicità della notizia, arrivata a scuola la mattina seguente. Erano passati pochi mesi dall’inizio dell’anno scolastico e non ero ancora riuscito a stabilire un vero rapporto di “complicità”, didattica e a pelle, con lui. Ma di simpatia ed empatia, certamente sì. Più volte gli spiegai che aveva imboccato una bruta strada. Che non era la sua. Professò, voi avete ragione – mi rispondeva – ma io alla sera esco … andiamo a Torino (come dire, andiamo in centro… e devo fare quello che fanno gli altri. In sintesi: forse già allora fumare (roba varia), fare i bulli, fare a cazzotti con i fighetti e, per finire in bellezza la serata, inventarsi qualcosina, anche “di forte”, che potesse farti bello agli occhi del gruppo. Ad esempio metterti alla guida di una Cinquecento, che sembrava aspettarti lì a bella posta. Proprio lì. Tutta e solo per te. Richiamo irresistibile. Facile preda che ti avrebbe portato ai livelli più alti fra i fighi del quartiere. Ricordo il giorno del funerale … Non ho fatto in tempo a conoscerti abbastanza, Vincé, sussurrai dentro di me, quando la bara mi passò davanti.

Fuori, al passaggio del feretro, si alzò un grande applauso. Quell’applauso – mi sono poi detto- era quasi un segno di “indennizzo” per quanto, tutti quelli che stavano lì, sottoscritto compreso, non erano riusciti a fare per lui, negli anni della sua breve vita … Non seguii la lenta processione che lo accompagnò alla vicina Chiesa parrocchiale. Me ne tornai a scuola, un nodo profondo alla gola. Entrai in classe, Ragazzi dobbiamo subito parlare. Sul suo banco vuoto qualcuno aveva posato un fiore rosso. Mi voltai alla lavagna e scrissi Ciao Vincé, ti abbiamo voluto bene, ci mancherai! Fu allora che  tutta la classe si alzò e, in silenzio, fece cerchio fitto attorno alla cattedra. Ragazzi, Vincenzo non lo dimenticheremo mai. Quel banco vuoto, con quel fiore rosso messo lì a gridargli ‘amore’ sarà per sempre il suo. Ma attenzione! Vincenzo, ne sono sicuro, ha voluto lasciarci un messaggio e guai a non ascoltarlo. Un messaggio che vi dovrà accompagnare per sempre. Siate fortemente consapevoli della vostra libertà di scegliere. E, soprattutto, non dimenticate mai che ogni vostra scelta avrà sempre le sue conseguenze. Positive. Ma anche negative. Per voi e per quanti vi stanno attorno e si preoccupano per voi. Riflettete bene su questo. Vincenzo ne sarebbe felice!”. Il silenzio inondava l’aula. E qualcuno, ritornando al proprio banco, sfiorò e accarezzò quel fiore rosso.

Gianni Milani

Quarant’anni fa, a Vallette… I “migliori anni” della mia scuola

COSA SUCCEDE(VA) IN CITTÀ 

“Born to run”: da Bruce Springsteen, 1975 / “Facce da scuola” 1

Ricordati che sei a Vallette! Qui siamo in trincea! L’avvertimento, scaraventatomi addosso in sincera amitié, mi giunse forte e chiaro. Senza alternative. Come dire adesso sei in barca insieme a noi e vedi di remare nella giusta direzione. Se mai ci fosse stato bisogno – e ce n’era, eccome! – di darmi un minimo di rassicurante energia, forse (pensai in prima battuta) non ero proprio incappato, al mio primo giorno di scuola, nella persona giusta.

Gianni Milani

Ma quelle parole – lo capii ben presto – erano un mix perfetto di innata ironia e di profonda verità che mi rendeva decisamente complice la risonante parlata romagnola e il dinoccolato gesticolare, fra una tirata di “cicca” e l’altra (in quegli anni in Sala Docenti si poteva ancora fumare) di quello che era allora il vicepreside della “Carlo Levi”, l’indimenticabile Roberto Ghinelli. Ad anno scolastico 1975-’76 già avviato, arrivavo al civico 9 di via delle Magnolie, con il mio carico di perplessità ed emozioni (dicasi pure: paure), dopo avere insegnato per un paio d’anni agli adulti delle serali e perfino- nell’ambito dei cosiddetti corsi Cracis- ai militari, in quella scuola media di corso Matteotti che allora era titolata a “Lorenzo il Magnifico” e che oggi credo essere la succursale della “Meucci”. In precedenza, durante gli ultimi anni universitari, avevo avuto anche la fortuna (purtroppo oggi merce assai rara per i nostri giovani) di fare un po’ di supplenze in alcune scuole medie di Torino e provincia e in due Istituti Superiori della città: uno per Geometri dalle parti di corso Belgio e l’altro in via della Rocca, quel grandioso “Istituto Statale d’Arte per il Disegno di Moda e Costume” (dal ’78 “Aldo Passoni”), fondato nel 1955 dal mitico Italo Cremona, pittore scenografo costumista e arredatore cinematografico, scomparso a Torino nel dicembre del ‘79. Varie e molteplici esperienze. Tutte fortemente pregnanti sotto l’aspetto della crescita professionale. Ma alle Vallette di quegli anni mi attendevano un mondo ed esperienze completamente nuove. Ora il gioco si faceva duro. Volevi fare il professore? – mi dicevo – Accomodati e dimostra adesso di esserne capace. In via Coazze sede allora del Provveditorato e davanti a solerti – pur di esaurire il fastidioso compito di accasare tutti i “questuanti”- funzionari, avevo firmato giorni prima, in un alto scrosciare di liberatori applausi da parte dei tanti “cari” colleghi, il mio “connubio” con la scuola che portava il nome del grande pittore e scrittore torinese del Cristo si è fermato a Eboli. Scuola di cui non conoscevo nulla, se non la collocazione. E la fama, non proprio idilliaca. Così con questo entusiasmante (?) background alle spalle, m’imbattevo una bella mattina d’autunno, in una luminosa Sala Docenti occupata quasi per intero da un lungo tavolo ligneo attorno al quale sedevano alcuni prof. con pile di compiti da correggere e registri da compilare, accolto dal pacioso avvertimento del buon vicepreside riminese Ghinelli, seguito da una di quelle sue caratteristiche e larghe risate che riempivano di fragorose cascate d’allegria “alla Casadei” i corridoi e le aule e la presidenza e la segreteria e ogni più piccolo meandro o anfratto della scuola.
A quel primo incontro con Roberto (braccia rubate alle spiagge riminesi) si accompagnò il bonario sorriso di un altro collega con cui avrei stretto fin da subito una profonda amicizia, quel Franco Molinaro calabrese di Paola che insegnava Educazione Tecnica e che addosso sembrava portarsi in modo assolutamente garbato e discreto una silenziosa e tenera malinconia, legata forse alla memoria della sua terra e dei famigliari che aveva da poco lasciato. Ben arrivato, mi disse Franco mostrandomi i cassetti personali degli insegnanti. Avanti tutta, fratello!Mi rincuorò, porgendomi la mano con un gesto pontificale, il tonante a valanga – jeans, una piccola croce sul maglione a girocollo blu e ciuffo ribelle catapultato in fronte – don Ruggero Marini, vicentino di Thiene e collega di Religione che quattro anni dopo celebrerà le mie nozze con Patrizia. In fondo il Bronx è tutta un’altra cosa, gli fece eco Rodolfo D’Elia, saggio collega di Inglese che, in ricercato look english riattato alle esigenze del luogo, mi spinse sottobraccio in corridoio ( il braccio della morte mi “rassicurò” un’altra avvenente collega di Lettere che sembrava per caso appena piombata lì da Marte) verso l’aula a me destinata. Una Terza: sezione F. Una ventina di facce incuriosite. Neppure un accenno ad alzarsi in piedi. Comodi, comodi!Voce tremula e battutaccia da “splendido” che non arrivò, manco di sghimbescio, com’era prevedibile, ai mittenti. Così tanto per conoscerci, io mi chiamo Gianni Milani…  Embé e a noi?! La muta risposta che mi parve di intuire sulle facce dei più. Alzai lo sguardo e – chissà perché – fu allora che in testa, mi risuonò come pura energia la voce rabbiosa e arrugginita del “Boss”, in quel pezzo memorabile che ogni mattina facevo risuonare, volume a palla, nella raffazzonata autoradio  della mia vecchia Carolina: We gotta get out while we’re young/ Cause tramps like us, baby we were born to run /Dobbiamo fuggire finché siamo giovani … o finché siamo in tempo?mi veniva da correggere e interpretare, se non fosse che subito dopo mi sentivo patentato dallo stesso “Boss” ad essere nato per correre.

Restai dunque ancorato a quei giovani occhi – una quarantina – che mi sfidavano, chi più chi meno, con grintosa strafottenza. Ce l’avrei fatta? Dovevo. Dovevo correre. Correre e non fuggire! Ricacciare e spernacchiare quell’ intrigante voglia di vil fuga. Davanti a me, una corsa che più a ostacoli non si poteva. Ma uno per uno, quegli ostacoli me li sarei pappati tutti. A quel punto ne ero fortissimamente e – forse con una buona dose di presuntuosa incoscienza –  più che mai certo e convinto.

Perché i vagabondi come noi, baby, sono nati per correre.

Gianni Milani