CULTURA

Cristian Chironi. “Abitare l’immagine”

La “Project Room” di “CAMERA-Centro Italiano per la Fotografia” dedica una suggestiva, non meno che curiosa, mostra allo “stravagante” fotografo sardo

Fino al 1° febbraio 2026

Artista eclettico. Genialoide. Empaticamente “stravagante”, come dicesi di chi o di qualcosa (tutta la sua produzione artistica) volutamente “fuori dalla norma, dalle normali consuetudini!”. E così è di certo per le narrazioni (invenzioni) artistiche del nuorese, classe ’74, Cristian Chironi, oggi residente a Bologna e (pensate un po!) “nelle architetture disegnate da Le Corbusier in giro per il mondo”. Strano, ma vero, secondo i canoni seguiti dalla sua operatività e come attestano nell’immaginazione del concreto le sue multidisciplinari, visionarie composizioni. A convincermene del tutto, e a “giocare” assolutamente dalla sua parte, quell’“Offside” (“Fuori gioco”), prima foto che mi è capitata sotto gli occhi e che mi ha fatto letteralmente sobbalzare. Ma questo che è? Mi sono, lì per lì, chiesto. Una squadra di calcio un tantino agé, foto in bianco e nero … tutti in bianco e nero … compreso il CT in giacca e cravatta, eccetto quel primo giovinotto accovacciato in prima fila a sinistra, uguale divisa sportiva rispetto agli altri, uguale postura in ginocchio e mani a terra … ma fissato in immagine a colori”. Ohibò: Ma quanti sono sti ragazzotti, 1 2 3 …12! 12?Uno in più rispetto agli 11 d’ogni squadra di calcio”. Riconto. E il conto non torna. Anzi, torna, eccome! Spiegazione che non fatico a trovare: Quel 12° giovane calciatore ce l’ha messo lui. Sì, proprio lui, Chironi! Anzi, ma guarda te!, il 12° ‘intruso’  è proprio lui: Chironi! Il fotografo spiazza tutti. Entra in campo. L’idea: quella di “Abitare l’immagine”. Ogni suo scatto. Per “impadronirsene” appieno. Disposto a qualsiasi ruolo. Invenzione “geniale” e originale, e sono tante, quelle che Chironi pratica con le tecniche più varie – “fotografia” e “arte performativa” e video e design– per riuscire, in qualche modo, a entrare e piacevolmente a “disturbare” la rigida fissità dell’immagine. Ci sono anch’io! Reclama l’artista. E non solo per riprodurre mondi che m’intrigano, ma per fare parte piena e attiva di quei mondi!  Datata 2007, “Offside” appartiene alla ben articolata selezione di opere firmate “Chironi” e ospitate fino a venerdì 1° febbraio 2026 nella “Project Room” di “CAMERA-Centro Italiano per la Fotografia”, in via delle Rosine, a Torino.

Curato da Giangavino Pazzola, il percorso espositivo include “lavori fotografici”, “installativi” e “video” – alcuni totalmente inediti – che ripercorrono la ricerca dell’artista dagli esordi negli anni ‘90 sino ad oggi, mostrando come la sua pratica artistica sia caratterizzata da “originali strategie di costruzione dell’autoritratto, della messa in scena, della creazione dei personaggi e dell’ambientazione, elementi cardine nella generazione del valore costruttivo ed espressivo delle immagini”. Per Chironi, la fotografia è tanto altro rispetto a ciò che in genere ci si aspetta. Fin dai lavori a cavallo degli anni Duemila, appare chiaro che, per lui, scattare una foto non è un semplice gesto orientato ad immortalare l’azione di un corpo in movimento, ma un modo per “indagare – scrive Pazzola – la complessità delle relazioni personali e della propria identità, attraverso la creazione di un immaginario di finzione che altera la percezione della realtà”. E in ciò crede a tal punto da inventarsi, con giravolte surreali dell’ingegnosità, “azioni performative” in lavori come “DK” (2009), progetto in cui l’artista (furtivo Diabolik in “total calzamaglia black” o, se volete, nelle vesti di un più docile Arsène Lupin) cerca di rubare da Collezioni Museali – al pari dei recenti “mariuoli” del “colpo del secolo” al parigino “Louvre” – l’“aura” delle sculture del “nuovo Fidia” Canova, o in altri come in “Cutter” (2010), dove rimuove porzioni di immagini attraverso l’intaglio di pagine di libri, “mettendo in discussione la sacralità dell’immagine nel produrre memoria e creando nuove connessioni di senso”. Insomma: “Tutto ciò che vedete – pare volerci dire Chironi – è quanto mi ha suggerito il ‘reale’, sono pagine da me vissute nella totalità d’ogni anfratto e lì mi trovate, lì abito io. Se volete ci potete entrare!”“Magari mi ci trovate con un bicchiere d’acqua in mano, in maglietta blu e un misero piatto di riso(?) davanti, in una bianca vuota spazialità, rotta solo da una foto d’architettura ‘corbusiana’ appesa in parete. Questa é la mia casa”“My house is a Le Corbusier”, come recita proprio il titolo di un “Progetto” (2015 – ancora in corso) che lo porta ad “abitare” – in tutto il loro “purismo” lineare – le case progettate dal grande architetto svizzero con una serie di “performance – mostre” dilatate nel tempo. Tra queste: “Villa Jeanneret-Perret” (primo progetto di Le Corbusier, 1912) e “Chemin de Pouillerel” (2021) a Chaux-de-Fonds, Svizzera; “Studio-Apartment”, Parigi (2015) e il “Padiglione Esprit Nouveau” Bologna (2015).

Gianni Milani

Cristian Chironi. “Abitare l’immagine”

CAMERA-Centro Italiano per la fotografia”, via delle Rosine 18, Torino; tel. 011/0881150 o www.camera.to

Fino al 1° febbraio 2026

Orari: dal lun. alla dom. 11/19; giov. 11/21

Nelle foto: Cristian Chironi “Offside”, 2007; “DK#7”, 2008; “My house is a Le Corbusier” (Studio Apartment), 2015

Torino museo a cielo aperto con Luci d’artista

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Si apre ufficialmente la ventottesima edizione

Venerdì 24 ottobre, dalle ore 18:15, Torino tornerà a brillare e il cielo della città si trasformerà in un grande palcoscenico di luce, con 32 installazioni luminose, arricchite quest’anno da ben quattro nuove opere firmate da grandi protagonisti della scena artistica: Tracey Emin, il collettivo Soundwalk Collective insieme alla poetessa e musicista Patti Smith e al compositore Philip Glass, Riccardo Previdi e Gintaras Didžiapetris, realizzate grazie al sostegno di nuovi importanti partner. Saranno coinvolti nuovi spazi della città che entreranno a far parte della mappa luminosa di Luci d’Artista, confermando la vocazione della manifestazione a rinnovarsi e a estendere la propria presenza nel tessuto urbano di Torino.

Le Luci d’Artista della 28° edizione resteranno accese dal 24 ottobre 2025 all’11 gennaio 2026 e in questi mesi piazze, monumenti e luoghi simbolo della città dialogheranno con l’arte contemporanea, trasformando Torino in un museo dove la protagonista è la luce.

 

LE LUCI. COLLOCAZIONI

 

Le 32 luci si riaccendono tra le vie e le piazze di Torino e i cittadini e i turisti potranno alzare gli occhi e ritrovare le opere luminose nelle loro classiche location, oppure andare alla ricerca delle nuove collocazioni.

Si riaccende sul Ponte Vittorio Emanuele I, completamente restaurata grazie alla Consulta per la Valorizzazione dei Beni Artistici e Culturali di Torino e di Unione Industriali Torino insieme a NeonLauroDoppio passaggio (Torino), l’opera ideata nel 2001 da Joseph Kosuth.

Alcune Luci cambiano sede rispetto alla precedente edizione: VR MAN di Andreas Angelidakis, inaugurata lo scorso anno in Piazza Vittorio, si potrà quest’anno ammirare in Piazza Bodoni.

La storica opera del 1998 Volo su… di Francesco Casorati sarà in Via Principe Amedeo mentre Migrazione (climate change) di Piero Gilardi realizzata nel 2015 trova sede in Via Sant’Agostino.

Dopo tre anni AZZURROGIALLO di Giorgio Griffa torna nei Giardini Cavour, luogo per cui l’artista l’aveva pensata nel 2022, così come Luì e l’arte di andare nel bosco di Luigi Mainolfi torna a risplendere in Via Lagrange, Noi di Luigi Stoisa in Via Garibaldi e Palomar di Giulio Paolini è nuovamente allestita in Via Po.

Si riconfermano nelle collocazioni precedenti le Luci di Mario AiròCosmometrie in Piazza Carignano con una sempre nuova configurazione decisa dall’artista, che come ogni anno segue l’allestimento della sua Luce; Orizzonti di Giovanni Anselmo, in Piazza Carlo Alberto; Ancora una volta di Valerio Berruti in Via Monferrato; Tappeto volante di Daniel Buren in Piazza Palazzo di Città; Nicola De MariaRegno dei fiori: nido cosmico di tutte le anime in piazza Carlo Emanuele II (piazza Carlina); Marco GastiniL’energia che unisce si espande nel blu in Galleria Umberto I; Jeppe HeinIlluminated Benches in Piazza Risorgimento; Rebecca HornPiccoli spiriti blu sul Monte dei Cappuccini; Cultura=Capitale di Alfredo Jaar sulla facciata del Museo Diffuso della Resistenza; Renato LeottaIo, sono nato qui. in Corso Spezia 70, sul tetto dell’Ospedale Sant’Anna; Mario MerzIl volo dei numeri sulla Mole Antonelliana; Mario MolinariConcerto di parole in Piazza Polonia; Luigi NervoVento solare in Piazzetta Mollino; SCIA’MANO di Luigi Ontani ai Giardini Sambuy di Piazza Carlo Felice; L’amore non fa rumore di Luca Pannoli in Parco Michelotti di fronte alla Biblioteca Geisser; Michelangelo PistolettoAmare le differenze in Piazza della Repubblica (facciata della Tettoia dell’Orologio); My Noon di Tobias Rehberger in Piazza Arbarello; Ice Cream Light di Vanessa Safavi in Largo Montebello, Grazia Toderi, “…?…” in cima alla cupola della Basilica Mauriziana (visibile da Piazza della Repubblica) e Gilberto ZorioLuce Fontana Ruota sul laghetto di Italia ’61 (Corso Unità d’Italia).

INAUGURAZIONE DELLE NUOVE OPERE E ACCENSIONE DELLE LUCI

L’inaugurazione di Luci d’Artista 2024, in programma venerdì 24 ottobre, sarà ancora una volta itinerante, per abbracciare luoghi diversi della città e sarà aperta a cittadine, cittadini e turisti.

Il tour prende avvio alle 18.15 ai Giardini Reali bassi (accanto al monumento) per l’inaugurazione e accensione di Sex and Solitude di Tracey Emin, con l’intervento della Banda musicale del Corpo di Polizia Locale della Città di Torino. La seconda tappa è prevista alle 19:00 in piazza Vittorio Veneto (angolo lungo Po Cadorna), per l’accensione di Doppio passaggio di Joseph Kosuth, restituita alla città dopo l’importante restauro. Alle 19:20 la terza tappa sarà ai Giardini Cavour sotto Azzurrogiallo di Giorgio Griffa dove si trasferirà anche la Banda musicale del Corpo di Polizia Locale della Città di Torino per accompagnare l’evento. A seguire, il gruppo transiterà al Museo Regionale di Scienze Naturali, dove verrà accesa l’opera Untitled di Gintaras Didžiapetris.

Il tour si concluderà alle 20.15 alle OGR Torino, con l’accensione di Mummer Love di Soundwalk Collective, quarta nuova luce di questa edizione. Seguirà, intorno alle 20:30, un poetry reading scaturito dalle voci che compongono Mummer Love. Il reading amplia la ricerca sulla poesia attraverso le voci di Maria Luce Cacciaguerra, Valentina De Zanche ed Eleonora Luccarini. Una lettura corale di poesia arabo-siciliana, poesia contemporanea e accenni di Rimbaud espande i ritmi dell’opera di Soundwalk Collective. In ogni tappa sono previsti gli interventi delle istituzioni, degli artisti presenti e dei partner di Luci d’Artista.

Per il terzo anno consecutivo Studio Fludd cura l’identità visiva di Luci d’Artista. L’edizione 2025-2026 si sviluppa in un vibrante glitch luminoso, a evocare energia potenziale, con una palette rinnovata.

Anche quest’anno si rinnova la preziosa collaborazione con la FIAF – Federazione Italiana Associazioni Fotografiche – e con Puma Lavori in Fune, partner storici che da tempo contribuiscono alla valorizzazione di Luci d’Artista mettendo a disposizione competenze e produzioni fotografiche e video in forma volontaria e appassionata. Novità di questa edizione è l’ingresso del Dipartimento Corpo Polizia Locale, Divisione Protezione Civile, Gestione Emergenze e Sicurezza – Servizio Drones Unit, che arricchirà il progetto con spettacolari riprese aeree delle luci in collezione, offrendo nuove prospettive e narrazioni visive dell’intero percorso artistico.

Da Scarpelli a Guttuso a Baj, dieci manifesti di cinema che sono capolavori d’arte

Al Museo del Cinema, sino al 22 febbraio

Un angolo al piano zero della Mole come una galleria d’arte, a raccogliere le “incursioni” – le definiscono le conservatrici Nicoletta Pacini e Tamara Sillo -, dieci manifesti di grande formato aggiungendovi la copertina di una brochure, che sottolineano la contaminazione tra la cartellonistica e l’opera d’arte vera e propria. Dice tra l’altro Carlo Chatrian, direttore del Museo del Cinema: “Se il manifesto nasce per promuovere la visione del film, in questi dieci gioielli, grazie alla visionarietà e creatività degli artisti, esso si libera da quel legame e chiede di essere ammirato come opera a se stante. Nella bellezza e delicatezza del tratto, nella potenza della composizione, nell’esplosione dei colori ma anche nella loro fragilità, essendo utilizzati su una leggerissima carta che evidenzia più ancora della pellicola il passaggio del tempo.”

Sino al 22 febbraio – la sola mostra “Manifesti d’artista” potrà essere visitata con un biglietto a 4 euro o inclusa nel percorso generale della Mole, una parte del complesso delle raccolte – lo spettatore potrà avere uno sguardo diverso con il mondo del cinema, guardando a quelli che sempre sono stati mezzi di comunicazione, di proposta intermedia tra prodotto e pubblico, come l’apporto prezioso di pittori prestati a quel mondo anche soltanto per una volta sola. Scelta difficile, quella delle curatrici, dentro un patrimonio che allinea nei caveaux del Museo ben 540.000 esemplari (è il presidente Ghigo a ricordarlo: “con questa mostra vogliamo dare, ancora una volta, risalto alla ricchezza delle nostre collezioni e all’unicità dei nostri materiali, oltre ricordare tutti coloro che qui al museo si adoperano per la conservazione del mostro patrimonio”), di diverse età, di diverse provenienze. Arte che vive di una “assoluta libertà creativa”, si è detto, a cominciare da quel manifesto in bianco e nero della “Corazzata Potëmkin”, regista Sergej Ėjzenštejn, dovuto ad Alexander Rodčenko, tra i principali artisti dell’avanguardia russa e tra i fondatori del Costruttivismo, collaboratore altresì di quel Dziga Vertov che tra l’altro diresse (1929) il famoso “Uomo con la macchina da presa”, allineato alla politica post ‘17 che anche nella grafica vedeva una “forza rivoluzionaria, educativa e sociale” inneggiante a un’opera di cambiamento. La rivolta dei marinai dell’incrociatore contro le truppe zariste nel 1905 è riassunta nella forza interpretativa e rappresentativa, freddamente geometrica, di quei cannoni, frontali e minacciosi (solo il nostro Fantozzi trovò alla fine il coraggio di demolirla con la sua “cagata pazzesca” in uno dei pochi cineforum che passeranno alla storia, la citarono “Gli intoccabili” di De Palma, Coppola e Terry Gilliam e Hitchcock), che paiono uscire dalla superficie del disegno spoglio, dei numeri, delle scritte: manifesto che il Museo si aggiudicò nell’ottobre dello scorso anno ad un’asta da Bolaffi per 37.500 euro.

Non è la quantità a primeggiare, che s’è vista in altre occasioni, qui è la qualità, la ricerca centellinata, la rarità dell’esempio che viene posta in primo piano. Nel Futurismo degli anni Dieci del Novecento troviamo il colore e le folli disordinate orchestrazioni di Filiberto Scarpelli – il figlio Furio formerà con Age (Agenore Incrocci) una delle più feconde coppie di sceneggiatori del nostro cinema -, giornalista, scrittore, giornalista, attivo nelle colonne del “Travaso delle idee”, ironico e spregiudicato (partecipò anche alla famosa “Grande Serata Futurista” al Teatro Verdi di Firenze, con Marinetti Palazzeschi Carrà e Boccioni, in cui il pubblico per due ore fece dei poveretti bersaglio con patate frutta uova pastasciutta e altresì lampadine, una di queste ultime andando a colpire la fronte del nostro), vistosamente riconoscibile in quella sua firma apposta alla base dei “quadri”, quel paio di scarpe seguito dalla doppia elle e dalla i a completarne il cognome. Di lui s’ammirano qui i manifesti per “Il sogno di Don Chisciotte” (1915), per la Gloria Film di Torino, una affilatissima satira politica sulla Grande Guerra. Grandi scope deflagranti che spazzano via monarchi austro-ungarici e alleati prussiani e sultani ottomani, moderni Capitan Fracassa con stivaloni e braccia che volano e carote infilzate (Jacovitti?) dal puntone di un elmo.

Ancora del periodo futurista la presenza di Enrico Prampolini, pittore e scultore, scenografo e scrittore d’arte con il manifesto per “Thaïs” di Anton Giulio Bragaglia (1917), unica pellicola giunta sino a noi fortemente influenzata da quella corrente, melodramma d’amore e di morte, interprete femminile Thaïs Galitzky nei panni di una affascinante quanto crudele contessa russa: Prampolini, che aveva aderito al movimento nel ’12 con la frequentazione dello studio di Balla, inventò “ambienti dalle forti potenzialità creative e oniriche, motivi geometrici, spirali, losanghe, rimandi metaforici (che) creano un mondo quasi irreale in cui la femme fatale si integra perfettamente”, spiega uno dei pannelli che sono una perfetta guida alla mostra. Nomi noti e meno, qualcuno scomparso dalla memoria collettiva, come quello di Pietro Silvio Rivetta, nato a Roma nel 1886, conte di Solonghello, noto con lo pseudonimo di Toddi, direttore del “Travaso delle idee” e della “Tribuna Illustrata”, eclettico, gran conoscitore della lingua italiana tanto da pubblicare uno dei primi libri di enigmistica, collaboratore presso l’ambasciata italiana a Tokyo, grazie alla sua conoscenza del giapponese e professore all’Università Orientale di Napoli (anche per il cinese), conduttore radiofonico, cartellonista – qualche critico gli riconobbe “intonazioni klimtiane” -, produttore con la casa Selecta e regista che abbracciò il mondo del cinema soltanto per un paio d’anni, iniziando da “Il castello delle cinquantasette lampade” (1920) per raggiungere la dozzina di titoli, interprete quasi sempre Vera D’Angara (fecero coppia nell’arte e nella vita), illustratrice e soggettista: sono arrivati a noi i manifesti di “Due strade” o “La croisée des chemins” e “Fu così che…” (entrambi 1922) – una commedia che racconta la lavorazione di un film -, dove si ritrovano i rimandi all’Art Déco e al Liberty, florealmente espressi.

Più vicini a noi gli interventi di Renato Guttuso ed Enrico Baj, chiamati a collaborare da Giuseppe De Santis per “Riso amaro” (1949), da Francesco Rosi per “Cadaveri eccellenti” (1976) e dai fratelli Taviani per “Kaos” (1984). Il pittore di Bagheria non salì mai sul set di De Santis e quando vide alcune fotografie di Robert Capa non ci si ritrovò: ma riuscì, in quella copertina della brochure, a inventare una sensuale Mangano che avrebbe abitato nell’immaginario collettivo maschile per gli interi anni Cinquanta e quanto oltre (“le mondine non potevano che essere un tema per nessun altro pittore che non fosse Guttuso: il loro rapporto con il lavoro, lo stare seminude in acqua tutto il giorno, la carica di sensualità che emanavano in tutti i loro atteggiamenti, l’aggressività dei loro sguardi e dei loro comportamenti, erano tutte componenti di un universo femminile e umano che appartenevano solo al modo di fare pittura di Guttuso”, aveva detto il regista); come anni dopo avrebbe riunito anch’egli le novelle pirandelliane sotto il volo e lo sguardo rapaci di un nero corvo, a cui liberamente colora di giallo becco e zampe, “Il corvo di Mizzaro”, novella presa a far da legame tra le altre cinque considerate, a guardare i fatti raccontati, in una Sicilia “rurale, arida, assolata”, concentrando attorno a quella selva di cactus la carnosità dei colori che più amava. “Se togliessero il titolo del film sarebbe un’opera d’arte”, dice Pacini guardando il grande manifesto realizzato dal milanese Enrico Baj per “Cadaveri eccellenti” di Francesco Rosi, derivato dal romanzo di Sciascia: maestro della neoavanguardia, ancora una volta Baj riassunse nei suoi generali – veri pupazzi/monstrum, una sorta di danza macabra, un tema figurativo ampiamente esplorato dall’artista – quanto di ambiguo già circolava nel romanzo e tra le indagini del commissario Lino Ventura/Rogas intorno a una serie di assassinii di importanti magistrati, in un ambiente di mafia e politicamente corrotto.

Elio Rabbione

Nelle Immagini, con gli allestimenti della mostra, il manifesto di “Due strade” di Toddi e Silvana Mangano vista da Guttuso per “Riso amaro” di Giuseppe De Santis.

Paola Giubergia nominata Presidente di Lingotto Musica

Con voto unanime dell’Assemblea dei soci, riunitasi il 23 ottobre scorso, Paola Giubergia è stata nominata Presidente di Lingotto Musica, succedendo nella guida dell’Ente a Giuseppe Proto

Torinese, appassionata d’arte, dopo la Facoltà di Architettura e una intensa attività in proprio, è entrata nel 2001 in Ersel, storica azienda di famiglia con la carica di Responsabile delle Relazioni Esterne, curando personalmente l’organizzazione di importanti mostre e eventi promossi dal gruppo. Nel 2015 è stata tra i soci fondatori di Camera, Centro Italiano per la Fotografia e socia operativa della Consulta per la Valorizzazione dei Beni Artistici e culturali di Torino. Dal 2019 al 2023 è stata nel Consiglio Generale della Fondazione Compagnia di San Paolo e attualmente affianca all’attività in Ersel quella di presidente della Fondazione Renzo Giubergia, nata per volontà del padre per la promozione di giovani talenti musicali.  È consigliera della Fondazione Paideia e della De Sono Associazione per la musica.

Mara Martellotta

“Festa del libro medievale e antico”: Religiosità e spiritualità nel Medioevo

A Saluzzo, ritorna, per la sua 5^ edizione. Ad Alessandro Barbero, il nuovo “Premio Chevalier Errant”

Dal 24 al 26 ottobre

Saluzzo (Cuneo)

Nell’anno del “XXV Giubileo Ordinario” e in occasione delle celebrazioni per l’ottavo centenario della morte di San Francesco d’Assisi, per la 5^ edizione della “Festa del libro medievale e antico di Saluzzo” non poteva scegliersi un cammino tematico più appropriato se non quello di “esplorare le molteplici espressioni del Sacro – ‘Religiosità’ e ‘Spiritualità’ – nel Medioevo”. Tempo storico, per altro, perfettamente, e ancor oggi, “narrato” ed esemplificato in una città come Saluzzo, capitale dell’omonimo “Marchesato”, che dominò il Piemonte sud-occidentale dal 1140 al 1548 e che seppe magnificamente inserirsi nella storia dell’“Età di Mezzo” europea con le sue testimonianze architettoniche di impronta gotica, costruite tra il Duecento e la fine del Quattrocento e ancora caratterizzanti il suo antico e intatto centro storico.

Nata nel 2021, su promozione della Città di Saluzzo, della “Fondazione Cassa di Risparmio di Saluzzo” e “Fondazione Amleto Bertoni”, in stretta collaborazione con il “Salone Internazionale del Libro di Torino”, l’edizione 2025 della “Festa” libraria saluzzese si svolgerà da venerdì 24 a domenica 26 ottobre, con un’anteprima giovedì 23 ottobre e diversi appuntamenti di avvicinamento in corso dalla scorsa domenica 12 ottobre in Saluzzo ed in altri 13 Comuni del territorio. In calendario, nell’arco dei tre giorni della “Festa”, appuntamenti variegati per tutte le età e un considerevole numero di illustri ospiti: presentazioni di romanzi e saggi, lezioni magistrali, spettacoli, performance, concerti, visite guidate, momenti conviviali a tema, mostre e allestimenti, giochi di ruolo e a tema, laboratori per bambine e bambini. A queste iniziative si affiancheranno le proposte e la presenza di editorilibrerie generaliste antiquarie provenienti da diverse regioni italiane, che arricchiranno ulteriormente l’esperienza del pubblico. Al programma culturale si affiancherà, poi, la parte espositivasabato 25 e domenica 26, nel cuore della manifestazione “Il Quartiere”, in piazza Montebello 1, il pubblico sarà accolto da editori, librerie ed enti culturali con le loro proposte di catalogo, le novità sul tema e la presenza di copie di libri esclusivi, sia manoscritti che a stampa. Case editrici, specializzate e non, offriranno al pubblico il meglio delle uscite editoriali che raccontano il Medioevo.

Il programma completo e le indicazioni relative agli ospiti e alle varie location su: www.salonelibro.it

Da segnalare una speciale “anteprima teatrale”: giovedì 23 ottobre (ore 21,15, Cinema Teatro “Magda Olivero”Ascanio Celestini, attore, autore, regista e scrittore, aprirà, accompagnato dalle musiche di Gianluca Casadei, le giornate della manifestazione con lo spettacolo “Rumba – L’asino e il bue nel presepe di San Francesco”, terza parte della trilogia iniziata con “Laika” (2015) e “Pueblo” (2017). Lo spettacolo, che affronta il “tema degli ultimi e dei dimenticati”, nasce dalla necessità di capire “perché Francesco ci affascina ancora dopo otto secoli”.

Il giorno dopo, venerdì 24 ottobre, nell’“Antico Palazzo Comunale”, il via ufficiale alla “Festa” con i saluti istituzionali, alle ore 18, e la “lectio magistralis” (alle 18,30) tenuta dal professore emerito di “Storia della Chiesa e dei movimenti ereticali” e di “Storia del Cristianesimo”, Grado Giovanni Merlo, massimo esperto del Frate di Assisi.

Sottolineano i curatori, Beatrice Del Bo, medievista – docente all’Ateneo Torinese e Marco Pautasso, segretario generale del torinese “Salone Intrnazionale del Libro”: “Guidati dal tema di quest’anno, cercheremo di esplorare le diverse forme di religiosità e spiritualità nel Medioevo, illustrando innanzitutto il significato complesso dei termini e le declinazioni personali e di comunità, di richiamare le protagoniste e i protagonisti più e meno noti, e le opere (dal “Cantico delle Creature’ al ‘Canto gregoriano’) … Si parlerà di Ebrei e di marrane, del mondo musulmano, anche per raccontare la fondamentale influenza economica e socioculturale di tali persone sull’Occidente e capire come le esperienze religiose medievali continuino a risuonare nel nostro presente”.

Importante novità di quest’anno, è infine l’istituzione del “Premio Chevalier Errant”, assegnato ogni anno a una personalità del mondo culturale o accademico che, con la propria opera e il proprio lavoro, si sia particolarmente distinta nel diffondere, trasmettere e rendere comprensibili al grande pubblico, non solo agli studiosi, contenuti storici complessi, con particolare attenzione al periodo medievale, rendendoli accessibili, vivi e stimolanti anche per chi non possiede una formazione specialistica. Per la prima edizione del “Premio”, il riconoscimento andrà domenica 26 ottobre al “Quartiere” (ore 18,30) al professor Alessandro Barbero. Il nome del Premio si ispira all’opera “Le Livre du Chevalier Errant” del Marchese Tommaso III di Saluzzo (1356-1416) e, per l’occasione, in serata, si terrà una lectio dedicata a Santa Caterina da Siena (ore 21,15Pala CR Saluzzo).

Gianni Milani

Nelle foto: immagine guida “Festa”, Ascanio Celestini e Alessandro Barbero (Ph. Lorenzo Olivetti)

Moncalieri si candida: Capitale Italiana della Cultura 2028

Moncalieri, 21 ottobre 2025 – Oggi  è stato presentato ufficialmente il Dossier “Moncalieri
2028. La periferia al centro”, progetto di candidatura a Capitale Italiana della Cultura
2028. Un documento che racconta la visione di una città che ha scelto di fare della
rigenerazione culturale dei margini urbani il proprio orizzonte di sviluppo, capace di
tenere insieme produzione, educazione e cittadinanza attiva.
Non un “grande evento” ma un cantiere aperto, un percorso di lungo periodo in cui la
comunità si riconosce e si rinnova.
La città si presenta forte di una doppia identità. Da un lato il passato illustre: il Castello
sabaudo patrimonio UNESCO, le Fonderie Limone rinascimentate a polo di produzione e
ospitalità creativa, un tessuto di istituzioni e imprese culturali che dialoga con Torino e con
l’area metropolitana. Dall’altro un presente che ha imparato a mettere al centro quartieri,
frazioni, borgate e spazi di confine, intesi non come “estremi” ma come riserve di
possibilità. La candidatura nasce esattamente su questa soglia: dove finisce la retorica
della periferia e comincia il progetto condiviso.

Il dossier
La strada verso il dossier non è spuntata dal nulla. Dal 2022 Moncalieri ha avviato un lavoro
di city branding per dare una voce riconoscibile alla città, ma soprattutto per dotarsi di uno
strumento di coprogettazione, sotto un cappello che porta il nome di “Visit Moncalieri”: un
invito rivolto non solo ai visitatori, ma anche alla comunità residente e al territorio
circostante. Il brand, in questo senso, ha funzionato come una chiave inglese, sviluppando
un nuovo dialogo tra uffici, associazioni, scuole, operatori culturali, commercianti.
Su questa base si è innestato, dal 2024, il cantiere della candidatura: mappature dei luoghi
e delle pratiche, tavoli di ascolto con comunità e soggetti del terzo settore, incontri con il
sistema educativo e con il mondo produttivo, una stagione di progetti pilota che ha
sperimentato format diffusi (dal centro storico alle borgate), verificando accessibilità,
sostenibilità e impatto. La scrittura del dossier è arrivata dopo – non prima – ed è stata la
traduzione in obiettivi, azioni e governance di ciò che il territorio aveva già messo in moto.
Il documento, consegnato il 25 settembre 2025, racconta una città che ha scelto la
continuità: non un “grande evento” calato dall’alto ma un calendario evolutivo dove festival,
rassegne, residenze artistiche, pratiche di cittadinanza attiva e valorizzazione del commercio
di prossimità dialogano tra loro. È stato dato spazio alla dimensione educativa, alla
produzione (non solo alla programmazione) e alla cura dei beni comuni, con i Patti di
collaborazione come strumento per responsabilizzare chi vive i quartieri. Anche dati come
affluenze, partecipazione, accessi e indotto sono entrati nel racconto come bussola di
monitoraggio, perché la cultura conti anche quando si misura.

La candidatura organizza le proprie energie in cinque aree strategiche, concepite come
cerchi concentrici. Ogni area è necessaria alle altre, e tutte sono convergenti verso
l’obiettivo comune di dimostrare che la periferia può davvero fare centro:

– Design e Trasformazione
– Rigenerazione urbana e dei Beni Comuni
– Empowerment giovanile
– Inclusione e Parità di genere
– Cultura e Innovazione sociale.

Questa architettura concentrica consente a Moncalieri di operare su livelli diversi ma
integrati, generando un effetto moltiplicatore che fa della città un laboratorio di creatività
diffusa, coesione sociale e rigenerazione culturale.
Sul sostegno della Regione intervengono Alberto Cirio, Presidente della Regione
Piemonte, e Marina Chiarelli, Assessore alla Cultura della Regione Piemonte. “La
candidatura di Moncalieri a Capitale Italiana della Cultura 2028 è una splendida notizia e
dimostra, ancora una volta, quanto il Piemonte sia una terra viva, ricca di idee, progetti e
realtà culturali che sanno fare rete e guardare al futuro. Il dossier presentato dalla Città è di
grande qualità e mette al centro due temi fondamentali come l’inclusione e la parità di
genere: valori attuali e necessari, che ben rappresentano una visione della cultura aperta,
accessibile e capace di generare impatto positivo sul territorio. Moncalieri ha una storia
importante, un patrimonio artistico di grande valore e una vitalità culturale che la rende
protagonista, oggi, di un rinnovamento intelligente che unisce tradizione e innovazione. Il
Piemonte si conferma così come un sistema culturale diffuso, dove ogni territorio
contribuisce con le proprie specificità a un progetto comune. Come Regione, seguiremo da
vicino questa candidatura: crediamo che Moncalieri possa avere tutte le carte in regola per
concorrere per un titolo così prestigioso che renderà questo territorio ancora più conosciuto
e attrattivo”.

Perché Moncalieri si è candidata
La candidatura di Moncalieri a Capitale Italiana della Cultura 2028 è un passo naturale di un
percorso già avviato.
Negli ultimi anni la città ha investito in progetti di rigenerazione urbana e culturale che hanno
restituito spazi, risorse e opportunità alle persone. Dalle Fonderie Limone (oggi polo di
produzione e ospitalità creativa) al Castello Reale, patrimonio UNESCO e cuore del sistema
culturale, fino alle borgate e ai quartieri che hanno ritrovato centralità grazie a festival diffusi,
patti di collaborazione e percorsi di cittadinanza attiva.
“Moncalieri ha scelto di candidarsi perché ha imparato che la cultura può cambiare davvero
la geografia di una città” dichiara Paolo Montagna, Sindaco di Moncalieri. “Abbiamo
costruito un modello che mette insieme il centro e i margini, le istituzioni e le persone, la
memoria e l’innovazione. Questa candidatura è la tappa di un percorso collettivo, un invito a
guardare ai nostri luoghi con occhi nuovi.”
Nel 2028 Moncalieri celebrerà anche gli 800 anni dalla propria fondazione, avvenuta nel
1228 quando un gruppo di abitanti trovò rifugio sulla collina per difendersi da incursioni ostili.
Da borgo di confine a città metropolitana, Moncalieri ha costruito nei secoli una vocazione al
dialogo e alla trasformazione: il ponte sul Po, che per secoli fu l’unico accesso a Torino per
chi proveniva da sud, è diventato nel tempo una metafora della sua identità, quella di una
comunità che unisce e attraversa.
L’area metropolitana torinese sta ripensando il proprio modello culturale dopo anni di
innovazioni e crisi; la città di Moncalieri in questo contesto porta in dote una dimensione
“ponte”: sufficientemente grande per incidere, sufficientemente prossima per
sperimentare.

Un viaggio che continua
Il Dossier non è solo un progetto, ma la sintesi di una pratica già in corso.
Dal 2024 Moncalieri ha sperimentato nuovi format diffusi – festival, residenze artistiche,
laboratori, percorsi formativi e progetti di rigenerazione – che hanno unito produzione
culturale e partecipazione civica.
Le esperienze avviate hanno mostrato che la cultura può diventare motore di sviluppo
economico, sociale e territoriale, creando occupazione qualificata, valorizzando i saperi
artigiani e favorendo nuove alleanze tra pubblico e privato.
Il 2028 per Moncalieri non è un traguardo ma un orizzonte: un’occasione per consolidare
politiche, coordinare risorse e offrire alla città un’identità culturale riconoscibile e condivisa.
La candidatura rappresenta quindi un patto che la città intende rinnovare, con o senza titolo,
perché la credibilità di una candidatura si misura nella sua capacità di migliorare la vita
delle persone.

“La leva è la rigenerazione culturale delle periferie, intese non come estremi, ma come
soglie porose tra funzioni, generazioni e comunità” aggiunge Antonella Parigi, Assessora
alla Cultura. “Demarginalizzare significa rendere la cultura accessibile e generativa, creare
spazi di scambio dove la vita quotidiana incontra l’arte, l’impresa, la scuola, il volontariato.
Moncalieri è pronta a diventare un laboratorio nazionale di questa nuova idea di capitale.”
La candidatura di Moncalieri a Capitale Italiana della Cultura 2028 è dunque un progetto
corale, che nasce dall’amore per la città e dalla convinzione che i margini possano diventare
il centro rinnovato e ritrovato di una nuova geografia culturale italiana.

Radici: il festival che interroga le nostre identità

Si terrà domani, alle ore 10 al Circolo dei lettori e delle Lettrici di Torino la conferenza stampa di presentazione di Radici, il festival che quest’anno invita grandi artisti e voci autorevoli a interrogarsi – in chiave pirandelliana – sul tema delle identità: una, nessuna e centomila.
Un percorso che attraversa l’individuale e il collettivo, la nazione e il popolo, fino all’immagine che ciascuno costruisce di sé in una società sempre più complessa ma al tempo stesso omologata. Un’omologazione che Pier Paolo Pasolini denunciò già negli anni del boom, osservando come il consumismo avesse trasformato stili di vita e modelli culturali.
Accanto a questo filone, Radici esplora anche le esperienze di chi ha scelto di espatriare, vivendo in bilico tra due mondi e due identità.
E oggi, mentre i social media amplificano, distorcono e condizionano la percezione di sé, e l’intelligenza artificiale mette in discussione la stessa nozione di identità, il festival rilancia il dibattito aprendolo a prospettive e contenuti diversi, con l’obiettivo di risvegliare nuove consapevolezze.
Valeria Rombolá

Piero Chiara e la narrazione della provincia italiana

Il 23 marzo del 1913 nasceva a Luino lo scrittore Piero Chiara. Anni fa, in occasione del centenario dell’evento sul muro esterno dello storico Caffè Clerici, l’amatissimo locale e “ufficio” dello scrittore  che guarda sul porto vecchio, venne collocata una targa con una frase del celebre romanziere tratta da l’Avvenire del Verbano del 30 novembre1934. Vi si legge: “In Luino vi è qualche cosa di inesprimibile e di spirituale che non può andare vestito di parole; è qualche cosa di più che la tinta locale, è quel mistero di attrazione che fa innamorare di un luogo senza che ci si possa dar ragione del motivo”. Un ritratto di quest’angolo di provincia chiuso tra il lago Maggiore, i monti delle valli Dumentina e Veddasca e la frontiera con la Svizzera.

 

Un’immagine che, volendo, può essere estesa a buona parte dei paesi che si affacciano sulle due sponde del Verbano. Figlio di un siciliano immigrato al nord come impiegato delle Regie Dogane e di Virginia Maffei, originaria di Comnago, minuscola frazione di Lesa sulla sponda piemontese del lago Maggiore, Piero Chiara frequentò diversi collegi come il San Luigi di Intra e il De Filippi di Arona. Dopo una breve parentesi in Francia, terminati gli studi e vinto un concorso come “aiutante volontario cancelliere” svolse l’impiego statale in Veneto e nella Venezia Giulia, tornando poi nella sua provincia per approdare infine a Varese. In quegli anni, da autodidatta, s’impegnò nello studio e nella formazione letteraria senza rinunciare a frequentare i tavoli con il gioco delle carte e il biliardo dei vari caffè. E’ lì che trarrà gli spunti letterari su ambienti e persone che diventeranno molti anni più tardi i protagonisti dei suoi racconti e romanzi. Nel gennaio 1944, per sfuggire ad un ordine di cattura emesso dal Tribunale Speciale Fascista, Chiara varcò il confine, rifugiandosi in Svizzera dove visse l’esperienza di internato nei campi di Büsserach, Tramelan e Granges–Lens. Ricoverato all’ospedale di St.Imier, frequentò la casa cattolica di Loverciano nel distretto ticinese di Mendrisio. Finita la guerra restò per qualche tempo in territorio elvetico insegnando e pubblicando la prima opera, la raccolta di poesie Incantavi. Da quella silloge che nel titolo alludeva al toponimo dei cascinali sopra Luino emergevano le passioni, le affinità e il profilo di un giovale esule riflessivo, malinconico, dotato della stoffa necessaria per intraprendere un viaggio originale in campo letterario. Il 25 aprile 1945 dalla tipografia di Poschiavo nel canton Grigioni usciva il primo libro a firma di Piero Chiara. Il suo primo editore, don Felice Menghini (scomparso prematuramente nel ‘47 in un incidente di montagna a soli 38 anni, fra i principali autori della Svizzera italiana come poeta, traduttore ed elegante prosatore) ne fece tirare fino a 500 copie intuendone il valore. Al consenso della critica corrispose anche quello del pubblico: nonostante le frontiere ancora chiuse ne furono venduti 150 esemplari in un mese. Abbandonata negli anni ’50 l’amministrazione della giustizia Chiara si dedicò alla scrittura, al giornalismo (collaborando alla terza pagina del Corriere della Sera) e alla letteratura, come curatore di opere classiche, in particolare del Settecento, tanto da essere considerato un’autorità nel campo degli studi su Giacomo Casanova. Scrisse anche una seria e documentata biografia del Vate che riposa a Gardone Riviera nel mausoleo del Vittoriale, intitolata La vita di Gabriele D’Annunzio. Conobbe poi il successo con i racconti e i romanzi la cui ambientazione era quella della provincia che resterà lo scenario di tutta la sua esperienza di scrittore. Sui luoghi della sua piccola patria (il Lago Maggiore, le valli e i suoi paesi, Luino e la Svizzera italiana) spaziò con lo sguardo innamorato di chi li sentiva parte di sé. Erano i luoghi dell’anima e frequentandoli, come scrive l’associazione degli Amici di Piero Chiara, sembra quasi che “dietro un’insenatura del lago, da un angolo di strada di paese, da una valle a specchio dell’acqua o da un battello che cuce l’uno all’altro i pontili delle opposte sponde, debba comparire uno dei suoi personaggi: una delle sorelle Tettamanzi, magari sottobraccio a Emerenziano Paronzini, oppure l’Orimbelli con la Tinca, o il pretore di Cuvio Augusto Vanghetta”. E’ la provincia profonda con i suoi caffè e i giocatori di carte, le avventure di impenitenti flâneur che vagano oziosamente per le vie dei paesi, delle acque battute dai venti di tramontana, le piccole isole, i battelli e i tanti moli degli imbarcaderi, storie amare o scabrose vicende di corna e tradimenti. Offrendo un approdo letterario a questo mondo Piero Chiara raggiunse il successo con romanzi come Il piatto piange (1962), La spartizione (1964, Premio Selezione Campiello), Il balordo (1967, Premio Bagutta), L’uovo al cianuro(1969), I giovedì della signora Giulia (1970), Il pretore di Cuvio (1973), La stanza del Vescovo (1976), Le corna del diavolo (1977), Il cappotto di astrakan  (1978),Una spina nel cuore (1979) e tanti altri fino al postumo Saluti notturni dal Passo della Cisa. Molti di questi lavori vennero ridotti e sceneggiati per il grande schermo e per la tv, in qualche caso con delle fugaci apparizioni dello stesso Chiara per dei piccoli camei come in Venga a prendere il caffè da noi di Alberto Lattuada. In una intervista, parlando del suo rapporto con la scrittura, disse: “Scrivo per divertirmi e per divertire:se mi annoiassi a raccontare, starei zitto, come starei zitto se sapessi che i lettori si annoiano ad ascoltare o a leggere i miei racconti. Qualche volta faccio ridere, o meglio sorridere e qualche volta commuovo il lettore o lo faccio impietosire con le mie storie. Mi sembra giusto, anzi normale: se ride alle mie spalle o a quelle dei miei personaggi o se si impietosisce ai nostri casi, vuol dire che ho colto nel segno: mi sembra che raccontandogli la storia di un uomo, con le sue miserie, le sue fortune e la sua stoltezza, in fondo gli conto la sua storia”. Piero Chiara è stato a tutti gli effetti “il poeta delle piccole storie del grande lago”, il maestro di tutti coloro che si sono cimentati con quella che viene definita la letteratura della profonda provincia italiana.

Marco Travaglini

Quella straziante foto di Yohanna

All’ “Accademia delle Belle Arti” di Torino, incontro con Cinzia Canneri, unica fotografa italiana fra i vincitori dell’ “World Press Photo”

Venerdì 24 ottobre, ore 18

Addis Abeba – Etiopia, 31 ottobre 2017. Un povero “interno”. Su uno stropicciato telo di stoffa, riposa, con la madre accanto che affettuosamente la tiene – accarezza per un braccio, Yohanna, giovane eritrea di soli 22 anni, colpita dalla polizia  al confine di Shambuko (in Eritrea), e risvegliatasi in un ospedale in Etiopia, dove ha scoperto che le era stato asportato un rene. In suo possesso, nessuna cartella clinica o documento scritto che giustifichi l’intervento chirurgico e l’asportazione dell’organo. Sull’addome, il segno di una lunga cicatrice. Forse meno dolorosa di quelle crude e disumane che Yohanna si porta e si porterà dentro per sempre negli anfratti più intimi della memoria e dell’anima. Lo scatto fa parte del progetto “Women’s bodies as battlefields” che definisce, in qualche modo, la stessa carriera artistica della fotografa, toscana di Follonica, Cinzia Canneri, autrice dello scatto ed unica italiana tra i vincitori di quest’anno dell’“World Press Photo”, il concorso di fotogiornalismo e fotografia documentaria (con sede ad Amsterdam) più prestigioso al mondo. Laureata in Psicologia e fra i fotoreporter più brillanti della nuova generazione, Cinzia è da sempre, e in ogni modo, impegnata nel “sociale”. Il suo progetto è stato premiato tra quelli “a lungo termine”: Canneri ha infatti seguito, macchina a tracolla, le vite di alcune donne in fuga dal regime repressivo in Eritrea e dal recente conflitto in Etiopia, la cosiddetta “Guerra del Tigré”, ufficialmente terminato nel 2022 ma con tensioni che continuano a causa di irrisolte dispute territoriali. Narrazioni, le sue, fissate nel tempo e specchio “impietoso” di atrocità che raccontano di corpi femminili vergognosamente e spietatamente ridotti a “campi di battaglia”.

A parlarne, venerdì 24 ottobre (alle 18), sarà la stessa Cinzia Canneri a Torino, in un incontro, moderato dalla giornalista Chiara Priante, in programma nel “Salone d’Onore” dell’“Accademia Albertina delle Belle Arti” (che, fino a lunedì 8 dicembre, espone ben 144 immagini di 42 fotografi selezionati nell’ambito dell’“World Press Photo Exhibition”), in via Accademia Albertina 6, con ingresso gratuito. Insieme a lei, ci sarà anche Meseret Hadush, etnomusicologa nata e cresciuta in Etiopia, “Ceo” e fondatrice di “HIWYET TIGRAY Charity Association”, attivista contro la violenza di genere e operatrice umanitaria. Vincitrice del “Bremen Solidarity Award 2025”, Hadush è stata proprio il riferimento di Canneri nel Tigray (la più settentrionale delle dieci regioni dell’Etiopia) e le ha permesso di svolgere il suo lavoro sul posto. L’incontro, organizzato all’“Accademia Albertina delle Belle Arti” di Torino, sarà dunque l’occasione per parlare di queste esperienze di vita e di lotta (in cui si trovano solidamente accomunate la Canneri e Hadush), ma anche di “fotografia”, di “libertà di stampa” e del “ruolo dei fotoreporter” in scenari meno narrati dai quotidiani.

Nel 2017,  Cinzia Canneri ha iniziato a documentare le esperienze delle donne eritree in fuga dal loro Paese e in cerca di rifugio in Etiopia, per sfuggire a un regime repressivo che ha implementato di fatto una coscrizione obbligatoria a tempo indeterminato. Molte di loro, fermate alle frontiere sono state assalite, violentate o colpite all’addome dalla polizia nazionale per impedire loro di avere figli. Mentre la guerra tra le forze governative etiopi contro il “Fronte Popolare di Liberazione del Tigrè – TPLF” si diffondeva nella regione del Tigrè, l’attenzione di Canneri si è ampliata includendo anche le donne “tigrine”, che si stavano ora unendo alle donne eritree nella fuga dall’Etiopia verso i campi profughi ad Addis Abeba o in Sudan. Entrambi i gruppi sono stati bersaglio di violenza sessuale sistematica – stupri, sparatorie, torture – che, a causa dello stigma sociale, delle strutture sanitarie limitate e del limitato accesso di giornalisti nel Paese, rimane insufficientemente riportata dai media e compresa dal mondo in generale.

Nel gennaio 2024, Canneri ha peraltro co-fondato “Cross Looks”, un collettivo di donne italiane, eritree, tigrine e sudanesi che sta costruendo “una narrativa intersezionale sui temi di genere, classe, razza e altre forme di disuguaglianza sociale”.

Impegno “sociale” a tutto campo. Che non solo ha portato la Canneri a lavorare a lungo, sui temi succitati, nel Corno d’Africa, ma anche, fra l’altro, sulla coraggiosa documentazione di questioni sociali legate ad esempio allo “sfruttamento dei lavoratori”. Basti pensare, in proposito, che nel 2016 un suo Progetto, “Like Two Wings” sulle vittime dell’amianto ha ricevuto un “Premio di eccellenza” al “POYi Science and Natural History Picture Story” (presso la “Missouri School of Journalism”) e il primo premio all’“Umbria Fest” in Italia. Scatti, i suoi, che hanno trovato “casa” sulle pagine delle più prestigiose riviste internazionali, dal “New York Times”, al “Days Japan”, fino all’“Obs”, al norvegese “Aftenposten”, al “The Washington Post”, all’“Internazionale” e all’“Espresso”.

Gianni Milani

Nelle foto: Cinzia Canneri da “Women’s bodies as battlefields”; Cinzia Canneri