New York, il crollo di Wall Street (2008), l’intraprendenza italiana, il sogno targato U.S.A, il successo; poi il capitombolo nell’aula di un tribunale, con dosi di amore e qualche tragica amarezza. Sono gli ingredienti principali del romanzo “Ai nostri desideri” (Marsilio) del torinese Enrico Pellegrini, brillante ed estroso avvocato d’affari 45enne che da anni vive e lavora nella Grande Mela, nella mecca del denaro, a Wall Street. Ergo, sa bene di cosa parla.

Nell’ultima sua fatica letteraria ritroviamo alcuni personaggi del suo romanzo rivelazione (“La negligenza” Premio Selezione Campiello 1997); primo fra tutti il protagonista, Rosso Fiorentino, che ora non svolazza più di festa in festa, ma è comunque ancora inconcludente. Sogna di scrivere e intanto si barcamena tra lavoretti vari, incluso fare da chaperon (gratis) in India a uno scrittore di successo che gli indica un piano B di larghissimo respiro “ricordati, fa qualcosa di bello e di grande”. Ed ecco la folgorante idea: esportare la focaccia genovese in America. L’improbabile progetto parte lento…ma di negozio in negozio finisce per essere quotato a Wall Street e procurare soldi a palate. Poi tutto precipita, la società del Rosso si schianta al suolo, trascina nel vuoto le principali banche americane e sfracella un milione di posti di lavoro. Tonfo notevole che lo porta dritto davanti al giudice, a rischiare una condanna che, in anni di carcere, sconfina nell’eternità. Negligenza o truffa? Demente, profeta delirante o il più grande filibustiere 27enne di tutti i tempi? Come andrà a finire? Ai lettori l’ardua sentenza e il gusto di avventurarsi in questa favola moderna sospesa tra ironia, divertimento e… riflessioni serissime.
Sei un avvocato imprestato alla letteratura o uno scrittore ferrato anche in giurisprudenza e finanza?
«Credo nessuno dei due. Di giorno faccio l’avvocato e rappresento l’establishment, quindi i poteri forti, e di notte scrivo romanzi raccontando le storie degli “underdogs” che sono quelli che faticano».
Come mai 20 anni tra un libro e l’altro? E in che lingua scrivi?
«Scrivo sia in inglese che in italiano. 20 sono gli anni che ho impiegato per scriverlo. Forse mi è mancato il talento; ma è anche vero che la struttura del libro è particolarmente difficile e complicata. Un grande scrittore americano mi ha detto che se Manzoni ha sciacquato i panni in Arno, io ho sporcato i miei nell’East River, fiume particolarmente lercio attorno a Manhattan»
Sbaglio o c’è una buona dose di autobiografia? Dove inizia e dove finisce Enrico Pellegrini nel romanzo?
«Mi piace molto una frase che dice “questa storia è vera perché l’ho inventata io”».
Il protagonista Rosso Fiorentino a chi si ispira?
«Nel mio secondo romanzo “La negligenza” il protagonista era Enrico Celestri. Qui è sempre lui, ma ha cambiato nome all’anagrafe per far perdere le sue tracce. Sceglie di chiamarsi Rosso Fiorentino, come un pittore maledetto del Rinascimento».
Quando, perché e com’è stato passare da Torino a New York?
«Intanto è vero che l’Italia è ancora più bella vista da lontano. Dopo l’università a Torino, ho fatto un Master a Chicago e lì ho ricevuto un’offerta da uno degli studi più importanti di Wall Street che non era rifiutabile. Ecco come sono arrivato a New York».
Tu ce l’hai fatta, che consigli daresti a chi ha il tuo stesso sogno e deve ancora partire?
«A New York tutto è possibile e non c’è alcun limite all’immaginazione. Ma bisogna sapere che è una città molto tosta in cui ogni cosa è basata sul rapporto di forza. Quando ci arrivi da single tutte le candeline sono accese per te e sei un predatore. Poi improvvisamente, quasi senza accorgertene, quando magari incominci a mettere su famiglia e a comprare casa, diventi una preda nella pancia della balena dove tutti cercano di spolparti».
In Italia riscuotono molto successo i legal thriller che trasmettono l’idea di una vita frenetica, aggressiva, competitiva al massimo dove puoi guadagnare tantissimo ma se non vinci non sei nessuno. E’ un’immagine che corrisponde alla realtà?
«Assolutamente si. Quando arrivi ti rendi conto che le tue possibilità sono infinite; però proprio perché tutto è possibile, accade anche di trovarsi in un legal thriller vero, dove la realtà in realtà è finzione e dove tutti sono contro tutti».
Racconti un crack finanziario che travolge le banche, te ne sei occupato?
«Si dal crack Enron in poi mi sono occupato di alcuni momenti della storia finanziaria americana».
La domanda ti sembrerà ingenua, ma sono davvero tutti lupi a Wall Street?
«Si, anche se secondo me il vero lupo è il sistema. E’ la sua pressione che spinge la gente ad essere lupi».
In un’intervista hai detto che in America ogni famiglia si indebita al punto di correre rischi incalcolabili pur di mantenere il suo standard di vita. E’ ancora così dopo la lezione del 2008 o si sono ridimensionati?
«E’ ancora così. I pre asili costano 50mila dollari all’anno, le case vengono comprate con il 20% in contante e l’80 % a debito, ovvero con un mutuo. Quindi tutto il sistema è basato sull’avere quello che non si ha».
E’ vero che abitavi vicino a Bernard Madoff?
«Si e le mie bambine gli correvano in braccio come se fosse Babbo Natale. E siccome i bambini hanno un grande istinto, questo ovviamente dice molto delle sue capacità di riuscire a presentarsi come uomo prodigo».
Conosci altri lupi di Wall Street?
«Ricordo che quando vivevo in Italia era chiara la distinzione tra buoni da una parte e cattivi dall’altra; invece a New York è tutto un grigio perla dove persone che ti sembravano moralmente integerrime, le ritrovi il giorno dopo sul giornale accusate di truffe da milioni di dollari».
Conosci davvero Jonathan Franzen? E altri scrittori?
«Franzen ha la mia stessa agente americana e, anche se qualcuno sostiene che abbia un caratteraccio, invece è molto simpatico e piacevole, sebbene non ami esporsi e difenda la sua privacy. Poi John Irving che invece ama molto le feste, o almeno questa è la mia opinione.
Tra l’altro il suo libro “Vedova per un anno” è stato adattato per il cinema da un mio amico ed è diventato il film “The door in the floor” con Kim Basinger e Jeff Bridges».
Come sono i rapporti tra scrittori?
«Non c’è concorrenza, ce n’è molta di più a Wall Street dove appena tiri su il telefono il lunedì mattina alle 10 inizia il linciaggio».
Dove e come vivi a New York? Nel libro scrivi che tutti la amano, meno quelli che ci vivono. C’è qualcosa che chi sogna di stabilirsi nella Grande Mela dovrebbe sapere e ancora non sa?
«Vivo a Manhattan tra la 62° e Park Avenue, nell’Upper East Side. Quando abitavo in uno studio di 50mq stavo come un papa. Il segreto a New York è non possedere nulla».
Quando sei fuori dall’ufficio cosa ti piace fare? I tuoi hobby?
«Amo scrivere. Poi avendo tre bambini ovviamente loro rappresentano la mia agenda. Mi piace vivere la città scoprendo sempre angoli nuovi; giocare a tennis a Central Park dove ci sono dei campi meravigliosi che almeno giustificano le tasse così alte; andare a mangiare nel Queens ad Astoria nei ristoranti greci; camminare giù per Lexington Avenue fino a Gramercy il sabato mattina».
Da dove arriva l’ispirazione per i tuoi romanzi?
«Dai sentimenti. Io spero sempre nell’innamoramento; invece a New York, città molto dura, purtroppo il più forte è quello della sopravvivenza».
Laura Goria

Verbano tra il 1893 al 1896, dove i protagonisti sono i marinai e i militari della Guardia di Finanza del locale distaccamento, addetti al controllo lacuale con le torpediniere, gli “sfrusitt” ( i contrabbandieri ) che sfidavano leggi e autorità dedicandosi – tra fatiche e pericoli – al contrabbando, considerato a quel tempo una delle poche risorse per la sopravvivenza degli abitanti del lago e poi la gente e i luoghi tra Cannobio e Pallanza. Le rare foto d’epoca, a corredo degli avvenimenti, rendono bene l’atmosfera di quei luoghi e di quegli anni, in una terra di frontiera.
Alcuni pellegrini si sono messi sulle orme della Beata Enrichetta a Salsasio e a San Bernardo
La riapertura rappresenta un punto di riferimento e un’opportunità per tutti i cittadini, consolidando i rapporti di cooperazione e scambio già esistenti e creando nuove prospettive di collaborazione e di sviluppo per tutto il territorio piemontese
tantissimi appassionati. Anche il settore ristorazione e gli esercizi commerciali si aspettano un incremento del 10-15% delle presenze. “Un altro fine settimana – dice Giancarlo Banchieri, presidente di Confesercenti – che registra risultati più che soddisfacenti. La capacità di attrazione di Torino è diventata consolidata e strutturale. Si stanno raccogliendo i frutti di un impegno decennale e di una visione lungimirante che ha visto protagonisti tutti i soggetti coinvolti, pubblici e privati”.
A Condove si parlerà dei Mapuche, popolo amerindo originario del Cile centrale e meridionale e del Sud dell’Argentina


fiera in cui le fumetterie della città non partecipano, e in cui il numero di editori presenti – contando solo gli editori, e non le associazioni culturali che fanno libri – non supera le cinque unità. Quindi, che senso ha che una fiera con la parola “Comics” nel proprio nome non abbia quasi più nulla di fumetto? Per non parlare degli ospiti – qualche nome interessante e altisonante, senza dubbio, ma perlopiù “sempre i soliti nomi”, che vengono a Torino Comics da anni –, e dell’aspetto culturale – in minima parte presente nelle edizioni passate – che quest’anno ha definitivamente abbandonato la manifestazione. Fiere come il Napoli Comicon, che si è imposta in Italia, e ha raggiunto una notorietà a livello internazionale, sono riuscite a trovare il giusto equilibrio tra “commerciale” e “culturale”: non è semplice raggiungere questo obiettivo, ma l’impressione è che a Torino non ci si provi nemmeno. Molto da dire ci sarebbe anche sulla disposizione degli spazi, senza alcuna attinenza merceologica: editori di fianco a spadai, fumetterie di fianco a stand di dolciumi, e così via… In questi tre giorni, l’Oval Lingotto era animato e frequentato da tantissime persone, ragazzi, bambini, adulti, ma sembrava il padiglione “non fumetti” di una fiera; come se, solo attraversando una “porta”, si riuscisse a raggiungere la parte “Comics”; una porta che, però, non c’era. Tirando le somme: se si guardano le presenze, la fiera è promossa a pieni voti; se si guarda all’aspetto culturale, invece, c’è del lavoro da fare. Ammesso che ci sia la volontà, ovviamente.