
Dal 5 al 22 luglio 2016 il progetto VeRve / 100 / seta lancia la raccolta di 100 capi in seta, usati o inutilizzati, che saranno affidati alla creatività e manualità di un artista. I capi, interpretati e rivitalizzati con interventi di grafica serigrafica, saranno esposti in occasione di DREAMERS dal 6 al 9 ottobre 2016 al Museo Ettore Fico di Torino, e potranno essere ri-acquistati (al costo di € 40) dai loro legittimi proprietari, domenica 9 ottobre 2016.
VeRve è la prima tappa di DREAMERS visioni e progetti di moda contemporanea, un inedito percorso emozionale che fonde le esperienze di mostra, vendita e conoscenza, dove la moda non è soltanto prodotto, mercato, marchio, marketing, ma anche, e soprattutto, un oggetto culturale che parla del progetto che c’è dietro, del corpo, dell’anima, del tempo. E soprattutto parla di sogni e futuro. È quindi importante e significativo che per annunciare la prima edizione di DREAMERS sia stato scelto VeRve che combina il design alla sostenibilità, la verve – appunto- al riuso.
VeRve coglie il fenomeno, sempre più diffuso e strategico, del ri-uso interpretandolo attraverso l’arte, l’immaginazione, il design, l’artigianalità eccellente. Il tema di questa edizione è la seta, preziosa ma familiare, tradizionale ma versatile, che rinascerà nelle mani di Sergio Perrero ricercatore, artista, da oltre 20 anni sperimentatore e trasformatore di materie, antesignano del riuso ecologico-etico artistico. Attraverso l’arte e la lavorazione manuale, il suo intervento offrirà ai capi una seconda vita, restituendo loro un valore che avrà la suggestione del pezzo unico, esclusivo e senza tempo.
Per partecipare al progetto: dal 5 al 22 luglio 2016 saranno attivi due punti di raccolta: MEF –Museo Ettore Fico, Via Cigna 114 (Aperto dal mercoledì al venerdì con orario 14/19, sabato e domenica con orario 11/19) e REZINA, Via Des Ambrois 6/D. Per partecipare è sufficiente consegnare nei punti di raccolta un capo in seta (camicie, bluse, vesti da camera, cravatte, gonne, foulard, ecc…) inutilizzato e abbandonato nell’armadio, accompagnato dai dati del proprietario (nome-cognome-telefono-email). Il progetto coinvolgerà i primi 100 capi consegnati nei punti di raccolta che, protagonisti di un’installazione in mostra a DREAMERS dal 6 al 9 ottobre 2016, potranno essere ri-acquistati (al costo di € 40) dai loro legittimi proprietari domenica 9 ottobre 2016.
Informazioni: bc@dreamerstorino.it, www.dreamerstorino.it, 011 852510
VeRve / 100 / seta prevede il ritiro e la rigenerazione di vestiti usati e/o inutilizzati, secondo un’etica del non consumo. La trasformazione non intacca la qualità e la materia prima del prodotto, che vengono conservate, ma agisce sul suo aspetto, sulla sua fisionomia, determinando una profonda alterazione della sua espressione e nella sua visione. Il riuso diventa così non soltanto una scelta etica ed ecologica, ma un investimento vero e proprio.
Protagonisti di questo capitolo sono i capi in seta dismessi e dimenticati, arenati sul fondo dei nostri armadi e cassetti. Verve li rigenera attraverso serigrafie e interventi visionari. Imprime sulla loro epidermide inedite sinfonie cromatiche e grafiche, facendoli rinascere come pezzi unici e atemporali: i capi non hanno più scadenza stagionale, non sono più scarti ma oggetti nuovi, perché rivitalizzati da nuove logiche e da precisi codici eco-estetici.
La filosofia di VeRve che attribuisce valore agli oggetti perché instilla in loro una seconda vita, è etica ed ecologica perché promuove la cura del mondo materiale e naturale. Agisce sul piano culturale perché contrappone al modello consumista una concezione antica come il mondo: in natura non esistono scarti, ma solo risorse da rinnovare.
VeRve è l’occasione per comprendere come, lavorando sull’epidermide delle cose, se ne possa modificare l’immagine e la percezione; coniugando creatività, innovazione e sostenibilità possiamo diventare consumatori responsabili per vivere meglio
VeRve è la prima tappa di DREAMERS visioni e progetti di moda contemporanea, un evento a cura di Barbara Casalaspro e Ludovica Gallo Orsi.
DREAMERS 01
visioni e progetti di moda contemporanea
6 – 9 ottobre 2016
c/o Museo EGore Fico – Via Cigna 114 – Torino
dreamerstorino.it
Defiscalizzazione del tutor aziendale, benefici per le imprese che assumeranno in apprendistato formativo e quelle che ospiteranno studenti in alternanza scuola-lavoro, valorizzazione dell’investimento formativo dell’impresa
“Il Brasile d’Europa. Il calcio nella ex Jugoslavia tra utopia e fragilità” ( edito da Urbone Publishing) è un libro interessante, ben scritto da Paolo Carelli, giornalista, ricercatore universitario, grande appassionato di football
fragilità. Il calcio jugoslavo è stato davvero un caso unico, inedita combinazione di geometria e fantasia, con giocate pulite ed eleganti, trame ipnotizzanti e fulminee verticalizzazioni, tanto sofisticate quanto incostanti, esempio di virtuosismo mitteleuropeo che spesso tracimava in un lezioso senso di superiorità che, a volte, veniva dissipato a causa di quello spirito balcanico che porta all’eccesso. La Stella Rossa di Belgardo è stata l’unica compagine jugoslava a vincere la Coppa dei Campioni e quella Intercontinentale, entrambe nel 1991. Il 29 maggio di quell’anno in molti se lo sono appuntato tra i ricordi più belli. Fu una serata speciale, nello stadio San Nicola di Bari, dove la “crvena zvezda” di Dejan Savićević piegò ai rigori (5 a 3 ) l’Olympique Marsiglia di Amoros e Papin grazie ai goal di Prosinečki,Binić,Belodedić,Mihajlović e Pančev. Simbolo della Jugoslavia multietnica, la Stella Rossa era scesa in campo schierando serbi e macedoni, montenegrini , croati e bosniaci.
Anche la nazionale di Jugoslavia, intesa nella sua interezza, giocò di lì a poco la sua ultima partita, esattamente il 25 marzo del 1992. Era un amichevole con gli “orange” olandesi e rimediò una sconfitta per 2-0 . Non se la presero più di tanto perché gli sguardi e le attese erano puntati sull’Europeo in Svezia di quell’estate, alla cui fase finale la nazionale Jugoslava sia era qualificata a pieno merito. Già vincitrice del già citato mondiale under 20 del 1987, con giocatori del calibro di Boban, Suker e Mijatovic e ingiustamente eliminata ai quarti del mondiale di Italia ’90, quella squadra – che alcuni ribattezzarono “
Klinsmann. Un segno del destino? L’ironia della sorte? Più giusto dire, forse, che la realtà tragica del conflitto fece – tra le prime vittime – anche quella del sogno balcanico di una squadra che, raggiunto l’apice della maturità, praticamente sul più bello, si vide cancellare di colpo ogni sogno e qualsiasi prospettiva. A quei giocatori, ricchi di estro e genialità , era stata affiancata un’organizzazione solida e rigorosa. Insomma, gli “slavi del Sud” avevano in mano le carte giuste per fare il botto e vincere. Il botto,invece, lo fecero le bombe, i tonfi dei mortai, le
Entrerà in funzione martedì 14 giugno e sarà attivo tutti i giorni dalle 7.30 alle 23.30 lo 011/011.30000, sportello telefonico del nucleo di Polizia Giudiziaria dei Vigili Urbani
“La mattina del 24 dicembre 1914, un piccolo gruppo di persone saliva su per la strada del Gran San Bernardo. Quelle persone erano il signor Michele Rasi, bell’uomo forte e robusto, di una quarantina d’anni, la signora Ebrica sua moglie e suo figlio Giacomino, un ragazzetto di dieci anni, bruno, tozzo, coraggioso camminatore”.
amato. In un’Italia dov’era ancora vivo e dolente il ricordo della Grande Guerra, le disavventure del piccolo Giacomino che, rimasto senza famiglia viene adottato dagli Alpini e con loro combatte nelle trincee del Carso, ebbero subito un grande successo. Il
volontario fra gli alpini per combattere al fronte. Tornato dalla guerra, tornò a penna e carta, non solo scrivendo il
Sale nei primi tre mesi del 2016 la produzione industriale in Piemonte, registrando un +2,2%. In crescita quasi tutti i settori e le province,


sole, terra di pastori e contadini, Roaschia aveva nel 1911 duemila abitanti mentre oggi ne conta si e no centocinquanta, la maggior parte di essi ha superato i settant’anni. Molti nuclei, oggi disabitati, offrono ancora esempi notevoli di quell’ architettura alpina riconoscibile nei tetti in paglia di segale. Roaschia è stata a lungo la patria di generazioni di famosi pastori transumanti, costretti a spostarsi continuamente dal monte al piano in cerca di quei pascoli che in paese non bastavano mai, dove l’agricoltura si poteva praticare soltanto a livelli di sussistenza e da dove – per sopravvivere – bisognava necessariamente imboccare le strade e le vie del mondo. E così c’erano i “cavié” (commercianti di capelli)e gli “anciuè” (i venditori di acciughe), i quali entrambi a piedi o con un carrettino se ne andavano in giro, spingendosi verso la pianura o a volte sino al mare, comprando e rivendendo. Ma soprattutto c’erano i pastori di pecore e transumanti, ed è a loro che Marco Aime, che ha trascorso in questo paese a venti chilometri da Cuneo lunghi periodi della sua infanzia e della sua adolescenza, dedica questo libro. Il paese, i suoi abitanti e gli alpeggi sono parte della sua storia. Quindi, non solo perché di mestiere fa l’antropologo, in questo libro racconta con una partecipazione diretta, intensa e dal sapore antico di questa terra e della sua gente, dei pastori e della transumanza, un rito ormai del tutto scomparso, gente migrante, a volte costretta a “rubare l’erba” per dar da mangiare alle pecore, che si sposava, lavorava, partoriva e moriva in viaggio, senza un tetto sopra la testa. “Partivano. La gente di queste parti è sempre partita“. Così, i ricordi di Toni e Margherita, un anziano pastore e sua moglie, fanno rivivere la loro storia nel contesto del Piemonte rurale di oltre mezzo secolo fa. Pastori, acciugai, venditori di capelli, uomini perennemente in viaggio: Marco Aime si chiede se abbia senso parlare di “radici“, quando esistono “terre dove vivere è un lusso che non ci si può concedere sempre“, quando si è costretti a fuggire dal proprio villaggio per scampare alla povertà, per sopravvivere. Eppure, dice “
l’eccezione, e che il sedentario sia la norma”. La vita del pastore, segnata dall’universale diffidenza che i sedentari covano per i migranti di ogni tempo e luogo, diventa l’emblema – e la guida – di tutte le nostre peregrinazioni: “È quello il suo sapere, uno dei saperi del pastore, che tu non sai: conoscere la strada, trovarla sempre“. Un libro che rivendica quasi il bisogno di essere letto, per conoscere una vita difficile fatta di silenzi e di solitudine, ma anche piena di scoperte e di conquiste. Quando Aime ci accompagna a Roaschia ( “il paese dai cinque cognomi e dai due mestieri: contadino e pastore”) lo fa per esercitare un diritto di conoscenza e un dovere di memoria. D’inverno, i contadini, restavano in paese mentre i pastori dovevano partire, caricando su un carro i pochi beni e mettendosi in strada, con tutta la famiglia. Poche cose, ad accompagnarli, sul carro: un baule, con gli abiti più belli, quelli “della festa” – perché sia per un matrimonio o in occasione di un funerale bisogna vestirsi con decoro -; il sacco con i vestiti di tutti i giorni, quello con le patate per nutrirsi, i materassi e un po’ di spazio per gli agnelli nati da poco e ancora incapaci di camminare. È così ogni anno, quando l’inverno si avvicinava, in viaggio verso le nebbie della pianura , sempre attenti ai proprietari che difendevano i beni attraversati dal gregge. “La vita era faticosa, se ci penso non mi sembra nemmeno vero che ho fatto quelle cose. Comunque l’abbiamo attraversata”
considerato tra i massimi riformatori della chiesa cattolica nel XVI secolo, assieme a Sant’Ignazio di Loyola ed a San Filippo Neri, diventato vescovo e cardinale a ventidue anni, fu eletto cinque anni dopo, giovanissimo, arcivescovo di Milano e si prodigò nell’assistenza materiale e spirituale soprattutto in occasione di flagelli quali carestia e peste. Morì a quarantasei anni, il 3 novembre 1584 (secondo l’uso del tempo, essendo spirato dopo il tramonto, si considera il giorno quattro), fu beatificato nel 1602 e canonizzato nel 1610, a soli 26 anni dalla morte. Il cugino Federico Borromeo, anch’esso arcivescovo dell’arcidiocesi meneghina, più volte citato dal Manzoni ne “I promessi sposi” ( “Fu degli uomini rari in qualunque tempo, che abbiano impiegato un ingegno egregio, tutti i mezzi d’una grand’opulenza, tutti i vantaggi d’una condizione privilegiata, un intento continuo, nella ricerca e nell’esercizio del meglio”) , insieme a Marco Aurelio Grattarola, supervisore dei lavori del Sacro Monte, vollero che l’enorme statua fosse ben visibile dal lago Maggiore. Con il braccio destro
leggermente teso, benedicente. E così fu. L’opera era, per altezza, tecnica e materiali utilizzati, in qualche modo simile al mitico Colosso di Rodi, enorme statua del dio Helios, situata nel porto della città greca, considerata – da romani ed ellenici, a quell’epoca- una delle “sette meraviglie del mondo”.
crollare. La sua mole , sdraiata e “ferita”, fu visibile per diversi secoli, come testimoniò Plinio il Vecchio affermando che “anche a terra la statua costituisce ugualmente uno spettacolo meraviglioso. Pochi possono abbracciare il suo pollice, e le dita sono più grandi che molte statue tutte intere”. Smembrata a più riprese e rifusa a pezzi, fu in qualche modo riciclata con varie destinazioni in diversi punti del
Mediterraneo. Secondo una leggenda, tra queste, figura anche il lago Maggiore, e più precisamente, la cittadina di Arona che, in epoca romana fu luogo di passaggio verso il passo del Sempione. Il Sancarlone, partendo proprio da questa leggenda, è diventato – suo malgrado – protagonista di un racconto di Piero Chiara. Lo scrittore luinese, in “Sotto la sua mano”
di un antiquario e poi nella residenza sull’Aventino di un procuratore romano, affondò in un prato durante il trasloco a Pallanza, per riaffiorare nel 1692 e completare così – previa fusione che ne cancellò l’imbarazzante e irriguardosa origine – la statua del Santo. Come da prassi, il narratore, consapevole di dover maneggiare la storia con cautela, comprensione e una punta d’ironia, avvolse il tutto in una dimensione d’incertezza, ricorrendo alle formule prudenziali del “si dice, correva voce, venne riferito”. L’unica cosa certa è che “il Sancarlone” sta lì, sulla collina, da più di trecento anni e c’è sempre parecchia gente che lo visita, salendo le ripide e strette scale attraverso le quali è possibile raggiungere la testa. Gli occhi, le orecchie del gigante e alcune finestrelle che si aprono sulla veste, permettono di ammirare uno stupendo panorama tra le due riviere, quella piemontese fino a Solcio e quella lombarda, da Santa Caterina del Sasso ad Angera.