Buoni risultati anche fra gli uomini: i vigili sabaudi si piazzano così al quarto posto nella generale a squadre
Nella giornata di domenica 21 ottobre il parco naturale di Lama Balice, in Puglia, al confine tra Bari e Bitonto, ha ospitato la quarantasettesima edizione dei campionati italiani ASPMI di corsa campestre, manifestazione associata a una gara targata Fidal, che ha registrato all’incirca 400 podisti al via.
Anche il Gruppo Sportivo Polizia Municipale di Torino ha preso parte alla tenzone, svoltasi su un percorso sterrato e prevalentemente pianeggiante, che includeva due tracciati diversi: uno di 6 chilometri, ideato per gli uomini e costituito da tre giri da compiersi all’interno di un circuito ricavato fra i vigneti del parco e dagli ultimi mille metri caratterizzati da una discesa e da un’immediata risalita verso l’arrivo, ubicato presso la storica Villa Framarino, e uno di 4 chilometri, riservato alle donne.Venendo ai risultati, nella competizione maschile si è imposto Diego Frontini del GS Ancona, mentre fra le quote rosa ha trionfato l’intramontabile Vincenza De Vitis (GS Brescia), alle cui spalle si è piazzata la portacolori del GSPM Torino Luisella Tanda, medaglia
d’argento assoluta e oro di categoria.Buoni piazzamenti anche nella gara maschile per gli atleti sabaudi, con un terzo posto di categoria per Giuseppe Adamo e due quinti posti di Alessio Colucci e Cristian Bertaina; quest’ultimo, responsabile della compagine podistica gialloblù, ha commentato: «Va in archivio una bellissima edizione dei nazionali ASPMI, sicuramente una delle migliori di sempre, nella quale l’accoglienza e la disponibilità dimostrate dai colleghi di Bari sono state davvero esemplari, senza dimenticare il fascino di una città che ci ha stupito per meraviglie e sapori. Il circuito era entusiasmante, completamente immerso nella natura del territorio, ma non presentava un coefficiente di difficoltà eccessivamente elevato».
Per quanto concerne i piazzamenti dei suoi compagni, Bertaina ha asserito: «Complessivamente il nostro team, composto da 8 atleti (oltre ai già menzionati Tanda, Adamo, Colucci e Bertaina erano presenti anche Massimo Benincasa, Silvano Ferrero, Andrea La Rosa e Andrea Pisoni, ndr) e condizionato da alcune defezioni importanti, si è comportato bene, classificandosi in quarta posizione nel ranking a squadre, nel quale siamo stati preceduti da Milano, Bari e Bologna».
Un plauso finale va «all’organizzazione, che è stata davvero perfetta; rivolgo quindi un sentito ringraziamento da parte nostra ai colleghi di Bari. Adesso inizieremo a lavorare per gli appuntamenti ASPMI in programma nel 2019 a Como e L’Aquila, ai quali cercheremo di presentarci ancora più competitivi».















fatta un’eccezione. I due erano a metà della carreggiata quando un’auto che viaggiava a tutta velocità li indusse a fare un passo indietro. Una vettura in arrivo dalla parte opposta sfiorò Poletti e urtò in pieno Meroni che, sbalzato sull’altra corsia, venne investito da una Fiat 124 Coupé che lo trascinò per più di cinquanta metri sull’asfalto. Portato all’ospedale Mauriziano, morì poche ore dopo, alle 22.40. Se ne andava così Gigi Meroni, a soli ventiquattro anni. La farfalla granata non
volò più. Colmo del destino, l’automobile che lo investì era guidata da un suo tifoso diciannovenne che si chiamava Attilio Romero e che diventò, nel duemila, presidente del Torino. Un cognome e un destino, quello di Meroni, già tragicamente comparso nella storia granata, al tempo della tragedia di Superga. Si chiamava, infatti, Pierluigi Meroni il comandante del trimotore Fiat che si schiantò sulla collina della basilica il 4 maggio del 1949. Gigi Meroni, nato e cresciuto calcisticamente a Como, dopo aver vestito la maglia lariana e quella del Genoa, approdò nel 1964 a Torino, nella
parte granata della città dell’auto. Agli ordini del “Paròn “Nereo Rocco, l’ala numero sette incantò tutti con le sue giocate, i dribbling ubriacanti e quei suoi goal che, pur non molti (con la maglia del Toro ne insaccherà 24), spesso finirono nelle cineteche del calcio per la bellezza del gesto atletico che li accompagnava,rendendo possibile ciò che ai più pareva impossibile. Era lui il
“calciatore-beat” , quello che non amava i tiri da fermo e men che meno i rigori ma sentiva il bisogno dell’azione, della lotta per conquistarsi la palla, dell’invenzione artistica del gol. I difensori impazzivano e spesso non trovavano alternative ai mezzi più bruschi per fermarlo, mettendolo giù senza tanti complimenti. I compagni ne sfruttavano le doti quando l’ala destra dai capelli lunghi e dai basettoni passava loro la palla al momento giusto, con il gesto generoso e altruista di chi concede agli altri
l’onore di gonfiare la rete alle spalle del portiere avversario. Anche lui, come Gorge Best, il suo “gemello-diverso”, andava controcorrente. Quando Edmondo Fabbri lo chiamò in nazionale gli impose una condizione: tagliarsi i capelli. Lui, con l’animo dell’artista che si disegnava da solo i vestiti da indossare,prendendo a modello quelli dei Beatles, e lo spirito trasgressivo che lo portava a passeggiare per le vie di Como portandosi al guinzaglio una gallina, non rinnegò se stesso e rifiutò la convocazione. Era amatissimo dai suoi tifosi, Luigi Meroni. L’ipotesi del suo passaggio alla Juventus, nell’estate del 1967, provocò una sollevazione dei tifosi del Toro, mandando a gambe all’aria
l’operazione. Era l’idolo non solo dei granata ma di tutti coloro che amavano il bel calcio, la fantasia e l’improvvisazione di quest’artista che sapeva trattare con incredibile abilità la sfera di cuoio. Ai suoi funerali parteciparono più di ventimila persone e l’intera città trattenne il fiato. L’emozione fu grande e toccò tutti, compresi alcuni detenuti delle “Nuove” che fecero una colletta per mandare dei fiori. Solo la Diocesi di Torino si oppose al funerale religioso di quel “peccatore pubblico” e criticò aspramente don Francesco Ferraudo, cappellano del Torino, che lo celebrò comunque. Meroni conviveva con Cristiana Uderstadt e la sua ragazza – di origine polacca e figlia di giostrai – era ancora sposata, in attesa di poter divorziare. Un peccato, all’epoca, da non perdonare anche da morto a quel ragazzo che, come scrisse Gianni Brera “ era un simbolo di estri bizzarri e libertà sociali in un paese di quasi tutti conformisti sornioni”.



