Rubriche- Pagina 76

“La passione per la libertà” di Quaglieni, al via il tour di presentazione in tutta Italia

LIBRI / Martedì 20 luglio alle ore 21,15 per la rassegna Autori in Giardino per iniziativa del Comune di Poirino, e   Giovedì 22 luglio alle ore 21, per il ciclo “Patto per la Cultura” patrocinato dal Comune di Loano, presso il foyer dell’Arena estiva “Giardino del Principe” (Loano, piazza Italia), verrà presentato il libro di Pier Franco Quaglieni “La passione per la libertà. Ricordi e riflessioni”. Buendia Books, 2021.

Interverrà la giornalista Grazia Noseda, letture dell’attrice Giulia Isnardi. Entrata libera fino ad esaurimento dei posti. Seguiranno in agosto presentazioni a Bardonecchia il 3 e il 4 ad Exilles  il 22 al Sestriere e altre presentazioni in Liguria ad Alassio, Andora, Bordighera e in Versilia. Il libro verrà presentato da settembre nelle grandi città: Roma, Napoli , Milano, Venezia ecc.
Il libro, con il rigore e la chiarezza che sono propri dello storico Pier Franco Quaglieni, ci ricorda alcune figure della storia italiana recente, ma affronta anche temi controversi della storia e dell’attualità, aiutandoci a liberare le nostre menti dalle semplificazioni manichee e da certi revisionismi che stanno emergendo e soffocando la ricerca storica. La passione per la libertà, che riecheggia il titolo del saggio di Mario Pannunzio su Tocqueville, è un invito al rispetto di tutte le idee, uno dei cardini della civiltà liberale
Dichiara l’autore : “E’ un libro molto diverso dai miei altri precedenti  perché rappresenta una rivisitazione complessiva della storia italiana dal fascismo in poi, andando oltre i luoghi comuni e il conformismo attuale. Affronto temi ancora divisivi come le foibe e rifletto sui temi della laicità rispetto al Cattolicesimo e all’Islam . Una parte  del libro riguarda il mio ritorno alla pratica religiosa in pieno COVID  che è avvenuto proprio in Liguria sotto la guida di un monsignore alassino. Non è un libro  destinato a passare nell’indifferenza , farà discutere forse anche animatamente  e forse verrò anche attaccato dalla solita intellighenzia intollerante. Ma ho voluto scrivere in assoluta libertà il mio pensiero ,senza timori reverenziali per nessuno. Non lo ritengo un merito, ma un dovere.”

Gambarotta detective svela il giallo della rapina del secolo

LIBRI / Ricordo Bruno Gambarotta affiancare Adriano Celentano con evidente imbarazzo. In televisione. Cercava di intercettare i discorsi surreali, senza capo ne coda, del molleggiato meneghino, con qualche risposta improvvisata. Facendogli da spalla.

Fu il suo esordio davanti alle telecamere. Inventandosi quel ruolo resosi necessario all’ultimo momento. Su Rai tre. Il programma era ”Svalutation”. Erano i tempi di Telekabul, di Angelo Guglielmi e del Gruppo 63 a viale Mazzini, di Sandro Curzi al telegiornale. Quella Rai tre. La rete più a sinistra della sinistra. Faceva un pò il verso a Felice Andreasi, il più icastico e esilarante dei comici torinesi del cabaret e del nostrano avanspettacolo, poco conosciuto dal grande pubblico, ma famigliare a chi della torinesità, porta il marchio di fabbrica. E divenne un famoso di nicchia nazionalpopolare. Astigiano di nascita e torinese di adozione, ha fatto del Piemonte e in particolare di Torino, il metacommento del mondo più vasto. Una lente di ingrandimento dei vizi e delle virtù dell’uomo contemporaneo, antieroe del quotidiano, comico spaventato guerriero, così l’avrebbe definito Stefano Benni. Nacque nella città di Vittorio Alfieri nel 1937 e lavorò in Rai per trent’anni, da programmista duro e puro. Così ”fortissimamente volle ”. Film e telefilm portano la sua firma, a nostra insaputa. Con il racconto-documento ” Il Postino spara sempre due volte ” (edizioni La Stampa, 2008, pagg. 193 euro 7,90) da vero e proprio sociologo della devianza, scartabellando le cronache giornalistiche e facendo finta di non sapere come va a finire, scopre i fatti man mano che accadono e un pó come il Peter Falk-Tenente Colombo della nostra adolescenza, per induzione e estrazione, ci porta a scoprire l’intreccio e le dinamiche, di un fatto di cronaca nera di rilevanza nazionale, avvenuto nel 1996: il tentativo di furto del secolo alle Poste di Torino. Il poliedrico Bruno Gambarotta, ha scritto per La Stampa, per anni, per la rubrica ” Storie di città” sul supplemento ” Torino Sette”, collaborando per l’ inserto ”Tutto Libri”, sempre dell’ammiraglia torinese. Per l’editrice di via Marenco, dalla sua prolifica penna, sono nati 700 racconti, raccolti in quattro volumi e tre spettacoli. Ha esordito nella narrativa nel 1977, per i tipi della Mondadori, con il romanzo ”La nipote scomoda”, scritto a quattro mani con Massimo Felisatti. La città di Torino e i torinesi sono la fonte costante delle sue narrazioni, un pó come Parigi per Georges Simenon. Si possono ricordare tra gli altri per Garzanti ”Torino lungodora Napoli” (1995) da cui è stato tratto il film ”Libero Burro” con Sergio Castellitto e ”Tutte le scuse sono buone per morire ”. In occasione della Fiera del Libro del 2006 è uscito ” Il codice gianduiotto” Morganti editori. La risposta italiana al Codice da Vinci. Nel 2007 per Ambaradan ha dato alle stampe ”Giallo polenta” scritto a quattro mani, modello Fruttero-Lucentini, con Renzo Capelletto. Nella recente trasmissione televisiva ‘Viaggio nella Grande Bellezza’ intervistato dal giornalista Cesare Bocci, narra della distilleria Carpano, della ricetta del ‘bicerin’, bomba iperglicemica ad uso e consumo della nobiltà sabaudo risorgimentale, nonché dei nostri coevi abitanti postmoderni. Ci racconta delle radici savoiarde dell’espressione linguistico gergale «fare una figura da cioccolatai» figura retorica al cacao, sovente descrittiva della nostra penisola. Il tutto ripreso in Galleria Subalpina. Il salotto buono taurinense. Visionare per sapere. In open source.

Aldo Colonna

I fratelli Garrone tra eroismo e umanità. La mostra a Vercelli

IL COMMENTO  di Pier Franco Quaglieni

Quando, dopo la laurea, i miei rapporti con Alessandro Galante Garrone mio  indimenticabile docente di Storia del Risorgimento e per tanti anni mia stella polare,  divennero meno formali -anche se la nostra frequentazione risaliva al 1968 quando nacque il Centro Pannunzio e alla comune amicizia con Mario Soldati e con Leo Valiani-ci capitò a cena  al “Cambio“, in occasione del conferimento a Spadolini nel  1982  del Premio “Pannunzio” di cui Galante Garrone tesse’ le lodi, di parlare di un argomento molto speciale.

Il Maestro, rivolgendosi all’ex allievo, in modo sorprendente, mi disse più o meno queste parole : io colsi in  te un amore per il Risorgimento che in un giovane d’oggi appare inspiegabile ed è molto raro  e che fa quasi pensare a quello dei miei due zii, i fratelli Garrone. Io lo ritenni un grande complimento  che ascoltò anche Spadolini e quando parlai il 20 settembre dello scorso anno a Palazzo Carignano (dove tanti anni fa presentammo insieme “Fiori rossi al Martinetto” di Valdo Fusi) per i centocinquant’anni della Breccia di Porta Pia, parlai di innamorati del Risorgimento rivolgendomi al pubblico presente. Non ritenni di ricordare quell’episodio lontano, ma quella espressione veniva dal ricordo di uno straordinario evento: il presidente del Consiglio repubblicano che dopo aver parlato al museo del Risorgimento, si siede al tavolo del ristorante al posto dove era solito pranzare Cavour  per ricevere il Premio Pannunzio appena istituito da Mario Soldati e da chi scrive.
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Ma quelle parole di Sandro (così volle che lo chiamassi e fu per me un grande onore) mi sono tornate alla mente quando sua figlia, la storica dell’arte Giovanna Galante Garrone, mi invitò a visitare la mostra inaugurata a Vercelli a metà giugno “DA UNA VITA ALL’ALTRA. I fratelli Garrone: eredità di affetti e di ideali dal fronte della Grande Guerra”, che rimarrà aperta fino al 31 ottobre al Museo Leone. Solo in questi giorni sono stato a visitare la bella mostra  realizzata dal Museo Leone – vero fiore all’occhiello della cultura non solo vercellese -, che si è rivelata molto curata nell’allestimento e va dato atto dell’ottimo lavoro dei due curatori   Chiara Maraghini Garrone (che tra l’altro che ha catalogato il ricco fondo di lettere dei due fratelli)e Luca Brusotto direttore del Museo.  Essa rientra in un progetto di più ampio respiro: “ I fratelli Garrone e il loro epistolario: testimonianza di un percorso di libertà e giustizia“, sostenuto dalla Struttura di missione per la valorizzazione degli anniversari nazionali e della dimensione partecipativa delle nuove generazioni della Presidenza del  Consiglio dei Ministri. Non si può descrivere la mostra storico fotografica dedicata a questi due giovani patrioti, che sull’onda degli ideali risorgimentali partirono volontari nella Grande Guerra che sentirono come quarta guerra per l’ indipendenza e che si immolarono   Insieme il 14 dicembre  del 1917 durante la battaglia del Col della Berretta  che  segnava la ripresa dell’Esercito italiano dopo Caporetto. Giuseppe ( Pinotto) ed Eugenio( Neno )  Garrone  furono due personaggi davvero straordinari che si possono considerare come gli ultimi giovani del Risorgimento italiano che si compirà con Trento e Trieste italiane.Ottennero la Medaglia d’oro al Valor Militare alla memoria con  motivazioni che vanno ben oltre le parole spesso retoriche usate nel linguaggio militare.
Giuseppe, nato il 10 novembre 1886  era un giovane magistrato, Eugenio ,nato il 19 ottobre 1888, era un funzionario del Ministero della Pubblica Istruzione .Erano molto diversi tra loro, il primo legato ad un atteggiamento molto razionale, il secondo emotivamente romantico.
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Le loro vite vengono ricostruite attraverso la mostra che espone le splendide fotografie che i due volontari scattarono al fronte. La loro famiglia  vercellese era imbevuta di forti ideali patriottici che erano vivi in quasi tutte le famiglie piemontesi che avevano vissuto da vicino il Risorgimento. Io ebbi due zii partiti volontari e caduti già nel 1915 e mio nonno, amico di Cesare Battisti e di Damiano Chiesa, che parti’  anche lui per un fronte ,quello albanese, in cui si moriva più di malaria che a causa dei combattimenti ,mi parlava spesso della Grande Guerra. L’interventismo non fu solo quello di Gabriele D’Annunzio e dell’ex socialista Mussolini ,ma ebbe anche un volto risorgimentale e democratico e liberale  con Salvemini, Calamandrei, Parri, Bissolati, Omodeo ed altri. Un altro mio congiunto, il deputato liberale Marcello Soleri , giolittiano e quindi  non favorevole all’intervento in guerra, indosso ‘ la divisa di alpino e parti’ per il fronte dove venne ferito e decorato di Medaglia d’Argento. Mentre visitavo la mostra mi tornavano in mente i miei ricordi famigliari che sicuramente  sono la causa prima che mi portò sempre a sentirmi patriota  anche se non sono  confrontabili con quelli delle famiglie Garrone e Galante .Ricordo che una delle mie prime letture già al liceo fu “Difesa del Risorgimento“ di Adolfo Omodeo , un vademecum ideale che mi ha accompagnato nella mia vita di studioso. La prima a farmi conoscere da vicino – al di là di mio nonno – i due “ dioscuri” fu Virginia Galante Garrone che ripubblico ‘ nel 1974 da Garzanti “ Giuseppe ed Eugenio Garrone, lettere e diari di guerra” con un ampio saggio del fratello Sandro. Nel catalogo risalta un lucido saggio del magistrato e storico Paolo Borgna ,il biografo di Sandro Galante Garrone che, prima di dedicarsi all’insegnamento universitario ,fu anche lui magistrato. Borgna affronta un tema scottante . Il patriottismo che portò i due fratelli a manifestare per l’intervento nel maggio 1915 e a decidere di partire per il fronte ,dove avrebbe condotto i due giovani se fossero sopravvissuti alla guerra? Il fascismo cercò di annetterseli e il busto di Pinotto inaugurato nel 1936  dal Guardasigilli fascista  Solmi nel Palazzo di Giustizia di Roma fu un omaggio ad un magistrato eroico ,ma anche un tentativo di strumentalizzarne il ricordo.
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Cosa avrebbero fatto i fratelli Garrone di fronte alla ostilità violenta  dei socialisti nei confronti dei reduci negli anni del dopoguerra italiano quando si giunse quasi alla guerra civile tra fascisti e socialisti? Cosa avrebbero fatto di fronte alla Marcia su Roma a cui si opposero anche uomini come Carlo Delcroix? Cosa avrebbero fatto di fronte al delitto Matteotti? E’ legittimo pensare secondo Borgna – e io concordo con lui – che il delitto Matteotti avrebbe rappresentato un campanello d’allarme decisivo anche se un uomo come Benedetto Croce dovette attendere il 1925 per una scelta antifascista decisa con il manifesto degli intellettuali di risposta a quello di Gentile. Furono anni travagliati e confusi che portarono molti a sottovalutare Mussolini. Ernesto Rossi, ad esempio, che si fece anni di galera per antifascismo, fu collaboratore del “ Popolo d’Italia” il quotidiano diretto dal futuro duce. Borgna si spinge ad immaginare i due  fratelli  dopo l’8 settembre 1943 , a “dirigere la lotta contro il tedesco invasore“. E anche qui convengo con lui ,anche se ritengo difficile pensarli sulle posizioni che caratterizzarono i nipoti Sandro e Carlo, i quali furono impegnati in “ Giustizia e libertà”. Molto opportunamente Borgna evidenzia come sarebbe errato appropriarsi dell’eredità dei due fratelli in senso diametralmente opposto a quello del ministro fascista Solmi .
Ipotizzare cosa avrebbero fatto  sarebbe un’operazione storicamente scorretta. Ma credo che non sarebbero rimasti nella zona grigia . Tra l’altro molti resistenti scelsero di andare in montagna per fedeltà al giuramento prestato come il maggiore degli Alpini Enrico Martini Mauri che aveva combattuto eroicamente ad El Alamein. In questa lunga riflessione non ho accennato all’aspetto umano dei due fratelli ,alla nobiltà dei loro sentimenti, al loro attaccamento alla famiglia ,al fatto che Pinotto muore tra le braccia dell’altro fratello che lo veglia tutta la notte. Un episodio che fa pensare agli eroi antichi. Andrebbe anche sottolineato il loro modo umanamente molto significativo di trattare i propri soldati condividendone le sofferenze e i disagi ,un qualcosa di diametralmente opposto al rigorismo cieco di Cadorna. L’atrocità della guerra di posizione li  aveva resi consapevoli della violenza estrema di un conflitto mondiale che stravolse la storia .Eugenio scrisse nel 1917 ai genitori :” Perché si devono odiare a tal punto gli uomini. Perché ?” Una domanda che ci porta a pensare che il nefasto mito guerrafondaio del fascismo avrebbe trovato i due fratelli schierati dall’altra parte perché la loro idea di Nazione ,per dirla con Chabod, era nutrita di una profonda umanità che si coglie in tutte le  loro lettere. Io li immagino giovanissimi lettori del “Cuore“ di De Amicis che contribuì a formare intere generazioni di giovani  che si ritrovarono nelle trincee della Grande Guerra.

Le verità nascoste

LIBRI / Con i diciotto racconti che formano “Le verità nascoste” (Aletti editore,2021) Wilma Minotti Cerini – poetessa, scrittrice e saggista – offre ai lettori un’altra interessante prova del suo talento.

Le storie narrate hanno sempre un fondo di verità, prendendo spunto da fatti reali e dalle esperienze d vita dell’autrice come “La valigia pronta”, “La venditrice di sogni impossibili”, “Somiglianze casuali?” o “La barbona dei mazzolini di fiori”. Alcuni sono molti aspri e drammatici come “L’orco e Siri” dove ci si basa sui viaggi della vergogna di chi sfrutta le ragazzine costrette a prostituirsi in Thailandia mentre altri sono più lievi, con una carica d’ironia in grado di strappare sorrisi come ne “L’eredità” e “La ribollita”. Una lunga trama di vicende si snoda tra una storia e l’altra per finire con una sorta di redenzione finale nell’ultimo capitolo intitolato “L’albero della Croce”. Nata a Milano nel 1940, Wilma Minotti Cerini vive attualmente a Pallanza, sulla sponda piemontese del lago Maggiore e vanta molte pubblicazioni di sillogi poetiche, saggistica ( “Caro Gozzano”), teatrali (“Una questione di dosaggio”) e di narrativa come i romanzi “Rajana” e  “Ci vediamo al Jamaica”. Quest’ultimo, in particolare, è un omaggio a un pezzo di storia della cultura italiana degli anni Sessanta. Noto come caffè degli artisti, poiché prossimo a Brera, il Jamaica di fu il punto d’incontro di esperienze intellettuali e umane, dove si ritrovavano personaggi già molto noti nel mondo dell’avanguardia artistica, letteraria e cinematografica del “bel Paese”.

Marco Travaglini

“L’Italia che è in mezzo al mare L’Italia dimenticata e l’Italia da dimenticare…”

MUSIC TALES, LA RUBRICA MUSICALE

 

L’Italia che è in mezzo al mare

L’Italia dimenticata e l’Italia da dimenticare

L’Italia metà giardino e metà galera

Viva l’Italia

L’Italia tutta intera”

1979, avevo sette anni.

 

Un brano che quest’anno compie 40 anni, e continua a essere un piccolo compendio di quello che succedeva nel Paese in quegli anni. Il racconto lucido e spietato di uno dei cantautori più importanti della Storia musicale italiana, tra Resistenza e Piazza Fontana.

Ecco cosa dice De Gregori, l’autore di questa pietra miliare della musica: “Ogni volta che canto quella canzone sento che ogni parola di quel testo continua ad avere un peso. ‘L’Italia che resiste’, ad esempio; e solo le anime semplici potevano pensare che c’entrasse qualcosa con lo slogan giustizialista ‘resistere resistere resistere’. ‘L’Italia che si dispera e l’Italia che s’innamora’. L’Italia che ogni tanto s’innamora delle persone sbagliate, da Mussolini a Berlusconi. Ma il mio amore per l’Italia, e per gli italiani, non è in discussione”.

Come è attuale questo brano, dopo 40 compleanni; come pesano sulla schiena certe parole appese a bocche a volte sbagliate.

Quanto è bella questa Italia, cosi desiderabile, spesso cosi invivibile, ma cosi bella da inebriare ed incantare ogni cuore, ogni occhio.

Sempreverde questo brano , ascoltatelo a cuore aperto, vi farà amare ed odiare un paese strepitoso.

Gli italiani perdono le partite di calcio come se fossero guerre e perdono le guerre come se fossero partite di calcio.”

Chiara De Carlo

Francesco De Gregori – Viva l’Italia (Still/Pseudo Video) – YouTube

 

 

Ecco a voi gli eventi della settimana!

Occhio! Gli effetti collaterali del Covid sull’apparato oculare

Il punto di vista / Le interviste di Maria La Barbera

Il dottor Cornelio Paolo Feira ci spiega come proteggere i nostri occhi da fastidiose congiuntiviti e prevenire patologie più serie.

 

E’ vero, siamo stanchi di sentir parlare di pandemia, ora vogliamo senz’altro goderci l’estate, le vacanze e un po’ di serenità dopo mesi di chiusure e preoccupazioni, vogliamo voltare pagina, parlare d’altro, leggere buone novelle e cercare di dimenticare. Tuttavia alcune conseguenze di questo virus , che speriamo ci lasci presto, si sono manifestate e continuano a farlo, non perché siano direttamente legate ad esso ma, al contrario, come conseguenza di alcune misure che sono state adottate, naturalmente per tutelare la nostra salute, che hanno procurato tuttavia diversi effetti collaterali. Una attenzione maggiore e qualche semplice, ma determinante, accorgimento possono risultare utili a proteggere una parte essenziale del nostro corpo, la nostra finestra sul mondo, la bussola che ci permette di orientarci, vedere, guardare, percepire, scrutare, distinguere, osservare, contemplare e non solo: i nostri occhi.
Il dottor Cornelio Paolo Feira, oculista a Torino, ci racconta cosa è accaduto ( e tuttora accade) al nostro apparato visivo a causa dei dispositivi di protezione utilizzati durante questi mesi di lockdown e come i globi oculari si siano dovuti adattare a nuove e spesso stressanti abitudini.

3 domande al dottor Cornelio Paolo Feira

Dottor Feira quali sono gli effetti prodotti dall’utilizzo prolungato delle mascherine?
L’apparato oculare non è stato interessato direttamente dal virus, non ci sono evidenze che confermino che ci sia un legame di trasmissione infettivo lineare, quello che è accaduto invece è di tipo collaterale. L’utilizzo prolungato della mascherina infatti, uno schermo protettivo che produce un micro ambiente caldo-umido favorevole per batteri, virus e miceti, può essere la causa di congiuntiviti e cheratocongiuntiviti dovute al flusso d’aria della respirazione che si dirige verso le palpebre e gli occhi. Inoltre i punti di contatto della mascherina con il viso possono essere causa di herpes e dermatiti; si dovrebbe cambiare la mascherina ogni 2 o 3 ore, ma comunque non si risolverebbe del tutto il problema.

Quali sono gli altri inconvenienti che questa pandemia sta procurando al nostro sistema visivo?
Lavoro e didattica a distanza hanno causato un’impennata delle ore di applicazione ai dispositivi digitali con conseguente aumento dell’esposizione alla luce blu-viola dannosa per la retina e per il cristallino. Trascorrere ore davanti ad uno schermo per lavorare o seguire lezioni e studiare può creare, secondo diversi studi scientifici, lesioni alla vista a causa dell’alta capacità di penetrazione oculare che questo tipo di luce artificiale a led possiede .
L’utilizzo prolungato di cellulari, tablet e computer che costringe , inoltre, ad una continua messa a fuoco tra lo schermo e l’ambiente esterno, può causare effetti deleteri anche sul ciclo sonno-veglia con conseguenti fenomeni di insonnia.

Quali accorgimenti possiamo adottare per evitare spiacevoli conseguenze di salute legate ai nostri occhi e migliorare la vita del nostro apparato oculare?

Sicuramente fare delle pause durante le nostre sessioni di studio e di lavoro davanti allo schermo e limitare le nostre attività sui dispositivi digitali. Ogni 20/30 minuti bisognerebbe alzarsi e farne 5 di pausa proiettando lo sguardo verso grandi distanze, il nostro occhio è infatti strutturato per una visione da lontano. Un altro consiglio importante è di utilizzare lenti, sia correttive che neutre, con trattamento per la luce blu mentre per curare infiammazione e secchezza si possono utilizzare delle lacrime artificiali in collirio ( in gran parte a base di acido ialuronico). Ovviamente sarebbe meglio essere sotto controllo di uno specialista che può consigliare il rimedio più adatto ad ogni caso specifico.
In generale comunque bisognerebbe evitare di utilizzare luci a led ed adoperare il meno possibile i dispositivi tecnologici avvalendosi magari di schermi protettivi; infine sarebbe ottimale leggere, studiare o lavorare utilizzando supporti cartacei . Non dimentichiamoci che gli occhi sono una parte del nostro corpo molto importante, la nostra guida e il nostro varco sul mondo, trattiamoli bene, non trascuriamoli!

 

“L’orto fascista” Romanzo / 2

 

L’AUTORE DICE DI SE’  Sono un vecchietto che a 76 anni, stanco di leggere romanzi con una infinità di personaggi difficili da ricordare (ed un inizio di arteriosclerosi non aiuta), trame complicate e finali scontati, ha deciso di tentare di scrivere il libro che gli sarebbe piaciuto leggere.
E’ nato così “L’orto fascista” che non è nè vuole essere un romanzo storico o politico. E’ una tragicommedia (più commedia che a volte sfiora la pochade) che si svolge in un piccolo paese della Valcamonica nel 1943 all’atto dell’invasione tedesca in Italia. Il romanzo è stato accolto benevolmente dalla critica. Alcuni mi hanno paragonato a Piero Chiara (con mio immenso piacere in quanto da ragazzo ebbi occasione di frequentare lo scrittore varesino e di stimarlo), altri (con minor piacere) al “miglior” Andrea Vitali. I giornalisti del quotidiano “La Stampa” hanno collocato il mio scritto nel sito “Lo Scaffale” ove vengono ospitati solo i libri che non dovrebbero mancare in ogni biblioteca privata.
Spinto dall’entusiasmo ho scritto e pubblicato “Gilberto Lunardon detto il Limena” e quindi “L’oro di Breno” che sono altrettanto piaciuti.
Quest’anno, per festeggiare i miei 84 anni, ho pubblicato il giallo “Il sosia.” Non avendo nessuna esperienza in questa tipologia di romanzi temevo un fiasco. Quindi è stata con grande meraviglia l’aver ricevuto tante mail da persone, anche sconosciute, che si congratulavano con me e che mi esortavano a continuare. Ho altri due romanzi nel cassetto ed ho intenzione di editarli il prossimi Marzo e Ottobre. Infatti a Ottobre uscito “Don Arlocchi e il mistero della statua di Minerva”.

Ernesto Masina

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In copertina:
Breno, Piazza Generale Ronchi, già Piazza del Mercato, fotografia d’epoca.

 

ERNESTO MASINA

L’Orto Fascista

Romanzo

PIETRO MACCHIONE EDITORE

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III

Don Pompeo Cappelletti era detto don Pompetta Cappelleo a causa della strana configurazione del suo corpo, largo in modo abnorme all’altezza delle anche e dei glutei e che andava restringendosi vistosamente nella parte alta del tronco, finendo in due spalline strette strette che sorreggevano una testa oblunga: proprio la forma di quelle pompette che una volta si usavano per fare gli enteroclismi. A coprire la scarsa capigliatura sempre un basco alla francese. Era stato Cappellano Militare nella guerra ’15-’18 e si diceva avesse, non si sa con quale incarico, partecipato anche alla guerra di Spagna, ovvia- mente dalla parte dei franchisti. Era un grande sostenitore del Fascismo e non perdeva occasione per esprimere la sua enorme ammirazione per il Duce e per le sue grandi opere. Durante le sfilate in occasione delle giornate ufficiali, naturalmente istituite dal Regime, sfoggiava sulla tonaca alcuni nastrini militari colorati e qualche medaglia assegnatagli non si sa perché. Teneva ottimi rapporti con le autorità fasciste. Due volte al mese si recava a Brescia, con la scusa di andare in Arcivescovado, diceva, o a trovare qualche parrocchiano ricoverato nel locale ospedale, oppure ad acquistare qual- che articolo che non si trovava nei negozi della valle. Per raggiungere il capoluogo prendeva il trenino che partiva qualche minuto dopo il termine della messa delle sette, oppure trovava un passaggio su qualche auto di servizio o di proprietà di qualche privilegiato che, per meriti politici o perché svolgeva comunque attività che interessavano il Partito, era esentato dal divieto di uso persona- le delle vetture a benzina.

Giunto a Brescia sbrigava il più velocemente possibile la visita in Arcivescovado, augurandosi di non trovare mai il Vescovo che aveva fama di sinistrorso e che, con quello sguardo profondo, durante gli incontri lo guardava sempre negli occhi mettendolo in imbarazzo. Si dedicava quindi alle poche commissioni, trascurava le visite in ospedale e poi, guardandosi in giro con circospezione, sperando di non essere seguito e di non incontrare qual- che persona che lo conoscesse, si recava in una stretta via che partiva da piazza Tebaldo Brusati e suonava al n°10. Quando gli veniva aperto gettava un ultimo sguardo sia a destra che a sinistra e poi si precipitava all’interno.
Era la sede dell’OVRA, la polizia politica del Regime, che si interessava di controllare, interrogare – sempre più spesso con la tortura – tutti quelli che sembravano critici o contrari al Regime. Gli uffici erano stati ricavati in un appartamento requisito a una coppia di antifascisti che erano stati inviati, per redimersi, al confine in un paese sperduto tra le valli dell’appennino calabrese. Per mancanza di fondi il mobilio non era stato sostituito e quindi l’ufficio del Commissario era situato nel salotto di casa con tanto di poltrone e divano.
Gli appartenenti all’OVRA ritenevano che quella sede non fosse conosciuta se non a loro – chi vi era portato veniva preventivamente bendato – ma a Brescia, come succede in tutte le piccole città del nord di curiosi e di pettegoli, tutti sapevano.

Qui don Pompeo veniva fatto accomodare in un salottino e dopo poco veniva raggiunto dal Commissario Capo. Bevuto un caffè i due si mettevano a chiacchierare come due vecchi amici, ma ben presto il discorso si limitava ad un soliloquio del prete. Raccontava tutte le notizie raccolte a Breno e in altri paesi della valle. Solo notizie, ovvia- mente, che potevano interessare alla Polizia Politica.
Il Parroco era un abile confessore. Se chi si presentava per ottenere l’assoluzione era donna dai 40 ai 60 anni – mai fidarsi delle giovani moderne che prendevano i sacramenti e, soprattutto, le autorità ecclesiastiche troppo sotto gamba – riusciva sempre a intrufolarsi nei suoi pensieri e a sviscerarne i più reconditi segreti. E se si parlava di peccati riguardanti il sesso, don Pompeo voleva sapere, con dovizia di particolari, come si erano consumati. I movimenti, le posizioni, la condivisione o meno alle eventuali strane richieste del marito, e se, magari con l’aiuto del preservativo o del coitus interruptus, erano state violate le leggi stabilite dalla chiesa. Giustificando tutto ciò con il fatto che la gravità del peccato era in proporzione al godimento ricevuto e che un orgasmo femminile non era cosa buona. Al Parroco questi racconti davano lo stesso malsano godimento che avrebbe ricevuto – fervido come era di immaginazione – guardando un film porno. Se capitavano in una giornata tre confessioni di questo genere, don Pompeo usciva dal confessionale spossato ma evidentemente appagato.
Uguale malizia il prete usava nel raccogliere notizie dal o dalla penitente riguardo la vita privata, la sua, quella del coniuge e, qualche volta, dei vicini. Ricordando che se si fornivano notizie di atti contrari al Fascismo – al partito che aveva voluto un concordato così… cristiano – si faceva solo il volere di Cristo. E quanti o quante ci cadevano!
Don Pompeo manteneva anche ottimi rapporti con i parroci dei paesi vicini, con i quali spesso si incontra- va per uno scambio di vedute, non spirituali, certo, ma… politiche.
– Alla prossima visita all’OVRA dovrò far cenno anche di quel don Sprezzali, Parroco di Bienno, che mi sembra troppo impegnato con Cristo e poco col Duce – pensava spesso, anche se non era mai riuscito, in fin dei conti un residuo di carità cristiana tentava di sopravvivere ancora nel suo animo, a denunciarlo.
Finito il colloquio con il Commissario, questi chiamava un dipendente che, ad un suo cenno di assenso, lasciava la sede diretto al vicino casino. Nel frattempo il prete veniva fatto accomodare in una stanzetta arredata con un comodo letto, due belle poltrone e un lavandino. Lì si spogliava dagli abiti talari che nascondeva in un armadio ed attendeva la ricompensa ai suoi servigi. Poco dopo, infatti, una prostituta (“molto florida, mi raccomando” aveva richiesto la prima volta) proveniente dal vicino postribolo bussava alla porta pronta a sottomettersi ai suoi desideri. Nel frattempo lui aveva ripassato il contenuto di qualche confessione e, tutto eccitato, si era predisposto a sfruttare nel modo migliore l’occasione.

 

IV

La farmacia Temperini si affacciava sulla piazza S. Ago- stino al termine della via Roma che era in ripida sali-
ta. Sembrava fosse stato scelto il posto giusto perché chi era perfettamente sano potesse raggiungerla senza affanno, ma chi aveva problemi di salute, arrivato alla farmacia, se li trovasse raddoppiati e bisognoso di ulteriori cure: per la gioia del farmacista.
Entrando si era avvolti dagli odori degli ingredienti dei vari prodotti galenici, quelli preparati direttamente dal farmacista, che un tempo andavano per la maggiore, essendo la produzione industriale dei medicinali ancora limitata. Anice, liquirizia dai buoni odori dolciastri, ma anche valeriana, aconito, malva, stramonio ed altre erbe officinali. Nel retro si sentiva in continuazione il picchiettare di un pestello in un mortaio, ove un inserviente lavorava i componenti per preparare decotti, pillole e cachet secondo le ricette del medico condotto o del tito- lare della premiata farmacia. Ricette vecchie di lustri che mai venivano modificate in quanto nessuno si prendeva la responsabilità di farlo, anche perché effettivamente spesso le condizioni di salute di chi li ingurgitava miglio- ravano. Probabilmente più per l’effetto placebo che per le proprietà delle formulazioni.
La farmacia era condotta dalla figlia del proprietario, Ida, con l’aiuto al banco di un certo Angiolino che non aveva le rotelle che giravano tutte al modo giusto se non quando si trattava di fare i conti ed incassare. Era il figlio della Sofia, la balia che aveva nutrito Ida quando la madre, pochi giorni dopo il parto, era morta di febbre terziaria. Prima di trovare la balia, Ida aveva sofferto la fame rifiutando il latte di mucca e l’acqua zuccherata che le veniva- no offerte in cambio del latte materno. Ma quando era stata rintracciata la balia, che aveva da poco partorito l’Angiolino, si era rifatta abbondantemente e Sofia aveva lasciato fare perché era molto interessata ai soldi promessi in caso avesse fatto crescere in modo rigoglioso la piccola orfanella. Si diceva che l’Angiolino non fosse del tutto normale perché durante i primi mesi di vita non aveva ricevuto sufficiente nutrimento in quanto, quando la mamma gli offriva le tette, queste ormai erano pratica- mente vuote. Il farmacista probabilmente aveva accettato questa ipotesi ed aveva preso a lavorare con sé l’Angiolino come segno di riparazione. Il commesso, che si interessa- va più che altro della cassa, prima di dare il resto aveva preso l’abitudine di chiedere con fare mellifluo, chiunque fosse il cliente, uomo, donna, vecchio o giovane:
“Vuole mica una bella scatola di preservativi?”
Alle lagnanze dei clienti, il Temperini, spesso, si riteneva per burla, rispondeva che il suo commesso era impotente e che con quella proposta voleva che i clienti facesse- ro in tutta tranquillità quello che a lui non riusciva: quindi la sua era una affettuosa cortesia. La Ida ormai non faceva più caso alle stranezze del fratello di latte ed alle lamentele dei clienti. Era sempre triste e immusonita: precisa e disponibile nella gestione della farmacia ma altrettanto scostante.  Anni addietro aveva perso la testa per un operaio della Ferriera Tassara e forse ci aveva anche fatto all’amore. Scoperta dal padre le era stata vietata la frequentazione del povero operaio, con la minaccia di essere diseredata. Dapprima aveva resistito alle imposizioni del padre, ma poi, quando il moroso (per intervento del farmacista?) era stato licenziato con uno strano pretesto ed aveva dovuto emigrare in Francia in cerca di lavoro, aveva per forza accettato la nuova situazione ma aveva iniziato ad odiare in silenzio il genitore.
Il Temperini difficilmente rimaneva in farmacia dopo l’apertura. O se ne andava a caccia, se era stagione e la giornata non prometteva pioggia, oppure si trasferiva al bar Monte Grappa che si trovava proprio di fronte alla farmacia, dove passava ore ed ore.
Alto, magro elegante, con un paio di baffetti sempre curatissimi, il farmacista portava occhiali con lenti scure che aggiungevano al fascino naturale un qualcosa di misterioso. E’ inutile dire che piaceva alle donne, soprat- tutto alle contadine e alle mogli dei numerosi pastori alle quali non faceva mancare la sua presenza quando queste rimanevano a casa sole, essendo i mariti agli alpeggi con le mucche, o, come ora, al fronte. Anche se in paese si parlava molto delle sue avventure, nessuno aveva prove concrete, perché per le sue attività amatorie si recava nelle cascine fuori paese, dove aveva più facilità di suc- cesso. E poi a lui piacevano queste donne franche, di car- ne abbondante e di pretese limitate. Accoppiamenti classici, senza l’obbligo di preliminari laboriosi e finali romantici, che lo appagavano pienamente. “Una botta e via”, come usava dire il Temperini che, invero, ben difficilmente accennava alle sue conquiste.
Ci aveva provato una volta anche con la maestra signora Lucia, che però gli aveva fatto capire chiaramente che apprezzava le avances ma che non sapeva che farsene di una persona che nulla di concreto avrebbe potuto lasciar- le. Il farmacista si era ritirato in buon ordine con un mazzo di fiori e tante scuse.

V

Il bar Monte Grappa era il luogo di ritrovo di tutti gli sfaccendati del paese, dei negozianti che avevano chi potesse sostituirli in negozio o dei professionisti che potevano gestire il loro tempo a piacimento. Vigevano due regole ferree: era vietato parlare di politica e non si poteva giocare a carte a soldi. I pettegolezzi e le abbondanti libagioni erano quindi gli unici sfoghi dei clienti. Il proprietario, detto Burtulì squarta fasöö, per la sua tirchieria e per la precisione che metteva in tutto ciò che faceva, per mantenersi la clientela riusciva sempre a inventarsi qualcosa. In quel periodo aveva messo a punto tornei di briscola. Con pazienza certosina predisponeva 15-20 mazzi di carte con identica sequela in modo che tutti i partecipanti al torneo avessero le stesse chances. Anche se non si poteva giocare a soldi, veniva fissata una cifra di iscrizione e al termine del torneo venivano premiate le prime tre coppie. A volte con una dozzina di uova, a volte con un salame o una piccola forma di for- maggio. Cose preziose in periodo di autarchia dove combinare il pranzo con la cena non era per nulla facile. La cosa faceva impazzire gli accaniti giocatori che si iscrive- vano ai tornei, versando le iscrizioni anche dieci giorni prima dell’inizio pur di non perderle. I risultati poi, tra buone bevute, si discutevano a lungo con prese in giro per i perdenti e promesse di rivincita.

Il Temperini era un grande affabulatore ed era richiestissimo dai frequentatori del bar per le storie che sapeva inventare, soprattutto se erano particolarmente, come si diceva allora, sboccate. E il farmacista condiva sempre questi racconti con fatti veri che si riferivano, non esplicitamente ma in modo alquanto comprensibile, a qualcuno del paese che aveva qualche problema fisico nel senso sessuale e che si era rivolto a lui per qualche cura: alla faccia del segreto professionale. Altre volte iniziava barzellette che centellinava magari in diverse visite al bar, rendendo spasmodica l’attesa per il finale. Ai nuovi venuti non risparmiava mai la storiella dell’omino verde che lui recitava con gran bravura.
Si trattava di un problema di un suo cliente che lui aveva contribuito a curare. Il poveretto aveva avuto una strana situazione di incontinenza. Appena addormentato sogna- va che un omino verde gli si posava sulla parte inferiore della pancia ed incominciava a gridare “Piscia! Piscia!” e lui alla mattina si svegliava con il pigiama ed il letto intrisi della sua urina. Il Temperini, interpellato, aveva preparato un intruglio di erbe calmanti che avrebbero reso il sonno più tranquillo e risolto il problema. Niente affatto. Quello aveva continuato a sognare l’omino urlante e a svegliarsi alla mattina bagnato sino al collo. Lui gli aveva aumentato la dose ma, non ottenendo risultati, aveva sentenziato: “A mali estremi, estremi rimedi!”
Gli aveva detto: “Se noi riusciamo a interrompere, alme- no per una volta, che l’omino l’abbia vinta vedrai che tutto finirà. Però, secondo me, bisogna intervenire fisica- mente. Sarà un po’ doloroso ma sono certo ce la farai!” Aveva allora spiegato al cliente che alla sera, prima di andare a letto, avrebbe dovuto prendere il solito sedativo e poi un pezzo di corda con il quale legare strettamente il pene, e di conseguenza il canale urinario, onde rende- re impossibile il passaggio del liquido. L’aveva quindi congedato regalandogli un potente antidolorifico e dandogli appuntamento per la mattina successiva. Quando si ritrovarono il cliente gli disse:
“Dottore, io ho fatto come mi ha detto lei. Ho preso il calmante, le pillole contro il dolore e poi mi sono legato l’uccello il più strettamente possibile. Un dolore bestia, dottore. Un dolore bestia! Però sono riuscito ad addormentarmi e subito è venuto quel disgraziato. Si è messo a urlare ‘Piscia! piscia!’ e io l’ho lasciato urlare. Poi mi sono toccato: era tutto asciutto, non usciva veramente niente! Lui continuava a urlare ed io a rimanere asciutto”. “Allora ce l’abbiamo fatta” gridò il dottore tutto contento. “Mi lasci finire, dottore. Lui urlava ed allora io gli ho detto: ‘Guarda che non posso pisciare perché me lo sono legato. Guarda!’ Lui si è sporto a guardare verso il basso e, visto il mio uccello tutto infiocchettato, si è arrabbiato come una bestia. Prima di andarsene, mi ha urlato ‘Ma va’ a cagare!’. Dottore, io questa mattina mi sono svegliato pieno di merda sino al collo!”

(continua…)

 

 

 

La scritta Tito e l’amicizia italo-slovena

Il commento di Pier Franco Quaglieni

Sul versante che guarda verso l’Italia del Monte Sabotino (legato alla storia della Grande Guerra e alle battaglie dell’Isonzo e del Carso ), oggi in territorio sloveno, continua a campeggiare la scritta TITO lunga 100 metri con lettere di 25 metri.

 

Un residuo della vecchia Jugoslavia a cui venne tolto l’aggettivo possessivo e “affettivo“ il “nostro“. Una forma di propaganda tipica dei regimi totalitari e autoritari come dimostrano, ad esempio, le scritte Duce,  Dux, Mussolini ecc. nell’Italia fascista. Il culto della personalità e’ tipico infatti di quei regimi e Tito fu un dittatore in piena regola. Sanguinario con gli Italiani di Istria e Dalmazia infoibati dai suoi partigiani , ma anche sanguinario con gli stessi slavi e altre popolazioni presenti in Jugoslavia durante il suo lungo periodo di governo in cui ebbe un potere dispotico ed assoluto. Un anno fa l’incontro tra il presidente italiano e il presidente sloveno sembrava aver posto fine alle residue ostilità ed aver soprattutto aperto una strada di amicizia e collaborazione che sotterrasse finalmente il passato. La presenza del presidente sloveno alla foiba triestina di Basovizza stava a dimostrare una presa di coscienza storica del dramma delle foibe. La Slovenia e’ nata dalla decomposizione violenta della Jugoslavia titina dopo una lunga e terribile guerra civile. Si può pensare ragionevolmente che i nostalgici di Tito siano oggi un ‘esigua minoranza, ma una certa ostilità verso gli Italiani che ebbe origine già con la dominazione austriaca di quelle terre, rimane. L’avevo colto io nel 2007 quando guidai un pellegrinaggio laico da Fiume a Trieste nel ricordo dei 15mila infoibati. Il permanere di quella immensa scritta Tito c’è da chiedersi che significato abbia oggi. Un cimelio del passato regime rimasto a testimoniare una qualche nostalgia e nel contempo un implicito pregiudizio antitaliano? Il nome di Tito resta un elemento divisivo che rende difficile guardare avanti, come sarebbe auspicabile, all’Europa unita come superamento di tutti gli odi novecenteschi che hanno reso la storia un mattatoio. Tito rappresento’ un’ideologia che mescolo’ insieme comunismo e nazionalismo, creando una miscela esplosiva. Il fatto che si sia distaccato da Stalin non cancella le sue gravi colpe storiche anche ciò fece comodo alle potenze occidentali. Quella scritta cubitale rivolta verso l’Italia non è certo un segno di superamento delle ferite legate al dramma del confine orientale italiano. Sarebbe bene rimuoverla. In Italia giustamente nessuno tollererebbe nulla di simile che riguardasse Mussolini.

L’isola del libro

Rubrica settimanale a cura di Laura Goria

Caterina Soffici “Quello che possiedi” -Feltrinelli- euro 17,00

Quanti e quali segreti sono racchiusi tra le mura della splendida villa nobiliare che dalla sommità di un poggio domina la vista di Firenze? ,E’ la sontuosa Villa del Grifo, 4000 mq con 500 anni di storia blasonata.

Qui ha trascorso la sua lunga vita l’algida contessa Clotilde Brunori Princi; da giovane di una bellezza eccezionale «…magnifici occhi d’oro, screziati di pagliuzze che cambiavano colore a seconda dell’ora del giorno, della stagione e dell’umore…».
Ora ha 82 anni, si oppone con tenacia alla malattia che la sta consumando, ed è sempre, comunque, impeccabile ed elegante, eccentrica e snob.
E’ lei l’anima della casa e domina sottilmente la sua unica figlia Olivia che, a quasi 50 anni, vive in un lussuoso appartamento della villa, sopra quello dell’anziana madre, alla quale resta poco da vivere.

I rapporti tra loro sono sempre stati tesi. La loro conflittualità ha veleggiato tra “non detti” e buone maniere, ma distanza siderale.
Ora sono adulte e l’ostilità è meno esplicita che nell’adolescenza di Olivia, ma continuano a scrutarsi e giudicarsi, senza mai parlarsi veramente per capirsi più a fondo.
In più, Clotilde non sopporta Giacomo, il genero rampante a arrampicatore che si è assestato in un comodo tran tran matrimoniale, dove è riuscito a ritagliarsi agevolmente ampi spazi di manovre libertine.
Olivia invece sta affondando nelle sabbie mobili della crisi di mezza età: i due figli sono ormai lontani e conducono le loro vite, il marito è spesso assente e lei combatte l’infelicità inseguendo una perfetta forma fisica, è vegetariana e corre per stemperare il malumore.
Su tutto aleggia un segreto terribile e scopriamo che la perfetta e bellissima vita esteriore di Clotilde è stata parecchio più difficile di quanto emerga in superficie.
Clotilde, fin da giovane e poi da sposata, era solita sparire per giorni a bordo della sua amata lancia Aurelia. Nessuno sapeva dove andasse e cosa facesse, ma la cosa ormai era stata accettata.
Ora, anziana e malata, una mattina di autunno scompare gettando nel panico la casa, e il lettore incomincia a conoscere la storia vera. Quella nascosta dietro l’impenetrabilità di questa ricca e nobile famiglia, abituata a feste sontuose, matrimoni di facciata, convenzioni…solitudine e vuoto cosmico.

Un magnifico romanzo in cui Caterina Soffici non smentisce la sua abilità nel tracciare storie di grande spessore e pathos.

 

Questa può essere l’occasione per rileggere anche il precedente romanzo dell’autrice, “Nessuno può fermarmi” -Feltrinelli- euro 16,00, del 2017.

Intrigante storia che narra come il giovane studente di filosofia, Bartolomeo, ritrova una lettera destinata alla nonna, in cui il nonno Bart viene ufficialmente dichiarato « Disperso, presunto annegato». E’ l’inizio della sua ricerca sulla vera sorte dell’antenato (del quale porta il nome), che in famiglia si diceva fosse morto al fronte.

La nonna non può svelargli nulla perché è morta da poco, mentre suo padre non l’ha mai conosciuto e la cosa non sembra interessarlo più di tanto.
Bartolomeo arriva a conoscere l’affascinante anziana signora inglese Florence che era stata amica dei suoi nonni, nel quartiere degli immigrati italiani a Londra, Little Italy. Dal suo racconto emergono appigli importanti che rimandano alla tragedia del 2 luglio 1940 -realmente accaduta- quando un siluro tedesco causò il naufragio della nave Arandora Star.
Aveva a bordo moltissimi internati italiani, civili innocenti deportati dopo la dichiarazione di guerra di Mussolini all’Inghilterra, e vittime della xenofobia e del sospetto. Una tragedia in cui il mare inghiottì per sempre 446 passeggeri. Una morte orribile, ma ci furono anche alcuni superstiti che sopravvissero alle acque gelide, aggrappati a brandelli di relitti della nave.

Per molto tempo dopo il mare scaraventò a terra i corpi degli affogati, a centinaia, sulle coste dell’Irlanda del Nord e della Scozia; dove la pietà degli abitanti del luogo recuperò i cadaveri senza nome, dando loro almeno una sepoltura.
Bartolomeo riesce a rintracciare uno dei sopravvissuti. Un burbero anziano che forse aveva afferrato le mani del nonno nelle acque di ghiaccio, prima che la morte per assideramento lo inghiottisse per sempre.

Un romanzo in cui l’autrice tocca più temi; come la memoria, l’amicizia, l’emigrazione, la speranza, la guerra, il lutto…..in un crescendo che vi avvilupperà alle pagine tenendovi sulla corda fino alla fine.

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Bernhard Schlink “Donna sulle scale” – Neri Pozza- euro 18,00
Schlink è uno dei maggiori scrittori tedeschi contemporanei. E’ nato a Bielefeld nel 1944, e nel corso della sua vita è stato anche giudice presso la Corte Costituzionale della Renania Settentrionale Vestfalia fino al 2006, anno in cui è diventato professore universitario di Filosofia del diritto. Al suo attivo ha numerosi romanzi e racconti.
“Donna sulle scale” è ambientato tra Germania e Australia, e ruota intorno al quadro che ritrae una donna bionda e nuda, che scende lentamente delle scale: pallida, eterea, inafferrabile, bellissima ed enigmatica,
Dopo anni in cui se ne erano perse le tracce, ora il dipinto ricompare all’Art Gallery del Teatro dell’Opera di Sidney. E dietro c’è una storia intrigante.

La modella è Irene, e intorno a lei gravitano le vicende e i destini di tre uomini, incantati dal suo fascino. Sono il marito Gundlach, manager ricco e di successo, che ha incaricato il pittore Karl Schwind di ritrarre la moglie, senza aver previsto che l’artista se ne sarebbe innamorato perdutamente.
La gelosia spinge Gundlach a danneggiare ripetutamente il dipinto, che il pittore tenta ogni volta di restaurare. Ed ecco che la terza vittima dell’incanto di Irene è il giovane avvocato che ha l’incarico di stilare un contratto tra i due litiganti.

Irene è forte, autonoma, contesa tra il marito che vorrebbe esibirla come un trofeo e l’artista a cui fa da Musa ispiratrice; una sorta di merce di scambio tra i due contendenti. Poi arriva l’avvocato che se ne innamora in modo infantile e sprovveduto.
La storia si avvolge intorno al possesso, alla perdita, al disinganno e alla decisione della protagonista di inseguire la libertà, lasciandosi indietro tutti i contendenti. Scompare e con lei anche la tela.
La ritroviamo molti anni dopo, diventata una sorta di Robinson Crusoe al femminile, che vive in una baia solitaria sulla costa a nord di Sidney, dividendo le sue stagioni tra due ripari assai precari sulla spiaggia.
Si fa chiamare Irene Adler, ormai è un’anziana debole che ha dedicato la sua vita ad accogliere ed aiutare ragazzi sbandati ed ora, quando può e le forze glielo consentono, assiste la povera gente del luogo.
Il finale di partita con i suoi 3 contendenti si svolge in quell’anfratto di vita costiera, con un epilogo che scoprirete voi stessi.
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Andrea Maia “Torino la città e gli scrittori” -Graphot Editrice- euro 15,00

Questo è un libro che potete portarvi dietro come prezioso vademecum per scoprire quanta storia e cultura trasudino palazzi, caffè, vie e scorci vari di Torino, che sono stati testimoni del passaggio di personaggi di spicco.
L’autore è stato docente di Italiano e Latino in un importante liceo cittadino ed era solito portare i suoi studenti a fare visite di tipo letterario. Dunque una grande passione per Torino e la cultura.
Ora, 10 anni dopo il precedente “Torino strade e pagine”, ci guida lungo 8 nuovi percorsi letterari nel capoluogo subalpino, scanditi da varie tappe tra strade, palazzi, autori e scritti. E riannoda i fili che hanno legato non solo scrittori, ma anche altri intellettuali e artisti di peso, alla città nella quale hanno transitato, oppure vissuto per periodi più o meno lunghi.
Ed ecco una sorta di guida e un’antologia, in prosa e versi, di scrittori che alla città hanno dedicato intere pagine delle loro opere. Torino vissuta e raccontata attraverso poesie, confessioni, lettere e scritti vari di autori di epoche e paesi diversi, a partire dal 700 fino ad oggi.
Una piacevole e dotta carrellata tra le vie torinesi che inizia con il primo percorso dedicato alle rime di Francesco Pastonchi, poeta, professore e torinese d’elezione che rende omaggio alla storica via Po.
Seguono –tra gli altri- Jean –Jacques Rousseau che arriva 16enne a Torino; Mozart; quello di un’antenata di Oriana Fallaci che lei racconta nel suo romanzo postumo “Un cappello pieno di ciliegie”; e Gramsci che dalla Sardegna giunse in città nel 1911 per studiare all’Università.

I percorsi che seguono sono altrettanto dotti e affascinanti per chi vuole approfondire tappe che rimandano ad autori italiani dal 700 al 900 e includono nomi della levatura di Silvio Pellico, Edmondo De Amicis.
Per arrivare all’oggi, con le pagine che Giuseppe Culicchia ha dedicato al Caffè Torino in Piazza San Carlo, e passando anche per Via Biancamano e l’avventura editoriale dell’Einaudi che lì fu fondata.

Tra gli altri percorsi, ci sono scrittrici e scrittori del 900, con pagine della Guglielminetti, Guido Gozzano, Montale, Calvino, Natalia Ginzburg e altri autori.
Poi poesia, teatro e politica nel secondo Ottocento. La città visitata e rappresentata da scrittori italiani come Tommaseo, Mameli, Tommasi di Lampedusa; e da stranieri, tra i quali De Maistre e il russo Dobroljubov.
Seguono tappe dedicate agli ospiti dal 600 all’800, con Manzoni, Melville, Twain e Dumas padre; per arrivare a percorsi che rimandano a teatro, critica e poesia dialettale e finire con un iter sulle orme di Vittorio Alfieri e Massimo D’Azeglio.
Insomma un modo colto e accattivante per scoprire anche dati inediti o poco noti che ammantano Torino di un fascino in più. Pagine che vi fanno da guida nella storia, nei locali, nei palazzi nelle strade e nelle grandi e famose vite che hanno transitato in città.