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Torino Città per le Donne, l’iniziativa per una città a misura di donna

Rubrica a cura di ScattoTorino

torino città per le donneImprenditrici, libere professioniste, dirigenti, artiste, docenti, commercianti e tante altre: sono le protagoniste dell’economia e della cultura cittadina che hanno aderito al manifesto Torino Città per le Donne, un progetto senza finalità politica, che non si identifica con alcuna corrente politica e che si rivolge all’universo maschile e a quello femminile. Fondata dalla Manager culturale Antonella Parigi, dalla Docente di fisica del Politecnico di Torino Arianna Montorsi, dall’Amministratore Delegato di Socialfare Laura Orestano e dalla neurologa della Città della Salute e della Scienza Maria Claudia Vigliani, Torino Città per le Donne si basa su un programma articolato che nasce da un’analisi puntuale del presente. Un presente che, a tutti i livelli, necessita di un cambiamento inteso come esigenza primaria da tanti cittadini e cittadine. In molti, infatti, avvertono la necessità di operare in un contesto politico, sociale e culturale che favorisca l’inclusione, metta al centro la persona e il pianeta, ponga attenzione al benessere dell’essere umano ed operi pensando anche alle generazioni future. Consapevoli che le donne – per skill, empatia, know-how e sensibilità – possono essere il delta che fa la differenza per promuovere una nuova visione della politica e del sociale, il gruppo promotore di Torino Città per le Donne ha redatto un manifesto. L’obiettivo è far sì che l’universo femminile venga maggiormente coinvolto nei processi decisionali e lavorativi a tutti i livelli e in tutti i settori così da soddisfare i requisiti basilari necessari a vivere bene. Per questa ragione sono stati individuati 8 verbi emblematici: lavorare, abitare, decidere, educare, amministrare, convivere, curare, promuovere benessere. Ad oggi i numeri di TOxD sono molto lusinghieri: 55 aderenti al comitato promotore, circa 400 aderenti ai tavoli, 557 sottoscrizioni del Manifesto, pagina Facebook seguita da quasi 2000 persone e 23000 visualizzazioni della Maratona delle Idee. ScattoTorino ha incontrato le quattro fondatrici per approfondire questo tema così importante.

Come è nata l’iniziativa e per quali ragioni?

Arianna Montorsi: “L’iniziativa è nata formalmente a ottobre, ma è in embrione da più tempo e personalmente mi occupo di questo tema da diversi anni. Ciò che vogliamo per il capoluogo piemontese è portare avanti un piano che abbia come punto di riferimento una città per le donne. È un’iniziativa importante che va a coinvolgere cambiamenti auspicabili che puntano su una città inclusiva a 360 gradi”.

Laura Orestano: “Il progetto è nato come tessitura perché Antonella Parigi ha messo insieme sensazioni e riflessioni che ognuna di noi aveva già condiviso con lei. Lei ha creato la tela e siamo contente di essere state incluse in questa tessitura”.

Maria Claudia Vigliani: “L’iniziativa è nata dopo la prima ondata del Covid-19 perché la pandemia ha cambiato il modo di vedere le cose e ha stressato le grandi differenze di genere, di età, di possibilità educative e culturali mostrando che le donne, in quel periodo come in questa seconda fase dell’emergenza sanitaria, si sono impegnate per gestire tutte le situazioni. Che si trattasse di cassiere, infermiere, dottoresse, insegnanti o imprenditrici, tutte hanno dovuto gestire figli, casa, scuola, anziani e lavoro. Questo ci ha fatto capire che è importante porre attenzione alle caratteristiche femminili che, purtroppo, sono troppo poco messe in luce. In questo momento storico le donne vogliono fare, ma anche apparire per dimostrare che un mondo retto da loro può fare bene agli anziani, ai bambini e agli uomini. Il Covid-19 ha messo in evidenza soprattutto la mancanza di respiro e Torino oggi è asfittica. Per questo vorremmo raccogliere il respiro dei Torinesi ed essere delle catalizzatrici per portare il nostro contributo in modo da ridare voce a questa città”.

Antonella Parigi: “Per me l’iniziativa nasce da una visione più complessiva perché da tempo guardo una serie di dati che fanno pensare ad una difficoltà delle donne in Italia. Considerando i numeri, ho visto che noi siamo sotto la media europea per quanto riguarda lavoro, leadership e altri temi. Siamo a 20 punti da nazioni quali Gran Bretagna, Francia e i Paesi nordici. In Italia le donne fanno ancora molta fatica ad emergere e questo è un grosso limite per la nostra società e per lo sviluppo del paese, perché metà della popolazione non viene valorizzata. Questa considerazione parte anche dalla vita di tutte noi e questo progetto nasce dal fatto che tra amiche si parla di questioni femminili irrisolte e si evidenziano i nodi cruciali. Le donne possono portare un approccio diverso per concimare il terreno di questo paese e di questa città, un approccio che porta con sé valori di comunità, solidarietà e cura. Riguardo a Torino, credo che ci sia molto da fare, ma che ci sia una forza vivace che va messa in rete e valorizzata perché è nel pensiero e nella volontà che abbiamo una grande opportunità. La Programmazione europea 2014-2020 dovrebbe avere anche il punto di vista femminile per rendere la città a misura di donna e quindi a misura di chi ruota attorno alle donne: figli, anziani, compagni”.

Qual è la vostra mission?

Arianna Montorsi: “Vorremmo arrivare a scrivere il progetto raccogliendo le idee della città in modo da presentarlo ai futuri candidati Sindaco/a nel febbraio del 2021. Le proposte specifiche verranno arricchite nei prossimi mesi coinvolgendo chi crede che la chiave del cambiamento sia al femminile. L’interazione avverrà attraverso la rete e i social”.

Laura Orestano: “Essere da lente per riflettere e far riflettere sul ruolo chiave del mondo femminile. Fare delle cose a misura di donna in una città significa fare delle cose a misura dei più perché il nostro modo di pensare e il nostro modo di essere multitasking permea molto di ciò che succede in ogni contesto urbano”.

Maria Claudia Vigliani: “La nostra mission è cercare di coagulare delle forze e arrivare a proporre una visione di Torino al femminile per i prossimi candidati Sindaco/a perché crediamo che una città per le donne possa essere più adatta a tutti”.

Antonella Parigi: “Vogliamo fare un cambiamento culturale perché la società è pensata per un maschio bianco, facoltoso, cattolico ed eterosessuale, mentre oggi tutto è più variegato e dunque si deve pensare ad una società diversa”.

Avete sviluppato un programma che punta su 8 verbi: lavorare, abitare, decidere, educare, amministrare, convivere, curare, promuovere benessere. Cosa rappresentano?

Arianna Montorsi: “La scommessa è dimostrare che le donne, così come ogni tipo di diversità, sono una risorsa per Torino ed escluderle dalle decisioni significative per la città significa far girare un motore in modalità ridotta. Questi 8 verbi sintetizzano i nostri obiettivi”.

Laura Orestano: “Gli 8 verbi sono delle caratterizzazioni, degli step nella vita delle persone. Sono gli ambienti che attraversiamo nella giornata e nelle fasi della vita. Per noi era importante individuare ciò che conta realmente”.

Maria Claudia Vigliani: “Il programma inizialmente era partito dal verbo curare e poi, attraverso il contributo delle oltre 50 persone che fanno parte della lista, lo abbiamo implementato”.

Antonella Parigi: “Volevamo arrivare con delle proposte concrete e mettere in rete questa forza viva che c’è a Torino. Il nostro sito e i social sono già mission, programma e risultato”.

Quali saranno i prossimi step?

Arianna Montorsi: “Dopo la Maratona delle idee dello scorso 28 novembre, per 2 mesi i diversi tavoli di lavoro opereranno per elaborare i contenuti da presentare a febbraio.  Voglio ricordare che l’iscrizione ai tavoli di lavoro è gratuita, ma limitata e che saremo aperte alle diverse proposte che perverranno”.

Laura Orestano: “Il mio punto di vista, che è complementare a quello delle altre, è creare la consapevolezza di un’opportunità. Come queste possano essere colte dai più o accelerate da noi in modo che diventiamo tanti, è ancora tutto da capire. Il tema vero è: Torino Città per le Donne è una lente che ci rende meno monofocali rispetto a ciò che normalmente accade ed è un’opportunità che l’amministrazione cittadina può cogliere”.

Maria Claudia Vigliani: “I prossimi step sono catalizzare energie, motivare le persone e mostrare che c’è speranza. Vorremmo raggiungere tutta la città e non solo un gruppo di donne che possono accedere facilmente a tante cose. I tavoli sono aperti a tutti e naturalmente speriamo di avere il contributo anche degli uomini. Ogni tavolo lavorerà per sviluppare il progetto legato al verbo scelto tra gli 8 perché più affine al proprio sentire”.

Antonella Parigi: “L’obiettivo è arrivare ad una proposta programmatica e a confrontarci con i candidati Sindaco/a. Spero che la rete si mantenga viva e già adesso abbiamo incontrato persone fantastiche. Per me gli step sono anche verificare e monitorare che il programma abbia continuità”.

Torino per voi significa?

Arianna Montorsi: “Per me la parola che la caratterizza è understatement, in positivo e in negativo. Questa città ha tante risorse poco utilizzate ed è un peccato, anche se con le Olimpiadi invernali era riemersa e aveva mostrato le sue qualità nascoste”.

Laura Orestano: “Per me significa moltissimo. Sono nata a Roma e in molti mi presentarono Torino come buia e gelida. In effetti quando arrivai fu così, ma da subito ebbi un’accoglienza fantastica. Questo per me è un luogo di opportunità ed è per questo che credo in Torino come generatrice di possibilità anche per chi non è nato qui. A Torino c’è sempre fermento sotto la cenere, inoltre è una città di avanguardie e di scoperte”.

Maria Claudia Vigliani: “Sono arrivata a 18 anni da Trieste e a Porta Nuova mi ha accolta una città umida e piena di nebbia. Subito sono stata presa dallo scoramento, ma non ho mai rimpianto la scelta di trasferirmi qui per gli studi. Avevo appena compiuto 18 anni e per fortuna una zia che mi ha ospitata mi ha dato la possibilità di inserirmi in questa città, che ho sempre trovato accogliente. È molto seria, ma sa essere vicina nei momenti di difficoltà”.

Antonella Parigi: “Sono totalmente torinese e molto radicata nella mia città. Io stessa penso di avere i pregi e i difetti tipici della torinesità. Il nostro capoluogo non sa esprimere i propri valori, ma ha una vena di originalità e follia che serpeggia in maniera nascosta. Noi Torinesi siamo abituati a lottare sin da quando abbiamo perso la capitale d’Italia, ma saper combattere ci ha permesso di avere sempre un punto di vista originale rispetto alle cose”.

Un ricordo legato alla città?

Arianna Montorsi: “La sorpresa e l’orgoglio di mostrare Torino agli amici durante le Olimpiadi e dopo il 2006. È la stessa sorpresa che ho provato durante la prima riunione tra le partecipanti a Torino Città per le Donne che si è tenuta al Circolo dei Lettori. Eravamo 30 donne e non ci conoscevamo tutte, ma ognuna di noi ha detto ciò che aveva in mente circa il progetto e per ore abbiamo discusso su temi altissimi”.

Laura Orestano: “Con la mia famiglia arrivai a Torino da Los Angeles, dove avevamo vissuto. Era febbraio e la città ci accolse con la neve e davvero sembrava un luogo sconosciuto e freddo. Di Torino ricordo soprattutto i contrasti tra la narrazione che avevo avuto e ciò che mi accadde realmente”.

Maria Claudia Vigliani: Non sono torinese, ma l’ho scelta all’epoca dell’università perché credo che le città siano come le persone che ami e scegli. L’ho frequentata sin da bambina ed ho deciso di viverci perché è una fucina di idee, un laboratorio che ha portato a molti risultati: dall’unione nazionale alla nascita della Rai. Torino è in grado di proporre grandi progetti, è una città di pensiero e sa rinascere dalle proprie ceneri. Ecco perché spero che iniziative ambiziose come la nostra possano attecchire”.

Antonella Parigi: “Il mio ricordo è di una Torino che c’è stata e che rievoca quella attuale: un luogo desolato e solitario, ma con una grande energia che ha permesso di farla diventare la città olimpica che tutti hanno amato. Spero che in questo momento, sotto i portici vuoti e le serrande chiuse, stia covando la stessa energia di allora, anche se oggi abbiamo perso i giovani e purtroppo non li abbiamo rimpiazzati. Uno degli obiettivi di Torino Città per le Donne è proprio far emergere i giovani che ci sono all’ombra della Mole”.

 

Coordinamento: Carole Allamandi
Intervista: Barbara Odetto

Ciampi il Presidente che rispettò il senso della storia

IL COMMENTO di Pier Franco Quaglieni nel centenario della nascita  del Presidente Ciampi (Livorno, 1920 – Roma, 2016)

Malgrado Carlo Azeglio Ciampi fosse da tempo ammalato, la sua scomparsa ha suscitato una forte emozione in tanti italiani. È un fatto raro per un personaggio che fu anche uomo politico e fece scelte ancor oggi contestate.

Fu Presidente della Repubblica dal 1999 al 2006. Una delle presidenze sicuramente più rispettate e senza ombra di macchia, che suscitò un ideale confronto col settennato di Luigi Einaudi, anche lui governatore della Banca d’Italia. Nella sua presidenza giocarono un ruolo da protagonista il segretario generale del Quirinale Gaetano Gifuni, e il consigliere per le relazioni esterne Arrigo Levi. Gifuni, uomo di alta caratura politica e diplomatica, fu sicuramente determinante in molte scelte di Ciampi.

Scelse come senatori a vita l’imprenditore Sergio Pininfarina, il poeta Mario Luzi, la scienziata Premio Nobel Rita Levi Montalcini. Meno convincente fu, per la verità, il laticlavio concesso ad Emilio Colombo, democristiano di lungo corso.

Torino fu per lui un motivo di forte attrazione per il suo passato risorgimentale e giustamente Nerio Nesi gli conferì a Santena il premio “Cavour”. Aveva anche dei legami famigliari con il Piemonte perché la mamma di Ciampi, Maria Masino, apparteneva ad una famiglia cuneese. Andò a far visita a Cuneo con grande entusiasmo e gli fecero incredibilmente anche visitare una mostra su Giolitti non ancora inaugurata. Girò per tutte le province italiane per sentire il polso della situazione e per testimoniare la presenza dello Stato in tutte le realtà.

Nel 2001, nel suo viaggio in Piemonte, rese omaggio alle tombe di Cavour a Santena e di Einaudi a Dogliani. Andò a trovare nelle loro abitazioni Norberto Bobbio e Alessandro Galante Garrone, per poi recarsi a rendere omaggio alla statua di Vittorio Emanuele II e a visitare il Museo Nazionale del Risorgimento e la Scuola di Applicazione d’Arma dell’Esercito. Nella sua visita dedicò anche attenzione alla Fondazione Einaudi. Un percorso paradigmatico della presidenza Ciampi.

Accettò di presiedere il comitato per i 150 anni dell’Unità d’Italia, ma dovette lasciare l’incarico per le peggiorate condizioni di salute e per la scarsa collaborazione delle forze politiche, alcune delle quali volevano attuare l’austerità solo a spese del Comitato. Fu sostituito da Giuliano Amato con esiti non sempre felici perché le celebrazioni dei 150 anni dell’Unità d’Italia furono in tono decisamente minore.

Sicuramente la presenza di Ciampi avrebbe garantito delle condizioni diverse, anche se va ricordato che ci fu chi mise addirittura in dubbio se dovesse essere giornata festiva il 17 marzo, giorno in cui venne proclamato, a palazzo Carignano, il Regno d’Italia.

Ebbe un grande amico, l’avvocato Paolo Emilio Ferreri, Presidente del Consiglio di reggenza della sede torinese della Banca d’Italia, da  lui nominato Cavaliere di Gran Croce, la massima onorificenza della Repubblica, come Sandro Pertini fece per Emilio Bachi

Con l’avv. Ferreri e il notaio Antonio Maria Maroccofui tra i soci fondatori dell’Associazione dei Cavalieri di Gran Croce creata a Torino e poi “trasferita” a Roma, come tante altre realtà nate sotto la Mole.

Uno dei miei collaboratori al Centro “Pannunzio”, Carlo Guerrieri, mazziniano livornese trapiantato a Torino, era stato allievo al liceo classico di Livorno del giovane prof. Ciampi, che si era laureato alla Normale di Pisa in Lettere, sostenendo l’esame di ammissione con Giovanni Gentile, per poi laurearsi successivamente in Giurisprudenza.

Guerrieri mi parlò spesso del giovane docente, molto timido e del suo entusiasmo per la letteratura italiana e per i valori risorgimentali in anni in cui essi erano totalmente dimenticati, se non aspramente criticati, in modo particolare a Livorno.

Quando andai ai funerali di Guerrieri a Livorno, mi resi conto, tenendo un breve discorso in chiesa, del clima di faziosità esistente.

Successivamente Ciampi scelse di entrare in Banca d’Italia e di proseguire una carriera che lo portò ad esserne Governatore.

Credo che non ci sia ancora la serenità per scrivere con un qualche distacco di Ciampi Ministro dell’economia e Presidente del Consiglio: le vicende dell’euro sono ancora così oggetto di aspra polemica che diventa impossibile porsi in una dimensione storica. Ci vorranno anni per dare un giudizio sereno di un periodo fra i più travagliati della storia italiana. È necessario invocare un’opportuna sospensione di giudizio su una cronaca che non è ancora storia perché appartiene ad un ciclo non concluso. Va detto però che l’idea di Europa che ebbe Ciampi è molto diversa da quella prevalente a Berlino e a Parigi nel 2016. 

Su Ciampi Presidente della Repubblica non ci sono dubbi, invece.

Egli rappresentò la dignità dell’Italia durante un’epoca in cui il debordante inquilino di palazzo Chigi era nel pieno della sua vitalità politica.

E seppe riconciliare gli italiani con la loro storia.

Le visite a Solferino e San Martino vollero sottolineare, in anni in cui il leghismo sbeffeggiava il Risorgimento e l’Unità d’Italia, che cosa significassero quelle pagine sanguinose e dimenticate di storia.

Il suo viaggio a Cefalonia ricordò in modo emblematico il comportamento dell’Esercito dopo l’8 settembre 1943, rendendo omaggio ai Caduti della Divisione Acqui. La vulgata del “tutti a casa” di Alberto Sordi venne finalmente superata non tanto ad opera degli storici, ma del Presidente della Repubblica.

Da quel momento fu più facile parlare del contributo dei militari alla Guerra di Liberazione. L’8 settembre con lui non segnò la “morte della Patria”, come ritenne Ernesto Galli della Loggia, ma la sua rinascita. 

Ciampi non si fermò al ricordo della Resistenza, in modo non settario, come guerra patriottica, ma “sdoganò” un tema assai più difficile: El Alamein, dove nel grande sacrario, costruito da Paolo Caccia Dominioni, riposano 5200 soldati italiani a «cui mancò la fortuna, non il valore», per dirla con la parole di una lapide dedicata al 7° Bersaglieri.

El Alamein fu il campo di battaglia dove si immolò la Divisione paracadutisti “Folgore”: un nome da non pronunciare in Italia, per tanti decenni, pena la condanna ad essere considerati fascisti.

Ciampi stesso, dopo l’8 settembre 1943, superando infinite difficoltà, raggiunse il governo legittimo a Bari e si arruolò nel rinato esercito italiano.

Egli ripristinò la verità storica e riconobbe il valore dei combattenti della guerra perduta che nei deserti africani e nelle steppe russe seppero tenere alto il nome del soldato italiano, malgrado le difficoltà di ogni tipo e il fatto di rendersi conto, come il maggiore Enrico Martini Mauri e molti altri protagonisti della Resistenza, di combattere in una guerra sbagliata.

L’aver insignito della medaglia d’oro al valor civile Norma Cossetto, giovane studentessa istriana violentata, torturata e gettata nella foiba di villa Surani ed aver contribuito a far decollare il Giorno del ricordo il 10 febbraio è un altro dei suoi meriti.

Dopo di lui il ricordo di questo giorno è stato via via disatteso da scuole e istituzioni. Io scrissi a Gifunisegnalando Norma Cossetto e quasi subito il Presidente si interessò del suo caso drammatico. E fu Ciampi a volermi oratore ufficiale al primo Giorno del ricordo.

Anche il fatto di aver insignito della medaglia d’oro Fabrizio Quattrocchi, rapito e ucciso in Iraq, è da sottolineare. La sua ultima frase prima di morire «Adesso vi faccio vedere io come muore un italiano» venne colta nel modo giusto dal Presidente, mentre altri imbastirono astiose e insulse polemiche su Quattrocchi.

Oriana Fallaci venne insignita dal Presidente della medaglia d’oro dei benemeriti della cultura della Repubblica italiana. Anche in questo caso un atteggiamento controcorrente che l’ha distinto in modo positivo perché erano gli anni in cui era stata aizzata, contro la scrittrice italiana più conosciuta nel mondo, una campagna d’ odio. E fu sempre Ciampi a non concedere la grazia al mandante dell’omicidio Calabresi Adriano Sofri, malgrado le insistenti campagne di stampa e i pressanti appelli a suo favore. Era favorevole anche Pannella che arrivò ad attaccare il Presidente. Tanti anni dopo il leader radicale convenne con me che la battaglia a favore di Sofri era almeno discutibile.

Ciampi ha cambiato verso alla storia italiana: i tricolori sono tornati ad essere presenti in tutte le cerimonie e nelle scuole, l’Inno di Mameli è finalmente stato suonato non più solo all’inizio delle partite di calcio. Il 2 giugno  2001 organizzai un concerto della fanfara dei bersaglieri di Asti – una delle più importanti in Italia – il primo concerto per la ripristinata festa della Repubblica voluta da Ciampi. Fu un grande successo di pubblico che sventolò centinaia di bandierine tricolori in piazza CLN a Torino. Il Presidente inviò un messaggio esprimendo «apprezzamento per il valore storico e civile dell’iniziativa».

Il percorso del recupero del senso della storia è lungo e difficile e sicuramente i governi della destra paradossalmente hanno impedito che esso progredisse. Il tentativo di equiparare i “ragazzi di Salò” agli altri combattenti ha ostacolato il processo iniziato da Ciampi, che dimostrò  quella virtù civile che veniva da lontano e che l’Italia aveva perduto totalmente.

Il suo è stato un esempio solo in parte seguito anche dal Presidente Napolitano, ma lo spirito e la storia dei due uomini erano molto diversi. Così come non si può non evidenziare la diversità sostanziale tra Ciampi e Scalfaro. Ciampi non dimenticò mai di essere stato eletto dal voto unanime delle Camere e si sentì sempre Presidente di tutti.

Su Ciampi politico, ripeto, si può discutere – riconoscendo a priori che fu un galantuomo – senza riuscire a trovare una sintesi storica, ma a CiampiPresidente appare impossibile non rendere omaggio.

Il Centro “Pannunzio” gli dedicò gli “Annali” 2006. Nell’editoriale scrissi tra l’altro: «Il Centro “Pannunzio” ha visto in Lei in questi sette anni la viva vox constitutionis, il supremo custode dei valori più alti della Nazione e della democrazia, rinate a nuova vita dopo la guerra e la fine della dittatura, un esempio eccezionale di dedizione alla Patria che è ormai entrato nella storia d’Italia».

Ciampi disse una volta che dai Gesuiti aveva imparato l’amore del prossimo, dalla Scuola Normale di Pisa e in particolare dal filosofo laico Guido Calogero, il rispetto degli altri.

Qui sta il senso profondo del suo settennato che è stato caratterizzato dal rispetto del senso della storia e della verità che non è mai una sola.

Luci della città

Torino vista dal mare 6/ Camminare per conoscere. Un’immagine semplice ma efficace che descrive al meglio uno dei migliori modi per scoprire una nuova città. Abituarsi a nuovi paesaggi, differenti abitudini di quartiere, spesso è difficile, ma passeggiando tra le vie e le piazze più battute, per poi allontanarsi e perdersi in quelle meno trafficate permette di appropriarsene, cogliendo scenari, scorci e dettagli che spesso si perdono nella frenesia del quotidiano. Torino – io che vengo dal mare – provo a scoprirla così, raccontandola per impadronirmene allo stesso tempo.

Oggi 8 dicembre come da tradizione diamo avvio alle festività natalizie. Il 2020 è alle sue battute d’arresto e per quanto quest’anno dall’inizio alla fine non abbia mai smesso di sorprenderci e molti non aspettano altro che finisca per esorcizzarne le influenze negative, inevitabilmente il Natale arriva.
A dispetto delle limitazioni che ci pare di vivere, facciamo parte di quella fortunata fetta del mondo che, alla fine, una fetta di panettone a Natale la mangerà, senza dover neanche contenderla con commensali più ingordi di noi.

Nel mio immaginario l’atmosfera natalizia è strettamente legata alla tradizione, fatta di artigianato presepiale, vicoli stretti, affollati e roboanti, la cui espressione caratteristica è San Gregorio Armeno a Napoli. Nel caso non abbiate idea di cosa si tratti una sua pallida trasposizione la potrete incontrare, in questi giorni, presso la Rinascente.
Da quel contesto carico di sapori di un tempo, tipico del Sud, mi trovo ora ad accogliere nuove suggestioni natalizie, fatte di forme moderne che traducono quei sentimenti millenari con un tocco più metropolitano, ma con una pennellata di candida neve che non sbaglia mai quando si tratta di Natale.
La consuetudine di queste festività vuole che le città si preparino ad accogliere le greggi lungo percorsi addobbati da luci segnaletiche che ne indirizzano i movimenti. A Torino da più di vent’anni le luminarie hanno assunto anche vesti artistiche, con le ormai note Luci d’artista.

Quelli che possono sembrare semplici addobbi natalizi sono invece più articolate opere di personaggi attivi sulla scena artistica internazionale che hanno contribuito a tessere un itinerario urbano arricchitosi nel corso degli anni, diventando scenario abituale per i cittadini impegnati nella corsa alla mondana passeggiata natalizia.
Alla meraviglia iniziale subentra spesso, come indole tipica dell’uomo, l’indifferenza a quello che ormai si dà per scontato, trasformando così in più articolate ed eccentriche decorazioni di Natale quelle che in realtà sono installazioni artistiche.

L’arte non vuole essere solo godimento estetico, Art pour l’Art, spesso vuole essere veicolo di un messaggio, che sia politico o sociale, ed oggi più che mai è importante rendersi conto di ciò tornando ad essere osservatori attivi di quello che ci circonda. Può sembrare contradditorio, ma sì, anche durante lo shopping di Natale è possibile.
I nomi che si celano dietro queste accattivanti luci sono molti, da Mario Merz, Giulio Paolini, Michelangelo Pistoletto, Joseph Kosuth, Rebecca Horn, Alfredo Jaar, solo per citarne alcuni, figure notevoli che hanno alle spalle una lunga carriera.

Alcune di esse fungono da memento, sia per quel che vogliono dirci sia per il luogo scelto. Avete mai fatto caso alle due scritte luminose e speculari apposte sui muri del ponte Vittorio Emanuele I?
Joseph Kosuth in “Doppio passaggio” ha trascritto due brani tratti dalle opere di Friederich Nietzsche e Italo Calvino, emblematici testi che raccontano il ponte come metafora di comunicazione, osmosi di spiriti e culture diverse. Michelangelo Pistoletto non ha voluto essere da meno con la sua “Amare le differenze” a Piazza della Repubblica.
Una su tutte però ha colpito la mia attenzione e che forse più delle altre può essere monito imprescindibile attualizzandola al qui ed ora. Alfredo Jaar, artista cileno, ha voluto ricordarci una cosa sola, che CULTURA=CAPITALE, titolo che è anche forma della sua opera. Lo ha fatto collocando il suo memento sulla facciata della Biblioteca Nazionale in piazza Carlo Alberto, un’equazione luminosa che è un chiaro invito a riflettere sul pensiero condiviso, sulla cultura, sulla creatività come unico patrimonio da preservare.
In un 2020 che ha visto la didattica delle scuole a distanza, biblioteche e musei chiusi per la maggior parte del suo corso, il proposito per il nuovo anno non può che essere quello condiviso da Jaar.

Annachiara De Maio

(foto: l’opera di Alfredo Jaar)

L’isola del libro

Rubrica settimanale a cura di Laura Goria

 

Domenico Dara  “Malinverno”   -Feltrinelli-   euro  18,00

Protagonista e voce narrante di questo bellissimo e profondo romanzo è Astolfo Malinverno: uomo sensibilissimo, zoppo, malinconico e con la capacità di comprendere a fondo i dolori altrui. Vive nel fantastico paese di Timpanara, dove sorgono una cartiera e un maceratoio dai quali escono e si librano nell’aria volumi, fogli di giornale, pagine varie e assortite che diffondono il morbo della lettura tra gli abitanti.

Di libri vive Astolfo che è il bibliotecario di Timpanara, al quale il sindaco affida un secondo lavoro come guardiano del cimitero. La giornata equamente divisa tra le due mansioni e la storia fa uno scatto meraviglioso in cui vita, dolori, gioie, vezzi, amore, follie, sacrificio e morte si amalgamano nei vari personaggi e nei misteri inerenti all’esistenza terrena e all’al di là.

E’ l’occasione  per Malinverno di tornare alle sue radici, scoprendo di aver prestato il viso da infante per la foto del gemello Notturno, nato morto.

Poi scorrono pagine sublimi in cui Astolfo si innamora della foto di una donna misteriosa che campeggia su una pietra tombale priva di nome e date. E’ un colpo di fulmine e anche l’inizio di un mistero. Malinverno la battezza Emma (come la flaubertiana Bovary), ne cura la sepoltura con infinita attenzione, e la sua vita cambia quando arriva una donna che è identica a quella della foto. E’ Ofelia, si porta dentro un dolore che viene da lontano ed è uno dei personaggi chiave.

Poi conosciamo altri dolenti: come Margherita che chiede di essere  unita in matrimonio con l’amore della sua vita, il defunto Fiodoro; il maestro d’ascia Marcantonio Parghelia straziato dalla morte del suo cane, che Astolfo con pietas fuori dal comune seppellisce nel camposanto, dove il padrone è destinato a raggiungerlo… perché anche gli animali hanno un’anima.

C’è Mopassan convinto che ci sia una formula numerica come teorema per calcolare il sopraggiungere della morte; Caramante che registra voci e sussurri dall’oltretomba; e il misterioso cane nero che segue i funerali, si accuccia accanto alle bare e poi scompare… e altri personaggi incredibili.

Non pensiate a un libro triste, tutt’altro …ci sono poesia, amore, sentimenti profondi e la favolosa sensibilità di Astolfo che non ha paura di dare sepoltura agli animali e ai libri, e che capisce l’amore indissolubile che può legare i vivi ai morti.

 

Miek0 Kawakami   “Seni  e  uova”   -edizioni e/o-    euro 19,50

In questo corposo romanzo (oltre 600 pagine) della cantautrice e scrittrice 46enne Mieko Kawakami vengono messi a nudo tre modi di essere donne in Giappone. E’ un racconto corale dalla forte impronta femminile che ha vinto il più prestigioso premio letterario nipponico, l’Akutagawa Prize.

Centrale è il desiderio di mutazione di tre donne.

La protagonista Natsume Natsuko, voce narrante, scrittrice single alle prese con un blocco creativo e soprattutto ossessionata dall’idea di concepire  un figlio con l’inseminazione artificiale, da fare all’estero perché in patria non è prevista per le donne sole.

Poi c’è sua sorella Makiko che sogna di rifarsi il seno, più prorompente e prosperoso, sottoponendosi a un intervento di mastoplastica additiva. Ma è presa da dubbi, indecisa tra le varie modalità di operazione, il dolore post-operatorio, i tempi di ripresa, il successo finale. Poi c’è lo scoglio non indifferente del costo, perché i soldi fanno la differenza e lei è una precaria che lavora di notte in un bar, non naviga nell’oro ed è anche costretta a lasciare la figlia di 12 anni da sola in casa fino a notte fonda.

Poi c’è sua figlia, la 12enne scontrosa e introversa Midoriko -tanta paura di crescere e diventare donna- in rotta con la madre alla quale non parla da sei mesi.

Queste le vicende nelle quali gli uomini compaiono molto poco, sono per lo più donatori di sperma: da quelli che regalano il prezioso seme alle apposite banche, a quelli più fai da te, che tengono all’anonimato.

Natsume si informa, legge, studia e invia email, mette a ferro e fuoco i siti web che trattano l’argomento e, nel frattempo, sta faticosamente portando avanti anche la gestazione di un libro, pungolata dalla sua editor.

A monte ci sono quesiti etici da non sottovalutare e che la protagonista sviscera a fondo. Primo fra tutti: quanto è traumatico e fonte di sofferenza per  un figlio concepito in questo modo non sapere chi è il padre?

 

 

Leila Slimani  “Il paese degli altri”   -La nave di Teseo”   euro 19,00

Questo romanzo della scrittrice franco-marocchina Leila Slimani è ispirato alle vite dei suoi nonni, che sono lo spunto per parlare di identità, multiculturalismo, colonialismo e indipendenza. Ed è l’inizio di una trilogia che parte dalla fine della Seconda guerra mondiale e arriva all’indipendenza del Marocco dalla Francia nel 1956.

Al centro c’è la narrazione del difficile dialogo tra civiltà diverse; tema che l’autrice vive sulla sua pelle, lei che è nata a Rabat, in Marocco (nel 1981), e vive a Parigi.

La storia racconta quanto possa essere difficile vivere “nel paese degli altri”.

Ne sa qualcosa la protagonista Mathilde, alsaziana bionda con gli occhi azzurri, che a soli 20 anni ha sposato il 28enne Amin, marocchino che ha conosciuto a Mulhouse, dove era finito durante l’arruolamento nell’esercito francese che combatteva in Europa contro i nazisti.

“Quando era arrivata in Marocco, somigliava a una bambina. E aveva dovuto imparare, in pochi mesi, a sopportare la solitudine della vita domestica, a resistere alla brutalità di un uomo e all’estraneità di quel paese”.

Ecco in queste poche frasi è concentrato il suo destino di straniera in una terra dove è considerata un’intrusa, mentre per i francesi è una traditrice.

Giovane europea sposata con un uomo che pensa solo alla fattoria e al duro lavoro e vede la moglie come un’infante da educare.

E stiamo parlando di un paese africano che negli anni 50 anni  presentava già i tratti che oggi sono tasti dolenti dell’islamismo: sottomissione della donna, l’Islam come riscatto contro l’Occidente, un patriarcato che spinge le donne ad essere nemiche tra loro e portatrici dell’idea che “al marito bisogna ubbidire”.

Il romanzo però racchiude molto di più: mette anche a confronto le ragioni psicologiche del contrasto tra Amin, poco religioso e amico dei colonizzatori, e suo fratello Omar, islamista e nazionalista che non gli perdona il matrimonio con la straniera.

Poi c’è la storia d’amore, tra contrasti, incomprensioni e difficoltà, in cui l’amore per i figli, diventa un potente collante.

 

 

Téa Obreht   “Entroterra”   -Rizzoli-   euro 20,00

L’autrice american di origine serba (nata a Belgrado nel 1985) emigrata da piccola a causa della guerra, è una delle autrici più affermate negli States, finalista al National Book Award, molto amata da Barack Obama, e questo è il  suo secondo romanzo (dopo “L’amante della tigre”).

Ci conduce  nel vecchio West e ci catapulta in una storia vera, quella dell’esperimento poi fallito condotto dall’esercito per importare in Nord America decine di cammelli e dromedari dal Medio Oriente.

Furono faticosamente importati dall’ufficiale di marina Beale che pensava fossero più adatti alle complicate trasferte e comunicazioni dell’epoca tra Est e Ovest, attraverso terre aride e selvagge.

Fu così che tra El Paso e Colorado gli avventurieri di ogni specie videro per la prima volta l’esotico animale con la gobba.

Ambientato nel 1893 nell’assolata prateria dell’Arizona, siamo nel pieno della conquista dell’Ovest americano, tra deserto, calura, indiani, carovane e massacri. Ma non è il solito vecchio West e questa non è la già straconosciuta storia di frontiera.

Qui centrali non sono cavalli e muli, ma un manipolo di cammelli; ed è anche la storia dell’incontro tra una donna che aspetta il ritorno del marito e un bandito arrivato da lontano.

Ci sono solitudine, l’amore irrazionale che si può provare per una terra inospitale ma stupenda, cieli infiniti e tanta sete.

Qui anche i cammelli sono degli espatriati in una landa di immigrati, in cerca di fortuna nel mitico west, che tanto ha affascinato l’autrice da bambina, tra fumetti e film. Quando poi si è imbattuta nella vicenda del corpo cammellieri USA ha trovato la formula giusta per un racconto dal potenziale narrativo inedito.

Due i personaggi principali. L’indomita Nora Lark che vive nell’insediamento di Ash River,  all’ombra del canyon, con il figlio minore di 8 anni, e attende il ritorno del marito andato in cerca di acqua e dei due figli maggiori.

Poi c’è il fuorilegge Lurie Matte, che vede i morti. Arrivato dal Medio Oriente quando era ragazzo, ha un passato da ladro di cadaveri da vendere per le autopsie, poi si è dato alle rapine, ragion per cui gli pende una bella taglia sulla testa.

Ma ci sono anche figure tragiche e incantevoli come la bambina che vaga col viso piagato dal sole, scampata per miracolo alla carneficina della carovana in cui viaggiava con la sua famiglia: o la giovane Josie capace di evocare i morti.

E proprio la morte ha un ruolo evidente nel libro; basti ricordare che nell’Ovest americano, intriso di sangue e violenze, le persone dovevano spesso lasciare, strada facendo, i corpi dei loro cari che non ce l’avevano fatta.

 

Se il Salone del libro diventa “comunale”

IL COMMENTO di Pier Franco Quaglieni    Il Salone internazionale del libro “Vita nova” aperto ieri a Torino rivela tutte le difficoltà create dal Covid e si rivela un’impresa di cortissimo respiro culturale

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Quando venne scelto Nicola La Gioia a dirigere il Salone ,si capì subito che quella scelta, così dettata da motivazioni prevalentemente  politiche ,non avrebbe potuto portare a buoni risultati  e infatti il Salone  si impantanò subito nelle polemichette sull’editore del libro di Salvini a cui venne negato lo spazio espositivo che aveva regolarmente acquistato.
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Ma che adesso La Gioia voglia farci passare per Salone internazionale del libro venti lezioni da alcuni teatri italiani e promozioni librarie in 34 librerie torinesi  con un po’ di bonus da dieci euro riservati a studenti piemontesi  (malgrado le scuole chiuse), appare un’ azione  leggermente sfrontata e priva di significato e di respiro editoriale. Utilizzare il Salone internazionale per dare un po’ di soccorso a 34 librerie torinesi in difficoltà’ ci sembra una scelta assai discutibile  che riporta il Salone, che raramente fu davvero internazionale, ad ambito comunale, come le tante iniziative simili che si tengono in Italia per promuovere il libro. Era una cosa da non fare perché non consona con le tradizioni del Salone la cui caratteristica era il pluralismo e il fervore di iniziative promosse da grandi  e piccoli editori. Non basta mettere in un programma Saviano e Sgarbi per garantire la pluralità delle voci, così come  non bastano 34 librerie  torinesi per dare l’idea anche remota  di quello che era il Salone in passato. E’ un Salone fatto con i fichi secchi per fare un favore a 34 librai che  ci auguriamo possano trarne  un qualche auspicabile e legittimo  profitto in tempi difficili.
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Un appoggio appunto forse utile per sostenere questi librai in affanno, ma non certo per sostenere  la cultura intesa in modo adeguato. In ogni caso  un progetto di difficile realizzazione, considerato il divieto di assembramento anche nei negozi. Nessuno può pretendere grandi cose da  una Torino divenuta zona arancione, ma nessuno sentiva la necessità di una edizione così ridotta da far apparire il Salone un’iniziativa totalmente  priva del suo spirito originario. Il libraio Pezzana che fu il vero ideatore del Salone, non avrebbe mai pensato ad una cosa del genere perché il libraio Pezzana, ideando il Salone, seppe andar oltre gli interessi delle librerie torinesi. Cercando sul sito del Salone  non appare  inoltre un programma concreto e non capisce cosa accadrà nelle 34 librerie che hanno aderito al progetto a cui auguriamo la massima fortuna anche se non contribuisce certo a riaffermare il nome di  Torino come città del libro che la fine miserevole della UTET Grandi  opere ha definitivamente cancellato. Appare emblematico dell’ importanza di questo Salone “ internazionale“ il fatto che il settimanale “Torinosette“  gli dedichi  un articolo a quattro colonnine, il doppio dello spazio riservato ad un  piccolo convegno da remoto su Vittorio Emanuele II i cui relatori sono così noti da non essere neppure nominati.
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Scrivere a quaglieni@gmail.com

Protagoniste di Valore: chi è Roberta Ceretto, Presidente di Ceretto srl

Protagoniste di Valore LogoProtagoniste di Valore, rubrica a cura di ScattoTorino

170 ettari di vigneti di proprietà che si estendono tra Langhe e Roero, 4 cantine, 17 vini prodotti, 150 collaboratori tra vigna, cantina e ufficio, 5.000 clienti suddivisi in enoteche e ristoranti italiani, 60 paesi d’esportazione: questi i numeri della Ceretto, l’Azienda vitivinicola che dal 1937 pone la terra e le persone al centro della propria attività. Sia i fondatori sia le generazioni successive hanno infatti adottato una filosofia aziendale che punta sulla valorizzazione della tipicità del territorio e dei suoi vini e sul coinvolgimento dei collaboratori. Il risultato è noto a tutti: da sempre Ceretto è sinonimo di eccellenza e la cantina è riconosciuta per l’elevata qualità dei prodotti, considerati ambasciatori del Piemonte e dell’Italia nel mondo. La tradizione nei metodi di vinificazione e maturazione, il rispetto per la natura e l’innovazione che punta sull’agricoltura biologica e biodinamica sono le keywords che spiegano il successo enologico della Famiglia. Ma Ceretto è anche sinonimo di arte. Dall’antico casolare ottocentesco di proprietà, che è stato trasformato in una cantina dalle geometrie e dal design moderno, alla celebre Cappella del Barolo dipinta da Tremlett e LeWitt, sono tante le opere promosse da questi mecenati contemporanei.

CerettoProtagoniste di Valore ha incontrato Roberta Ceretto, Presidente e Responsabile comunicazione dell’Azienda vitivinicola che dal 2004 al 2007 è stata Consigliere del Consorzio del Barolo e Barbaresco e dal 2005 al 2008 ha ricoperto il ruolo di Vice Presidente del Gruppo Giovani di Confindustria di Cuneo. Tra i suoi incarichi anche quelli di Consigliere d’Amministrazione della Fondazione Nuovo Ospedale Alba-Bra onlus, Consigliere d’Amministrazione del Consiglio per le relazioni tra Italia e Stati Uniti, Consigliere d’Amministrazione dell’Agenzia di Pollenzo, Membro del Consiglio generale della Fondazione Cassa di Risparmio di Cuneo, ente non profit che ha scopi di utilità sociale e di promozione dello sviluppo economico del territorio e Vice Presidente di Confindustria Cuneo. In sintesi, una donna competente, dinamica, determinata e amante dell’arte in tutte le sue forme.

Quando si parla di Ceretto si parla di enologia sostenibile. I risultati sono premianti?

“Negli Anni 2000 abbiamo acquistato una vigna a Cannubi con un’età media di 80 anni e abbiamo visto che era perfetta, mentre vigne più giovani non trattate allo stesso modo avevano fallanze. Mio cugino, che si occupa della parte enologica, si è informato e ha così ragionato sul tema della sostenibilità e del rispetto dei decorsi della natura. Non abbiamo mai voluto convertire tutto al biologico per moda, ma per una questione etica e morale, perché noi 4 cugini, che rappresentiamo la nuova generazione dei Ceretto, volevamo promuovere un’agricoltura più consapevole. Secondo noi è uno sguardo diverso al contemporaneo, visto con gli occhi della tradizione. Gestendo un’azienda con un discreto successo, noi figli per certi versi abbiamo avuto la vita privilegiata, ma non ne abbiamo approfittato. Anzi, abbiamo voluto studiare e lavorare per produrre innovazione di qualità. Abbiamo sentito la necessità di attuare delle modifiche che fossero più compatibili con i tempi attuali. Se negli Anni ’60 mio padre e mio zio dovevano investire per creare l’azienda che oggi è Ceretto, noi abbiamo la responsabilità di intervenire per migliorarla dove è possibile. I vantaggi, quindi, non sono legati alla qualità, perché questo tema risale agli Anni ’60 con i fondatori che avevano scelto terre con ottime esposizioni. Produrre vino biologico e biodinamico ha dei costi notevoli, soprattutto su dimensioni come le nostre, per cui facciamo attenzione a lavorare con attenzione perché le vigne sono delicate e vanno trattate con cura. I risultati sui vini sono ottimi, ma siamo anche favoriti dalle annate particolarmente calde che aiutano la qualità”.

Avete numerosi collaboratori. Cosa significa per voi responsability?

“La responsabilità della terrà è un tema che sentiamo nostro, come la responsabilità verso i collaboratori. Un tema caro a mio padre e a mio zio, ma anche a noi cugini. Il lavoro agricolo è faticoso abbiamo sempre cercato di tenerci vicino i dipendenti dando loro le case, seguendoli e accogliendoli, anche perché molti di loro sono stranieri. Le vigne sono delicate e occorre curarle con costanza, ma è un lavoro faticoso per cui cerchiamo di fidelizzare i collaboratori, che sono una fonte preziosa. Il rispetto per il lavoro e per chi lo fa sono valori che appartengono alla nostra famiglia da sempre”.

Dalle etichette dei vini alla Cappella del Barolo, il design e l’arte sono parte della vostra storia. Un connubio vincente?

Le nostre etichette sono state realizzate da Silvio Coppola, famoso designer degli Anni ’80. Abbiamo mutuato un pensiero simile sui piatti che vengono utilizzati nel ristorante La Piola di Alba, sempre di nostra proprietà, dove abbiamo coinvolto 12 artisti e i tavoli sono variegati e decorati con questi piatti. Abbiamo cercato di mettere un po’ di arte contemporanea in ogni nostro nuovo progetto per renderlo più significativo e la Cappella del Barolo ne è un esempio. Con l’amico David Tremlett nacque l’idea di realizzare qualcosa insieme, poi mio padre gli diede l’input di coinvolgere un secondo artista e così Sol LeWitt si unì al progetto. Agli artisti piacque l’idea di recuperare l’edificio in rovina e Tremlett si occupò delle decorazioni interne e LeWitt di quelle esterne. Il risultato è che 50.000 persone la visitano ogni anno. Da quell’esperienza del 1999 abbiamo capito che l’arte è un incredibile strumento di comunicazione perché ha la capacità di riempire di contenuti un luogo. Con il vino coinvolgiamo un mondo straordinario di persone che amano sia l’arte sia il vino e in questo modo offriamo contenuti per attrarle e far conoscere il territorio. Per noi è fondamentale che sia mantenuto vivo il discorso culturale e vogliamo arricchire di nuove esperienze le nostre cantine e i nostri luoghi. Spesso i progetti che promuoviamo non sono legati al mondo vitivinicolo, ma quando conosci un artista e ti innamori delle sue opere, non puoi non accoglierle”.

CerettoPassione e valorizzazione del territorio sono nel vostro DNA. In che modo li declinate?

“Negli Anni ’80 mio padre unì i suoi prodotti al nascente concetto del made in Italy. Allora il Piemonte e le Langhe non erano conosciuti e il Barolo non era un vino famoso, ma lui decise di abbinare il cibo al vino. Promuovere il Barolo assieme ai prodotti del nostro territorio è stato un gioco di squadra fenomenale che ha portato a grandi risultati. Abbiamo anche notato che chi veniva nelle Langhe rimaneva stupito dalla loro bellezza e se poi si fermava a mangiare, era estremamente gratificato. Visto che il vino è legato alla terra d’origine, giocare con una squadra composta dal territorio e dagli elementi che lo coinvolgono è quindi fondamentale. Per noi lavorare in queste zone è importante e le iniziative che realizziamo sono gratuite perché ci piace che la gente venga nei nostri luoghi. Dal 2014 le Langhe sono Patrimonio dell’Unesco come paesaggio vitivinicolo. Questa è una natura domata: è la dimostrazione che se l’intervento dell’uomo è condotto in maniera sensata, i benefici ci sono”.

Donna per lei significa?

“Secondo me noi donne, io per prima, siamo delle equilibriste perché, dall’alba al tramonto, ci districhiamo tra numerosi impegni e pensiamo a tante cose contemporaneamente. Per noi, inoltre, il cuore è più forte della testa e ritengo che sia un plus perché talvolta con una parola gentile si risolvono tante questioni”.

Il Focus di Progesia

I valori dell’Azienda Vitivinicola Ceretto sono:

  • Sviluppo sostenibile: sostenibilità ambientale, sociale e di governance;
  • Valorizzazione dei dipendenti;
  • Iniziative di conciliazione famiglia e lavoro e agevolazione della gestione del tempo in azienda.

Un’azienda, una famiglia

“Si chiama Azienda Vitivinicola Ceretto, ma siamo una famiglia” afferma Roberta Ceretto quando racconta del suo rapporto con i dipendenti. “Ci sono persone che sono state con noi dalla fine della scuola alla pensione, persone con grandi valori, che condividono le nostre idee e le portano avanti. Alcuni sono arrivati con una valigia e null’altro. Noi abbiamo ristrutturato delle cascine e ne abbiamo fatto dei luoghi accoglienti dove costruire un futuro”. Tutto ciò non è stato studiato a tavolino, ma è stata l’evoluzione naturale dell’azienda che ha voluto da sempre costruire un rapporto di fiducia con i suoi collaboratori e collaboratrici. L’azienda ha quindi saputo valorizzare e fortificare il rapporto con i dipendenti da cui traspare un grande senso d’appartenenza, fondamentale per l’efficienza e per il raggiungimento degli obiettivi aziendali.

L’azienda conta in totale ottanta lavoranti, in vigna sono metà donne e metà uomini, mentre in cantina, luogo in cui vi è generalmente la sola presenza maschile, grazie al supporto dell’innovazione tecnologica oggi sono entrate nel team anche alcune donne. “In azienda siamo due eredi femmine e due maschi, quindi per noi è assolutamente normale ragionare e confrontarci alla pari e questo si riflette su tutta l’azienda”.

Il gusto e l’arte

“In un periodo in cui nessuno aveva ancora scommesso sulle Langhe, Bruno e Marcello Ceretto sono andati controcorrente, puntando sulle materie prime del territorio” racconta Roberta Ceretto, ricordando quando negli anni ’80 cominciava a prendere forma l’idea del Made in Italy, grazie agli stilisti di moda e al cibo e ai vini sempre più riconosciuti come elementi distintivi della nostra nazione. L’intuizione di mio padre e di mio zio è stata quella di puntare sulla qualità del prodotto e sulla sua valorizzazione attraverso un packaging di alto livello, che potesse rispecchiare la preziosità del vino.

Nell’Azienda Vitivinicola Ceretto quindi, il gusto è associato all’arte, perché nel vino si ritrovano elementi che hanno molto in comune con le opere d’arte “duro lavoro, passione, emozione e soddisfazione, si parla al cuore delle persone” spiega Roberta Ceretto.

“La scelta dell’azienda è quella di investire sempre prima di tutto sulla qualità a prescindere. La valorizziamo con la creatività e la giusta dose d’estetica, senza dimenticare l’attenzione al territorio che per noi è particolarmente prezioso e lo rispettiamo innovando in modo sostenibile”. Questi valori sono condivisi dai collaboratori e anche dai nostri clienti, che desiderano vivere un’esperienza unica legata non solo alla qualità del vino, ma anche alle visite alle cantine, ogni anno numerosissime, e alla consapevolezza che l’azienda rispetta il territorio e i suoi frutti.

Coordinamento: Carole Allamandi
Intervista: Barbara Odetto
Focus: Antonella Moira Zabarino

L’ultima spiaggia: salvare la pelle

IL COMMENTO di Pier Franco Quaglieni L’ennesimo, pletorico Dpcm che stabilisce nuove norme ulteriormentente restrittive per le festività di Natale e ‘ stato presentato in Tv dal presidente del Consiglio in un giorno che si e’ chiuso con quasi un migliaio di morti per il COVID, un record mai raggiunto neppure a marzo

Conte fino a pochi giorni fa parlava di duri sacrifici imposti agli Italiani per garantire loro un Natale diverso che oggi ha smentito con norme restrittive che rivelano il totale fallimento della politica di governo e regioni nel fronteggiare la pandemia. Un pasticcio tutto italiano dove le regioni hanno contribuito a complicare le cose, rendendole irresolvibili e in cui il Governo si è rivelato un gruppo formato di velleitari improvvisatori.

Lasciamo perdere le norme e i divieti che daranno un ulteriore colpo mortale alla nostra economia. Il problema, prescindendo dal disastro economico,  e è che il virus non è stato fermato. Tante chiacchiere e tanti sacrifici senza raggiungere l’obiettivo.
Conte dovrebbe almeno concedere un dono agli italiani per Natale: dare le dimissioni insieme a Speranza e a questo sempre più inquietante commissario di nome Arcuri che ha già fallito per i banchi di scuola.

Con quasi mille morti al giorno c’è una sola conclusione da trarre:  hanno fallito e devono andarsene a casa. Questo è un principio democratico elementare che dovrebbe prevalere su ogni altra considerazione.Natale o non Natale, stiamo arrivando alla disperazione,  siamo prigionieri di una situazione che può
sfociare in una tragedia collettiva e individuale mai vista e neppure immaginata. Gli Italiani hanno
perso la speranza di vivere o almeno di sopravvivere.

Hanno davanti se ‘ la catastrofe e chi dovrebbe essere, per il suo ruolo super partes arbitro a tutela del popolo sovrano, sembra putroppo non essersi reso conto di nulla. Non è il problema di tener aperto o chiuso a pranzo un ristorante il 25 dicembre , qui il problema è riuscire a tutelare l’incolumità delle persone. Quasi mille morti in un giorno indicano un disastro di gravissime dimensioni, una vera ecatombe. E nel frattempo si delinea l’ipotesi sempre più vicina di una patrimoniale che rapinerà i risparmi degli
Italiani.

Se Bertinotti voleva far piangere i ricchi, Conte vuol far piangere tutti. Il Governo giallo – rosso si è rivelato il peggiore di tutti i governi possibili e nel momento dell’emergenza ha rivelato tutta la sua inadeguatezza. Ci sono colpe di cui dovranno rendere conto a Dio e alla storia. Ma in un paese democratico non bisogna attendere quei giudizi , bisogna procedere subito.  È in gioco la nostra pelle. Non possiamo più attendere. Ne va della nostra vita. L’angoscia sta montando senza possibilità di autocontrollo in tantissimi italiani. Questa è la vera tragedia, non il divieto di vedere i nonni a Natale o di fare il cenone a Capodanno.

Brodarìa, una parola piemontese oggi poco in uso

Rubrica a cura del Centro Studi Piemontesi

Brodarìa: Termine oggi poco in uso. Si traduce in italiano con ricamo, ornamento. Diverse le parole collegate: brodà, ricamato; brodé, ricamare, lavorare di ricamo; arricchire con ornamenti; brodeur, ricamatore; brodeusa, ricamatrice. E quel che vorremmo tutti: un cel brodà dë stèile: un cielo trapuntato di stelle!. Per saperne di più vedi: Camillo Brero, Vocabolario Italiano-Piemontese/Piemontese Italiano, Torino, Editrice Il Punto/Piemonte in Bancarella, 2001; per l’etimologia REP-Repertorio Etimologico Piemontese, Torino, Centro Studi Piemontesi, 2015

Ricordare Norma Cossetto significa onorare le vittime di violenza

IL COMMENTO  di Pier Franco Quaglieni / La commissione toponomastica della città di Reggio Emilia ha  bloccato  la delibera del Consiglio Comunale che prevedeva   una targa in ricordo di Norma Cossetto, Medaglia d’oro al Valor Civile, simbolo del martirio degli istriani infoibati ad opera dei partigiani di Tito

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Norma Cossetto era una giovane studentessa universitaria a Padova, allieva di Concetto Marchesi. Venne prelevata da casa, seviziata e stuprata con violenza bestiale  inaudita e poi ammazzata  e gettata in una foiba. La Commissione di Reggio Emilia afferma che mancano prove storiche certe della sua fine e giunge a mettere perfino in discussione il conferimento della Medaglia d’oro  da parte del Presidente della Repubblica Ciampi. E’ una forma di arroganza negazionista intollerabile  che oltraggia la figura della giovane studentessa istriana che  dopo le vicende belliche ottenne  la laurea honoris causa alla memoria su proposta del prof. Marchesi , deputato comunista ed insigne studioso. Il riconoscimento della giorno del ricordo, il 10 febbraio, sembrava aver posto fine alle discussioni di parte sulle foibe e sull’esodo Giuliano – Istriano – Dalmata . Solo una minoranza di vetero- comunisti votò  contro l’istituzione del giorno del ricordo  in Parlamento. In realtà tuttavia il 10 febbraio – malgrado la legge istitutiva – non viene ricordato in molte città e in tantissime scuole, violando la legge. Ma nessuno, finora, era giunto a mettere in discussione la morte tremenda a cui fu condannata Norma Cossetto, colpevole di avere un padre fascista. Eccepire addirittura sulla Medaglia d’oro è un’offesa alla verità storica oltre che alle comunità di esuli  esistenti, in primis all’ Associazione Dalmazia Venezia – Giulia. Mi sento particolarmente anche colpito  sul piano personale da questo vile negazionismo che solleva dei dubbi senza portare prove di sorta, se non discorsi di mera natura ideologica. Fui infatti  io a scrivere a Ciampi, segnalando il caso  della studentessa Norma Cossetto  e fu il Segretario Generale del Quirinale Gifuni ad avviare la pratica che ebbe  iter regolare e trasparente, come impone il conferimento di una medaglia d’Oro.   Ciampi ebbe il merito storico di aver riportato la verità storica sulle foibe e sull’esodo che Gianni Oliva aveva per primo evidenziato nei suoi libri. Rimettere in discussione in modo strumentale certe verità significa un arretramento barbaro della nostra  coscienza civile. Le memorie non sono mai condivise, ma i fatti storici non possono essere ridiscussi in base ad un revisionismo becero e arrogante. Norma Cossetto é un’eroina nazionale, una vittima che va onorata come vanno onorate tutte le vittime della violenza, di tutte le forme di violenza. E’ una giovane donna vittima della violenza sulle donne che oggi giustamente è oggetto di particolare attenzione.
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scrivere a quaglieni@gmail.com