Nessuno avrebbe mai pensato nel 1917 di dedicare una giornata alla rotta di Caporetto . I nostri nonni attesero Vittorio Veneto nel 1918 per festeggiare la Vittoria del 4 novembre.

IL COMMENTO di Pier Franco Quaglieni
A Santena stamane verrà celebrata la “Giornata dell’Unita’nazionale, della Costituzione, dell’Inno e della Bandiera” istituita da una leggina opera di un sottosegretario del Governo Monti che vantava conoscenze storiche in verità molto superficiali
In primis il 17 marzo 1861 venne proclamato il Regno d’Italia e non l’Unita’ per raggiungere la quale mancavano il Veneto, Roma capitale, Trento, Trieste e le terre italianissime dell’Adriatico Orientale . Una possibile festa della Costituzione esiste già il 2 giugno, anniversario del referendum del 1946 e dell’elezione dell’Assemblea Costituente. La festa dell’Inno sarebbe la sola legittima, mentre la festa della Bandiera tricolore è fissata il 7 di gennaio anche se non sempre non viene celebrata . L’Inno nazionale andrebbe studiato obbligatoriamente in tutte le scuole di ogni ordine e grado, più che festeggiato il 17 marzo. Solo una volta, al termine di una mia lezione sulla Grande Guerra a Trapani, ascoltai con sorpresa e commozione gli allievi di un intero istituto cantare in piedi l’Inno di Mameli.
E’ giusto rendere omaggio alla tomba di Cavour, il più grande statista italiano ed europeo della sua epoca che mise il suo genio politico e diplomatico al servizio del Risorgimento italiano . Ha ancora più valore sapere che anche in tempi di pandemia il Prefetto di Torino si recherà a Santena per ricordarlo solennemente. Molti suoi precedessori non lo fecero. Ma non si deve mai dimenticare che Cavour era un convinto monarchico è un fedele servitore di Casa Savoia che fu iniziatrice e protagonista del Risorgimento a partire dal 1848 quando Carlo Alberto , con lo Statuto e il Tricolore con lo scudo di Savoia , iniziò la I Guerra di indipendenza. Il Risorgimento è un fatto storico inscindibile da Casa Savoia che fu il fulcro su cui fecero leva anche molti repubblicani come Garibaldi. Solo l’oscuro sottosegretario di Savona tento’ di occultare questa verità storica che ad alcuni può dare anche fastidio, facendo una vera e propria insalata russa. Il Presidente Napolitano andò nel 2011 a rendere omaggio al Pantheon alla tomba del Padre della Patria ,così come Ciampi in visita a Torino andò davanti al monumento al Re Galantuomo. Solo il presidente Mattarella lo scorso anno ignoro’ totalmente il bicentenario della nascita di Vittorio Emanuele ll.
Almeno in Piemonte non si può però ignorare l’apporto dei Savoia all’Unita ‘ d’Italia, a quello che Benedetto Croce definiva il “ Sorgimento” . Sono le nostre radici che nessuno ha diritto a recidere.
Peter Cunningham (nato a Waterford nel 1947) è uno dei più importanti scrittori irlandesi contemporanei: al suo attivo ha 10 romanzi di successo e con “Il mare e il silenzio” si è aggiudicato nel 2013 il Prix de l’Europe.
E’ il racconto di una storia d’amore, ma anche il ritratto di un’eroina affascinante; parla di rinuncia, guerra e destino sullo sfondo dell’abbagliante verde di Irlanda, paese che lottò con ogni mezzo per ottenere l’indipendenza dalla Gran Bretagna.
Il mare e il silenzio sono il rifugio della protagonista Iz quando la vita tenta di stritolarla e lei trova pace affacciandosi sulla sommità del faro che appartiene alla famiglia del marito.
Nel prologo -che già intriga il lettore- c’è il lascito testamentario che l’anziana Iz Shaw ha fatto avere all’avvocato Dick Coad, conoscente di vecchia data che l’aveva incontrata anni addietro alla stazione di Monument ed era rimasto abbagliato dalla sua gioventù e bellezza.
Mrs Shaw ha disposto che le sue ceneri siano affidate al mare in un punto oltre il faro, e ha inviato a Dick due pacchi sigillati, da distruggere dopo averli letti.
Contengono la storia della sua lunga vita, a partire dai suoi fulgidi 23 anni, quando arrivò nella cittadina portuale di Monument, sulla costa sudorientale dell’Irlanda, e vide per la prima volta la casa in cui avrebbe vissuto con il marito Ronnie e il figlioletto Hector.
La sua non è stata una vita semplice, ma il carattere e una titanica forza interiore le hanno fatto scavalcare ostacoli immensi.
Nel suo passato di fanciulla c’è stato il fidanzamento con un uomo che non amava, ma che avrebbe salvato la famiglia dalla rovina. Poi la rottura e la fuga, dopo l’incontro con Frank, il grande amore della sua vita….finito in tragedia per colpa delle drammatiche vicende storiche che hanno avviluppato l’Irlanda nella sanguinosa guerra sulla strada per l’indipendenza.
Infine il matrimonio di ripiego con Ronnie, uomo debole e spaesato che la tradisce e non riesce a rimettere in carreggiata la sua vita.
In mezzo a tutto questo ci sono malattie, attentati, morti e personaggi bellissimi e struggenti le cui vite sono state deviate dalla Storia, quella con la S maiuscola.
E’ la storia di un’amicizia totalizzante e perduta -fatta di innumerevoli luci ed ombre- tra la timida, studiosa e di origini modeste Elisa e la bellissima reginetta della scuola Beatrice, destinata a diventare un mito attraverso il suo blog che ricorda tanto l’ascesa delle influencer griffate nostrane.
A narrare i momenti più belli, ma anche il dolore della rottura di questo legame è Elisa; donna di 34 anni votata alla cultura e all’insegnamento, con velleità letterarie da sempre, madre single di Valentino che ha cresciuto da sola tra mille sacrifici e rinunce.
E’ lei che riannoda i fili del suo rapporto quasi simbiotico, ma anche sbilanciato con l’amica del cuore incontrata a 16 anni.
Beatrice, bellissima, occhi verdi incredibili e charme costruito a puntino è ammirata da tutti; ma l’altro lato della medaglia la vede intrappolata in un destino costruito per lei dall’ambiziosa madre Ginevra, ex reginetta di bellezza poi impantanasi in un matrimonio di facciata più che di felicità.
E se la famiglia di Elisa è sfasciata da una separazione, poi un ritorno di fiamma e infine la rottura definitiva, quella di Bea che sembra perfetta, in realtà è pura finzione e apparenza. E le madri saranno qui diversamente importanti…
Due ragazze diametralmente opposte, con vite totalmente diverse, eppure hanno fatto un significativo tratto di strada insieme, entrambe in lotta con se stesse per trovare la loro identità ed uscire dagli stereotipi.
Il racconto degli alti e bassi di questa amicizia è anche lo spunto per una riflessione sul rapporto tra immagine e reale. Sulla crescita esponenziale della fama di cristallo che corre sui social e sull’affanno quotidiano nel postare una vita brillante, fatta di viaggi, abiti, borse, gioielli griffati, frequentazioni e sfondi che fanno sognare le teenager in cerca di modelli a cui conformarsi, nell’illusione di una vita perfetta e patinata.
Herman Joachin Bang è stato uno scrittore danese, (1857-1912), esponente di spicco del movimento naturalista e anti-romantico che negli ultimi 30 anni dell’800 portò alla ribalta i letterati scandinavi.
Bang, raffinato, omosessuale, dandy eccentrico, suscitò un certo scandalo per i suoi romanzi e lo stile di vita.
“La casa bianca” e “La casa Grigia”, sono due memoriali in cui l’autore ritrae sotto forma di romanzo la propria infanzia e giovinezza; lo fa attraverso l’uso di un narratore esterno, ma è più che evidente il suo coinvolgimento emotivo che attinge da tratti fortemente autobiografici.
La casa bianca in cui è cresciuto è la residenza di campagna dei Hvide (casato in decadenza) sull’isola di Als, in cui visse la famiglia del pastore Fritz Hvide.
Una magione elegante, arredata con mobili importanti, che accoglie la famiglia impegnata in una sorta di aristocratico ozio, e permeata di un alone elegiaco, tra il malinconico e il senso di un tempo d’oro ormai perduto.
Herman ricostruisce piccoli-grandi episodi della sua infanzia; balza agli occhi soprattutto il ricordo della madre, Thora Blach, perfettamente incarnata nel personaggio di Stella.
E’ la moglie del pastore, madre di 6 figli, donna sensibile e di salute cagionevole, che ama la musica e la poesia; piena di dolcezza e grazia, sa dispensare amore e indulgenza non solo nei confronti dei figli, ma anche della servitù. Ama giocare, scherzare, cantare e travestirsi in una girandola di buonumore, immancabilmente frenato però dal rigido e rigoroso marito. Ad appannare la sua dirompente euforia c’è la sua “gioia dagli occhi tristi”.
Questo libro, annoverato tra i capolavori della letteratura danese, è una sorta di primo capitolo di una stessa saga in cui lo scrittore racconta dapprima l’infanzia nella casa natale e prosegue con gli anni successivi nella casa dei nonni paterni ad Amaliegade, ovvero…
Fu pubblicato da Bang tre anni dopo il precedente ed è il seguito naturale delle sue memorie, concentrate questa volta sugli anni formativi, precedenti agli esordi letterari.
Alter ego dell’autore è il protagonista William, giovane che vive con la famiglia nella capitale, nel palazzo in Amaliegade 7, di proprietà del nonno paterno, il vecchio patriarca Ole Hvide, ex medico di corte e figura severa.
In tutto il romanzo si respira una pesante aria di declino, anche se si cerca di mascherarlo con mezze verità e piccoli stratagemmi.
La casa grigia si trova vicino al palazzo reale di Copenaghen ed è una specie di grigio mausoleo del mondo nobile-borghese destinato al tramonto nel volgere del XIX secolo.
Centrale nella narrazione qui è l’anziano Ole, che lotta contro l’amarezza del tempo e della gloria perduti, abbandonato dai pazienti, fatica con la vista sempre più debole per scrivere poesie che nessuno pubblicherà. Gli stessi suoi parenti sembrano averlo lasciato indietro, tanto da non dirgli nemmeno che l’amata nipotina Emmely sta per essere portata via dalla malattia.
Una fase discendente avvolta in ampi saloni blasè in cui si consumano tristezze e spese che stanno sgretolando il patrimonio familiare, in linea con la decadenza dei tempi.
“Sei nato tardi” dice con disincanto il nonno Ole al giovane nipote William… e in quelle parole c’è il senso più profondo del crepuscolo di un’epoca.
1 Guarino Guarini (1624-1683)
2 Filippo Juvarra (1678-1736)
3 Alessandro Antonelli (1798-1888)
4 Pietro Fenoglio (1865-1927)
5 Giacomo Balla (1871-1958)
6 Felice Casorati (1883-1963)
7 I Sei di Torino
8 Alighiero Boetti (1940-1994)
9 Giuseppe Penone (1947-)
10 Mario Merz (1925-2003)
4) Pietro Fenoglio (1865-1927)
I tempi cambiano, così come le mode, i gusti e le abitudini: non troppo tempo fa scrivevamo messaggi lunghi quanto papiri tascabili, ora non abbiamo più voglia di usare i pollici opponibili e ci scambiamo “vocali” ricolmi di silenzi e domande senza risposta; gli “immigrati digitali” continuano a pubblicare su “Facebook” i ricordi degli anni più magri della loro vita, mentre i “digital natives” parlano una lingua tutta loro tra “Instagram” e “Tick-Tock”, va da sé che il divario generazionale risulta a mio avviso incolmabile.
È incredibile quanto ci si metta poco ad abituarsi, ad accettare che ormai tutto debba essere veloce, che dobbiamo essere tutti “smart”. E se non siamo in grado di utilizzare le mille piattaforme digitali che ci vengono quotidianamente proposte per fare la spesa, cucinare, seguire le lezioni scolastiche e nel contempo fare “pilates” è colpa nostra, siamo noi che non sappiamo adattarci a questo “guazzabuglio moderno”. Mi solleva tuttavia pensare che Darwin non ha affermato che a sopravvivere sia il più intelligente. Ho anche notato che non abbiamo più pazienza, non siamo più abituati ad aspettare né a mantenere l’attenzione fissa su qualcosa per più di pochi minuti – ad essere generosi- . I film, per esempio, non ci piacciono più, preferiamo storie dilatate, che si protraggono per stagioni e stagioni così che possiamo seguire gli avvenimenti narrati mentre svolgiamo le diverse attività imposte dalla routine quotidiana. A tal proposito, con le numerosissime piattaforme di cui disponiamo abbiamo l’imbarazzo della scelta: una vastità di opzioni da risultare spiazzante. Io stessa impiego diverso tempo prima di decidere che cosa guardare, uno dei criteri che seguo è cercare di capire il periodo in cui è ambientata la vicenda, poiché, per me, i costumi, le scenografie e le ambientazioni risultano importanti quanto la trama. Attualmente mi sono fatta coinvolgere da una produzione spagnola ambientata in uno dei momenti storici che preferisco – artisticamente parlando – ossia gli anni Venti.
Sono gli anni che precedono la Grande Guerra e l’industrializzazione investe tutti i campi della produzione, i miglioramenti ottenuti in campo tecnico e scientifico diffondono grande ottimismo e in generale si evidenzia un periodo economicamente florido, soprattutto per la classe borghese. Parliamo in ogni caso di un tempo assai complesso, e non dobbiamo commettere l’errore di non ricordare le profonde contraddizioni di carattere sociale che vedono la classe operaia sopravvivere a stento, affrontando giornalmente indicibili condizioni di disagio, mentre, dall’altra parte, la ricca borghesia gode di una particolare agiatezza. È il periodo storico, culturale, artistico della “Belle Époque”.
Non voglio di certo proporvi qui e ora una riflessione sull’ingiusto divario economico-sociale che accompagna la storia, tra “chi ha troppo” e “chi non ha niente”; piuttosto il mio ruolo, quale docente di arte, è quello di parlare di quadri, sculture, decorazioni e di quanto al mondo c’è di bello e degno di nota. Non dimentichiamo che l’arte non è altro che la prova tangibile e inconfutabile di ciò che è stato, l’arte è una testimone silenziosa ma ineluttabile degli eventi trascorsi, ed è intrinsecamente veritiera e portatrice di pensieri, ragionamenti, confronti. Sarà per questo che il suo insegnamento è relegato a due sole ore settimanali? Ma torniamo al filo conduttore del nostro discorso, a quegli anni Venti in cui, poco più in là dei luoghi desolati “dove il sole del buon Dio non da’ i suoi raggi”, (De André), si stagliano netti quartieri ricchi di palazzi, teatri dell’opera, caffè “alla moda” e molti altri centri di ritrovo mondano.
In tale ricco contesto si diffonde “L’Art Nouveau”, vera e propria espressione del gusto della società moderna; si tratta di un linguaggio caratterizzato da uno spiccato amore per la decorazione raffinata ed elegante, che supera le distinzioni fra arte, artigianato e produzione industriale e che, in particolar modo, invade tutti gli ambiti della comunicazione visiva.
L’“Arte Nuova” osserva la natura, il mondo vegetale e ripropone, stilizzandole, le aggraziate forme di foglie e fiori. L’elemento dominante è la linea, morbida, libera e sinuosa, attraverso l’impiego di essa gli artisti esprimono idea di movimento, vitalità ed energia. L’aspetto più caratteristico è la linea “a colpo di frusta”, duttile ed elastica come la cordicella schioccata dal fantino.
In architettura i motivi decorativi si snodano sulle facciate degli edifici, le vetrate colorate presentano motivi stilizzati floreali e vegetali, gli interni sono decorati con arabeschi che adornano le pareti, le cornici delle porte e le ringhiere delle scale. Importante sottolineare come l’ “architetto” diventi un “progettista globale”, a cui è affidata la cura dell’intero edificio, dalla struttura progettuale ai più piccoli dettagli delle serrature.
In pittura la linea si unisce al colore piatto, spesso impreziosito dall’uso dell’oro, un esempio per tutti è dato dai dipinti di Gustav Klimt, (1862-1918), uno dei massimi esponenti dell’ “Art Nouveau”. Assai rilevante è anche il settore della grafica, non solo per quel che riguarda le raffinatissime illustrazioni dei libri, ma anche per la vasta produzione di manifesti atti a pubblicizzare prodotti commerciali, esposizioni d’arte e spettacoli di vario genere. Come non pensare, a tal proposito, all’illustre Alphonse Mucha (1860- 1939)?
Tuttavia, il vero trionfo dell’ “Art Nouveau” è nel settore delle arti applicate : manufatti di gran pregio, gioielli, mobili, oggetti d’uso comune, carte da parati, e qualsivoglia prodotto realizzato in serie. L’“Art Nouveau” influenza le arti figurative nella loro totalità, dall’architettura, alle decorazioni di interni, dalla lavorazione dei tessuti, fino all’arte funeraria; essa assume nomi diversi, ma dal significato affine, a seconda dei luoghi in cui si manifesta: “Style Guimard”, “Style 1900”, “Scuola di Nancy” in Francia; “Stile Liberty”, dal nome dei magazzini inglesi di Arthur Lasemby, “Liberty” o “Stile Floreale” in Italia; “Modern Style” in Gran Bretagna; “Jugendstil” (“Stile giovane”) in Germania; “Nieuwe Kunst” nei Paesi Bassi; “Styl Mlodej Polski” (“Stile di Giovane Polonia”) in Polonia; “Style Sapin” in Svizzera; “Sezessionist” (Stile di Secessione”) in Austria; “Modern” in Russia; “Arte Modernista o “Modernismo” in Spagna.
Non occorre però andare chissà dove per poter godere di quest’arte meravigliosamente “frivola” ed elegante, basta fare una passeggiata – appena ce ne sarà nuovamente l’occasione – dalle parti di Corso Francia, dove sorge “La Fleur” (1902), considerata dagli esperti il più significativo esempio di stile “Liberty” in Italia. La struttura è stata progettata in ogni più piccolo particolare da Pietro Fenoglio per la sua famiglia; la palazzina si erge in Corso Francia, angolo Via Principi d’Acaja, e trae ispirazione dall’Art Nouveau belga e francese.
La costruzione si articola su due corpi di fabbrica disposti ad “elle”, raccordati, nella parte angolare, da una straordinaria torre – bovindo più alta di un piano, in corrispondenza del soggiorno interno. Manifesto estetico di Fenoglio, l’edificio – tre piani fuori terra, più il piano mansardato – riflette l’estro creativo dell’architetto, che riesce a coniugare la rassicurante imponenza della parte muraria e le sue articolazioni funzionali, con la plasticità tipicamente “Art Nouveau”, che ne permea l’esito complessivo. Meravigliosa, e di fortissimo impatto scenico, è la torre angolare, che vede convergere verso di sé le due ali della costruzione e su cui spicca il bovindo con i grandi vetri colorati che si aprono a sinuosi e animosi intrecci in ferro battuto. Un’edicola di coronamento sovrasta l’elegante terrazzino che sporge sopra le spettacolari vetrate. Sulle facciate, infissi dalle linee tondeggianti, intrecci di alghe: un ricchissimo apparato ornamentale, che risponde a pieno all’autentico “Liberty”. Gli stilemi fitomorfi trovano completa realizzazione, in particolare negli elementi del rosone superiore e nel modulo angolare. Altrettanto affascinanti per la loro eleganza sono l’androne e il corpo scala a pianta esagonale. Si rimane davvero estasiati di fronte a quelle scale così belle, eleganti, raffinate, uniche. Straordinarie anche le porte in legno di noce, le vetrate, i mancorrenti, e le maniglie d’ottone che ripropongono l’intreccio di germogli di fiori.
La palazzina, mai abitata dalla famiglia Fenoglio, viene venduta, due anni dopo l’ultimazione, a Giorgio La Fleur, imprenditore del settore automobilistico, il quale ha voluto aggiungere il proprio nome all’immobile, come testimonia una targa apposta nel settore angolare della struttura, e lì è rimasto ad abitare fino alla morte. Dopo un lungo periodo di decadenza, la palazzina è stata frazionata e ceduta a privati che negli anni Novanta si sono occupati del suo restauro conservativo.
Va da sé che questa non è l’unica costruzione “Liberty” torinese, al contrario, ve ne sono molte altre soprattutto nel quartiere “Cit Turin”, ma di certo “La Fleur” è la più conosciuta e la più importante del territorio.
Mi preme ricordare inoltre che Torino, nei primissimi anni del secolo scorso, assume il ruolo di polo di riferimento per il “Liberty” italiano grazie all’ “Esposizione Internazionale di Arte Decorativa Moderna” del 1902. Tale avvenimento risulta di grandissimo successo, e numerosi sono gli architetti che offrono il proprio contributo, tuttavia – e pare quasi scontato dirlo – il protagonista indiscusso di questa stagione è Pietro Fenoglio, il geniale ingegnere-architetto torinese, che sceglie come abitazione la palazzina di Corso Galileo Ferraris, 55. Personalità artistica di estremo rilievo, da subito orienta il suo campo d’interesse nell’edilizia residenziale e nell’architettura industriale, Pietro Fenoglio contribuisce in modo particolare a rimodellare Torino secondo il gusto “Liberty”. Nasce a Torino nel 1865, da una famiglia di costruttori edili, frequenta poi la Regia Scuola di Applicazione per ingegneri, sempre nella città subalpina; appena dopo la laurea, conseguita nel 1889, inizia un’intensa attività lavorativa, raggiungendo ottimi risultati in ambito architettonico. Partecipa, nel 1902, all’ “Organizzazione internazionale di Arte Decorativa Moderna” di Torino e in quest’occasione approfondisce la conoscenza dello stile “Liberty”, riuscendo poi a concretizzare quanto appreso nei numerosi interventi edilizi di carattere residenziale, ancora oggi visibili nel nostro capoluogo. La sua attività di progettista si estende anche al campo dell’architettura industriale, come testimoniano la Conceria Fiorio (1900 – Via Durandi, 11) o la Manifattura Gilardini (1904 – Lungo Dora Firenze, 19). Nel 1912, Pietro entra a far parte del Consiglio di Amministrazione della Banca Commerciale Italiana ed è tra i promotori della Società Idroelettrica Piemonte. Colto da morte improvvisa, Pietro Fenoglio muore il 22 agosto 1927, a soli 62 anni, nella grande casa di famiglia a Corio Canavese.
Molto ci sarebbe ancora da dire ma vi ho rubato fin troppo tempo e chissà quante sono le cose che dovete ancora assolutamente fare. Anche io sono oberata da faccende da ultimare, chiederò allora -come sottofondo lieve- alle mie protagoniste televisive agghindate anni Venti, di tenermi compagnia; d’altronde, se non ci si abitua, un po’ di frivolezza non ha mai fatto male a nessuno.
Alessia Cagnotto
Ho dovuto ricordare di essere stato amico di tanti resistenti, da Bonfantini a Fusi , da Mauri a Valiani e far presente a chi mi citava Fusi come se io non sapessi della sua esistenza , che il curatore dell’ultima edizione di “Fiori rossi al Martinetto “ sono stato io. Ho curato anche “Partigiani penne nere” di Mauri , ma quest’ultimo libro mi è sembrato del tutto sconosciuto al mio interlocutore . Hanno criticato il mio articolo lettori di chiare ed inequivocabili simpatie paleo -comuniste. Forse io stesso nell’articolo ho usato qualche aggettivo di troppo e mi sono lasciato trascinare dalla polemica . Di questo chiedo scusa, ma la necessità di difendere Pansa per me rappresenta un dovere morale perché io l’ho sempre stimato perché egli ha colmato l’omertà degli storici che mai avevano scritto del “sangue dei vinti “. Cercare di confutare Pansa perché i suoi libri sono privi di note mi è sempre sembrato un atto di disonestà intellettuale perché Il giornalista si è dovuto basare su fonti orali che ha raccolto con infinita pazienza e scrupolo, come dimostra il suo archivio.
Stasera ho ascoltato su Facebook con interesse ed attenzione la presentazione del libro della Colombini da parte dell’autrice . Devo e voglio riconoscere che mi è sembrata una studiosa equilibrata e intelligente, anche se troppo radicata su posizioni difficilmente condivisibili.Ha fatto un discorso complessivo interessante sulla violenza e sulla guerra civile che non posso non condividere . Il conduttore , dirigente dell’Anpi in Toscana , e gli interlocutori hanno tenuto il discorso su certi binari prestabiliti e gli attacchi a Pansa sono stati contenuti anche se ripetitivi.
Io che pure mi sono trovato ad essere ospite a parlare all’Istoreto in alcune circostanze , non conoscevo se non superficialmente la Colombini per alcune letture che avevo fatto . Mi è sembrata una persona con cui mi piacerebbe discutere perché ascoltandola ho capito che non appartiene a quegli ambienti intolleranti che io considero espressione di un fascismo rosso incompatibile con le regole della democrazia e del pluralismo. Detto questo, andrebbe chiarito il perché non ha parlato di fatti incontestabili di criminalità commessi da partigiani comunisti prima e dopo il 25 aprile , restando invece sulle generali. Parlare di “ ruba galline “ appare, in verità, un po’ riduttivo . Ci sono episodi che non si possono solo contestualizzare e magari finire di giustificare , ma vanno anche condannati senza incertezze .
Un personaggio come Francesco Moranino, condannato all’ergastolo con sentenza definitiva per sette omicidi di partigiani non comunisti, non può essere difeso perché è indifendibile . Anche piazzale Loreto e’ un episodio indifendibile . Non fu solo responsabilità della folla inferocita , come dice la Colombini, ma anche di chi consenti’ quell’atto che trasgredisce ogni regola più elementare di umanità . Condannarlo a posteriori non è lecito moralmente mi disse una volta con coraggio autocritico Leo Valiani. Inoltre, se e’ vero che i comunisti hanno dato un contributo decisivo alla Resistenza, non si può non riconoscere il loro tentativo, pienamente riuscito, di monopolizzarla. Se l’Anpi si spaccò e nacque la Fvil , non è solo a causa della guerra fredda. L’Anpi in particolare in questi ultimi anni, da quando non è più diretta da partigiani , e’ un’organizzazione che fa politica di parte spesso in modo faziosissimo .
Sono d’accordo con Colombini che la storia e’ complessa ,ma allora il manicheismo ideologico e’ incompatibile con essa, come disse Raimondo Luraghi storico e partigiano che mi onoro ‘ della sua amicizia. Condannare l’amnistia di Togliatti, ad esempio, dimenticando di dire che copriva anche reati commessi da partigiani e non solo da fascisti, mi sembra sbagliato . Togliatti fece una scelta che andava oltre la guerra civile che semmai può essere criticata perché diede involontariamente spazio all’interno del PCI a chi fu protagonista dei delitti del Triangolo della morte.
Non voglio tediare il lettore con altri esempi . Aggiungo un fatto che mi ha colpito : a precisa domanda di un partecipante se Gianni Oliva fosse uno storico credibile la Colombini non ha risposto. E qui ritorna il discorso che mi ha portato ad accomunare Eric Gobetti alla Colombini . Forse non si perdona ad Oliva di aver squarciato il velo del silenzio sulle foibe . A distanza di oltre 75 anni bisogna storicizzare e storicizzare significa andare oltre le convinzioni politiche. Dico un’eresia per cui verrò di nuovo messo sul rogo , ma la dico lo stesso : e’ possibile una storia del fascismo non pregiudizialmente antifascista ? De Felice aveva aperto degli spiragli di rigore storiografico che non hanno avuto eredi . E questo non è colpa della Colombini che legittimamente esprime le sue idee in modo garbato, come ho potuto constatare di persona ieri sera.
IL COMMENTO di Pier Franco Quaglieni
L’esigenza di un forte centro liberal-democratico nella politica italiana è qualcosa di molto sentito o almeno sembra . Il Governo Draghi, per molti versi, può creare il clima idoneo per un progetto politico nuovo che riequilibri la politica, facendo del centro il suo baricentro .Ma parlare di centro non significa di per se’ parlare di centro liberal-democratico o centro liberale
C’ è stato alla fine di febbraio un appello con molte firme di persone non conosciute ,se si eccettua Franco Debenedetti,ex Senatore del pds , ed Oscar Giannino la cui immagine per le note vicende di lauree esibite mai conseguite, non appare riprensibile. Non vedo le firme di Stefano De Luca e di Enzo Palumbo ,esponenti autorevoli di quel partito liberale che eroicamente ha resistito in questi anni a tutte le turbolenze ,così come non vedo esponenti autorevoli della cultura liberale italiana. Questi ultimi non sono moltissimi ,ma qualche testa pensante c’è. Cercando tra i collaboratori di “Libro aperto “: rivista fondata da Malagodi e diretta da Antonio Patuelli, si possono trovare persone di sicura tradizione liberale. Un figura intellettuale come Lorenzo Infantino sarebbe di vitale importanza .
Per altri versi , pur con tutti i limiti e gli errori commessi, oggi l’unico partito di centro che esista in Parlamento è Forza Italia che non si è rivelato particolarmente liberale ,pur avendo promesso niente di meno che una rivoluzione liberale mai neppure iniziata.
La Fondazione “Luigi Einaudi “ di Roma ha dato prova di una vitalità davvero significativa che non ha il Centro “Einaudi “ di Torino.
C’è stato un periodo in cui in Italia fu di moda dirsi liberali anche se le provenienze politiche originarie erano molto lontane dal liberalismo.
Il partito liberale italiano e’ finito nel 1994 con una chiusura ingloriosa per iniziativa del suo ultimo segretario, Raffaele Costa, che ottenne la riconferma a deputato e addirittura ministro da parte di Berlusconi. Costa tentò di salvare le apparenze ai primi del 2000, creando i circoli del liberalismo popolare ,un banale ossimoro , che finirono in una bolla di sapone .Il vero liberalismo è per sua natura elitario,non popolare.
Abbiamo vissuto per anni nella speranza di un Risorgimento liberale, per dirla con la testata del quotidiano di Pannunzio . Ma la diaspora liberale con i suoi personalismi ha impedito di dar vita ad un progetto di rinascita. La stessa presenza elettorale di Forza Italia lo ha impedito . Molti hanno creduto al “partito liberale di massa “, un progetto seducente, ma non realizzabile .
Oggi c’è un nuovo tentativo di formare un centro liberal- democratico affidato a Carlo Cottarelli che dovrebbe provvedere alla stesura di un documento programmatico . Cottarelli si limiterà a scrivere, avendo già precisato un suo disimpegno politico.Per altri versi, appare una novità un Cottarelli liberale, così come Cottarelli non è certo un potenziale leader politico neppure parzialmente attrattivo .
Fare l’esame del sangue politico è quanto di più illiberale ci possa essere, ma c’è da chiedersi se Calenda e la stessa Bonino si possano considerare dei liberal- democratici che pure è una forma di liberalismo life. Radicali italiani hanno tra i loro esponenti gente profondamente illiberale. Il liberalismo avrebbe tanto da dire e potrebbe contribuire a dare un contributo alla ricostruzione di questo Paese,ma forse anche questa volta si è partiti non nel modo migliore . Il liberalismo sarebbe oggi il miglior antidoto al populismo e al sovranismo.
Valerio Zanone poco prima di morire scrisse che ormai il liberalismo si era esaurito con la fine del secolo scorso e il primo decennio del nuovo .Io conservo una sua lettera in proposito molto eloquente. Ma di fronte alla crisi del Pd e dei Cinque Stelle forse il discorso può cambiare. Occorrerebbero capacità organizzative che non ci sono e andrebbero messi al bando i personalismi che hanno caratterizzato sempre i liberali nel corso di tutta la loro storia costellata da continue scissioni. In passato ci fu persino una discussione sulla differenza tra liberal-democratici con o senza trattino. Oggi con i Debenedetti e i Giannino queste raffinatezze sono superate. Anch’io mi auguro la creazione di un grande centro laico e cattolico,liberale e democratico, aperto ad un socialismo riformatore che è parte storica del sistema politico italiano ,ma nutro forti dubbi sulla fattibilità del progetto . Soprattutto occorrerebbe un contenitore dei moderati che non c’è .
Spero di sbagliarmi nel mio pessimismo e mi auguro che Cottarelli possa essere il nuovo maitre a penser del nuovo pensiero liberal- democratico ,capace di allargare il suo perimetro ideale ad un’area di centro in senso più ampio che deve guardare anche a Renzi e persino ad una parte ,sia pur minima, del Pd post zingarettiano. Marcucci, capogruppo del Pd in Senato, pochi lo sanno o lo ricordano, fu temporibus illis, un deputato liberale .