Rubriche- Pagina 51

La targa sulla casa natale di Faletti ad Asti

IL COMMENTO di Pier Franco Quaglieni

Giorgio Faletti è stato un personaggio poliedrico che mi è sempre piaciuto.

In televisione mi ha costantemente divertito ed io sono di gusti molto difficili: farmi ridere è impresa ardua, a meno dell’ilarità involontaria che suscitano certe persone che non intendono affatto provocare il riso ed invece ci riescono come se fossero dei collaudati comici professionisti. Faletti mi piaceva da morire e non perdevo una puntata. Faletti con i suoi personaggi mi è rimasto nel cuore, ben oltre il divertimento che mi ha regalato. Sullo scrittore Faletti non sono così convinto, anche se nel 2013 come presidente del premio letterario “Albingaunum“ gli conferii quell’ambito riconoscimento che tocco’ anche a Gramellini. In quell’occasione nacque un rapporto molto cordiale e nel suo intervento fu molto gentile con me, con una definizione affettuosa ed ironica che mi lusingo’  molto e che non oso ripetere perché troppo generosa.  E’ immaginabile il forte dolore e l’impressione emotiva che suscitò in me la notizia della sua morte neppure un anno dopo. Promossi già nel luglio 2014 un ricordo nella piazza San Michele, la più importante di Albenga, che si riempì di gente partecipe e commossa. Io stesso ero così toccato  dalla sua morte immatura e crudele che non riuscii a pronunciare il discorso che avrei voluto dedicargli. Mi limitai a poche parole del tutto inadeguate. Asti ,la sua città, per cui Faletti ha fatto molto, gli ha dedicato la Biblioteca diretta allora da sua moglie. Ma fuori Asti si è fatto poco per ricordarlo. Il Lions di un paese astigiano gli ha dedicato un ricordo legato alla canzone “Minchia, signor tenente”, come si può leggere su internet, ma si trattò di un’iniziativa locale.
Il 28 giugno verrà inaugurata una targa sulla casa natale di Faletti, definito “artista eclettico“, omettendo la data di nascita e di morte che in una lapide di quel genere non e’ cosa opzionale, ma obbligatoria perché destinata ai posteri. Anche la definizione di “eclettico” lascia perplessi perché riduce la portata di Faletti che si sarebbe limitato a miscelare elementi diversi, senza avere un suo stile. Forse volevano scrivere poliedrico, ma sono inciampati nella scelta dell’aggettivo.  La lapide dedicata da Raggi a Ciampi sembra far scuola,  anche se qui non si capisce chi sia il promotore della targa in cui manca il tradizionale “pose“: come abitualmente si legge in lapidi analoghe. Ma credo che un uomo ironico come Faletti non gradirebbe assolutamente un riconoscimento così pomposo. Sarebbe il primo a sorridere di un’idea un po’ bizzarra, come se ad Asti non bastasse il grande Vittorio Alfieri. Infatti ad Asti c’è un ricordo che cancella ogni altro:  quell’Alfieri poeta italiano e cosmopolita che ha onorato la sua città natale come nessun altro: non a caso “abita eterno”, come scrisse il Foscolo nei “Sepolcri”, riferendosi al tempio di “Santa Croce”.

Livio Caputo liberale

IL COMMENTO di Pier Franco Quaglieni

Fu la comune amica Paola Liffredo a farmi conoscere Livio Caputo che torno’ molto, volentieri a tenere una conferenza a Torino. Livio Caputo, nato a Vienna nel 1933 e mancato ieri, era molto legato a Torino.

Massimo Caputo, suo padre, fu il mitico direttore liberale della “Gazzetta del popolo”, quando il giornale, nato nel Risorgimento, prima di cadere in mano democristiana, era il primo quotidiano di Torino e del Piemonte, impedendo l’ascesa del giornale della Fiat. E studio’ Giurisprudenza a Torino dove si laureò’, mentre già faceva il giornalista. Mi parlò con affetto del mitico Rettore Allara, severissimo, ma uomo di grande sapienza giuridica con cui ebbi rapporti d’amicizia tanti anni dopo. “Repubblica“ commette oggi un errore definendolo liberal perché sia suo padre sia lui furono coerentemente e appassionatamente liberali. Liberali e non liberal alla maniera di Scalfari. Livio aveva anche militato nel PLI, poi nel 1994 venne eletto senatore in FI, una parentesi di due anni perché nel 1986 non venne confermato, come sempre è accaduto ai liberali in quel partito, liberale solo a parole. Fu anche per breve periodo sottosegretario agli Esteri, lui che aveva un’esperienza internazionale di prim’ordine. Ma invece di ritirarsi, rimase al “Giornale” di cui, con scelta patetica e stolta, è stato nominato direttore ad interim nell’ultimo suo mese di vita. Uno sfregio ad una carriera giornalistica straordinaria. Avrebbe meritato di esserne direttore effettivo in anni lontani molto più di Feltri, Sallusti, Giordano o dello stesso Cervi. Era stato tra i fondatori del quotidiano con Montanelli di cui era molto amico, ma che non segui’nell’avventura della “ Voce “ insieme ai futuri diffamatori seriali che Montanelli si covo’ in seno. Era un gran signore, colto , equilibrato, brillante, tollerante, ma anche fermo nelle sue idee, con cui era bello parlare. Simile a lui ricordo l’amico Egidio Sterpa. Collaborai ad un giornale che diresse nei primi anni duemila, organo dei Comitati della libertà, associazione liberale non sostenuta da nessuno e quindi destinata al fallimento. Solo le iniziative “culturali” di Dell’Utri o della Brambilla erano degne di interesse e sappiamo come andò a finire. Quel giornale duro’ al massimo un anno e, se non ricordo male,  si chiamava “Libertates”, un titolo troppo difficile per chi aveva studiato liberalismo al Cepu e ovviamente ignorava il latino.  Malgrado fosse stato bistrattato, Livio seppe essere superiore a tutto e a tutti. Con lui è morto un uomo e un giornalista di rara qualità di cui si è perso lo stampo. Se pensate al nuovo direttore Minzolini che gli succede, potete capire la differenza tra i due, se pensate al suo esatto opposto.

Torino e i suoi musei. Il museo della Juventus

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Torino e i suoi musei
Con questa serie di articoli vorrei prendere in esame alcuni musei torinesi, approfondirne le caratteristiche e “viverne” i contenuti attraverso le testimonianze culturali di cui essi stessi sono portatori. Quello che vorrei proporre sono delle passeggiate museali attraverso le sale dei “luoghi delle Muse”, dove l’arte e la storia si raccontano al pubblico attraverso un rapporto diretto con il visitatore, il quale può a sua volta stare al gioco e perdersi in un’atmosfera di conoscenza e di piacere.

1 Museo Egizio
2 Palazzo Reale-Galleria Sabauda
3 Palazzo Madama
4 Storia di Torino-Museo Antichità
5 Museo del Cinema (Mole Antonelliana)
6 GAM
7 Castello di Rivoli
8 MAO
9 Museo Lomboso- antropologia criminale
10 Museo della Juventus

10 Museo della Juventus

I goliardici Gem Boy cantavano –E tutti si faceva il coretto- “Ma in Holly e Benji tutto è normale anche il Giappone vince il mondiale”, ridendo sia per la non eccessiva bravura della nazionale nipponica, sia perché “cosa c’entra il calcio con il Paese del Sol Levante?” Ed ecco l’errore: nell’ XI sec. a.C, proprio in Giappone si praticava il “Kemari”, simile al “cuju” cinese, un gioco militare che fungeva da addestramento e il cui scopo era quello di mandare un pallone ripieno di capelli e piume in una zona definita da due canne di bambù, utilizzando solamente i piedi. Un manoscritto del 50 a.C. attesta le dispute tra Cina e Giappone giocate attraverso lo “Ts’u-Chu”, (altro nome per “Cuju”).

Il “Kemari”, ancora praticato in alcuni luoghi, è più antico di circa cinquecento anni rispetto al “Cuju” e consiste nel passarsi tra giocatori un involucro di cuoio contenente una vescica d’animale gonfiata, senza che questo tocchi terra. A nostra discolpa possiamo dire che anche in Grecia, a partire dal IV sec. a.C., era praticato uno sport, antenato del calcio e del “rugby”, chiamato “episkiros”. Il gioco, che a Sparta seguiva modalità abbastanza violente, non faceva parte delle discipline olimpiche dell’epoca, ma era comunemente diffuso su tutto il territorio. Ad Atene, presso il Museo Archeologico, è conservato un bassorilievo raffigurante un uomo che gioca all’“episkyros”, l’immagine non ha nulla a che invidiare alle figurine collezionabili, è forse solo leggermente più pesante. A Roma il gioco si trasforma nell’ “harpastum”, (da “arpazo”, che in greco significa “strappare con forza”. È il noto letterato latino Marziale, (I sec. d.C.) che ci descrive le due tipologie di palloni usati nell’Impero, “pila paganica”, utilizzata perlopiù dai contadini e la “fillis”, prediletta dai legionari. È probabile che proprio i soldati che si trovavano nei “limes” abbiano importato lo sport nei territori dominati da Roma, fino a diffonderlo anche in Inghilterra.

In epoca medievale, nella Francia del nord, si afferma la “soule”, vero e proprio antenato dello sport che oggigiorno guardiamo in TV.  Alla “soule” si giocava di domenica, dopo la liturgia; le squadre vedevano contrapporsi villaggi rivali o diversi status sociali, (sposati contro celibi, ad esempio) e lo scopo era lanciare la palla all’interno di un edificio del villaggio avversario, in genere una chiesa, la grandezza del campo era variabile e poteva in alcuni casi comprendere fossati e zone paludose.  È dunque ben più antico degli anni Sessanta il ritornello di Rita Pavone, e forse già allora le fidanzate dei giocatori si lamentavano. Tale sport, la “soule”, è descritto dalle fonti come un gioco troppo violento, secondo quanto attestano le varie “lettere di remissione”.

È arrivato il momento di gongolare: il Rinascimento italiano “docet” anche in questa situazione. Nella Firenze medicea si praticava il “calcio fiorentino”, attività ludica decisamente prediletta dalla comunità toscana. Si tenevano, infatti, incontri ufficiali tra i partiti dei Verdi e dei Bianchi, nel campo prestabilito della Piazza di Santa Croce, al termine dello “scontro” i vincitori si appropriavano delle insegne avversarie. Ogni squadra era formata da 27 giocatori: coloro che stavano sulla linea degli “innanzi” avevano il compito di attaccare, vi erano poi gli “sconciatori”, i “datori innanzi” e, infine i “datori indietro”. Questa la definizione della Crusca risalente al XVIII secolo: “È calcio anche nome di gioco, proprio e antico della città di Firenze, a guisa di battaglia ordinata con una palla a vento, somigliante alla sferomachia, passata dai Greci ai Latini e dai Latini a noi.” Ogni anno la città di Firenze ricorda quelle partite antiche attraverso una fedele ricostruzione storica in costume. Ho finito la mia premessa e ora , come si suol dire, “per me sono dolori”, perché già so che i lettori granata chiuderanno la pagina immantinente. L’excursus storico mi è servito come larga scusa per invitarvi allo Juventus Museum di Torino.

Il Museo si colloca tra la curva Nord e la Tribuna Est dell’Allianz Stadium, siamo in via Druento, vicino all’area della Continassa tra Vallette e Barriera di Lanzo.
La monumentale opera, coordinata dall’architetto torinese Benedetto Camerana, è stata concepita secondo moderni standard tecnologici e interattivi. L’esposizione, insieme multimediale e classica, venne inaugurata il 16 maggio 2012. Al suo interno è raccontata e documentata la storia della Juventus, che però viaggia in parallelo con le vicende di Torino e i fatti storici italiani, con focus sugli avvenimenti del XIX secolo. Tutta l’esposizione è bilingue, in modo da garantire una semplice fruizione autonoma ai visitatori, che hanno a disposizione non solo un’eventuale spiegazione in inglese ma anche l’universale uso della multimedialità. Il complesso museale è diviso in cinque aree. “La Juve segna”, come ci suggerisce il nome, è un salotto ellittico alle cui pareti sono proiettati i video dei “gol” segnati dalla squadra; la “Sala principale” invece è suddivisa a sua volta in più zone, una dedicata alla fondazione e all’evoluzione storica del club, un’altra dove sono visibili i modelli degli stadi, quello del Campo Juventus, lo Stadio Comunale e l’Allianz Stadium. Vi è poi una simpatica sezione costituita da ologrammi interattivi degli storici allenatori della squadra, come Trapattoni e Lippi. In quest’area si trova anche un totem dedicato alle vittime della strage di Heysel, ed è sempre qui che vengono allestite le mostre temporanee.

“Il tempio dei Trofei” è il luogo dove sono esposti, sotto luci stroboscopiche, i trofei ufficiali vinti dalla squadra. “La sfera”, complementare alla mostra “Fratelli d’Italia”, presenta immagini di giocatori juventini convocati alla Nazionale A. “La squadra”, invece, è la sala storica, tutta dedicata al primo club bianconero; chiude il Museo la sala “Fino alla fine” dove è visibile una video installazione della durata di sei minuti che mostra il tragitto dei giocatori dagli spogliatoi al campo. Al Polo della Juventus è consigliabile andare in compagnia di altri juventini, in modo che ognuno possa incrementare e scambiare le più vivide emozioni con l’amico di squadra del cuore. Se vi sentite coraggiosi, andateci pure con la vostra fidanzata, sappiate però che quest’ultima potrebbe vendicarsi portandovi nei negozi di moda vicinissimi al Museo. Come concludere questo pezzo propriamente di parte, forse con un intramontabile cliché. Diciamolo allora: “Ah come gioca Del Piero!”

Alessia Cagnotto

Primarie, democrazia, crisi del Pd

IL COMMENTO di Pier Franco Quaglieni

Qualche mese fa c’è stato chi all’interno del Pd ha evocato “il modello Moncalieri” a cui guardare. In quella città i democratici hanno stravinto nel settembre scorso con oltre il 40 per cento, senza neanche l’aiutino dei moderati

I risultati delle primarie torinesi di ieri sono deludenti con una partecipazione di presenza e on line di poco più di 11 mila persone, sedicenni compresi, che da’ il senso della crisi profonda di quel partito, dei suoi leader locali, delle loro clientele. E’ evidente una disaffezione profonda degli elettori e lo stesso sistema delle primarie si è rivelato logorato. Occorrerà’ il risultato elettorale della elezione del Sindaco per capire quali ripercussioni avrà il flop di domenica dove il candidato più qualificato Lo Russo
raggiunge il 37 per cento , il finto civico Tresso sostenuto dalle sardine e dalla sinistra il 35 , mentre Lavolta  anche lui della sinistra si ferma al 25 e il radicale Boni raggiunge un ridicolo 2 per cento che dovrebbe consigliarlo di ritirarsi a vita privata. Non entro nelle beghe evidenti di un Pd torinese molto malconcio,  cito l’esempio di Boni come emblematico di una supponenza senza pari : anche solo pensare di candidarsi a sindaco di Torino rivela in questo signore una presunzione incredibile. Il gioco riuscì ad una sconosciuta come Appendino , ma solo perché al ballottaggio l’elettorato moderato, con un gesto scellerato, la preferì a Fassino , non rendendosi conto che stava affidando la Città alla peggiore candidata possibile. Per candidarsi a sindaco di una grande città dopo la sciagura del quinquennio grillino ci vorrebbe un minimo di storia personale che in verità nessuno dei quattro contendenti possiede in modo adeguato. E i parlamentari del PD non hanno certo rinunciato al seggio sicuro per scendere in campo. Sono rimasti a guardare e a dare il loro consenso all’uno o all’altro, rivelando una scarsa capacità di mobilitazione. Dopo Fassino il Pd torinese ha perso l’unico leader di livello. Forse solo il serio ma poco noto Giorgis poteva scendere in campo con i titoli sufficienti. Fassino , pensando di essere rieletto, non scelse un vice adeguato da formare come possibile successore. L ’opposizione alla giunta Appendino è stata flebile e inconsistente al di là di Lo Russo perché l’intero gruppo consiliare e’ apparso politicamente assente. Io ricordo Carpanini oppositore che faceva vedere i sorci verdi al Pentapartito.  Poi il governo giallo – rosso ha generato l’idea scellerata di fare anche a Torino l’innaturale ammucchiata romana. L’alleanza con i grillini e’ sembrata la cosa più ovvia a tanti,  se si esclude Lo Russo che per coerenza non poteva certo smentire il suo ruolo di capo dell’opposizione. In ogni caso da storico e da persona di cultura liberal – democratica mi sento spaesato . Torino ha avuto grandi sindaci democristiani e comunisti, i sindaci socialisti e laici sono stati meteore difficili da giudicare.  In ogni caso una Magnani Noya o uno Zanone erano persone di rango. Uno dei più grandi sindaci di Torino Valentino Castellani aveva cercato di dare utili e saggi consigli da uomo di grande esperienza. Non è stato ascoltato.
Oggi purtroppo quel tipo di persone simili a Castellani sembra essersi esaurito. Se penso che i radicali veri ebbero l’ex ministro Villabruna in consiglio comunale e penso al candidato del 2 per cento, provo rammarico. Non parlo da elettore , ma da commentatore:  qui rischiamo davvero di diventare una seconda Cuneo . Una città marginalizzata, senza prospettive.
Si era partiti malissimo con un rettore che si ritirò subito appena aver fiutato l’ambiente e un mago della chirurgia del tutto digiugno di amministrazione,  ma carico di ideologismo un po’ vecchiotto e si è giunti ad un appuntamento che vede un Pd dilaniato in tre pezzi senza nessuna strategia politico – amministrativa credibile . Il Pd e’ un interlocutore importante della vita democratica e chiunque – al di là delle sue simpatie politiche – deve augurarsi che quel partito si riprenda. Forse le primarie, purtroppo con pochi voti di scarto,  hanno almeno chiarito che il matrimonio con a
i grillini sarebbe un suicidio
per ambedue i contraenti. E hanno anche tolto di mezzo di stretta misura questo Carneade Tresso che sarebbe stato un altro suicidio sicuro, essendo punto di incontro dei peggiori politicamente e incapace di andare oltre le sardine.

L’isola del libro

Rubrica settimanale a cura di Laura Goria

Lily King “Scrittori e amanti “ -Fazi Editore- euro 18,50

E’ una passeggiata piacevolissima addentrarsi nelle pagine dell’ultimo romanzo della scrittrice americana Lily King, che nel 1914 aveva pubblicato con successo “Euforia” sull’antropologa Margaret Mead.
In “Scrittori e amanti” ci regala una protagonista alla quale affezionarsi fin dall’inizio, che si muove anche nell’affascinante mondo letterario tra scrittori di successo.

E’ Casey: ha 31 anni, debiti di studio per 73mila dollari, dopo il college ha traslocato 11 volte, ha fatto 17 mestieri, avuto un po’ di relazioni che non hanno ingranato, vive in un buco di cui fatica a pagare l’affitto.
La madre, alla quale era molto legata, è morta da poco; con il padre non ha più contatti dalla quarta superiore; il suo unico fratello vive a 5000 chilometri di distanza ed è di fatto la sua unica famiglia.
Come si può ben intuire la sua vita è un po’ in affanno.

Così mentre al momento si mantiene a stento facendo la cameriera (esperienza che anche l’autrice Lily King ha fatto e descrive in modo magistrale tra il divertente e lo sconfortante), la sua vera forza sta nell’ambizione di diventare scrittrice.
Come lei stessa dice: «la cosa che ho avuto negli ultimi 6 anni, quella che è rimasta costante e stabile nella mia vita, è il romanzo che ho scritto. E’ stato la mia casa, il posto in cui ho sempre potuto rifugiarmi, in cui ho addirittura sentito di avere un potere. Il posto dove sono veramente me stessa».
Nelle pieghe della sua vita un po’ incasinata scrivere è una necessità e il lettore finisce piacevolmente coinvolto dai suoi sforzi in quella direzione.

Allora eccola raccontare il lavoro faticoso e poco considerato, che però la colloca in un osservatorio privilegiato per osservare la variegata umanità dei clienti che serve al tavolo.
Leggerete quanto può essere complicato mantenere la rotta e riuscire a destreggiarsi tra le tante difficoltà.
Poi non manca il lato affettivo, tempestoso anche quello perché sembra essere attratta dagli uomini sbagliati; si trova innamorata di uno ma corteggiata da un famoso scrittore rimasto vedovo e geloso dei successi altrui.

Come va a finire non lo anticipo per non togliervi il gusto supremo di seguire il passaggio di Casey all’età adulta, quella in cui deve dare una direzione alla sua vita per diventare ciò che sogna da sempre, una scrittrice.

La scrittrice Lily King in questo suo romanzo cita un’altra autrice che ama molto e che vale la pena recuperare.
E’ Shirley Hazzard nata a Sydney nel 1931 da genitori britannici (madre scozzese e padre gallese) emigrati in Australia dopo la Grande guerra.
Ha girato il mondo -sud est asiatico, Giappone, Hong Kong e Nuova Zelanda)- inclusa la tappa per 1 anno a Napoli all’età di 25 anni.
Ha sposato lo scrittore, critico e biografo statunitense Francis Steegmuller (conosciuto durante un party della famosa scrittrice Muriel Spark) ed ottenuto la cittadinanza americana.

Gli ultimi anni li ha trascorsi tra New York e Capri (di cui ha ricevuto la cittadinanza onoraria nel 2000) ed è morta nel 2016 a 85 anni.
In Italia è poco conosciuta ma è stata una grandissima e talentuosa scrittrice, scoperta dall’editor newyorkese William Maxwell.
Agli inizi degli anni 60 pubblica i suoi primi racconti sul New Yorker.
Tra il 1952 e il 1962 lavora presso l’ONU che lascia per dedicarsi alla scrittura.
E bene che ha fatto poiché ha vinto 2 National Book Award e regalato ai lettori pagine splendide.

Nel 1980 vince un premio minore, il National Book Critics Circle Award, con il romanzo “Il transito di Venere” (Einaudi).
Il titolo è ispirato al fenomeno astrologico che vede passare Venere davanti al sole, (fenomeno raro e difficilissimo da osservare) e racconta la storia di due sorelle australiane, Caroline (Caro) e Grace Bell, emigrate in una ricca casa di campagna in Inghilterra negli anni 50 del secolo scorso, nella speranza di superare la tragedia che le ha rese orfane.
Lì conoscono il giovane scienziato Ted Tice, affascinato dalla vita di un francese che nel 700 viaggiò fino in India per osservare proprio il transito di Venere; salvo rimanere deluso dopo anni di preparazione all’evento.
Questo un piano di narrazione che si amalgama alle vicende di Ted e delle due fanciulle.
Ted si innamora di Caro, per niente ricambiato da lei che invece perde la testa per il brillante commediografo Ivory, a sua volta già fidanzato con Tertia.
La Hazzard ci racconta le vicende di questi personaggi nell’arco di 30 anni e quella che potrebbe sembrare una trama banale, in realtà tra le sue mani diventa un gioiello letterario; tra successi, fallimenti, sogni, delusioni, perdite e conquiste, amori, attese, infelicità e tragedia.

 

Sempre di Shirley Hazzard è “Il grande fuoco” (Einaudi), storia del 32enne soldato inglese Aldred Leith, decorato per atti eroici, che si trasferisce in Cina per scrivere un libro. Poi nel 1947 si stabilisce in Giappone per effettuare rilievi e studi che documentino i tragici effetti psicologici della bomba atomica che ha polverizzato Nagasaki e Hiroshima.

E’ nella vicina Kure che incontra la 17enne Helen e se ne innamora.
Lei è figlia del generale di brigata Driscoll, uomo dispotico e poco amato, e la sua vita è legata in modo più che simbiotico al fratello Benedict, affetto da una malattia gravissima e senza speranza.
Aldred entra a gamba tesa nella vita dei due giovani, con i quali condivide ricordi, racconti e pensieri.
Il suo arrivo è una ventata di aria fresca e maggiore libertà per Helen e lo sfortunato Benedict; tra loro 3 si consolida un legame forte e profondo…..peccato che il generale e l’odiosa moglie agiscano separandoli….

 

Giulia Caminito “L’acqua del lago non è mai dolce” -Bompiani- euro 18,00

Questo romanzo, candidato al Premio Strega, racconta un’adolescenza difficile e da emarginata. E’ quella della giovane protagonista Gaia, la cui vita è partita decisamente in salita e irta di rovi e spine. E’ nata in una famiglia difficile e complessa. Il padre muratore «noto per i grandi ceffoni e la smania di far sesso» è condannato alla sedia a rotelle per un incidente sul lavoro; il fratello maggiore, Mariano, è un ragazzo difficile e rancoroso verso la vita che gli è toccata in sorte; chiudono la fila due gemelli più piccoli.
Vivono tutti ammassati in uno sputo di metri quadrati che neanche sono loro; una sorta di scantinato concesso per grazia ricevuta ai più poveri della scala sociale.

A mandare avanti la baracca è la madre Antonia: capelli rossi e pelo sullo stomaco, testarda, non scende mai a compromessi, combatte per una soluzione abitativa un po’ più dignitosa e mantiene tutti col suo lavoro di colf. E’ una che non si arrende, lavora nelle case dei ricchi che le affidano la gestione di tutto e hanno in lei totale fiducia.
In casa è lei a dettare legge, amministra le scarse finanze, tiene tutti in riga, e affronta la vita come un panzer.
E’ lei che decide di trasferire la famiglia dal quartiere tra i più miseri della capitale ad Anguillara, sul lago di Bracciano dove le cose vanno un po’ meglio, ma non del tutto.

Una madre così forte non può che far sentire debole e inadeguata la figlia; tanto più che Antonia proietta su Gaia il suo desiderio di riscatto, spingendola a studiare per emergere dal pantano in cui vivono.
Gaia è perennemente in difficoltà: complessata per i capelli rossi che la madre le taglia maldestramente a domicilio (non possono permettersi neanche un salto dalla parrucchiera), penalizzata da una vita precaria, fatta di avanzi e cose riciclate, scartate da altri e rimesse un po’ a posto dalla madre (abiti, zaino del fratello maggiore, biciletta dismessa dal vicino, scarpe risuolate ad infinitum).

Bullizzata fin da piccola, derisa dai compagni di scuola senza pietà alcuna, fatica a fare amicizia e diventa aggressiva e rabbiosa con gli altri, nel tentativo di stare a galla sviluppa odio e violenza. E questa non è una storia di riscatto.

 

Pierre Martin “Madame le Commissaire e l’inglese scomparso” -Superbeat- Euro 18,00

Questo è un piacevolissimo romanzo poliziesco vecchio stampo ed è il primo capitolo di una serie di 6 gialli ambientati nell’entroterra della Costa Azzurra, tra distese di lavanda e ritmi di vita tranquilli. E’ scritto da un autore tedesco che pubblica sotto pseudonimo di Pierre Martin, ed ha due protagonisti, il commissario Isabelle Bonnet e il suo assistente Jacobert Apollinaire Eustache.

Isabelle ex capo della squadra antiterrorismo di Parigi, porta i segni sia fisici che emotivi di un attentato al presidente della repubblica francese che è riuscita a sventare.
Dopo il trauma si rifugia nel paesino di Fragolin, nel Var, dove aveva trascorso l’infanzia, figlia del sindaco che aveva trovato la morte insieme alla moglie in un tragico incidente d’auto; a bordo c’era anche la piccola Isabelle, unica superstite . Ed è proprio lì che torna, dolorante, alle sue radici, sperado di godersi un più che meritato riposo.

Ma che giallo sarebbe senza un morto…o meglio ancora …due.
Ed ecco che in una villa del paese viene trovato il corpo senza vita di una giovane donna, seminuda e con il volto sfigurato dalle pallottole.
La casa è di proprietà di un signore inglese, celibe e di cui non si sa molto, se non che è sparito. I primi sospetti cadono proprio su di lui con la gendarmerie che indaga e di fatto annaspa.
A occuparsi del caso finisce proprio Isabelle “madame le commissaire” coadiuvata dal suo assistente Apollinaire.

 

De Marchi: in un libro le lettere ai giornali

LIBRI Consulente finanziario giornalista e scrittore, Gianluigi De Marchi è un personaggio poliedrico che ha coltivato da sempre una grande passione per lo scrivere.

Settantasettenne, genovese, ha pubblicato migliaia di articoli su giornali e riviste, oltre 30 libri di finanza, 15 libri umoristici, un  libro di racconti, due romanzi ed un saggio storico.

Da qualche settimana ha pubblicato su Amazon libri la sua ultima fatica dal titolo “Caro Direttore ti scrivo”, una raccolta di un centinaio di lettere pubblicate dai quotidiani italiani nel corso degli ultimi quindici anni.

Con una marcata autoironia si definisce un “grafofilo”, cioè un amante dello scrivere, per distinguersi da un “grafomane” che è un malato compulsivo che scrive solo per scaricare le sue ansie. E prosegue sorridendo: “Sono lo scrittore italiano più prolifico dopo la scomparsa del grande Andrea Camilleri!”

La prima lettera fu pubblicata nell’ormai lontano 29 novembre 1981 (fra pochi mesi compirà quarant’anni!) dall’autorevole Il Sole 24 Ore e, da allora, è stato un fiume: ormai sono oltre millele lettere pubblicate, di cui oltre la metà nel corso degli ultimi tre anni, quando non passa quasi giorno senza che un suo commento sia pubblicato.

“Sto meditando di presentare la mia candidatura al Guinness dei primati“ dichiara De Marchi perché ho verificato che in giro per il mondo ci sono altri personaggi che amano scrivere ai giornali, e sto controllando se ci siano probabilità di figurare fra i recordman; sarebbe una bella soddisfazione.”

Come scritto nella presentazione del volume da Riccardo Marchina, giornalista, “Ripercorrendo queste pagine fitte di lettere al direttore, o meglio ai tanti direttori, Gianluigi De Marchi mi ha riportato indietro nel tempo, quando ragazzino m’appassionavo di quello che capitava nel mondo, grazie a un disegno o a poche righe di commento. De Marchi, con osservazioni taglienti, sfottò sagaci o denunce indignate, ha riscritto quarant’anni di storia. Lo ha fatto con il dono della sintesi che solo un giornalista, oppure un comico navigato, è in grado di fare. Lo ha fatto sapendo scegliere e mettendo a nudo l’argomento del giorno. Lo ha fatto col coltello girato nella piaga, più che con la penna che scorre sul foglio bianco.

Scorrendo le pagine del libro si trovano sorprendenti preveggenze, come ad esempio la lettera in cui paragona l’Alitalia (che assume 1130 persone) al Titanic che affonda mentre l’orchestra suona: è stata scritta nel 2007, perché già allora la compagnia era in fase prefallimentare, ma i politici continuavano ad usarla come un “postificio”, cioè una società utile per creare posti di lavoro (ma non lavoro).

Caustiche le osservazioni sull’obbligo delle “quote rosa” imposte alle società quotate per i consigli d’amministrazione: “E se non si trovano donne all’altezza del compito, che si fa? Si liquida la società, o la si toglie dal listino di borsa?”. Obbligo che spinge De Marchi a chiamare il provvedimento “Pintarellum”, ipotizzando che, in nome della libertà di genere, in futuro siano imposte quote minime per gay e trans, in un simpatico arcobaleno di colori…

Originale la proposta di trasportare i migranti dalla Libia su navi da crociera, anziché obbligarli a traversare il mare su barconi a rischio della vita: “Chiedendo loro 500 euro (molto meno dei 3000 normalmente sborsati ai trafficanti di schiavi) si darebbe una mano ai migranti, lasciando loro in tasca 2500 euro, con i quali affrontare l’inizio della loro vita in Italia, e si darebbe una mano ai bilanci delle compagnie di navigazione.”

Insomma, ce n’è per tutti i gusti, in una carrellata che parla del naufragio di Schettino, della faraonica liquidazione dell’amministratore di Unicredit Profumo, dello shopping in via Montenapoleone del bancarottiere Zonin a piede libero e poi (naturalmente) dei politici, da Renzi a Letta, da Zingaretti a Conte, da Berlusconi a Salvini, con gustosi teatrini sui “cavalli di battaglia” di De Marchi, Di Maio, Toninelli ed Azzolina, fonti di salaci battute sulle loro sviste.

Una piacevole lettura per ripercorre quarant’anni di storia e non dimenticare!

MARA MARTELLOTTA

 

Il libro è stato pubblicato su Amazon, si può ordinare all’indirizzo

https://www.amazon.it/Libri-Gianluigi-De-Marchi/s?rh=n%3A411663031%2Cp_27%3AGianluigi+De+Marchi

oppure (beneficiando di uno sconto) al numero 3356912075.

 

La regola del rischio

LIBRI / É tornato l’ispettore Marco Tobia, personaggio creato da una felice intuizione dello scrittore omegnese Matteo Severgnini. Dopo l’esordio con “La donna della luna” l’ex poliziotto affetto dalla sindrome di Tourette, disturbo neurologico piuttosto raro e per certi versi imbarazzante, caratterizzato da una serie di tic che provocano suoni vocali e spasmi muscolari improvvisi e incontrollabili, conduce ne “La regola del rischio” (Todaro Editore) una complessa indagine che, come in un gioco di scatole cinesi, intreccia  storie e personaggi fino al colpo di scena finale che, secondo le buone regole, ovviamente non sveleremo. Una donna, Giulia Fiore, viene arrestata per traffico internazionale di stupefacenti sul confine italo svizzero di Piaggio Valmara, la dogana tra Cannobio e l’elvetica Brissago.

Si professa innocente e il marito disperato  chiede aiuto a Clara, compagna di  Marco Tobia e amica della moglie. L’omicidio di una donna complica l’indagine, ma Tobia non rinuncerà a scoprire la verità e a svelare la “regola del rischio”, aiutato da Antonio Scuderi, ispettore di polizia costretto sulla sedia a rotelle, l’amico Anselmo – barcaiolo di Orta che colleziona parole fuori moda -, e Clara, la fidanzata di professione sex worker . L’investigatore che vive sull’isola di San Giulio, l’unica del lago d’Orta, dovrà aiutare anche la piccola Alice, “la più grande esperta di draghi del mondo”. Cosa c’entrano i draghi con il lago d’Orta? Domanda alla quale non è difficile rispondere se si vive in quei luoghi a nord del Piemonte, avvolti dalle brume invernali del lago con la sue nebbia e il silenzio, su una piccola isola attraversata dalla via “del silenzio e della meditazione”, protetti da un ambiente unico tra le poche abitazioni, l’Abbazia Benedettina delle monache di clausura e la basilica romanica ( dove, nella sagrestia,  è conservata come una reliquia una vertebra di drago). Un posto dove, dietro ai vetri della casa di questo strano e ombroso detective, è possibile scorgere il profilo di un gatto dal nome cinematografico: wimwenders. “Ci vuole un personaggio speciale per squarciare quel velo immobile come la superficie di un lago che nasconde le inquietudini di una provincia apparentemente tranquilla. Marco Tobia, fragile, tormentato ed eroico, è proprio un personaggio così. Un Philip Marlowe, un Duca Lamberti, con la Tourette..” scrive sulla quarta di copertina  Carlo Lucarelli, il maestro del noir italiano. L’ambientazione del racconto è naturalmente legata ai luoghi ben conosciuti e amati da Matteo Severgnini che vive e lavora a Omegna, sulle sponde del Lago d’Orta. Severgnini, scrittore e sceneggiatore, collabora con la Radio Svizzera Italiana, realizzando reportage e documentari radiofonici. Per il cinema ha sceneggiato il film ‘Moka noir’, prodotto da VenturaFilm, CH (Festa del Cinema di Roma, Solothurner Filmtage). In passato si era già cimentato con un altro personaggio  scrivendo “ La spesa del commissario”, un volume  che conteneva cinque indagini del commissario di polizia giudiziaria Arturo Devecchi.

Marco Travaglini

I dubbi del giardiniere. Storie di slow gardening

LIBRI / Al Castello di Miradolo, Paolo Pejrone ci racconta il suo ultimo libro. Domenica 13 giugno, ore 16,30. San Secondo di Pinerolo (Torino)

Il 7 giugno scorso ha festeggiato il suo ottantesimo compleanno. Ottant’anni portati alla grande. Chissa? A dargli la carica sarà forse l’aria fresca e gioiosa dei suoi giardini! E per omaggiarlo la pinerolese “Fondazione Cosso” gli ha dedicato, nella propria sede al Castello di Miradolo, una mostra che durerà un intero anno. Non solo. Con appuntamento fissato per domenica 13 giugno, alle 16,30, la Fondazione presieduta da Maria Luisa Cosso accoglierà, sempre al Castello di San Secondo di Pinerolo, l’anteprima di presentazione del suo ultimo libro “I dubbi del giardiniere. Storie di slow gardening”, curato da Alberto Fusari per “Giulio Einaudi editore”. Parliamo di Paolo Pejrone. Torinese, classe ‘41 e autentica icona dell’architettura del paesaggio a livello internazionale con oltre cinquant’anni di illuminata carriera e più di 800 giardini progettati e “inventati”, con lucida a volte visionaria fantasia, in giro per il mondo, Pejrone dialogherà nell’occasione con Emanuela Rosa Clot, direttrice di “Gardenia”, “Bell’Italia”, “Bell’Europa” e “In viaggio”. I dubbi del giardiniere. Ma quali? “Questo libro è un ‘concentrato’ di dubbi, un generatore di interrogativi. Non risolutivo ma, forse, utile”. Primo fra tutti: come sarà il “giardino di domani”? Quali le conseguenze, ad esempio e dal punto di vista del giardiniere, del “famigerato surriscaldamento globale, evitando giudizi assoluti e formule stereotipate?”. Fra le pagine, proposte di riflessione intelligenti e sagge e competenti: “Occorrerà rinunciare a qualcosa, riabituarci a ritmi meno nevrotici, fare i conti con poca acqua, pochissima manutenzione e tanta lentezza, rispettare i tempi e le condizioni che la natura impone. Lo slow gardening non è un fatto di quantità, ma di qualità. Piantare per contrastare il cambiamento climatico significa innanzitutto piantare assecondando il cambiamento climatico: trovare specie e tecniche che garantiscano la sopravvivenza pur in un contesto alterato e artificioso”. Il libro di Paolo Pejrone sarà a disposizione presso il bookshop del Castello di Miradolo, in via Cardonata 2, a San Secondo di Pinerolo.
Ingresso 5€, con possibilità di visitare il Parco storico e scoprire il suo ricco patrimonio botanico attraverso audio guida stagionale. La prenotazione è obbligatoria: 0121/ 502761 o prenotazioni@fondazionecosso.it
Inoltre sarà anche possibile visitare la mostra dedicata allo stesso Pejrone dal titolo “Oltre il giardino. L’abbecedario di Paolo Pejrone” e scoprire, attraverso le sue parole anche l’antico Orto del Castello, ripristinato in questa occasione grazie alle intuizioni non comuni e alle suggestive pratiche capacità dell’architetto di giardini e “orti felici” e delle tante persone che ne hanno permesso il recupero, restituendo a questo luogo un tassello vivo e importante della propria storia.
Orario per la visita: 10.00/19.30.

Sempre prenotazione obbligatoria: 0121/502761 o prenotazioni@fondazionecosso.it

g. m.

De Felice e la storia del Fascismo oggi

IL COMMENTO  di Pier Franco Quaglieni   Torino con Nicola Tranfaglia  e Giorgio Rochat fu tra le città più ostili a De Felice con un istituto di storia che era un’enclave ferocemente gramsciana  dove era interdetto l’insegnamento a chi non apparteneva alla “rossa brigata” in cui emerse anche Giovanni De Luna.

A venticinque anni dalla morte di uno dei maggiori storici del secolo scorso, Renzo De Felice ,autore di una monumentale opera su Mussolini e sul fascismo, e’ necessaria una riflessione sul significato di una presenza fondamentale come la sua nella storiografia italiana, osteggiata da fanatismi ideologici che arrivarono allo scontro fisico e alla violenza non solo verbale. A De Felice fu impedito di far lezione e si chiese persino di cacciarlo dalla cattedra di ruolo all’Università di Roma.

A livello mediatico i vari Tranfaglia  Del Boca e i nuovi Torquemada si sbizzarrirono nelle accuse e negli attacchi più violenti.  Fu accusato di revisionismo, mentre il suo intento era quello di individuare una terza via storiografica tra marxismo demonizzante e tentativi volti a riabilitare il fascismo e Mussolini.  De Felice proponeva una storia di Mussolini e del regime senza partire dall’a priori dell’antifascismo e della retorica della vulgata. Una scelta ampiamente condivisibile che partiva da lontano: Chabod, Romeo, Cantimori. Non va dimenticato che lo storico fu marxista militante e iscritto al Pci, dal quale uscì nel 1956 insieme a Cantimori dopo l’invasione sovietica dell’Ungheria . Rileggere oggi la sua immensa opera consente di capire chi siano stati Mussolini e il fascismo. Peccato che la morte a 67 anni gli abbia impedito di completare e magari di rivedere il suo lavoro ciclopico (oltre 6000 pagine solo nell’opera dedicata a Mussolini ) che non poteva umanamente essere esente di qualche piccolo errore materiale. Su queste piccole cose hanno infierito i suoi critici , incapaci di comprendere l’opera defeliciana, ma attenti critici di particolari insignificanti che dimostravano  la inadeguatezza dei suoi nemici. De Felice ebbe dei nemici, non degli avversari. Potrei essere testimone di questo odio contro il Maestro che era di per se’ un uomo spigoloso e introverso, segnato nella sua vita   da grandi  dolori  e da una lunga malattia che lo portò alla morte, Riandare a De Felice ci permette anche di vedere i limiti degli storici o pseudo -storici che ci hanno invaso con una saggistica inutile perché volta solo alla propaganda politica. I critici di De Felice sono nomi già dimenticati, anche se sono ancora in vita perché il loro fine e’ stato quello di fare del fascismo un mostro da esorcizzare e utilizzare politicamente a favore del Pci e non un regime  da studiare con il distacco critico che impone ad uno studioso la ricerca storica. De Felice non ha frequentato le cellule politiche ,ma gli archivi in tempi in cui l’accesso ad essi non era agevole , se non impedito. Ha lasciato alcuni allievi che si ritengono suoi continuatori, ma rivelano limiti abbastanza vistosi. Forse solo Francesco Perfetti ha scritto pagine importanti. Emilio Gentile ha voluto andar oltre senza riuscirci a pieno. Oggi che rimonta la vulgata contro cui De Felice ha condotto la sua ricerca storica , bisogna schierarci nella difesa strenua della sua opera, opponendola ai libretti degli improvvisatori che ci ripropongono la minestra riscaldata di una storiografia obsoleta che risale al vecchio PCI. I presunti eredi del maestro hanno fallito perché sta riprendendo quota la vulgata .E hanno contribuito a confondere il maestro con un revisionismo che non fu mai suo , ma dei suoi seguaci meno importanti.  Si impone una considerazione molto amara, ma doverosa. Forse nessuno ha impegnato il suo tempo nella ricerca come lui, forse nessuno ha avuto la sua intelligenza critica  nel perseguire la terza via da lui indicata. Oggi i giovani ribaldi- soprattutto torinesi –  alzano la voce perché nessuno ha saputo portare a maturazione il magistero  defeliciano,  sviluppando la sua opera’ senza ridurla ad una litania. De Felice va distinto dai defeliciani, come Bobbio va tenuto lontano dai bobbiani. Insieme ad uno storico di razza come Gian Enrico Rusconi ricordai 25 anni fa De Felice a Torino in una sala pienissima di ex partigiani e reazionari di destra pronti a scattare nell’invettiva o nell’applauso acritico . Furono delusi perché noi parlammo di un De Felice fuori dagli schemi, dalle polemiche e dalle letture strumentali. Spero – ma non sono sicuro – che dopo un quarto di secolo si possa fare la stessa scelta di allora , liberandolo dall’etichetta di un falso  revisionismo becero e dalle interpretazioni rozze e manichee dei vecchi e nuovi maestrini e maestrucoli dalla penna rossa. Intanto Torino ha ignorato De Felice dopo aver contribuito ad oltraggiarlo. Di lui non si deve parlare. Trovano meglio proporre per legge il canto di “Bella ciao“. E’ più facile un bel coro di voci bianche che contestare le analisi storiche del Maestro – nemico.