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La profezia di Oriana Fallaci si avvera

IL COMMENTO di Pier Franco Quaglieni

Solo chi è sprovveduto o è in malafede può disconoscere che il ritiro degli USA e della NATO dall’ Afghanistan non abbia un contraccolpo immediato e drammatico sulla ripresa del terrorismo islamico, in questo caso non islamista, secondo un linguaggio vellutato e falso, usato in Europa quando gli attentati erano all’ordine del giorno e si voleva disperatamente separare l’ Isis da un Islam moderato che è sempre più difficile individuare. La vittoria talebana a Kabul darà una spinta a tutto l’ Islam nel suo complesso e renderà vane certe distinzioni. Viene fuori in maniera lampante il fallimento della politica estera americana espressa da quattro presidenti che, alla luce di questi fatti, rivelano tutta la loro mediocrità . Balza in tutta evidenza l’impossibilità di esportare la democrazia ,ma anche l’inconciliabilità tra Islam e Occidente ,come aveva sostenuto Oriana Fallaci. Sulla lunga distanza appaiono velleitari i tentativi di portare alla normalità un paese contro il quale dovettero desistere a combattere anche i sovietici, i cui eredi putiniani gioiscono di fronte al fallimento degli Americani che stanno vivendo un nuovo Viet – Nam, camuffato dai goffi tentativi di Biden a cui spero nessuno vorrà conferire il Premio Nobel Biden si rivela un omino inadeguato e attempato che è stato votato solo per eliminare Trump, una mina vagante in primis per il futuro degli Americani  Davvero l’Afghanistan è  invincibile come i Parti o i Germani di fronte a cui l’invitta potenza romana dovette fermarsi? Un esercito afghano addestrato e ben equipaggiato si è sciolto come neve al sole, il presidente afghano è scappato con la scusa di non provocare altre morti,  un ritornello che piace molto ai pavidi ed opportunisti fuggiaschi che si succedono nella storia. La NATO, già minata dalla folle politica di Trump, non c’è più. Un elemento che avrà conseguenze storiche imprevedibili. Che dei guerriglieri dalle idee medievali e dai modi selvaggi obblighino l’Occidente a far fagotto in fretta e furia è un segno grave dei tempi che forse neppure Maurizio Molinari nei suoi lucidi libri aveva previsto. Che differenza tra il direttore de “ La Stampa “ che fa sue le analisi di Gino Strada erette a testamento e il predecessore Molinari che viveva scortato perché aveva denunciato la situazione esplosiva della Jjadd con coraggio e limpida freddezza. C’è stato un periodo in cui io stesso, amico di Oriana Fallaci negli anni dopo l’11 settembre, avevo considerato le sue denunce da archiviare perché legate ad un tempo andato. Sbagliavo clamorosamente. Non so chi vincerà o chi soccomberà, non so quale sarà la direzione che prenderà la storia dell’ umanità, ma occorre riprendere i libri della Fallaci che costituiscono l’ultima trincea ideale in cui combattere per la civiltà occidentale minacciata oggi come non mai. Una civiltà laica e cristiana, anche se c’è chi tace per opportunismo, in difesa della quale bisogna resistere ad ogni costo. Oggi occorrerebbe un Churchill e uno Stalin per fronteggiare il nuovo mostro, il nuovo nazismo islamico. Gli statisti in campo sono pallide comparse del tutto incapaci di reagire. Eppure Carlo Magno riuscì a ricacciarli indietro, come fece il Principe Eugenio alle porte di Vienna ,ma erano altri tempi e soprattutto altri uomini. Il nostro destino forse sarà quello di affidarci ai Cinesi. Un’ipotesi terrorizzante che ci impedisce di prendere sonno, in attesa di una nuova TeleKabul anche in Italia che ci dia le direttive da seguire. Le premesse ci sono già tutte oggi.

Papaveri (da oppio) e papere (geopolitiche)

 IL PUNTASPILLI di Luca Martina

 

L’offensiva talebana in Afghanistan ha subito una grande accelerazione negli ultimi mesi.

 

Il suo obiettivo è quello di arrivare all’inizio dell’inverno (quando l’azione militare dovrà ridursi drasticamente per ragioni climatiche) con la maggior parte del Paese sotto il proprio controllo e sembra più vicino ora che anche la capitale Kabul ha ceduto agli “studenti” (questo il significato in Pashtu, la lingua iranica parlata anche in Pakistan, della parola “talebani”).

 

Il disimpegno americano (con il ritiro totale fissato entro l’11 settembre) non avrebbe dovuto, automaticamente, riconsegnare il paese ai vecchi governanti, spodestati nella guerra intrapresa all’indomani dell’attentato terroristico che distrusse, nel 2001, le torri gemelle di New York.

 

Più di 2.300 miliardi di dollari sono stati spesi complessivamente dagli Stati Uniti nel Paese asiatico e una importante parte di questa somma è stata destinata all’assunzione e alla formazione delle truppe locali.

 

Sulla carta l’esercito e la polizia afghana conterebbero su 300.000 effettivi, ben superiori alle forze talebane, che si aggirerebbero intorno ai 60.000 combattenti alle quali si aggiungono milizie per un totale di 200.000 persone.

 

La endemica corruzione ha però generato un esercito impreparato, poco leale e motivato e di dimensioni probabilmente molto inferiori ai dati ufficiali.

 

Quando il “generale inverno”, a dicembre, imporrà il cessate il fuoco il Paese potrebbe essere ormai completamente sotto il controllo talebano e pronto ad esportare, oltre alla droga (la principale fonte non ufficiale di valuta forte), incertezza e instabilità al resto del mondo.

 

Basti pensare che nel 2007 si stimava che il 93% degli oppiacei circolanti nel mondo era stato coltivato in Afghanistan, con introiti superiori ai 4 miliardi di euro.

 

Poco importa che la coltivazione dei papaveri da oppio e la sua raffinazione sia stata in larga parte creata negli anni 70 con la poco lungimirante complicità della CIA statunitense, in ottica antisovietica: il cane rabbioso, si sa, una volta recisa la catena si avventa, mordendola, sulla mano che lo nutre.

 

L’Afghanistan, una volta riunito sotto un unico governo talebano, sarebbe in grado di riattivare le tantissime (circa 1400) miniere presenti sul suo territorio: si tratta di carbone, rame, oro, ferro, gas naturale, petrolio e altre preziose risorse.

 

Questo enorme fiume di denaro servirebbe poi, con ogni probabilità, anche ad alimentare una miriade di gruppi terroristici legati al mondo islamista radicale, con effetti destabilizzanti sulla regione (e non solo).

 

La speranza è che i negoziati, iniziati a Doha nel 2018 e mai completamente interrotti, possano produrre dei risultati positivi e che il Paese, situato proprio nel cuore dell’Asia Centrale, possa rinverdire i fasti legati alla “Via della seta”.

 

L’Afghanistan è stato il crocevia di importanti traffici commerciali sin dal 2500 avanti Cristo quando il suo lapislazzuli (la preziosa, dal suo etimo latino-arabo, “pietra azzurra”) andava ad impreziosire le arpe in avorio che accompagnavano le sepolture dei sovrani di Ur, in Iraq.

 

La massima fioritura si ebbe tra il primo secolo a.C. ed il secondo secolo della nostra era quando le sue strade erano percorse dalla seta proveniente dalla Cina, spezie, avorio e crisolito (usato per produrre abiti resistenti al fuoco) dall’ India, oggetti di argento dall’impero persiano e prodotti in oro, vetro, terracotta, statue ed anfore da Roma ed il suo impero.

 

Fu solo lo sviluppo delle tecniche navali, nel XVI e XVII secolo, che rese più semplici gli spostamenti via mare, a consegnare all’oblio la via della seta e con essa lo stesso territorio afghano.

 

Oggi la crescita economica e demografica del continente asiatico rappresenta una grande opportunità per il Paese e lo pone al centro di importanti intrecci geopolitici ai quali, al ruolo storico della Russia, si sono aggiungi negli ultimi decenni prima gli Stati Uniti e, in tempi più recenti, la vicina Cina.

 

Proprio la Cina, d’altronde, condivide con l’Afghanistan un, pur sottile, di 76 chilometri, confine ed è perciò molto attenta all’evoluzione della situazione per poterne, a tempo debito, cogliere i frutti.

 

La partita che si gioca avrà dunque impatti economici e politici molto importanti e sarà l’ennesimo banco di prova della sfida che contrappone il mondo occidentale alla Cina e alla Russia.

 

Speriamo di non doverci trovare un giorno a rimpiangere il, forse troppo prematuro, ritiro del contingente americano e nella scomoda situazione di avere a che fare con una nuova, ma potenzialmente ben più rilevante, Corea del Nord. ​

Gavettone Day

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Un torinese (acquisito) a Finale Ligure/Pillole di spiaggia

 

Di Gianni Milani

Ferragosto edizione 2021. Anche quest’anno é andata! Solito copione. Stessa spiaggia, stesso mare. Ed eccoci, per fortuna, al giorno dopo. Negli occhi e nelle orecchie flash d’immagini e voci che sono quelle ripetute a copione nel tempo. Banali, perfino un po’ tristi, sotto regie cafonare degne del miglior Oscar Pettinari, il tipico “coatto” romano inventato in “Troppo forte” dal mitico Verdone. Primissima mattina, la calata dai pullman sul lungomare di frotte multiformi e variopinte dei bagnanti in gita di giornata provenienti (con tanto di vu’ cumpra’ e “bottega” appresso) dai paesi limitrofi o dall’entroterra ligure. Borse-frigo, cibarie varie, canotte varie, infradito vari, facce varie, palloni e palloncini e salvagente vari, cappelli e cappellini fra i più improbabili e multiuso. Corsa alla spiaggia libera che in un attimo diventa occupata. Meglio occupatissima. Distanziamento? Parolona grossa. Ed ecco in un baleno, il nuovo panorama vista mare: ombrelloni e ombrellini infilzati a terra, una galleria di asciugamani stesi al sole, lettini e sdraio e sedie per i nonni, cagnolini (povere bestie) guinzagliati alle gambe di tavolini traballanti che stanno in piedi sfidando inspiegabilmente la forza di gravità. E subito i primi sonori scappellotti ( tanti altri ne seguiranno) ai ragazzini che ogni mezzo minuto corrono – manco fossero Jacobs – in acqua, mentre le mamma iniziano fin da subito, quasi fossero in pieno cucinino di casa, a preparare la “tavola”, con figlie e fidanzati e padri spaparanzati al sole. Tutt’altra musica nei Bagni privati a fianco. Non fosse che anche lì cominciano a veleggiare nell’aria strane occhiatine e occhiatacce. Ci siamo! Comincia a montare la strana voglia ferragostana. La voglia del gavettone. Rito secolare. Ahinoi, intramontabile. Si cominciano a caricare pistole e mitragliette di plastica. E a sparare. ” Ma cazzarola, é gelida quest’acqua! Cominciamo?”. In un attimo é tutti contro tutti. I primi ad impugnare le armi (incredibile!), signori- giovinotti che vanno dai 40/50 in sù. Scatenati, mirano come ossessi a ridanciane damigelle dai costumi impercettibili e ai compagni di “scopone”. “Ma basta, papà, smettila!”, urla con vergogna una ragazzina al “firmatissimo” genitore (avvocato, manager, imprenditore, politico, amico forse di quel famoso onorevole del Papete?). E lui manco per niente. Fino all’ora di pranzo. I bagni di svuotano. Quasi. Fatta eccezione per i martiri dell’abbronzatura che timbrano il cartellino alle dieci e per otto ore filate a flirtare con il sole non li smuove più nessuno. Nella spiaggia libera, intanto, é un corpo a corpo alle vettovaglie, con paninari famelici che a 40 gradi all’ombra mangerebbero pure minestroni bollenti e polente conce, bimbi giustamente piagnucolanti e risate e risate e acqua e birra, birra tanta birra. Poi ci saranno altri tuffi. Appena mangiato? Ma chissenefrega. E’ Ferragosto. Non esistono regole. Appuntamento finale nei Bagni privati alle 18. Sarà guerra totale di gavettoni. Bagni contro bagni. Tutti contro tutti Il lungomare diventerà campo di battaglia. Senza pietà. Penso proprio di rientrare in hotel verso le 17,30. Massimo massimo 17,45. ” Ma che bella giornata”, cantava nel ’68, con toni dememenzial-ironici, Ugolino, al secolo Guido Lamberti. Proprio una bella giornata!

L’isola del Libro

Rubrica settimanale a cura di Laura Goria

Richard Ford “Scusate il disturbo” -Feltrinelli-

Richard Ford, nato a Jackson nel Mississippi nel 1944, -profondo osservatore dell’americano medio- è considerato uno dei grandi maestri del minimalismo americano contemporaneo. In questo libro, scandito in 10 racconti, c’è tutta la sua maestria di scrittore universale.
Compaiono i suoi luoghi. New Orleans, dove ha vissuto per anni; il Maine dove si è trasferito successivamente per iniziare una vita nuova, a East Boothbay, in quell’affascinante New England spesso al centro della sua narrativa. Il Canada (di cui ha ampiamente scritto nell’omonimo romanzo del 2012), altro luogo legato alla sua esistenza.
Elemento nuovo è invece l’Irlanda, in cui ambienta 2 racconti, ma presente sullo sfondo anche di altri, legata alle sue origini dal lato paterno (irlandesi erano gli antenati di Ford, ma in famiglia non se ne parlava).

Protagonisti sono per lo più uomini di mezza età, mediamente ricchi, spesso avvocati o agenti immobiliari, alle prese con le pastoie della vita. Ford indaga il loro modo di affrontare unioni e rotture, e come si destreggiano da divorziati o vedovi, mettendo a fuoco anche i loro rapporti con figli, parenti e amici. Sempre scandagliando le loro anime e menti con una maestria che è il suo marchio di fabbrica.

Sono 8 racconti brevi e 2 più lunghi, come “Mantenere il controllo” in cui il maturo agente immobiliare Peter Boyle, che da anni trascorreva le vacanze estive nel Maine con la moglie Mae, ora rimasto vedovo decide di affittare la casa limitrofa a quella in cui erano soliti villeggiare, e nella quale lei si era tolta la vita.
Tra gli altri brani, “Andando su”, in cui protagonista è Ricky Grace che fugge dalla leva di guerra ai tempi del Vietnam, quando si sorteggiavano gli anni di nascita dei giovani da mandare al fronte.

Chiude la raccolta il racconto “Seconda lingua” intesa come nuova possibilità rappresentata da un secondo matrimonio. Ford esplora le vicende matrimoniali di Jonathan e Charlotte, entrambi alle loro seconde nozze. Questo dopo che il primo marito di lei aveva preso letteralmente il largo verso l’Irlanda e oltre, alla ricerca di stesso; mentre Jonathan continua a rimpiangere la prima moglie Mary Linn, improvvisamente stramazzata davanti a lui e passata nell’al di là.
Inizialmente il secondo matrimonio di Jonathan e Charlotte sembra veleggiare felice, poi qualcosa succede…

 

Valeria Usala “La rinnegata” -Garzanti- euro 16,00

E’ stato decisamente un gran successo questo romanzo di esordio della giovane cagliaritana Valeria Usala, perché ha saputo raccontare una società arcaica, ancorata a vecchi valori e consuetudini, e ha dato vita a un personaggio indimenticabile. Una sorta di eroina che si erge contro il pregiudizio dilagante in un mondo di vedute assai ristrette.
E’ anche una storia di coraggio, in parte realmente accaduta, tramandata di generazione in generazione, ambientata in una Sardegna rurale e tradizionale, tuttavia anche straordinariamente contemporanea.
Protagonista è l’eroina tragica Teresa, cresciuta con la nonna che era a servizio presso una famiglia di ricchi proprietari terrieri, che le lasciano un’eredità. E’ una ribelle, crede nel suo diritto a libertà, indipendenza ed emancipazione. Però è schiacciata dalle maldicenze e dagli ignoranti sospetti degli abitanti del paese di Lolai; una sorta di coro malevolo ma molto potente col quale deve fare i conti.
Teresa è bella, e già questo non l’aiuta con le altre donne divorate dall’invidia che erigono un muro di falsa cordialità; mentre gli uomini sparlano di lei senza nascondersi e le gettano occhiate che la fanno sentire violata.
E’ sposata con Bruno, uomo mite e gentile, dal genio imprenditoriale, che accumula successi, e perciò sospettato di fare affari loschi, perché «Se vivi di semina e raccolto non puoi avere grandi sogni, solo grandi speranze».
Fin dalle prime pagine, in cui Teresa ha dato alla luce il terzo figlio da sola, (mentre il marito è via per lavoro), diventa cosa quasi scandalosa per le altre donne del borgo che dai consorti sono molto più dipendenti. Il lettore entra subito nel clima del romanzo, avverte immediatamente il fondo di cattiveria, pettegolezzo, e maldicenza di piccolo cabotaggio, che anima il paesino dall’orizzonte angusto.
Nel libro c’è anche la storia difficile di un’altra figura femminile che ci incanta: è Maria figlia di due umili servitori spesso in trasferta da una famiglia all’altra per lavoro. Quando vanno a servizio presso i ricchi Collu il destino di Maria si compie.
Lei ha l’ingenuità e il fuoco dei 15 anni, si innamora perdutamente del rampollo dei Collu, Vincenzo, che ha due anni meno di lei, ma le promette il matrimonio e la vita insieme. Rimane incinta e il giovane farà una virata a 360°. E’ così che Maria viene ostracizzata da tutti e prende la grande decisione di andarsene per non tornare più indietro, e dare alla luce la sua bambina “Bastarda”.
Maria diventa la “Bruja”, che in Sardegna sta per strega, una donna istintiva e vista come pericolosa, ostracizzata dalla società.

 

Elizabeth Hardwick “Notti insonni” – Blackie Edizioni- euro 19,00

La Hardwick è stata la critica letteraria americana di maggior peso per quasi mezzo secolo e questo suo libro fu pubblicato la prima volta nel 1979, quando lei aveva 63 anni.
Nata in Kentuchy nel 1916 e morta nel 2007, insieme al marito, il poeta Robert Lowell, fece parte del pool di intellettuali che nel 1963 fondò la “New York Review of Books”.
I due si conobbero nel 1946 al Greenwich Village, si sposarono 3 anni dopo creando un sodalizio affettivo e intellettuale che li condusse in giro per il mondo. Fu amica di scrittori della levatura di Mary McCarthy e Philip Roth e di altri grandi personaggi dell’editoria e della crema culturale della sua epoca.
“Notti insonni” è definito romanzo, ma in realtà è un caleidoscopio di più cose. Un misto di memoir, collage di ricordi e pensieri, persone incontrate e più o meno famose, episodi familiari, stralci di lettere, frammenti di conversazioni e fantasmi della sua vita passata. Ma anche saggio, taccuino di appunti sparsi, risultato di notti insonni in cui rielaborò esperienze ed impressioni fino a comporre una sorta di meditazione sulla vita.

Fuggita dalla provincia giovanissima, plana a New York dove per anni vive nelle residenze per sole donne e apre gli occhi su un’umanità variegata e complessa. Dapprima si immerge nella Big Apple come città luminosa e carica di promesse, salvo scoprire poi anche un sottofondo di solitudine, tristezza e delusioni.
E’ un’acuta osservatrice delle persone e delle loro dinamiche che mette a nudo con una profondità notevole. Soprattutto delle donne che in “Notti insonni” compaiono spesso, a partire dalla figura di sua madre: vincenti o perdenti, appartenenti un po’ a tutte le classi sociali, con mestieri diversi e differenti modi di relazionarsi con gli uomini e le difficoltà della vita.
E tra gli argomenti toccati, anche sessismo e razzismo, su sfondi non solo newyorkesi, ma a spasso per il mondo che ha scoperto strada facendo: da Boston a Montreal, da Honolulu alla Russia, passando per tante altre mete, compresa Amsterdam dove visse per un anno.

 

Muriel Barbery “Una rosa sola” -Edizioni e/o- euro 16,50

L’autrice del best seller “L’eleganza del riccio” questa volta compie un viaggio intimo nell’animo di una botanica 40enne che parte per il Giappone dove è appena morto il padre che non ha mai conosciuto. Ma è anche un tuffo nelle affascinanti radici della cultura nipponica.

Rosa, capelli rossi e occhi verdi, vive a Parigi, ma in realtà “quasi non aveva vissuto”.
La madre aveva abbandonato il ricco padre, e ancora incinta era tornata in Europa. Alla figlia aveva trasmesso malinconia e doloroso senso di abbandono ed è così che Rosa è cresciuta infelice, anche perché attanagliata dal vuoto dell’assenza della figura paterna.
La sua giovinezza è stata triste, e non è andata meglio negli anni a seguire. E’ diventata botanica, ma senza convinzione, e si trascina da un uomo all’altro senza coinvolgimento perché a nessuno si affeziona ed è ricambiata con la stessa moneta
.
A stravolgere questa traiettoria insoddisfacente di vita è la notizia che il padre, stimato mercante di arte contemporanea, le ha lasciato un testamento.
L’arrivo a Kyoto la catapulta in una realtà totalmente diversa da quella fino ad ora conosciuta. Aiutata dal giovane assistente del padre, Haru (belga trapiantato in Giappone), Rosa compie una sorta di viaggio iniziatico tra antiche leggende, fascinazione di templi, incontri con personaggi che l’aiutano a capire molte verità sul paese in cui è planata, sul padre e soprattutto su se stessa.

Possiamo dire che l’altra grande protagonista del romanzo è proprio l’antica capitale imperiale del Giappone, nella quale coesistono due realtà diverse. Da un lato povertà e squallore, urbanizzazione selvaggia che ruba spazio ad alberi e uomini, aree inospitali, affollate e disumanizzate.
Però c’è anche la profonda e diffusa bellezza dei giardini di Kyoto, carichi di spiritualità, dove la protagonista compie una sorta di pellegrinaggio culturale.

Sogno di una notte di mezza estate

IL PENSIERO DI VIRGINIA

Faccio mio il famoso titolo della commedia di William Shakespeare scritta intorno al 1595.

Voglio ripercorrere con la memoria quello che definisco il “Sogno italiano di mezza estate” tra Musica, Calcio edOlimpiadi che ci hanno visto protagonisti in questa estate di fuoco.

Iniziamo il 22 maggio con i Maneskin e la vittoria all’Eurovision Song Contest: una giovane rockband che vince la gara europea della musica dopo 31 anni e che vola nelle classifiche mondiali, soprattutto quelle inglesi, che è come vendere ghiaccio agli eschimesi.

Continuiamo a giugno con gli Europei di calcio e il calcio in UK fa coppia con la musica.

L’Italia si aggiudica gli Europei 2021  (in realtà 2020) nella finalissima di Wembley e vince il trofeo dopo 53 anni.

Da una parte schierata una squadra costruita da Roberto Mancini con una forte identità di gruppo, con tanto carattere e altrettanto cuore; dall’altra la squadra inglese, a trattipresuntuosa, che in presenza dei Reali  non riesce ad accettare la sconfitta e si sfila la medaglia dal collo offendendo lo spirito sportivo e il fair play britannico.

Nello stesso giorno della finale degli Europei di calcio, ci troviamo protagonisti nella finale mondiale di tennis a Wimbledon.

L’italiano Matteo Berrettini di anni 25, n°8 nella classifica ATP, contro il mitico campione Novak Djokovic di anni 34, numero uno della classifica ATP.

Dopo aver conquistato l’Europa, i cosiddetti “Italians” partono ad agosto per le Olimpiadi di Tokyo per provare a prendersi lo scenario mondiale, mentre la giovane rockband Maneskin continua la propria ascesa raggiungendo la vetta delle classifiche internazionali.

A Tokyo 2020 è italiano l’uomo più veloce del mondo Marcel Jacobs, ed è italiano anche l’uomo che salta più in alto di tutti, Giammarco Tamberi, anche se ex aequo con Mutaz Barshim del Qatar…ma qui vince il concetto di sport, amicizia e solidarietà.

E’ altresì italiano ed italiana la marcia mondiale e l’inseguimento a squadra di ciclismo, per esattamente 40 medaglie tra  oro, argento e bronzo, stabilendo così il nuovo record di medaglie conquistate in una Olimpiade dall’Italia.

E’ stato commentato, dopo il leggendario oro italiano nella  finale 4×100 uomini, che nessuno delle altre nazioni presenti aveva tenuto conto che in gara c’erano quattro ragazzi italiani. La loro passione, sacrificio e spirito di squadra hanno portato ad una storica vittoria olimpica.

Sì, l’Italia oggi è un brand vincente non solo per il turismo o per il cibo, ma nella musica con i Maneskin, nel calcio con la Nazionale e alle Olimpiadi con gli atleti azzurri.

Voglio sperare che questo solstizio d’estate prolungato simboleggi, dopo una pandemia  mondiale ancora non risolta,la forza del nostro paese.

Un’estate in cui l’impossibile è avvenuto: spero che la ripartenza sia determinata come l’impegno e la costanza avuta dai nostri atleti alle Olimpiadi, e che questo sia veloce come Jacobs, e che voli alto come Tamberi, per una grande visione e fiduciosa nel futuro.

Virginia Sanchesi

Scrivetemi a tuchiediloame@gmail.com o contattaci in redazione al numero 335 6466233 e saremo felici di aprire un contatto diretto o una chat fra me e voi.!!

Attenti al sole!

Un torinese (acquisito) a Finale Ligure/Pillole di spiaggia

 

Di Gianni Milani

Tre giorni che sono qui. Vigilia di Ferragosto. Sempre bella Finale e il suo nucleo medievale di Finalborgo. Fra i “Borghi più belli d’Italia”. E sempre simpatici e cortesi i Finalesi o Finarini, come un tempo erano chiamati. Almeno quelli che conosco io. Confortanti e piacevoli anche i Bagni, a un centinaio di metri dallo storico Hotel dove ho preso stanza. Tanta opulenza femminea esposta al sole. E tanti corpi palestrati e “tartaruga ti” che sfilano, portandosi dietro e addosso una sfilza incredibile di tattoo cui s’è ormai concessa ogni parte del corpo e di accessori corporali vari. Su e giù, sulla passerella in plastica. Dalle docce a riva mare o al lettino in totale area sole. Il bagno in mare? É un optional. L’importante é esibirsi. Fare bella mostra di sé. Ma in tutto questo “circolo” muscolare, ci sono anche – e per fortuna – le eccezioni. Ecco, sotto l’ombrellone davanti a me, un tale non più giovanissimo. Neppure giovane. Capelli grigi. I pochi rimasti. Pelle candida, che non denuncia sintomi tartarugali, anzi. In lui mi vedo, come riflesso in uno specchio. Mi sembra pure di avergli complicemente sorriso. Parola d’ordine “dove c’è il sole non ci siamo noi”. Ombra, ombra, ombra. Ombrellone e teli appesi, per impedire il passo al più tenue guizzo solare. Ma ecco. Inizia il rituale. Crema protezione 50. É perfino poco! Io oserei di più. Piano, piano. Un quarto d’ora, minimo, a spalmarsela su ogni lembo di corpo. Fin quasi su quello dei vicini. Estenuante. Che faticata! “Bè – penso – adesso con tutta quella crema addosso si concederà anima e corpo ai benefici raggi solari”. Niente di più sbagliato. Illuso. Perché, il mio “riflesso” umano si infila rapido la maglietta ( sarà di lana?), si cala in testa un grigiastro cappello da boyscout a larghe falde e si rifugia come un bolide sotto l’ombrellone, terga e natiche sulla sdraio, giornale libro in mano. E allora? A cosa mai é servito tutto il precedente rituale? A nulla. Solo ad avvertire il sole. ” Fai pure il tuo lavoro, ma stai lontano da me!”. Boh… Davanti ci passa una fata. Ragazza bellissima. Di una bellezza rinascimentale. Un corpo che non concede un lembo ad ogni pur accettabile imperfezione. Scatta il peso della memoria. Uno schiaffo sonoro per me e fors’anche per il mio “alter ego” allo specchio. Lo sguardo mi ricade sulla pagina de La Stampa: “Durigon, caso sospeso sfiducia più lontana”. Che tristezza!

 

“L’orto fascista” Romanzo / 11

ERNESTO MASINA

L’Orto Fascista

Romanzo

PIETRO MACCHIONE EDITORE

 

In copertina:
Breno, Piazza Generale Ronchi, già Piazza del Mercato, fotografia d’epoca.

 

 

XLIII

Alle undici meno un quarto uno sbraitante Sturmbannführer entrò nella casa – prigione, accolto dalle due SS che erano di guardia. Le sue urla svegliarono anche gli altri quattro militari che stavano dormendo al piano superiore e che, dopo qualche minuto, giunsero, rivestiti in qualche modo, davanti al loro Comandante. Questi continuava, urlando, ad impartire ordini. La porta della cantina fu spalancata e tutte le sei SS si precipitarono, urlando a loro volta, nello scantinato. I poveri prigionieri furono fatti alzare, spintonati su per le scale e, quindi, fuori dalla porta che dava sulla strada: terrorizzati e certi di essere condotti al luogo ove sarebbero stati fucilati.
Ma la porta si chiuse alle loro spalle senza che nessuna delle SS fosse uscita. Dopo qualche momento di intontimento capirono di essere in strada tremanti, al freddo, affamati, assetati, ma liberi. Quando furono sicuri che le SS non avrebbero sparato su di loro, si diressero verso il centro del paese. I più giovani si misero a correre, urlando, lungo il corso principale. Le prime finestre si aprirono, nelle stanze le luci si accesero e, pian piano, tutto il paese si accorse della loro liberazione.
Solo don Pompeo, che si era avviato con gli altri, ritornò sui suoi passi ed andò a battere, con violenza, al portoncino della casa. Gli aprì lo Sturmbannfürher in persona, con occhi spiritati mentre un filo di bava gli scendeva dalle labbra. Il Parroco, in modo concitato ma comprensibile, spiegò che il Fausto, rimasto nella cantina, doveva essere prelevato e portato in ospedale. Quattro SS scesero e ritornarono trasportandolo a braccia. Stavano per adagiarlo sul piano della strada quando il Parroco si avvicinò alla vettura, con la quale era giunto lo Sturmbannfürher, aprì la portiera posteriore ed indicò il sedile sul quale il ferito, che continuava a lamentarsi ed a piagnucolare, venne disteso. Salì anche don Pompeo e, rivoltosi all’ufficiale tedesco, gli urlò: “Ospedale. Subito!”
L’autista si rivolse al suo Comandante e, avuta tacita approvazione, si mise al volante e partì alla volta del- l’ospedale.
Il Silestrini, il sagrestano, stava facendo all’amore con la moglie, come tutti i sabati sera con la data dispari. Un tacito accordo che andava bene a lei perché non la impegnava troppo di frequente, ma che serviva ad alimentar- le ancora la speranza di conoscere cosa potesse essere un orgasmo – “una cosa meravigliosa” le aveva detto la sua migliore amica con la quale era in confidenza – che non aveva mai raggiunto. Bene per lui che, a 62 anni, desiderava, per piacere e per curiosità questa pratica. La curi sità di verificare le sue capacità sessuali bimensilmente: era per lui come timbrare il cartellino.Incuriosito dalle urla che arrivavano dal Crusal sino a casa sua, interruppe il rapporto. Si rivestì velocemente, raggiunse il luogo da dove provenivano gli schiamazzi e, avuta la buona notizia, si precipitò al campanile della chiesa ove iniziò un vero concerto di campane.

 

Intanto quasi tutte le case si erano svuotate; uomini, donne e bambini correvano vociando da una parte all’al- tra attorno ai liberati. Nella piazzetta davanti al municipio fu acceso un grande falò. Il Ducoli aprì il bar, offrendo a chi entrava nel locale bicchierini di grappa, versandone abbondantemente anche per sé. Le sedie del bar furono portate intorno al fuoco ed offerte agli ex detenuti.
Persino il Podestà, dopo aver mandato a verificare che non vi fossero in giro tedeschi e militi della Muti, venne a congratularsi per lo scampato pericolo. Qualcuno portò bottiglie e bicchieri, pane e salame che vennero offerti agli affamati. Ristorati, questi cominciarono a raccontare quanto avevano sopportato in quasi 24 ore di prigionia, soffermandosi, con particolari agghiaccianti, su quanto era toccato al Fausto, solo dopo che i genitori del loro collega di sofferenze avevano lasciato i festeggia- menti per correre in ospedale.
Arrivato al nosocomio il Parroco aveva chiamato due infermieri che erano corsi con una barella dove avevano adagiato il povero Fausto portandolo in infermeria. Il giovane medico di turno, che mai aveva visto nulla di così raccapricciante, non sapeva bene cosa fare. Fausto perdeva ancora sangue dalle ferite al viso ed alle gambe e sembra- va privo di conoscenza. Don Pompeo ordinò che venisse immediatamente chiamato il professor Parola, il primario chirurgo dell’ospedale che abitava in una bella villa vicina. Nel frattempo medico e infermieri avevano denudato il corpo del ferito tagliando a pezzi i vestiti che indossava, onde evitare pericolose torsioni a gambe e braccia. Il Fausto aveva, per fortuna solo nella parte anteriore del corpo, lesioni ed ecchimosi che interessavano praticamente tutta la superficie della pelle. Il volto, alla luce delle lampade, apparve a don Pompeo ancora più deva- stato di quanto sembrasse nella penombra dello scanti- nato ove erano stati tenuti. Le ossa e le cartilagini delle ginocchia sembravano distrutte ed i tendini strappati. Il professore, arrivato in pochi minuti, si chinò sul povero corpo e lo esaminò a lungo e con scrupolo. Non mosse gli arti inferiori in attesa di una radiografia, auscultò cuore e polmoni e si assicurò che non vi fossero fratture al cranio. Con aria grave si avvicinò al prete e ai genitori di Fausto e, con quella sua voce calda e col tono rassicurante che per tanti malati valeva più di una medicina, disse: “Intervenire chirurgicamente ora è impossibile. Secondo me il paziente non potrebbe sopportare un’anestesia. Rischiamo di farcelo morire sotto i ferri. Ha perso molto sangue ed è in un gravissimo stato di shock. Procediamo con delle trasfusioni e rimandiamo l’intervento a doma- ni. Cerchiamo di tenerlo sedato. Ce la farà!” Poi, rivolto ai soli genitori continuò: “Vi sconsiglio di vederlo questa sera. Non è un bello spettacolo: con il viso così gonfio e con le ferite che sanguinano sembra molto più grave di quello che in effetti è. Fatevi coraggio e pazientate sino a domani mattina.”

Si iniziò a disinfettare le ferite ed a lavare il sangue coagulato. La pulizia rivelò altre macchie bluastre dove i violenti colpi non erano riusciti a lacerare la pelle. Sem- brava che nessuna parte del corpo fosse stata risparmiata da un’azione di precisa e sistematica violenza. Chi l’ave- va eseguita era sicuramente un allenato professionista.
In paese erano arrivati anche molti abitanti delle frazioni vicine attirati dal suono festante delle campane e dalla luce del falò che illuminava l’oscurità della notte. Qua cuno, che non era a conoscenza dell’arresto dei 18, pensava che fosse finita la guerra ed i tedeschi se ne fosse- ro andati. Altri che fosse scoppiata la rivoluzione e che la popolazione avesse avuto la meglio sui crucchi. Tutti, comunque, furono felici per lo scampato pericolo ed approfittarono dell’assenza dei tedeschi, che erano rimasti chiusi o nell’albergo Fumo o nella casa del Salvetti, intonarono chi “Bandiera Rossa”, chi il “Va’ pensiero”, chi, chissà perché, il “Garibaldi fu ferito”. La gran festa finì solo all’alba con il Ducoli che contava 18 bottiglie di grappa vuote, decine di bottiglie di vino, altrettanto vuote, agli angoli delle strade e almeno cin- quanta ubriachi che dormivano, russando beatamente, appoggiati ai muri delle case.
Alle sette del mattino successivo il prof. Parola entrando in ospedale fu bloccato dalla Cia “Pastera”.

La Cia era una donna di poco più di quarant’anni, magra scheletrica che viveva con due sorelle minori, una delle quali afflitta da un grosso gozzo – cosa abituale in quei tempi e in quelle zone ove l’alimentazione era priva di sufficienti valori nutrizionali – nella vecchia casa di fami- glia. Il soprannome derivava dal fatto che i suoi genitori, dopo una breve parentesi passata da emigranti in America, ove avevano fatto una discreta fortuna, rientra- ti in paese avevano aperto un piccolo laboratorio ove producevano pasta fresca e, soprattutto, dei “casunsei” che erano conosciuti in tutta la valle per la loro bontà. Una specie di ravioli il cui contenuto è fatto da un elaborato miscuglio di erbe alpine e carne di maiale. Veramente si sussurrava che la carne usata per i ripieni fosse quella dei gatti che loro allevavano in grande quantità o che catturavano, con spiccata abilità, tra quelli dei vicini.
Era una donna dal carattere di ferro. Come si diceva allo- ra: una donna con gli attributi. Dopo aver frequentato le prime tre classi elementari era stata mandata dai genito- ri, che non avevano tempo e voglia di occuparsi di lei, presso le suore del paese ove la bambina era stata avvia- ta, con grandi risultati, all’arte del ricamo. A diciotto anni era riuscita, nonostante la giovane età e la totale inesperienza, a lavorare presso un ospedale da campo nelle retrovie del fronte della Grande Guerra.
Rifiutata dai medici per la giovane età li aveva, dopo lunghe insistenze, convinti dicendo che se al fronte andava- no i “ragazzi del 99”, lei, che aveva la stessa età, poteva essere impiegata ad assisterli. Senza preamboli disse al Parola: “So che il Fausto Domeneghini ha riportato delle brutte ferite che potrebbero lasciargli il viso devastato. La prego, signor professore, lasci che sia io a ricucirlo per tentare di salvare il salvabile.” Il professore rimase basito a tale proposta.
Conosceva la Cia per fama sapendo che la moglie le aveva affidato il restauro di vecchi arazzi che, dopo il suo intervento, erano ritornati come nuovi. Sapeva anche della sua esperienza fatta nell’ospedale militare, ma come pensare che la donna potesse entrare, come un normale medico o un infermiere specializzato, in sala operatoria? D’altra par- te, il suo staff di chirurghi era limato all’osso e l’interven- to al viso, per non prolungare troppo l’anestesia al Do- meneghini, avrebbe dovuto essere compiuto mentre lui operava i ginocchi. Si consigliò con i suoi colleghi, chiese l’autorizzazione ai genitori di Fabio e, dopo lunga medita- zione, diede l’autorizzazione all’intervento di Cia. Quando le ferite furono rimarginate e il gonfiore spari- to, il Parola si compiacque con sé stesso per aver accetta- to la collaborazione della donna. Il risultato era inimmaginabile tanto che il Fausto, quando ritornò guarito a casa, fu battezzato “Il merletto”.

 

XLIV

La giornata successiva fu ricca di avvenimenti significativi. L’operazione alle ginocchia di Fausto, che dopo le nume- rose trasfusioni praticategli aveva dato segni di una notevole ripresa, era stata più semplice del previsto. I lega- menti non erano stati offesi in modo serio. Rimosso un menisco ridotto a pezzettini e ricostruita la parte molle, l’intervento era terminato in modo soddisfacente.
Tutta l’equipe medica aveva avuto agio di seguire il la- voro della Cia. Con una pazienza da certosino e con una perizia incredibile aveva preso con una pinzetta le parti di carne lacerate, le aveva rimesse nella primitiva posizione e quindi le aveva cucite l’una all’altra con microscopica precisione. Mai un tentennamento, mai una necessità di rivedere l’operato. Ma soprattutto mai un momento di nervosismo e di repulsione verso la terribile visione del viso di Fausto.
Don Mandelli era giunto a Breno con il treno delle 8,20. Si era recato direttamente alla casa del Parroco ed aveva trovato don Pompeo che si era alzato da poco, dopo la interminabile nottata, e stava facendo colazione. Il Parroco aveva intenzione di recarsi in ospedale ma l’ar- rivo del Segretario del Vescovo lo bloccò. Incaricò l’Elvira di andare a raccogliere notizie, pregandola di fargliele avere al più presto: “Che siano buone, mi raccomando!”

 

Versò una tazza di quello che ci si ostinava a chiamare caffè al collega di Brescia e, il più sbrigativamente possibile, gli raccontò quanto era avvenuto la sera precedente. Non accennò al suo intervento né a quanto aveva raccontato ai tedeschi: lo avrebbe fatto direttamente al Vescovo. Intanto don Arlocchi aveva organizzato tutto perché la messa delle 10 fosse solenne, con la presenza del coro e delle associazioni cattoliche. Don Pompeo offrì al Mandelli di celebrarla quale rappresentante del Vescovo, ma il sacerdote rifiutò dicendosi comunque felice se avesse potuto concelebrarla. La chiesa era stracolma. In prima fila i 17 prigionieri con le loro famiglie e, circondati affettuosamente da tutti, i genitori del Fausto finalmente sorridenti dopo le buone notizie che il Parola aveva loro comunicato personalmente. Giunti all’omelia, don Pompeo salì sul pulpito e guardò il suo gregge, visibilmente commosso.
“Il nostro primo atto doveroso” iniziò, “è di rivolgere a Dio una preghiera di ringraziamento. Diciotto di noi erano in pericolo di vita e lui li ha salvati. Diciotto innocenti che non avevano commesso alcun atto riprovevole stavano per essere puniti duramente. Dio, che sempre dall’alto sorveglia il suo popolo non lo ha permesso. Sia gloria a Dio! Lui ha guidato la mente di qualcuno che, indegnamente, ha portato la sua parola a chi aveva in mano la sorte dei nostri compaesani e li ha fatti ragiona- re. Solo il nostro caro Fausto ha conosciuto la durezza degli aguzzini. Preghiamo perché possa rimettersi al più presto. Ai suoi genitori, che sono un poco più sereni dopo le buone notizie che giungono dall’ospedale, l’ab- braccio di tutta la comunità ed il mio personale. Voglio pubblicamente ringraziare il nostro caro coadiutore don Arlocchi che, con presenza di spirito e con la grande fede che è in lui, ha immediatamente reagito al mio arresto compiendo l’atto che doveva essere compiuto. Informare immediatamente il nostro amato Vescovo che oggi ha voluto partecipare alla nostra gioia inviandoci il suo Segretario particolare. Ed a lui, perché lo porti a sua Eminenza, il nostro grazie. Grazie don Mandelli!
Abbiamo un grande Vescovo. Un uomo che non ha esitato a mettersi in gioco, con grande coraggio e abnega- zione, per salvare le sue pecorelle. Il coraggio di affronta- re il Comando tedesco esigendo grazia per chi era stato derubato della propria libertà e della propria dignità di uomo. Fra pochi giorni festeggeremo Santa Lucia. Preghiamola perché possa aprire gli occhi a tutti i governanti del mondo, affinché cessino le guerre, le lotte tra un popolo e l’altro, tra un gruppo di uomini e un altro che magari parlano la stessa lingua.
Ed ora lasciatemi ringraziare personalmente Dio. In que- ste ultime terribili ore mi sono accorto di non essere sta- to un buon pastore per voi. Ho trascurato di lenire le vostre sofferenze, le vostre solitudini. Di ascoltare, come dovrebbe fare un padre, le vostre parole, le vostre richie- ste. Rispondere ai vostri dubbi con l’esempio che, sempre, un buon pastore dovrebbe dare. Non ne ero capace. Non ne avevo la forza. Ve ne chiedo perdono. Ma vi assi- curo che quanto ho vissuto mi ha rafforzato. Nonostante quello a cui sono stato costretto ad assistere ho riscoperto, al di là del male, l’umanità degli uomini, la gioia del perdono che è l’unica strada che ci può condurre a Dio. Vi prego di aiutarmi e di sorreggermi nel cammino che sto per intraprendere. Avrò bisogno del vostro aiuto e della vostra comprensione perché anch’io sono solo un pover’uomo. Sia lodato Gesù Cristo”.Vi fu un lungo minuto di silenzio. Poi, forse per la prima volta in una chiesa, scoppiò un lungo e caloroso applauso.

 

 

XLV

L o Sturmbannführer, più imbestialito che mai, era partito, insieme al suo autista, per Brescia. Le sei SS, che
si era portato a Breno, vennero sistemate su uno di quei carrelli usati per le verifiche delle rotaie. Agganciato a un treno merci, che portava materiale delle ferriere Tassara, il carrello con il suo carico erano partiti per Brescia. Giunto nei pressi di Costa Volpino il capotreno, che si era segretamente accordato con un gruppo di partigiani, fermò il convoglio simulando un guasto.
Presi alla sprovvista, i militi vennero disarmati dai parti- giani che li avevano accerchiati. Sei mitra, sei machine- pistole, due mitragliatrici leggere ed una valanga di proiettili cambiarono proprietario. Fu identificata la SS che aveva torturato Fausto e che aveva ancora nella tasca dei pantaloni il tirapugni sporco del suo sangue, che l’uomo conservava quasi come un trofeo. Fu fatto spogliare rimanendo in mutande e maglietta. Gli fu legata una corda in vita e l’altro capo agganciato al carrello. Il treno fu rifatto partire ad andatura lenta e l’SS fu costretta a correre, a piedi scalzi, sulle appuntite pietre della massicciata. Quando i piedi diventarono delle masse informi e sanguinolente e l’uomo stava per svenire, il treno si fermò, permettendo ai suoi compagni di riprenderlo a bordo. Lo Sturmbannführer, giunto a Brescia, si recò direttamente al suo comando ove gli fu comunicata la revoca di tutti gli incarichi che gli erano stati affidati e l’ordine di prepararsi a partire per la sua nuova destinazione: il fronte nord-occidentale.“Uomini indegni come Lei” furono le ultime parole che udì dal suo superiore diretto, “sono il grande problema per l’invincibile Armata tedesca! Spero che al fronte si potrà riscattare con una morte onorevole”. Il superiore non fu buon profeta. Un’ora dopo lo Sturmbannführer fu trovato nella sua stanza impiccato.

 

XLVI

Fausto si svegliò dall’anestesia nel tardo pomeriggio. Aveva una forte nausea e si sentiva a pezzi. Le facce sorridenti dei suoi genitori e di don Pompeo gli portarono un po’ di sollievo. Con la bocca ancora impastata e con la pelle del viso che gli tirava tutta, farfugliò un “Salve” chiedendo poi cosa gli fosse capitato. Evidentemente, e per fortuna, lo shock gli aveva cancellato, almeno momentaneamente, i ricordi. Don Pompeo fu poco preciso per non disturbare il feri- to. Gli parlò dell’arresto, di qualche pugno che gli era stato somministrato e, soprattutto, della liberazione e dello smacco che i tedeschi avevano subito. Gli racco- mandò di stare calmo e di riposare. “Ci sarà tutto il tempo per raccontarci nei particolari quello che è successo” disse – e qualcuno dovrà anche parlarti della tua faccia – pensò.

(continua…)

 

E’ morto Gino Strada, generoso e visionario “santo laico”

IL COMMENTO  di Pier Franco Quaglieni

E’ morto Gino Strada, medico fondatore di Emergency,a soli 73 anni. E’ una notizia che colpisce tutti perché Strada è stato un generoso, direi quasi un visionario, potremmo anche definirlo un santo laico che ha gettato la sua vita  al servizio degli altri  con furore (la parola non è fuori posto), come solo i santi, e neppure tutti, sanno fare.

Il prof. Pier Franco Quaglieni

Ha praticato la medicina non per affermarsi professionalmente, ma per dedicarsi a chi si trova in difficoltà. Pochi medici hanno fatto la sua scelta che merita ammirazione e rispetto  non solo perché ogni morto e’  “bello“ come diceva Tolstoj. Strada ha scelto sempre di soccorrere gente disperata , soprattutto vittime di guerra. Il suo era un impegno umanitario e politico che si è realizzato a livello mondiale. Chi scrive è anni luce da molte delle sue idee che non ha mai ritenuto di poter condividere. La stessa idea di Ong  in generale mi suscita riserve e spesso dissento  per ciò che riguarda  in particolare gli sbarchi in Italia. Ma non posso non rispettare un uomo generoso che si è speso con passione per gli altri. Gli sarebbe spettato il Nobel. Se consideriamo che lo ebbe un giullare come Dario Fo che fu anche repubblichino di Salo’ oltre che sostenitore dei terroristi rossi, il Nobel per la pace lo avrebbe meritato a pieno titolo un uomo serio e concreto (la concretezza tipicamente lombarda di chi era nato a Sesto San Giovanni) che non ha fatto ridere il pubblico, ma si è impegnato a salvare  seriamente vite umane. E’ morto proprio quando il suo immenso lavoro in Afghanistan sta per essere distrutto dai talebani . Uno sfregio alla sua memoria. Nessuno – al di là delle divisioni politiche – può non inginocchiarsi di fronte alla sua salma . Mi

irritava  quando lo ascoltavo ospite di Fazio (che non tollero), ma la sua opera umanitaria parla per Lui e dice che è stato un grande. Con linguaggio antico lo definirei un benefattore dell’umanità. Mi infastidiscono gli elogi dei politici nei suoi confronti a partire dal sindaco di Milano. Credo che Strada meriti la sobrietà che ha sempre saputo  dimostrare. La strumentalizzazione politica della sua vita appare fuori posto. Strada ha costruito ospedali, chi parla di lui e si gloria della sua amicizia, sa quasi soltanto fare delle chiacchiere  spesso inutili e quasi sempre inconcludenti.

Il Muro della vergogna 1961/1989

IL COMMENTO  di Pier Franco Quaglieni 

Il Muro di Berlino incominciò ad essere costruito tra il 12 e il 13 agosto 1961 ed oggi resta una pagina di storia dimenticata perché il crollo del comunismo sovietico portò nel 1989 all’abbattimento del muro della vergogna, com’era definito dai democratici.

Io ricordo quell’estate, non avevo ancora quattordici anni e non dimentico le parole severe di condanna di mio padre che per la prima volta mi parlò di comunismo, descrivendomi- avendola visitata di persona – cosa fosse l’URSS e la RDT. Avevo fatto l’ esame di terza media nel giugno 1961 e avevo per conto mio studiato anche la storia contemporanea che non c’era nel libro che finiva con il fascismo e conoscevo le conseguenze devastanti della seconda guerra mondiale che portò la Germania ad essere divisa in due, certo non senza fondate motivazioni perché il mostro del Nazismo avevano sconvolto l’Europa e minacciato da vicino il mondo libero ,per non parlare dello sterminio di 6 milioni di ebrei. Ma i cittadini tedeschi dell’Est non meritavano di passare dalla dittatura hitleriana a quella staliniana. Per impedire il libero passaggio tra le due Germanie, quella comunista e quella democratica, la prima eresse un muro di 156 chilometri alto 3,6 metri. Secondo i comunisti tedeschi che beffardamente definirono la loro repubblica “democratica“  il Muro era in funzione “antifascista “ per impedire alle spie occidentali di entrare a Berlino Est. In effetti venne costruito per inibire il libero passaggio tra le due Germanie e la fuga da una condizione di vita intollerabile ,se paragonata a quella dei tedeschi dell’Ovest malgrado le conseguenze della guerra perduta. La Germania dell’Est era uno Stato satellite dell’URSS, governata con sistemi dispotici, come tutti i Paesi oltre la Cortina di ferro. Il Muro divise per 28 anni le due Berlino e provocò disastri. Più di centomila berlinesi cercarono la fuga nella vera Germania democratica, quella che aveva per capitale Bonn. Furono molte centinaia i morti durante il tentativo di fuga, uccisi dalla polizia, affogati o caduti in incidenti mortali, come, rara avis, ci ricorda oggi il socialista Ugo Finetti.

Ci fu anche gente che si suicidò quando venne scoperta perché la Polizia della RDT era particolarmente efferata. Un vero stato di polizia nel cuore dell’Europa. La devastazione economica della Germania dell’Est creò gravi problemi anche per la riunificazione tedesca dopo il 1989.Va ricordato che il presidente americano Kennedy che non va affatto mitizzato perché commise tanti errori, andò nel 1963 in visita in Germania e disse la celebre frase : ”Io sono berlinese“, solidarizzando con i cittadini dell’Est che si vedevano violati i diritti più elementari. L’Occidente non si mosse come non si era mosso per l’invasione sovietica dell’Ungheria nel 1956. Gli equilibri internazionali erano più importanti della libertà dei Berlinesi. Vale però la pena di sottolineare la follia di costruire un muro per impedire la fuga dall’inferno comunista. Di fronte ad essa il PCI di Togliatti tacque ,anzi fu solidale con la RDT .Basta rileggere i titoli e gli articoli dell’ “Unità“ di quei giorni di Ferragosto in cui quasi tutti pensavano a divertirsi in vacanza. Io ero a Bordighera e in Corso Italia vidi alcuni giovani che distribuivano dei volantini di condanna.

Mi venne spontaneo dar loro una mano : fu il mio battesimo alla politica. Nel 2019 andai a Berlino per ricevere un riconoscimento e ricordo la tristezza di quella città che aveva aggiunto alla tragedia nazista quella comunista e non si era ancora ripresa .La grande Berlino prussiana era stata cancellata e la Porta di Brandeburgo appariva un reperto archeologico. Inutilmente pensai alla Germania di Kant  di Ficthe, di Hegel, di Nietzsche, di Beethoven, dei grandi storici e filologi. Restava solo il fantasma di un Marx che mi appariva il primo tradito. La sua utopia libertaria ed egualitaria diventò un regime sanguinario in cui veniva calpestata la dignità stessa delle persone. Non furono giorni piacevoli di vacanza. Ma vidi in ogni dove i fantasmi delle due dittature, nazista e comunista, che dominarono il ‘900. Una tragedia agghiacciante di cui il muro resta una delle testimonianze più ignobili e intollerabili.

I teatri torinesi: Teatro Colosseo

Torino e i suoi teatri

1 Storia del Teatro: il mondo antico
2 Storia del Teatro: il Medioevo e i teatri itineranti
3 Storia del Teatro: dal Rinascimento ai giorni nostri
4 I teatri torinesi: Teatro Gobetti
5 I teatri torinesi :Teatro Carignano
6 I teatri torinesi :Teatro Colosseo
7 I teatri torinesi :Teatro Alfieri
8 I teatri torinesi :Teatro Macario
9 Il fascino dell’Opera lirica
10 Il Teatro Regio.

6 I teatri torinesi: Teatro Colosseo

Come si suol dire “c’è sempre una prima volta”, e in genere è vero, quello specifico momento non si scorda mai.
Questo articolo inizia così, con il felicissimo ricordo del primo concerto a cui sono andata.
Erano i tempi delle scuole medie, quando i papà devono accompagnarti in giro e poi venire a riprenderti, quando le amiche e compagne di banco condividono con noi emozioni, sogni ed esperienze, quando la possibilità di conquistare il ragazzo di terza – o addirittura delle superiori – è la stessa che uscire con la propria “star” del cuore: nulla.
Chissà se la mia amichetta dell’epoca lo rammenta ancora? Il fragore della folla, la felicità di cercare i posti a sedere, le luci che si spengono, gli occhi azzurri di Nek che lampeggiano nel buio come i fari dietro le quinte.
Le canzoni gridate a squarciagola sono ancora oggi fotografie stampate e gelosamente conservate nel mio album dei ricordi, testimonianze di vita, rimembranze dal sapore “vintage”, prova dell’esistenza di un’epoca priva di “social network”, quando stampare era un rito importante e costoso, non solo una moda lanciata dalle “app” più in voga del momento.
Utilizzando l’ “escamotage” stilistico della metafora, la vicenda del Teatro Colosseo è paragonabile ad una raccolta in nuce di stati d’animo, meraviglie, applausi, flash e luci dei cellulari, una specie di collezione appena iniziata che si spera possa ampliarsi ancora per moltissimo tempo.

Il Colosseo è infatti uno dei teatri più recenti del capoluogo piemontese; esso sorge nel rumoroso quartiere di San Salvario, vicino al rigoglioso Parco del Valentino. La struttura, risalente alla fine degli anni Sessanta, è compresa in un signorile palazzo decorato di via Madama Cristina 71, mentre l’accesso tondeggiante fa angolo con via Bidone.
Eppure, nonostante la giovane età, il Colosseo è annoverato tra i più importanti teatri torinesi, questo perché chi si è occcupato di gestire il teatro ha sempre dimostrato grande abilità nell’organizzare non solo spettacoli di prosa, ma anche “performance” di personaggi di fama, conferenze e concerti di artisti italiani ed internazionali.
Conosciuto soprattutto nel frangente musicale, il Colosseo è una sorta di tappa obbligata di varie “tournée” di cantanti contemporanei e tutt’oggi si conferma come uno dei palchi maggiormente frequentati da personalità assai note.
Quando viene edificata, la struttura è pensata per ospitare una palestra di pelota, dopo qualche tempo però la sua funzione muta e diviene sala cinematografica; è tuttavia necessario attendere gli anni Ottanta affinché gli spazi siano definitivamente adibiti ad ospitare rappresentazioni teatrali.
Questo ultimo cambiamento si deve al siciliano Francesco Spoto, fondatore, proprietario dello stabile, ed effettivo “papà” del teatro.
Francesco è originario di Lentini, a sedici anni giunge a Torino e da quel momento in poi dedica anima e corpo alla città sabauda. Nel 1981 compra l’edificio che avrebbe preso il nome di “Colosseo”, pian piano, grazie al suo atteggiamento sicuro e forte, l’imprenditore rende la struttura un punto nevralgico dell’intrattenimento torinese, dando vita ad un vero e proprio teatro moderno.

Egli finanzia, sul finire degli anni Ottanta, il primo spettacolo teatrale del celebre trio Lopez Solenghi Marchesini. In tale occasione, Spoto, dotato di evidente acume imprenditoriale, paga in anticipo i tre artisti con ben tre settimane di tutto esaurito, ancora prima che questi finissero di scrivere la sceneggiatura dell’esibizione. La buona fede e il fiuto di Francesco risultano ben riposti, il successo dello “show” supera di gran lunga le aspettative, tanto da vincere il Biglietto d’Oro (1987) per il maggior incasso teatrale dell’anno.
Ad oggi il teatro rimarca la sua importanza con una capienza decisamente notevole, di circa 1.503 persone; all’interno la struttura presenta un’ampia sala, adibita a contenere il pubblico, puntellata di poltroncine in velluto rosso e suddivisa in due settori, Platea e Galleria.
L’esterno è altresì al passo con i tempi: impattanti murales colpiscono lo sguardo e testimoniano la realtà della “street art” torinese.
Per sottolineare la centralità del teatro nella scena della città subalpina, non posso a questo punto esimermi dall’accennare a qualche nome di alcuni degli artisti più illustri che si sono esibiti proprio su questo palco.
Per quel che riguarda il contesto musicale, è giusto ricordare Domenico Modugno, Lucio Dalla, Angelo Branduardi e Gianna Nannini. Non meno importanti sono gli artisti internazionali passati di qui, tra cui lo statunitense Barry White, che si esibisce a Torino nel 1990, o ancora, sempre nello stesso periodo, Joen Baez e Gloria Gaynor.
In tempi decisamente più recenti il teatro ospita l’italo-albanese Ermal Meta, che nel 2018 decide di chiudere proprio qui, davanti al pubblico del Colosseo, il suo tour “Vietato Morire” basato sulla omonima canzone con cui ha vinto il “Premio della Critica Mia Martini 2017”.

Per quel che riguarda la recitazione, il 2013 è un anno particolarmente fortunato, poiché due figure emblematiche della scena italiana riempiono con i loro monologhi la sala del teatro e il cuore degli spettatori. Nell’aprile di quell’anno Gigi Proietti propone “C’è gente stasera?”, titolazione che prende ironicamente spunto dalla più tipica e temuta domanda di ogni teatrante; nel dicembre sempre 2013 il premio Nobel Dario Fo debutta con “In fuga dal Senato”, spettacolo attraverso cui porta avanti le battaglie sociali della moglie Franca Rame.
Permettetemi ora una minuscola divagazione proprio su quest’ultimo aspetto.
Ho già avuto modo di esporre il mio personale punto di vista sul mondo dell’arte e dello spettacolo, credo fermamente che queste dimensioni debbano sopravvire al tempo, alle mode e alle abitudini, a tutti i costi, poiché “L’arte è una bugia che ci fa realizzare la verità” (Picasso).
Scopo del teatro non è solamente quello di intrattenere, al contrario ciò a cui assistiamo deve portarci a pensare, ragionare, deve scuoterci dentro e renderci ancora più attenti alle complessità del mondo in cui viviamo.
Lo spettacolo è di certo anche critica, statira, denuncia.
Dario Fo, in quell’occasione in particolare, propone una “performance” complessa, una miscela di letture, idealismo e voglia di rivincita sociale, tutto basato sull’omonimo testo autobiografico della moglie, che racconta in quelle pagine la sua breve ma sentita esperienza come senatrice tra il 2006 e il 2008.
Si ride e si scherza, con le parole di Fo, ancora udibili da qualche parte su youtube, ma si riflette anche, allora forse più facilmente di oggi, poichè con la scusa del “politicamente corretto” la censura dilaga, zittendo anche chi ha fatto della parola il suo mestiere.
Per fortuna, ora non rimane in silenzio il Colosseo, che riparte dopo il traumatico periodo di chiusura pandemica, con un calendario ricco di appuntamenti, di ospiti e celebrità.
“Largo ai giovani” dunque, che questa esortazione valga in senso lato, per persone, edifici e gestioni; va da sé, il confronto con le esperienze dei colossi storici è assai difficoltoso, ma tra un Regio e un Carignano, ricordiamoci di far qualche volta visita anche al moderno e “sbarbato” Colosseo.

Alessia Cagnotto