LIFESTYLE- Pagina 32

“Sprissetto”, l’aperitivo sotto la Mole

Classico, Bitter, Venezia, Eden e Sud sono le varianti di Sprissetto che trovate da Borello Supermercati, scelto come pioniere di prodotti locali e in questo caso di un nuovo aperitivo piemontese

Partendo dall’aperitivo per antonomasia, Marco Lo Greco fondatore di Sprissetto, inizia a immaginare il suo nuovo modo di concepire l’happy hour. Un progetto curato per tre anni, culminato nel 2021 con la commercializzazione del primo prodotto nel mercato HO.RE.CA, successivamente importato in Australia e ora, con la collaborazione di tre soci, presente in 15 paesi nel mondo.

Marco, classe 1991, vanta una carriera decennale come bartender e una formazione nell’ambito del design, questo percorso gli ha permesso di studiare i prodotti a 360°, dagli ingredienti fino all’etichettatura.

Le ricette sono ispirate alla tradizione liquoristica italiana e realizzate artigianalmente con ingredienti naturali come erbe amaricanti, scorze di agrumi, spezie e frutti. Questi liquori sono perfetti per creare i cocktails da aperitivo più celebri, tra cui lo Spritz, l’Americano e il Negroni.


Il brand Sprissetto è stato ideato prendendo ispirazione dal Veneto in quanto patria dell’aperitivo e dal suo dialetto, l’etichetta è stata disegnata da Marco che con il suo passato nel design ha saputo abilmente mixare font semplici e giovani con il giusto spazio per la lista ingredienti così da rendere i consumatori informati.

Classico, Bitter, Venezia, Eden e Sud sono le varianti di Sprissetto che trovate da Borello Supermercati, scelto come pioniere di prodotti locali e in questo caso di un nuovo aperitivo piemontese.

Eleonora Persico

La bottiglia senza “buscion”

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La primavera stava per lasciare, senza grandi rimpianti, il passo all’estate. Grandi nuvole nere s’addensavano sulla vetta delle montagne. L’aria si fece elettrica, segno che il temporale stava per scatenarsi. Audenzio Remolazzi , intento a falciare il fieno nel prato, guardò il cielo che si faceva sempre più scuro e s’affretto a raccogliere quant’aveva tagliato per evitare che la pioggia imminente facesse marcire il maggengo.

Tra sé e sé disse : “Ah, quando il monte mette il cappello, conviene lasciare la falce e metter mano al rastrello”. E diede voce anche a Bartolo che stava riposandosi appoggiato con la schiena  al tronco di un melo. “Oh.. Sacrebleu”, fece quest’ultimo, stirandosi. “Ho dormito come un sasso Colpa della frittata con le cipolle che è come una droga; mi piace ma mi crea un peso sullo stomaco che chiama l’obbligo di un riposino”. Guardò il cielo e borbottò: “Secondo me, Audenzio, è un temporale varesotto, poca acqua e gran casotto”. Tanto rumore per nulla, dunque? Nel dubbio, per non saper leggere e scrivere, s’impegnarono entrambi a rastrellare il fieno per poi raccoglierlo nel covone che andava coperto con una cerata. Ma più che dal cielo e dal temporale, il rumore più forte veniva dalla strada che saliva verso la Contrada delle Ciliegie. Stava passando una moto Guzzi, guidata dal proprietario, tal Arturo Brilli. Pareva un aeroplano intento a rullare sulla pista prima del decollo.” Guardalo là, l’Arturo. Sta passando con la sua moto taroccata che fa un gran fracasso e poca strada. Guarda che scia di fumo che lascia! Per me gli manca  qualche rotella in testa. Va sempre in giro colorato come l’Arlecchino di carnevale, cantando a squarciagola le canzoni d’osteria. Ah, no c’è più religione. Son diventati tutti matti”.

 

Audenzio Remolazzi, in pensione dopo quasi quarant’anni passati in fabbrica, era fatto all’antica. Scuoteva la testona per mostrare tutto il disappunto per le abitudini di quel “ragazzaccio” che non aveva nessuna voglia di lavorare e, giunto ormai alla soglia dei quarant’anni, non riusciva a smettere di essere quel che era: un pelabròcch, un buono a nulla. Da una settimana i suoi vecchi genitori erano partiti per il mare della Liguria con il viaggio organizzato da Don Goffredo per i pensionati della parrocchia e lui che faceva? Se la spassava, avanti e indietro, a zonzo. “E’ proprio vero il proverbio: via il gatto, ballano i topi. Eh,sì. E quel topo lì, in assenza dei suoi che lo frenano un po’, si scatena a ballare giorno e notte”. Remolazzi, appena mi ha visto uscire dal bosco con in mio bastone da passeggio, ha subito attaccato bottone anche con me. “Ma l’ha visto l’Arturo, quella canaglia? Pensi che ieri sera dava del tu al prevosto come se fossero vecchi amici. Io glielo avevo detto a don Goffredo, di non dargli troppa confidenza. Eh sì, che glielo avevo detto; la troppa confidenza fa perdere la riverenza. Ma lui, uomo di chiesa sempre in giro a cercar di salvare anime, niente. Mi ha risposto di aver pazienza, di aver fiducia che il “ragazzo, crescendo, capirà come comportarsi”…Ha capito? Deve ancora crescere, quel furfante del Brilli.

 

Roba da matti”. A dire il vero era difficile dar torto a Remolazzi ma che si poteva fare? Se non erano riusciti i suoi genitori a “raddrizzarlo” fin da piccolo, figurarsi ora che aveva passato i quaranta e aveva la testa più matta che mai. Tra l’altro, aveva il vizio di bere. Era uno di quelli che – per far in fretta a tracannare – stanno sempre con la bottiglia “senza buscion”, senza tappo. Pensate che una volta si era preso una sbornia tale che scambiò la barca a remi di suo padre per un motoscafo e gridò a tutti che gli avevano rubato il motore. Si recò persino al commissariato dei Carabinieri per sporger denuncia, picchiando pugni sul tavolo e urlando come una bestia, tanto che al povero maresciallo Valenti e al suo fido aiutante, il  brigadiere Alfio Romanelli, non restò altra soluzione che sbatterlo in gattabuia per qualche ora, finché gli si diradassero i fumi dell’alcool. Visto che nei circoli, nei bar e nelle osterie del paese e dei dintorni si guardavano bene dal dargli da bere perché esagerava e dava in escandescenze, il Brilli, tenendo fede – ironia della sorte – al suo stesso cognome, pigliava il treno o il battello e andava a “tracannare” in altri lidi, cambiando destinazione di volta in volta.

A chi cercava di moderarlo, come è capitato talvolta anche a me, rispondeva che “Quando c’è la sete, la gamba tira il piede”. Un modo per dire che, pur di soddisfare il proprio bisogno, non contava la distanza. Il maresciallo Valenti era stato testimone di un altro episodio. Un sabato sera, di turno con una pattuglia per i consueti controlli sul rettilineo che porta dal paese a quello confinante, più o meno all’altezza della seicentesca chiesa della Madonna del Carmine, incrociò il motocarro di Giovanni Guelfi con a fianco Arturo. La cosa strana era che quel motocarro era privo del vetro anteriore e in quelle condizioni non avrebbe potuto circolare. Il mezzo del Guelfi, a causa del gelo di quell’inverno che tutti ricordavano tar i più rigidi degli ultimi anni, aveva subito dei danni e il più serio tra questi era l’aver sottovalutato la crepa che, in meno di un amen, aveva provocato la rottura in mille pezzi del vetro.  Pur essendo ormai sul finire della primavera, non aveva ancora provveduto a sostituito. Andava in giro così, faccia al vento, evitando di circolare nei giorni di pioggia. Quella sera, appena videro l’Alfetta dell’Arma sul ciglio della strada, imprecarono alla sfortuna. Guelfi voleva fare una inversione a “u“ e tornare indietro.

Fu Arturo adavere, tuttavia, una brillante idea: far finta che il vetro fosse al suo posto, integro. E come? Con il più semplice degli accorgimenti: facendo finta di pulirlo con un fazzoletto. Così passarono, con noncuranza, davanti agli attoniti carabinieri. Mentre Giovanni guidava, fischiettando il ritmo di una polka, Arturo s’impegnò a “pulire” l’inesistente vetro con un grande fazzoletto bianco. Il maresciallo Valenti, a bocca aperta, se li vide passare davanti al naso con il fazzoletto svolazzante e i capelli scompigliati dal vento. Il dubbio che l’avessero fatto apposta, con quel candido fazzoletto che – agitato in aria – sembrava v
oler far “marameo” ai tutori dell’ordine, non abbandonò mai il maresciallo. Ma volete mettere l’alzata d’ingegno, il tocco d’artista, la prova di disperato e incosciente “coraggio”? Così la raccontò, scuotendo la testa, Audenzio Remolazzi. Nel frattempo, con l’aiuto di Bartolo, avevano raccolto e messo al sicuro il fieno. Appena in tempo per evitare il peggio, considerato che non si trattò di un “temporale varesotto” ma di un acquazzone in piena regola
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Marco Travaglini

Spotorno e Noli, il mare a due passi dal Piemonte

Quando si parla  della nostra regione spesso, e con poco entusiasmo, si evidenzia che non c’è il mare.

 

E’ vero il Piemonte non è deliziato da nessuna spiaggia, è geograficamente innegabile ma raggiungere splendide coste e deliziosi borghi marini non è una impresa troppo avventurosa.

 

Con un ora e mezza di macchina, prendendosela comoda e traffico permettendo soprattutto nei week end estivi, si arriva nella vicina e ridente Liguria. Percorrendo infatti l’autostrada Torino-Savona si possono raggiungere destinazioni davvero incantevoli che meritano attenzione almeno quanto le desiderate e gettonate mete costiere del sud. Spotorno e Noli, mete liguri tra le più vicine partendo da Torino, sono due piccoli e gradevoli gioielli curati dove passare qualche giorno o semplicemente fare una gita in giornata.

Spotorno, la prima venendo da Savona, contigua a Bergeggi, è situata nella Riviera di Ponente tra Punta del Maiolo e Punta del Vescovado. E’ caratterizzata da una lunga spiaggia sabbiosa e piccoli ciottoli con molti stabilimenti balneari coloratissimi, ariosi e spaziosi tra cui uno dedicato ai nostri amici pelosi, la spiaggia attrezzata dedicata ai cani Pluto Beach. Il lungomare è decorato da piccoli giardini, fascinose ville dai colori vivaci,  hotel, locali e il martedì un simpatico mercatino crea movimento e vitalità .Accogliente, allegra e frequentata, moderatamente meno delle colleghe più “alla moda”, questa piccola cittadina, oltre alla spiaggia, ha un bel centro storico, caratteristici carruggi (i vicoli tipici delle cittadine liguri), case variopinte con balconi fioriti, la chiesa della Santissima Annunziata con opere d’arte del ‘600 e ‘700, graziosi negozi e locali dove fare shopping estivo e godersi un aperitivo o una cena col rumore delle onde in sottofondo. Se si ha voglia poi di girare nell’entroterra, all’interno del Parco del Monticello è possibile visitare l’Oratorio di Santa Caterina, caratteristico per la facciata in stile barocco, e il Castello, originario del XIII secolo ma riedificato dopo l’abbattimento nel XVI secolo, parte integrante di un sistema difensivo insieme alle torri e ad una struttura quadrangolare, costruito per far fronte ai frequenti attacchi di quel periodo da parte dei Saraceni. Il mare cristallino e dalle diverse sfumature di azzurro, nuovamente bandiera blu dopo diversi anni, vanta aree naturali riconosciute e protette come quella della vicinissima Isola di Bergeggi, sito di interesse comunitario (SIC).

Più avanti percorrendo l’Aurelia, 15 minuti a piedi se si ha voglia di camminare godendosi il panorama, troviamo Noli. Questo delizioso borgo medievale, considerato uno tra i più belli della Liguria, e inserito nella guida dei “Borghi più belli d’Italia, è apprezzato sia per le sue spiagge e meravigliose calette nascoste   ma anche per i  retrostanti e rilassanti paesaggi montani. Diversi sono i sentieri e le aree verdi da percorrere in alternativa all’escursione  marina. Tra i più suggestivi troviamo il Sentiero del Pellegrino, circondato da bellezze naturalistiche, storiche e archeologiche che con 2 ore e mezzo circa di cammino porta dal Collegio e Chiesa di San Francesco fino alla Baia dei Saraceni per poi terminare al borgo di Varigotti.

Arrivando a Noli si notano subito la cinta muraria, le due torri medievali, quella dei quattro canti e quella comunale, il Palazzo del Comune, simbolo dell’antica Repubblica di Noli, mentre il Castello domina e signoreggia dal monte Ursino. Dante  citò Noli nella Divina Commedia, nel Purgatorio, e diversi furono i personaggi illustri, come Giordano Bruno e Cristoforo Colombo, che di passaggio nel borgo lasciarono tracce della loro visita.

Percorrendola all’interno, nelle minuscole vie d’altri tempi non può sfuggire il suo patrimonio architettonico-artistico fatto di Chiese, come quella di San Paragorio dell’XI secolo o quella di San Pietro, la nuova Cattedrale del XII, che si trova nell’omonima piazza. Anche qui il Castello, che si può raggiungere a piedi sebbene il marciapiede non sia sempre presente, si ergeva a difesa della cittadina. Per visitarlo all’interno è preferibile verificare gli orari, ma qualora non fosse aperto la vista che offre la sua posizione  vale comunque la passeggiata.

In tardo pomeriggio e in serata questo borgo e il suo lungomare, diventano magici e pieni di atmosfera grazie a numerosi locali, ristoranti, candele accese, aperitivi, negozi caratteristici che creano uno scenario di relax e divertimento gioioso e vacanziero.

MARIA LA BARBERA

 

Infospotorno.com

Infonoli.com

Al G7 una Vodka di qualità prodotta a Moncalieri da Davide e Michelangelo Rossotto

Durante il G7 a Borgo Egnazia i Leader mondiali tra l’altro han trovato una Vodka di ottima qualità distillata a Moncalieri e nata da una idea di Davide e Michelangelo Rossotto. Peccato, si fa per dire, che mancasse, per i noti motivi Vladimir Putin. La Vodka SILLA viene prodotta con acqua che sgorga ai 2000 metro del Monviso e da frumento tenero selezionato e certificato.

Cocktail Bar Bistrot L’Opera di Santa Pelagia apre a Torino

Ha aperto a Torino il 18 giugno 2024 il Cocktail Bar Bistrot L’Opera di Santa Pelagia che vede in cucina Giuseppe La Salvia e la consulenza dello chef Ivan Milani
La location è ideale per un aperitivo con Le tentazioni della Santa (tapas che escono dalla cucina), ma anche per un pranzo o una cena e dispone di due eleganti sale interne e di un dehors che affaccia sulla vicina chiesa di Santa Pelagia, protettrice degli artisti. Il Cocktail Bar Bistrot L’Opera di Santa Pelagia è un luogo contemporaneo che valorizza il gusto classico attraverso un approccio decorativo che ha dato vita ad ambienti in cui anche l’ironia trova il suo posto. 
 
La cucina proposta è quella italiana ma non priva di contaminazioni internazionali e sviluppa percorsi differenti: monopiatti (anche in porzione ridotta) per il pranzo; Le tentazioni della Santa e piatti dedicati per la cena. E così si spazia dall’Insalatona della Santa (foglie, cruditè, semi, frutta secca, Montebore, uovo) alla Melanzana cotta alla brace con tahini e labane, dallo Spaghetto Monograno Felicetti con filetto di acciughe, pomodori secchi, finocchietto e pan brioche al filetto di maiale con bietole ripassate. Per la cena ecco Vitello tonnato alla maniera antica, Plin della tradizione al sugo d’arrosto o ancora Petto d’anatra servito con il suo fondo e cipolle bianche. 
La carta dei vini conta un centinaio di referenze legate al territorio con particolare attenzione ai vitigni autoctoni e ai piccoli produttori a cui si aggiunge una piccola selezione di champagne. 
 
“La nostra scelta – spiega Ivan Milani – è quella di proporre in una location confortevole la possibilità di costruire la propria esperienza gastronomica secondo gusti e desiderata di ognuno con un’attenzione al Piemonte e all’Italia fornendo sempre un taglio internazionale e con la possibilità di scegliere sempre una proposta vegetariana. Il lavoro di ricerca che portiamo avanti in cucina con Giuseppe La Salvia è alto a cominciare dalle materie prime ricercate, ma anche attraverso la realizzazione della panificazione interna, di produzioni come yogurt, kefir o formaggi freschi, diversi fermentati. Questa scelta, che guarda molto ad un approccio da alta ristorazione, rispecchia il mio trascorso personale e guarda molto a Giappone e Medio Oriente, culture per me molto importanti. Ecco perché qui si possono trovare sashimi in varie forme, fermentati o l’utilizzo di miso e shoyu”. 
 
Discorso analogo per il bere, curato dal barman Marco Fabbri con una lista cocktail che spazia dai grandi classici ai signature come: 1772 (anno di consacrazione della Chiesa adiacente dedicata alla santa) su base gin e vermouth ambrato con chartreuse gialla per richiamare la liquoristica antica e chiaro riferimento al Bijou cocktail; Non sono una santa: un drink floreale e agrumato su base vodka servito in coppetta come se fosse un cocktail Martini rivisitato  e realizzato con un cordiale a base di rose e scorze di bergamotto e un Dom Benedictine. 
Per accompagnare la carta e i drink ecco ceci croccanti alle spezie, olive al forno, ravanelli, kefir e terra di malto, ma anche Le tentazioni della Santa vegetali, di pesce e di carne: dai fiori di zucchina in tempura alle panelle, dall’Ostrica con tapioca e aceto di riso ai Calamari in guazzetto, dal Pollo in salsa teriyaki a Pane e salame (il Nobile del Giarolo).
 
Il Cocktail Bar Bistrot L’Opera di Santa Pelagia si trova in via San Massimo 17 a Torino ed è aperto dalle 12 alle 14:30 da martedì a domenica e dalle 18 alle 23:00 da lunedì a sabato sera. Il locale fa capo a un gruppo di imprenditori vocati all’accoglienza che nel 2015 ha aperto la Residenza dell’Opera situata sopra il Bistrot e nel 2019 ha inaugurato anche Opera 35, il Boutique Hotel con 40 camere in via della Rocca 35 a Torino. 
 
Gli chef
Ivan Milani
Classe 1971, Ivan Milani si avvicina alla cucina da autodidatta dopo un percorso che dalla gestione di sale cinematografiche l’ha portato a rilevare nel 1997 lo storico Caffè Elena di piazza Vittorio a Torino trasformandolo nel primo wine bar di livello in città. Ivan Milani ha alle spalle importanti esperienze nel mondo della ristorazione tra cui il San Quintino Resort di Busca (Cn), Piano 35 a Torino, Al Pont de Ferr di Milano, Villa Monty Banks a Cesena. 
 
Giuseppe La Salvia
Nato a Torino, classe 1989, ha sviluppato fin da giovane un profondo interesse per la gastronomia. Dopo aver completato la sua formazione in scuole di cucina, ha iniziato la carriera lavorando in vari ristoranti della città. La svolta professionale è arrivata con l’opportunità di lavorare come chef al bistrot del Relais San Maurizio, nelle Langhe, dove per nove anni ha potuto esprimere appieno la sua creatività culinaria. Il suo approccio alla cucina si distingue per la capacità di esaltare i sapori autentici della tradizione, arricchiti da un tocco contemporaneo.

Il barman
Marco Fabbri, 25 anni, torinese, dopo gli studi si è formato presso il Caffè Stratta, per poi lavorare al Golden Palace Luxury Hotel di Torino. Dal 2020, Marco è approdato al D.ONE Torino, dove continua a esprimere la sua creatività e innovazione attraverso la creazione di nuovi cocktail e la gestione del bar. Ha partecipato a numerose competizioni, vincendo il Mix Contest Torino nel novembre 2021 e il BarItalia 2021 per il miglior drink con Amaro Nonino. Inoltre, ha collaborato con Martini per il catering di bar durante eventi esclusivi di Dolce & Gabbana e ha rappresentato Varnelli al Salone del Gusto 2022. Attualmente è il Brand Ambassador per E BON Vermouth e continua a dedicarsi con passione al mondo del bartending e dell’ospitalità.
 
Per maggiori informazioni: www.operadisantapelagia.com
Prenotazioni al numero: 339.8445525

Animali, spettacoli e magia al bioparco Zoom

Quest’estate, un palinsesto ricco di novità animerà Zoom fino a tarda sera con tantissimi eventi e con un’offerta di intrattenimento capace di coinvolgere, divertire e educare.

Esibizioni teatrali al chiaro di luna, show di magia e abili illusionisti, animazione per bambini e, a partire da luglio, tanta musica live.

Il 21 giugno (ore 20.45) in occasione della Giornata Mondiale della Giraffa, ospite d’eccezione il duo Gi&Raf: Raf, ventriloquo, illusionista ed attore salirà sul palco insieme all’inseparabile e dispettosa giraffa Gi.

il 22 e 29 giugno (ore 21:45) le due Magic Night con Luca Bono: giovane illusionista, campione italiano di magia.

Quando ci si divertiva con poco

I giochi, al tempo dell’infanzia nei primi anni sessanta del secolo scorso a Baveno, sul lago Maggiore ( fa persino effetto a immaginare lo scorrere del tempo..) erano molto semplici e ci si arrangiava con ciò che avevamo a disposizione. Non saranno stati un granché ma, accompagnati da una buona dose di fantasia – che, fortunatamente, non mancava –  erano pur sempre meglio di niente. In fondo, di alternative non ce n’erano e conveniva accontentarsi. Così, la vecchia cascina diventava un fortino delle giacche blu che presidiavano la selvaggia frontiera del West e l’impolverato calesse padronale del cavalier Castiglioni, ricoverato nello stabile adiacente, si trasformava in una diligenza pronta ad attraversare la prateria da un paese all’altro, tra l’Arizona e il Texas. I rocchetti del filo di tessitura – grigi coni di cartone pressato – infilati uno sull’altro, formavano delle lance che nemmeno i cavalieri medioevali potevano permettersi nei tornei dove mettevano in mostra il loro ardimento.

L’arrugginito marchingegno per l’intrecciatura della canapa, dal quale uscivano lunghe e robuste corde, immaginavamo fosse una straordinaria arma in dotazione a civiltà extraterrestri, abbandonata alla fine di antiche colonizzazioni del nostro pianeta. Le letture delle mirabolanti avventure contenute nei libri di Jules Verne, il fascino delle foreste del grande nord che scaturiva dalle pagine de L’ultimo dei Mohicani di Fenimore Cooper, la vita ribelle e trasgressiva, ricca di colpi di scena, dei pirati della Malesia capitanati da Sandokan e dal fido Yanez, contribuivano a far galoppare la fantasia sui prati e tra gli alberi della Tranquilla. Se a colmare le ore delle sere d’estate erano i racconti avidamente consumati, insieme alla vista, sfruttando la luce fioca delle lampadine alimentate con la corrente a 160 volt, o il giocare a nascondino con i ragazzi che venivano in villeggiatura dalla provincia di Varese  che, per noi, erano “i milanesi”, d’inverno ci si scapicollava sul prato innevato in ardite discese con la slitta.

Ovviamente le battaglie a palle di neve non mancavano così come la costruzione di sgraziati pupazzi di gelo, con tanto di pezzetti di corteccia per gli occhi e la bocca, una carota al posto del naso e una vecchia berretta colorata a fare da copricapo. Mai che ne venisse uno decente, però: erano goffi e flaccidi oppure rachitici e tremolanti. La neve si mangiava, a quel tempo. “Liscia” o con un po’ di limone che, almeno nelle intenzioni, non solo le dava quel poco di gusto ma contribuiva  a disinfettarla da tutti quei microbi ( tanti, troppi) che raccoglieva scendendo lenta e soffice fino a posarsi a terra.

Con i legni di nocciolo, robusti ed elastici, si confezionavano archi e frecce. Viceversa gli stretti tubi di celluloide che dovevano ospitare i cavi elettrici ( ce n’era una buona quantità nel magazzino abbandonato sopra alla fabbrica del signor Arrivabene) diventavano – una volta sezionati nella giusta misura – delle micidiali cerbottane. I proiettili abbondavano, grazie a quelle palline dell’infiorescenza delle palme che in gergo erano ribattezzate “ball da can”. Davanti alla fabbrica Shelling, dove si producevano scardassi – pettini d’acciaio per cardare la lana – c’era un grande palmizio ( tutt’ora è lì, seppur molto malandato) che regalava delle piccolissime noci di cocco, in tutto e per tutto uguali a quelle più grandi ma che non arrivavano nemmeno a eguagliare la misura di una pallina da ping-pong. Erano buonissime e le aprivano con il martello. Anche a mia madre piaceva la polpa delle noci di cocco e quand’era il tempo della festa patronale di Baveno, a giugno ( i santi Gervaso e Protaso ) ne acquistava dei pezzi dai venditori che li esibivano in quantità su quelle strane fontanelle a piramide. E, accanto al cocco, era difficile resistere alla tentazione dello zucchero filato, del croccante alle mandorle e alle nocciole, delle rotelle di liquirizia, con buona pace per dentisti e dietologi. Erano tempi in cui ci si accontentava di poco. E quel poco di cui si disponeva non era mai troppo.

Marco Travaglini

Insalata di pasta alla greca ideale per il clima estivo

Protagonista dell’estate, l’insalata di pasta e’ una valida alternativa all’insalata di riso, ideale per un picnic o da portare in ufficio per la pausa pranzo. Un piatto sfizioso e pratico che si puo’ preparare in anticipo in tantissime varianti gustose e profumate.

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Ingredienti

320gr. di pasta corta integrale

2 pomodori maturi

1 piccola cipolla

Olive nere

125gr. di Feta (formaggio greco)

Basilico, olio, sale q.b.

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Cuocere la pasta in acqua salata, scolare e lasciar raffreddare. In una padella scaldare due cucchiai di olio, soffriggere una piccola cipolla affettata, unire i pomodori privati della pelle e tagliati a dadolata, lasciar cuocere sino ad ottenere un sughetto denso, salare e profumare con due foglie di basilico e le olive nere denocciolate, lasciar insaporire e raffreddare. Condire la pasta con il sugo e cospargere con il formaggio Feta sbriciolato. Servire fredda.

Paperita Patty

La felicità si può imparare

Spopolano i corsi di psicologia positiva, qualsiasi cosa pur di essere felici.

Già da qualche tempo, soprattutto durante e dopo il periodo pandemico, si sono moltiplicati i corsi di psicologia positiva, una didattica che insegna la felicità o perlomeno propone una strada in discesa per raggiungerla utilizzando regole, suggerimenti precisi e anche la pratica. Non solo, quindi, teoria o ipotesi sul come spingersi versolo stato di grazia tanto ambito, ma una scienza vera e propria che si avvale di lezioni e compiti a casa. I numeri sono da capogiro. Un esempio? La psicologa Laurie Santos, insegnante a Yale ha 3,8 milioni di iscritti in tutto il mondo e il suo è corso più seguito in più di 300 anni di storia dell’Università; inoltre è stato creato un podcast –  “Happiness Lab”- che conta più di 65 milioni di download. Il corso “Leadership and Happiness” dell’Università di Harvard, invece, esaurisce regolarmente i 180 posti a disposizione, per coloro che non riescono a partecipare in presenza le lezioni sono garantite online.

Sembra quindi che, anche se non si è nati con il dono della letizia, sia possibile impararla, sia concepibile acquisire nozioni su come conquistarla, su come essere felici.

Ma cosa è la psicologia positiva? Di cosa si occupa?

Il benessere personale e la qualità della vita sono l’obiettivo, il centro e l’oggetto di studio della “psicologia positiva”. Secondo Martin E. P. Seligman, lo psicologo statunitense a cui è riconosciuta la paternità di questa scienza, la psicologia deve dedicarsi anche agli aspetti positivi dell’esistenza umana: emozioni gradevoli, potenzialità, virtù e capacità dell’individuo. La qualità della vita è un tema  sempre più all’attenzione della medicina, della sociologia e della psicologia in generale e gli aspetti ed avvenimenti positivi presenti nella nostra esistenza costituiscono una protezione per la salute fisica e mentale.

Sono diversi gli argomenti trattati durante questi corsi che mirano,innanzitutto, ad una inversione di tendenza, ad un deciso e consapevole cambiamento di alcune nostre abitudini e attitudini. In cima alla lista c’è la questione temporale, la nostra inclinazione a pensare troppo al futuro e fare riferimento al passato, principale produttore di sensi di colpa e rimpianti. Per perseguire la felicità e la serenità è necessario stare nel presente, collocarsi nel qui e ora, non spostare ne’ avanti ne’ indietro il nostro pensiero. Troppo spesso siamo tormentati da ciò abbiamo sbagliato, da cosa non è andato bene, dai nostri presunti fallimenti; la mente si concentra sui trascorsi, presumibilmente negativi, creando frustrazione e di certo non producendo, in tale modo, uno stato positivo. Allo stesso modo speculare sul futuro avvantaggiandosi eccessivamente sulle cose che dovremmo fare o che succederanno non ci permette di vivere pienamente la nostra vita attuale.

Un altro elemento importante  su cui si concentrano le lezioni di felicità è la gratitudine, è importante essere riconoscenti per quello che si ha, fare una lista delle cose belle della nostra vita, sentirsi fortunati contrastando un’altra inclinazione molto frequente che è quella di lamentarsi, di pensare che si potrebbe avere di più magari utilizzando uno strumento, perlopiù frustrante, come quello della comparazione. Inseguire mete impossibili, avere modelli irraggiungibili, spesso poco reali, non fa bene. E’ costruttivo cercare di migliorare la nostra vita, tuttavia, essere grati per ciò che si ha è il primo passo verso la felicità.

I pensieri negativi, invece, vanno non scacciati ma limitati. Concedere spazio alle considerazioni ostili va bene, accettarle è necessario perché reprimerle avrebbe un effetto  dannoso. Il suggerimento è quello di dedicargli un tempo fisso, anche giornaliero, per esempio 10 minuti al giorno, poi basta!

Infine ci sono gli altri, gli amici, la famiglia, le persone intorno a noi. Saper stare soli è determinante, e spesso necessario, ma la felicità va cercata anche nell’ insieme, in compagnia, socializzando, condividendo, ridendo insieme, giocando. La solitudine prolungata, l’isolamento e la non connessione con gli altri provoca tristezza e infelicità mentre l’amicizia, la vicinanza, gli altri possono procurare quella gioia che ci permette di affrontare le cose della vita con la sicurezza del supporto e, spesso, del mutuo soccorso . La cosa importante è ridurre le aspettative, non pretendere gesti o dimostrazioni, ma vivere le persone, stare semplicemente insieme a loro.

Sapere di poter essere felici, di poter migliorare il nostro stato d’animo dando spazio alla serenità è molto incoraggiante e innovativo. Scardinare quelle credenze secondo le quali si nasce con delle attitudini, con un carattere e una personalità seguendo la sola teoria dell’ineluttabilità, del non riparabile è possibile e anche doveroso, come lo è darsi la possibilità di stare bene, di superare quelle abitudini e attitudini mentali che ci fanno vivere uno stato di negatività e malcontento.

Maria La Barbera 

Giacomo e la briscola chiamata

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Quando il cielo lacrimava e sul lago soffiava quell’arietta fresca che intirizziva, la passeggiata sul lungolago verso la Villa Branca finiva immancabilmente davanti alla porta dell’amico Giacomo dove ci attendevano le sfida a briscola e tresette

 

Giacomo Verdi, detto “balengo” perché amava spingere la sua barca a remi tra le onde del lago in tempesta, infischiandosene dei rischi, da un bel po’ di tempo era costretto a stare in casa. Un brutta sciatalgia e i reumatismi rimediati  nel far la spola tra le due sponde del lago e le isole, gli impedivano di stare troppo in piedi. E allora, con la scusa di andarlo a trovare, ingaggiavamo delle tremende sfide all’ultima mano. “ Ah, amici miei, sapeste che rottura di balle dover star qui recluso. Per uno come me che non trovava mai terraferma e che fin da piccolo stava con la faccia contro vento, star qui costretto tra seggiola e divano, tra poltrona e letto, è proprio una gran brutta cosa. Quelle volte che non sento il cambio del tempo e riesco a metter il naso fuori dall’uscio, è una tal festa che non mi potete credere. Guardate, è come se fosse un Natale o una Pasqua fuori stagione. Ah, è talmente bello che mi sento un re”. Ogni volta, prima di tirar fuori il mazzo delle carte dal cassetto, Giacomo –  quasi stesse sgranando un rosario – ci faceva partecipi delle sue lamentele. Ma bastavano due o tre smazzate per sparigliare tutto e come d’incanto si dimenticava di acciacchi e malanni. Faceva smorfie, imprecava, sbatteva le carte sul tavolo. Non nascondeva l’ira o la gioia, a seconda di come gli “giravano” le carte, ma era un’altra persona. Amava quei giochi, vantandosi di essere un grande esperto. A volte ci teneva delle vere e proprie lezioni. “ Vedete, il mazzo con cui stiamo giocando è composto da 40 carte di 4 diversi semi. Ma c’è una grande varietà stilistica nel disegno.

In alcune regioni sono diffuse le carte di stile italiano o spagnolo, con i semi di bastoni, coppe, denari e spade e con le figure del fante, del cavallo e del re. In altre si usano le carte con i semi francesi .Sono cuori, quadri, fiori e picche, con le figure del fante, della donna e del re.Ecco, sono proprio queste che stiamo usando per la nostra partita”. Parlava come un libro stampato, in un italiano corretto e persino raffinato. “Fate attenzione a queste.Sono carte bergamasche, tipicamente nordiche.Hanno caratteristiche in comune con le figure dei tarocchi lombardi. L’asso di coppe si ispira alle insegne della famiglia Sforza”. Era capace di andar avanti così per un bel po’ se non cambiavamo discorso. E allora ci raccontava delle sue avventure, partendo sempre da quella volta che aveva portato sull’isolino una contessa ( omettendo di dire chi fosse, precisando “sapete,io sono una persona discreta e non mi piace far nomi” ) che per tutto il tragitto continuò a fargli l’occhiolino. Immaginando una qualche complicità e una sorta d’invito, appena toccato terra, tentò di abbracciarla e baciarla, guadagnandosi una sberla tremenda. “Madonna, che botta mi ha dato! Cinque dita cinque, in faccia, secche come un chiodo. Ero diventato rosso come un tumatis, un pomodoro, restando lì a bocca aperta, come un baccalà”. “ Ah, cari miei, se beccavo quel maledetto Luigino dell’Osteria dei Quattro Cantoni lo facevo nero come il carbone”. Quella storia l’aveva raccontata un infinità di volte ma, per non contraddirlo, ci fingevamo interessati e lo incalzavamo con le solite domande (“Come mai,Giacomo? Cosa c’entrava Luigino?”). E lui s’infervorava. “Cosa c’entrava, quella carogna? Cosa c’entrava? C’entrava che se l’avevo tra le mani gli davo un bel ripassoLo pettinavo per bene quel mascalzone. Mi aveva assicurato che la contessa era una che ci stava, che gli piacevano i barcaioli. Mi disse che se gli fossi piaciuto mi avrebbe fatto l’occhiolino. E me l’aveva fatto, porco boia; altro che se me l’aveva fatto. Ma era per via di un tic nervoso. Altro che starci. Sembrava una iena. E quel saltafossi lo sapeva, capite? Lo sapeva e mi ha tirato uno scherzo”. Sbollita la rabbia per quella brutta figura che ormai faceva parte dei ricordi, ricominciava a giocare, picchiando le carte sul tavolo come se quello fosse la testa pelata di Luigino. Giacomo abitava in una casa che dava su via Domo. Dalla parrocchiale , dove c’è Largo Locatelli, si scendeva verso l’abitazione per una viuzza stretta, tortuosa, lastricata a boccette che finiva nella piazzetta.

Lì, al numero 12, in una casa piuttosto bassa, coperta da un tetto di piode, stava il Verdi. Quasi in faccia alla cappelletta che ,si diceva, fosse stata eretta come ex-voto per la liberazione dalla peste. Sotto l’arco s’intravedevano ancora gli affreschi raffiguranti la Madonna con il Bambino e ben due coppie di santi : Giuseppe e Defendente, da una parte;Gervaso e Protaso, dall’altra. Era lì che la povera Marietta posava il cero nei giorni in cui suo marito, quel matto di Giacomo, metteva la barca in acqua incurante del “maggiore” che spazzava le onde, gonfiando minacciosamente il lago. Ora che Marietta era  passata a miglior vita era Giacomo – ormai prigioniero a terra per via dei malanni – a dare qualche soldo a Cecilio, il sacrestano, perché non si perdesse quell’abitudine che – diceva, sospirando – “ in fondo, mi ha sempre portato bene”. Ecco, le giornate più uggiose le passavamo in casa di Giacomo, in uno dei rioni più antichi di Baveno.Lì c’è ,ancora adesso, la “Casa Morandi”, un edificio settecentesco di quattro piani, con scale esterne e ballatoi. È forse l’angolo più apprezzato dai pittori e dai fotografi di tutta la cittadina. Sono in tanti, in Italia e all’estero, a tenere sulle pareti del salotto un acquerello, una china o più semplicemente una foto incorniciata della casa Morandi. Segno inequivocabile che da lì è passata un sacco di gente ,portando con sé la storia, quella vera, quella che si legge sui libri. E magari incrociando le carte con Giacomo.

Marco Travaglini