A cura di lineaitaliapiemonte.it
Di Carlo Manacorda
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La signora Amelia era davvero una gran signora. Nonostante la non più giovane età era sempre, quotidianamente, in piena attività. Il portamento aveva un tratto che poteva definirsi persino nobile, se non fosse per il trucco troppo accentuato.
Non ho mai capito perché non fosse considerata per la grande disponibilità che, in tanti decenni, aveva dimostrato nel risolvere i problemi altrui. Specialmente, se non addirittura in via esclusiva, quelli di tanti uomini d’ogni età ed estrazione sociale. Forse perché svolgeva il mestiere più antico del mondo? C’era, nel non considerarne fino in fondo la delicata funzione che – senza false ipocrisie e dubbi moralismi – le avrebbe fatto meritare se non un attestato di benemerenza almeno una più generica riconoscenza, qualcosa di profondamente immorale. Sì, immorale. Come non tener conto che la signora Amelia, in arte “Rosa Scarlatta“, aveva svolto in condizioni non propriamente agevoli e spesso senza entusiasmo, una funzione – per così dire – “sociale” a beneficio di buona parte della comunità di sesso maschile non solo bavenese ma anche stresiana e di chissà quanti altri comuni che si affacciano sulle rive del Verbano. Dopo una fase d’avvio della propria impresa, sotto “padrona”, in una di quelle case che non andavano nominate per non inciampare nella già citata “morale”, appena superati i venticinque anni, si mise in proprio. Sì, perché la “premiata ditta della Rosa Scarlatta”, alla prova di quello che potremmo definire come “il mercato”, dimostrò competenza, professionalità e spirito d’iniziativa. Con una sorprendente dose di “savoir-faire” che, nel breve volgere di qualche anno, le fece guadagnare rispetto e simpatia.
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Ovviamente, non da parte di tutti. Le signore, anch’esse senza distinzione d’età, la guardavano in malo modo, commentando con parole poco garbate e lusinghiere le sue “gesta” e commiserando energicamente quella sua “professione” che – detta da loro – “turbava la quiete delle famiglie e portava discredito all’intera comunità”.Non ho mai fatto caso al fatto che potessero avere torto o ragione. Forse, a ben guardare, ci stavano sia l’una che l’altra. Certo è che la signora Amelia non prestava molto orecchio alle chiacchiere, meno che meno a quelle più malevole. “Io professo e tiro dritto. Non rompo le scatole e pago le tasse. Dopotutto sono i loro uomini che mi cercano. Se non volessero basterebbe, quando gli chiedo se sono d’accordo a darmi una mano a tener aperta l’impresa, dire di no. Non li obbligo certo io a fermarsi, lungo la strada che, a volte, è persino accaduto qualche tamponamento. Una volta, tra due bei tipi, son volate persino parole grosse e qualche sberlone, per stabilire a chi toccava per primo a far la propria parte“. Eppure, come mi raccontava il Carlino di Loita, la “nostra” Amelia aveva dato fatto fare il salto tra l’adolescenza e l’età adulta ad un bel po’ di ragazzi, accompagnandoli alla scoperta di se stessi durante la loro pubertà. “ Tu, che sei ragioniere e hai studiato, dai, dimmelo un po’ tu: ti par possibile che, per aver fatto del bene, in anni in cui c’era ancora tanta ignoranza e tanto pregiudizio, si debba essere considerati come dei delinquenti, come dei poco di buono?“. Il Carlino, a differenza di me e di tanti altri, faceva parte della schiera di quelli che avevano “provato” a fare i conti con l’impresa della Rosa Scarlatta e si erano dichiarati soddisfatti. Non sopportava l’ipocrisia dei benpensanti. Gli faceva saltare la mosca al naso. “Roba da matt. In sempar lì a criticà a destra e sinistra, a cùra in gesa a confessare i peccati per poi, lasciato alle spalle il portone e svoltato l’angolo, a fare di nuovi”. E sgranava giù, come un rosario, i tanti peccati che le “signore-bene”, come le chiamava lui, erano d’uso commettere: accidia, avarizia, invidia, superbia,ira. La lussuria, invece, era – secondo lui – praticata dai loro compagni benché a loro stesse suscitasse ( senza dirlo, senza ammetterlo, per carità..) ben più che un vago interesse e ben più che un semplice desiderio. In materia, però, nessuna poteva battere l’offerta della “premiata ditta” individuale che faceva capo alla signora Amelia.
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Vera e propria artigiana del piacere, con una carriera ultra decennale sulle spalle, non temeva la concorrenza di quelle povere dilettanti. Così andò avanti e indietro, per un bel po’ d’anni, sulla litoranea del lago Maggiore. Sempre in ghingheri, sempre a testa alta, mostrando fieramente la sua “impresa” anche se il tempo l’aveva ormai irrimediabilmente consumata. Finché , da un giorno con l’altro, non si vide più. Come dire? Sparita. Volatilizzata. Puff..! Più o meno come la colomba nelle mani di un prestigiatore. Solo dopo un annetto si seppe che si era “ritirata” in una casa di riposo sulle rive del lago d’Orta. L’andirivieni l’aveva logorata e le gambe gli cedevano. Così, per non farsi commiserare del tutto e lasciare un buon ricordo di sé, se n’era andata senza neanche fare un “ciao” ai suoi vecchi amici, ai “clienti” più fidati che erano anch’essi cresciuti ed invecchiati con lei. Il Giustino propose addirittura a quel deputato che aveva potuto godere in gioventù, pure lui, dell’attività della “premiata ditta”, un intervento affinché fosse riconosciuto alla signora Amelia se non proprio la pensione almeno un piccolo vitalizio, come segno tangibile della riconoscenza nei confronti di una persona che aveva fatto molto nel campo del “sociale”. Dopotutto, diceva il Giustino, “l’Amelia di marchette ne ha messe insieme un bel po’ che bastano ed avanzano per la pensione“. Forse in altri paesi, dove la mentalità è più aperta e tollerante, la “premiata ditta” della signora Amelia sarebbe stata riconosciuta alla stregua di un servizio sociale e le prestazioni sarebbero state, con ogni probabilità, prescritte dal servizio sanitario e quindi mutuabili. Ma, per sua sfortuna, e per disappunto dei più tra i suoi “beneficiati”, questo non si rese possibile. E così non se ne fece un bel nulla. L’onorevole allargò le braccia e chiese, in relazione al suo passato, l’omissis o – quantomeno – una corretta applicazione della privacy. Le ormai vecchie iraconde, rinsecchite e acide, continuarono a pensare il peggio del peggio e, in fondo al cuor loro, a provare invidia per quella “impresaria” che si era fatta dal niente, utilizzando al meglio le doti naturali che aveva avuto in dono dalla nascita. I suoi clienti rimasero con i loro ricordi e con il rimpianto, forse, di non aver potuto approfittare più quanto non avessero fatto delle offerte di quella gran professionista del piacere altrui. Che dirvi, ancora? La signora Amelia se n’è andata per sempre. E’ ormai da un paio d’anni che, come è d’uso dire, “ha lasciato questa valle di lacrime“. Probabilmente, essendo – a dispetto di chi la mal giudicava – credente e praticante, è salita direttamente in paradiso. Ci sarà pure un angolino anche per chi, come lei, ha operato tutta la vita per far felici gli altri rinunciando, almeno in parte, alla felicità propria. O no?
Marco Travaglini
Lui è Stefano Celi, come tutti i figli di questa terra è un testardo e gran lavoratore,
inarrestabile fino al raggiungimento dei suoi obbiettivi. Non a caso fa parte di quella
categoria di vignaioli chiamati “eroici”
A Saint Pierre, nel cuore della Valle d’Aosta, dove la maestosità del castello è
dominante e dà quel tocco di romanticismo, insieme alla moglie Gabriella ha creato
l’azienda agricola La Source, che porta nel mondo i Grandi Vini di questa magnifica
regione.
La produzione si può quantificare in circa 40.000 bottiglie all’anno e le etichette di
riferimento sono Chardonnay, Petit Arvine, Ensamblo, Valle d’Aosta tra i bianchi e
Torrette, Torrette Superiore, Cornalin, Gamay e Syrah come rossi. Una chicca è il
passito ricavato con uve Moscato Gewuztraminer e Sauvignon, dove le uve vengono
appassite in fruttara.
Ma La Source non è solo vino. Stefano Celi ha anche creato una stupenda Wine Farm,
rivolta a chi non si accontenta di eccellenti vini e squisiti assaggi, ma vuole usufruire
anche di tutte quelle caratteristiche di comodità e classe che la struttura è capace di
offrire. Nella calda atmosfera del ristorante ogni vino della produzione potrà abbinarsi
ai migliori piatti della tradizione valdostana. Le camere sono curate in ogni dettaglio,
e dispongono di tv satellitare, e bagno privato.
La posizione invidiabile di La Source rende facilmente raggiungibili il capoluogo
Aosta e le stazioni sciistiche più rinomate, quali Courmayeur, Pila, La Thuile. Inoltre
una speciale convenzione con le Terme di Prè Saint Didier garantisce un mondo di
coccole.
Allora cosa aspettare per tuffarsi in questa inebriante esperienza? Visita il sito
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o 335.6613179. L’indirizzo email è info@lasource.it
“La Bella e la Voce”, contest nazionale con finale a Vietri sul Mare (costiera
amalfitana) si fregia di avere al proprio fianco come partner ufficiale l’Azienda
Agricola La Source
Impastare la farina con una patata bollita e schiacciata, sale, un cubetto di lievito di birra sciolto, mezzo bicchiere di latte appena tiepido e olio…
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Testo tratto dalla rivista Piemonte Parchi.
Giorgio lo ricevette in regalo dallo zio Arialdo che a sua volta l’aveva portato con se a Torino al termine di un lungo viaggio in Africa equatoriale. Il piccolo pennuto, originario delle foreste pluviali nel cuore del continente nero, aveva una caratteristica particolare che lo distingueva dagli altri volatili e da gran parte degli animali: l’eccezionale intelligenza, secondo alcuni esperti paragonabile a quella di un bambino di tre anni. Perfettamente in grado di associare alle parole ripetute l’esatto significato, con gli anni e adeguatamente istruito, aveva imparato ad esprimersi con brevi frasi compiute, interloquendo nelle conversazioni. Ghiotto di frutta e semi, Arsenio era diventato a tutti gli effetti un membro della famiglia di Giorgio, scapolo impenitente. La strana coppia filava d’amore e d’accordo, condividendo l’appartamento in Corso Casale che offriva una suggestiva vista sul verde del parco Michelotti e sul Po. Giorgio, progettista di una nota azienda, si era formato al dipartimento di ingegneria meccanica e aerospaziale del Politecnico torinese. La sua attività gli consentiva di passare buona parte del tempo lavorando da casa, condividendo le giornate con il fedele Arsenio. Appassionato di calcio, era cresciuto nel mito del Grande Torino, la compagine degli “invincibili” capitanati da Valentino Mazzola che persero tragicamente la vita nell’incidente aereo del 4 maggio 1949, schiantandosi sulla collina di Superga. Trasmettere quel sentimento d’affetto al pappagallo non fu per nulla difficile, tant’è che Arsenio imparò a ripetere con infallibile memoria l’esatta sequenza della storica formazione, imitando la voce del suo padrone con un lieve timbro nasale: Bacigalupo, Ballarin, Maroso, Grezar, Rigamonti, Castigliano, Menti, Loik, Gabetto, Mazzola, Ossola. Un bel giorno l’azienda chiese a Giorgio la disponibilità di recarsi per un periodo di sei mesi all’estero, in America del Sud, allo scopo di contribuire all’avvio di un nuovo sito produttivo a Montevideo, la capitale dell’Uruguay. Era un’occasione davvero importante e quasi unica per la sua carriera ma occorreva risolvere il problema del pappagallo, abituato a convivere con il suo padrone. Tra l’altro a Montevideo avrebbe dovuto dividere l’appartamento con un collega.
Erano due locali più i servizi nel quartiere della città vecchia, a poca distanza dalla piazza dell’Indipendenza. Uno spazio abbastanza angusto e per di più l’altro tecnico pareva fosse allergico al piumaggio degli uccelli. Non vi era dubbio sul fatto che Arsenio non potesse seguirlo nella missione. A chi lasciarlo in custodia, allora? Parenti non ne aveva più, avendo perso i genitori in tenera età e morto da un anno anche il vecchio zio Arialdo. Era un cruccio enorme, un tormento da togliere il sonno. Ad un certo punto maturò un’idea. L’unico vero amico che aveva, un compagno di università con il quale trascorreva talvolta le serate e qualche fine settimana, era stato sfrattato e stava cercando una sistemazione. Lo chiamò spiegando il suo problema e chiedendogli la cortesia di occupare il suo alloggio per il tempo della missione. Non avrebbe avuto nessuna spesa e l’unico obbligo di prestare cura al ciarliero pappagallo. L’amico, che si chiamava Giulio, invitato a cena accettò con entusiasmo la proposta. Arsenio, con le sue spiccate capacità intuitive, colse dai discorsi dei due amici seduti a tavola nell’alloggio di corso Casale dei frammenti di discorso che non gli piacquero, e si chiuse in un ostinato mutismo. Ma ben presto dovette fare buon viso alla situazione che si venne a creare con la partenza del padrone di casa, accettando la novità. Il pennuto, superato l’imbarazzo delle prime giornate dove prevalse una lieve malinconia, considerando che il nuovo inquilino gli dava regolarmente da mangiare, gli parlava e qualche volta canticchiava dei motivi di suo gradimento, al punto che ne ripeteva qualche parola, accettò la presenza di Giulio. Anzi, con il passare dei giorni, gli si affezionò. L’uomo raccontava all’uccello storie e confidenze quasi avesse a che fare con una persona e decise anche di fare un piccolo scherzo all’amico. Tifoso sfegatato della Juventus, la vecchia signora antagonista del Torino, oltre a insegnare al pappagallo parole e proverbi in piemontese, gli ripeté una frase che avrebbe certamente fatto colpo su Giorgio: “Viva la goeba”. Ai bianconeri juventini era stato incollato addosso anche questo curioso soprannome, riservato tanto ai giocatori quanto ai tifosi, di “gobbi”. Pareva che il termine risalisse a un curioso episodio degli anni ’50 quando per una intera stagione, durante le corse dei giocatori, le loro maglie trattenendo l’aria, si gonfiavano creando una specie di gobba. Una malignità, probabilmente creata ad arte dai rivali, tifosi dei granata. Fatto sta che quel “viva la Gobba” in piemontese piacque molto ad Arsenio che lo ripeteva di continuo come un mantra, accompagnandolo con altri spezzoni del dialetto subalpino.
Un giorno, dopo l’uscita di Giulio per delle compere, un fattorino si presentò sull’uscio per consegnare un pacco. Dopo aver suonato il campanello udì una voce gracchiante rispondere dall’interno: “Chi è?”. “Devo farle una consegna, signore!”, disse l’uomo. “Chi è?” rispose Arsenio, ripetendo l’invito più volte. “Sono il fattorino. Ho qui un pacco per lei. Mi può aprire, per favore?”, replicò il dipendente della ditta spedizioniera, tradendo un certo fastidio. Il pappagallo, per tutta risposta, inanellò una serie di frasi mescolando il piemontese con l’italiano: “Cosa fai daré ëd la pòrta?”, “Va via, fafioché d’un fafioché” ( in pratica dandogli del buono a nulla, di colui che parla tanto e non conclude niente), “Gavte la nata, balengo” (l’equivalente dell’invito a togliersi il tappo, un modo come un altro per suggerire di farsi furbo). Spazientito, il fattorino rispose con un epiteto che provocò la furibonda reazione di Arsenio che alzò ancor di più la sua stridula voce. Offeso l’uomo ridiscese le scale, visibilmente infuriato. Incontrando il portiere dello stabile gli chiese chi fosse quel maleducato che abitava al terzo piano. L’addetto alla custodia, stupito, rispose a sua volta non gli risultava nessuno in casa, avendo visto uscire una mezz’ora prima il signor Giulio. Bastò questa risposta perché il fattorino gli sbattesse tra le braccia il pacco urlandogli un seccatissimo “Visto che ci sono i fantasmi, allora a consegnare questo ci pensi lei!!”, infilando il portone e andandosene per la sua strada con un diavolo per capello. Passarono i giorni, le settimane, i mesi e il pappagallo sviluppò un attaccamento morboso nei confronti di Giulio, manifestando episodi sempre più costanti di gelosia.
Uno dei casi più frequenti si manifestava quando Giulio era costretto a uscire. Era sufficiente che indossasse la giacca o un cappotto perché Arsenio strillasse con sofferenza, roso dal tormento: “Non andare via! Stai qui! Non uscire!”. Per ingannare l’intelligentissimo volatile era arrivato al punto di calare dalla finestra, con la complicità del portinaio, la giacca o il soprabito, fugando il sospetto di una imminente fuga. Al termine dei sei mesi, al ritorno di Giorgio, il pappagallo raggiunse l’apice della possessività gridando disperatamente: “Giulio non andare via.. A l’è mej n’amis che des parent (è meglio un amico che dieci parenti).. Non mi lasciare, non abbandonarmi.. A basta ‘n to soris! (basta un tuo sorriso). Erano scenate davvero strazianti, a riprova di un amore che spezzava il cuore. Un diluvio di parole che Arsenio, rifiutandosi di mangiare, emetteva con una voce acuta e stridente che pareva sul punto di spezzarsi in pianto. I due amici, non potendo restare indifferenti davanti a tanta sofferenza, considerato che l’appartamento era abbastanza grande e che Giulio un alloggio per se non l’avevo ancora trovato, decisero di condividere l’abitazione di corso Casale. Il pappagallo ascoltò con attenzione il discorso che gli fecero, quasi si stessero rivolgendo a un bambino. E come un marmocchio davanti ai doni trovati sotto l’abete la mattina di Natale, Arsenio dimostrò tutta la sua felicità svolazzando per le stanze, pur senza rinunciare ad avere l’ultima parola: “I papagal l’an sempre rason”. I pappagalli hanno sempre ragione. E come si poteva dargli torto?
Marco Travaglini
Domenica 8 giugno 2025 l’Associazione Internazionale Regina Elena Odv ha organizzato a Roddi (CN) una commemorazione del 500° anniversario del legame del Comune con la Nobile famiglia Pico della Mirandola.
Hanno concesso il patrocinio all’evento: il Consiglio Regionale del Piemonte, la Regione Emilia Romagna, la Provincia di Cuneo ed i Comuni di Roddi (CN), Maddaloni (CE) e Mirandola (MO).
Il 5 dicembre 1525 la Marchesa Anna d’Alençon, reggente al trono del Monferrato per il figlio il Marchese Bonifacio IV, per far fronte alle ingenti risorse economiche richieste dall’Imperatore dei Romani Carlo V ai feudatari che come lei avevano appoggiato il suo avversario il Re di Francia Francesco I, sconfitto nella Battaglia di Pavia, cedette il feudo e il Castello di Roddi, citato per la prima volta nel X secolo come casaforte di proprietà dell’Abbazia di San Pietro di Breme, a Giovanna Carafa, consorte di Gianfrancesco II Pico, Signore di Mirandola e Conte di Concordia, nonché nipote del celebre filosofo Giovanni Pico della Mirandola, dalla prodigiosa memoria.
La commemorazione di questo importante atto, che segnò la storia del Comune langarolo, è iniziata alle ore 11 con una Santa Messa celebrata da Don Massimo Scotto nella Chiesa Parrocchiale di Maria Vergine Assunta.
Successivamente i numerosi partecipanti e i gruppi storici hanno raggiunto in corteo il castello, dove nel Salone d’onore si è tenuta una solenne cerimonia, aperta dai discorsi di Roberto Davico, Sindaco di Roddi; Flavio Borgna, Sindaco di Cerreto Langhe; Silvia Molino, Assessore alla Cultura di Castelvecchio di Rocca Barbena (SV); Alessandra Arlorio, Assessore alle Politiche Giovanili di La Morra (CN); Christian Rocco, Consigliere di Novello (CN); Pierangela Castellengo, Consigliere di Alba (CN) e del Senatore Marco Perosino.
In modo particolare, il Sindaco di Cerretto Langhe nel suo intervento ha annunciato l’ingresso del suo Comune nell’ Associazione Siti storici Grimaldi di Monaco in Italia, reso possibile grazie alle ricerche storiche effettuate dallo scrivente, il quale, nella sua qualità di Vice Segretario Amministrativo Nazionale dell’Associazione Internazionale Regina Elena Odv nel 2025 con la sua consulenza ha permesso l’ingresso nella sopraccitata associazione legata ai Grimaldi anche dei Comuni di Novello e Zuccarello (SV).
Riccardo Corino, Presidente del Centro Studi Beppe Fenoglio di Alba, insieme alla Dott.sa Laura Della Valle, Presidente dell’Associazione Culturale Premio Roddi, ha fatto scoprire al pubblico il legame tra Roddi e la Nobile famiglia Pico della Mirandola, iniziato, come sopraccitato, il 5 dicembre 1525, quando Giovanna Carafa, figlia di Giovanni Tommaso, Conte di Maddaloni e moglie del sopraccitato Gianfrancesco II Pico, acquistò con fondi propri il feudo dalla Marchesa reggente del Monferrato.
Nel 1533, Gianfrancesco II e il suo settimogenito Alberto vennero assassinati nel Castello di Mirandola dal nipote Galeotto II e così Giovanna Carafa insieme agli altri figli si trasferì a Roddi, dove morì il 4 agosto 1536. Suo figlio Paolo fu il primo Conte di Roddi; gli succedette la figlia Eleonora, avuta dalla seconda moglie Costanza Del Carretto di Millesimo, che sposò il nobile mantovano Ascanio Andreasi, dei Conti di Ripalta, portandogli in dote il feudo paterno. Il loro figlio Paolo ottenne il titolo marchionale e alla sua morte senza eredi nel 1630 i suoi beni passarono alla sorellastra Costanza Biandrate di San Giorgio, la quale aveva sposato Antonio Maria Tizzone, Conte di Desana.
Roddi diventò quindi feudo dei Tizzone, i quali dimoravano raramente nel maniero, preferendo alloggiare nel loro palazzo di Torino e nel Castello di Desana, dove era attiva una zecca. Nel 1675
Maria Camilla Tizzone sposò Francesco Filippo Della Chiesa, portandogli in dote Roddi. Il loro discendente Saverio cedette il maniero nel 1836 a Re Carlo Alberto, il cui figlio Re Vittorio Emanuele II lo alienò a sua volta al Regio Economato Generale Apostolico. Dal 2001 il castello è di proprietà del Comune.
Lo scrivente nel suo discorso ha illustrato il legame tra i Savoia e le tre dinastie che si succedettero per via ereditaria alla guida del Marchesato del Monferrato: gli Aleramici, che vi regnarono dalla sua fondazione nell’XI secolo fino al 1305, quando alla morte di Giovanni I, che dalla consorte Margherita di Savoia, figlia del Conte di Savoia Amedeo V non aveva avuto figli, il trono passò al nipote Teodoro I Paleologo, figlio di sua sorella Violante e dell’Imperatore di Bisanzio Andronico II; i Paleologi, i quali vi regnarono dal 1305 fino al 1533, quando al decesso senza figli del Marchese Giangiorgio il trono andò al Duca Federico II Gonzaga di Mantova, che aveva sposato sua nipote Margherita Paleologa e i Gonzaga, i quali governarono queste terre con il loro ramo principale fino al 1627 e poi fino al 1708 con ramo cadetto dei “Nevers”.
Ha quindi preso la parola Manuela Massola, del “Filo della Memoria” de “Il Colibrì Aps” di Buttigliera Alta, la quale ha illustrato il legame tra Roddi e il suo paese, attraverso le nozze nel 1698 tra Carlo Giuseppe Antonio Della Chiesa e Delfina Carron di San Tommaso, figlia di Carlo Giuseppe Vittorio, terzo Marchese di San Tommaso e Conte di Buttigliera Alta. Manuela ha annunciato una sua scoperta storica: Gaspare Della Chiesa, Marchese di Roddi, rimasto vedovo di Seyssel d’Aix intorno al 1754, nel 1755 si risposò con Maria Maddalena Ruffino dei Conti Diano D’Alba e dalla loro unione nacquero tre figlie, tra le quali Luigia che nel 1781 sposò il Marchese Paolo Luigi Guasco di Bisio di Alessandria e fu madre di Enrichetta Guasco di Bisio, colei che nel 1806 impalmò Alessandro Carron, Marchese di San Tommaso e Conte di Buttigliera Alta.
Il Comitato per la tutela del patrimonio e delle tradizioni piemontesi dell’Associazione Internazionale Regina Elena Odv ha conferito uno speciale attestato di benemerenza al Comune di Roddi e all’Associazione Culturale “Premio Roddi” e lo speciale attestato creato in occasione del Giubileo 2025 a Don Massimo Scotto e Don Renato Oggero Norchi.
L’Associazione Internazionale Regina Elena Odv è stata rappresentata dal Vice Segretario Nazionale Amministrativo, dal Fiduciario di Chivasso Silvano Borca con la consorte e dalla Dama Maria Vittoria Pelazza.
La giornata è stata impreziosita dalla presenza dei seguenti gruppi storici:
“La Corte del Conte Rosso” di Avigliana; “Conte Occelli” di Nichelino; “Il Filo della Memoria” de “Il Colibrì Aps” di Buttigliera Alta e “I Signori di Rivalba” di Castelnuovo Don Bosco.
Nel maniero di Roddi fino al 29 giugno sarà allestita la 32ª Esposizione del Maestro Francesco Paula Palumbo dal titolo: “Vintage 70s collection by Francesco Paula Palumbo at Roddi Castle” visitabile ogni sabato e domenica con orario continuato dalle 10 alle 19.
ANDREA CARNINO
Visitando il centro storico di San Giorgio Canavese, piccolo borgo canavesano, a sud dell’Anfiteatro Morenico d’Ivrea, è quasi d’obbligo fare una sosta nell’affascinante Pasticceria Roletti, costruita a inizio ‘900 secondo i canoni Liberty.
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A Castellazzo Bormida il profumo del cioccolato racconta una storia di famiglia piena di passione e dolcezza.
C’è un piccolo paese nel cuore dell’Alessandrino dove il cioccolato non è solo un alimento: è un linguaggio, una passione, una forma d’arte. Giraudi, la cioccolateria fondata e portata avanti con dedizione da Giacomo Boidi e oggi condivisa con il figlio Davide, è il cuore pulsante di una storia che profuma di tostatura lenta, mani artigiane e sogni costruiti giorno per giorno.
Tutto ha inizio nei primi del Novecento, nel 1907, quando Giovanni Battista Giraudi fonda un mulino per la macinazione di cereali. Con il tempo, l’attività si evolve nell’arte bianca e, lentamente, si avvicina al mondo del cioccolato. Sarà Giacomo Boidi, nipote di Paolino Boidi e affascinato fin da piccolo dalla pasticceria, a far germogliare la vera anima cioccolatiera di questa storia. Dopo aver frequentato l’istituto tecnico per periti elettrotecnici, Giacomo si avvicina al laboratorio dello zio Giovanni ad Alessandria nel 1982. Ha solo ventun anni, ma un carattere tenace, curioso, e soprattutto una fame di sapere e di creare.
Nel giro di pochi anni Giacomo si distingue per la qualità delle sue creazioni, sperimentando con coraggio nel piccolo laboratorio di 12 metri quadri. Nel 1983 apre la propria pasticceria ad Alessandria, ma è nel 1987, dopo la scomparsa degli amati zii, che decide di dedicarsi completamente al cioccolato, un ingrediente che lo affascina per la sua complessità e versatilità. L’anno prima, nel 1986, aveva già avviato un piccolo laboratorio, che diventerà il cuore produttivo della futura Giraudi.
Nel 1993 la produzione si trasferisce a Castellazzo Bormida, in uno stabilimento dove si fonde la visione artigianale con l’ambizione industriale. Nasce così una nuova era per Giraudi, che si amplia, si evolve e comincia a farsi conoscere ben oltre i confini regionali. L’incontro con l’esperto di enogastronomia Giorgio Onesti rappresenta un punto di svolta: colpito dalla qualità dei prodotti, aiuta Giacomo a farli conoscere in tutta Italia e poi nel mondo.
Giraudi oggi esporta in Austria, Germania, Grecia, Norvegia, Stati Uniti, Cina, Giappone e Australia. Il catalogo si è arricchito di specialità uniche come la Giacometta, una deliziosa crema spalmabile al cioccolato e nocciole che rappresenta l’identità del marchio, e il Giacometto, un caffè con crema di latte servito in una tazzina rivestita di Giacometta: un’esperienza multisensoriale che è insieme rito e scoperta.
Il punto vendita di Castellazzo Bormida, moderno e accogliente, è integrato nello stesso edificio del laboratorio. Qui si possono comporre vassoi personalizzati di cioccolatini fatti a mano, gustare brioche farcite al momento con crema al pistacchio, e osservare il laboratorio al lavoro attraverso una vetrata o, su prenotazione, visitarlo accompagnati da una guida. Non è raro incontrare scolaresche: la divulgazione è parte del progetto Giraudi, con una sala didattica dedicata a bambini e famiglie.
Le materie prime sono il punto di partenza di ogni creazione. La massa di cacao è ottenuta da una miscela di varietà Criollo e Trinitario, le più pregiate al mondo, provenienti da piantagioni selezionate in Centro America e Africa. Giraudi lavora a partire dalla massa e non dalla fava: una scelta consapevole per concentrare l’attenzione e l’energia sull’abbinamento, la decorazione, la forma. Le linee di cioccolato monorigine, come i Napolitains e Le Selezioni, seguono invece lavorazioni più lunghe e raffinate, con tostature lente e concaggi delicati.
La nocciola è l’altra protagonista. La varietà scelta è la Tonda Gentile Trilobata del Piemonte, la migliore per gusto, pelabilità e conservabilità. Nonostante l’IGP copra l’intero Piemonte, unica regione in Italia a vantare questo primato, le nocciole usate da Giraudi provengono soprattutto dalle Langhe, dove si concentrano le coltivazioni più pregiate. La tostatura avviene con un tostino tradizionale e segue un processo lentissimo e delicato: il calore penetra piano, abbracciando ogni frutto, esaltandone sapore e aromaticità, lasciando che la buccia si stacchi naturalmente.
Nel laboratorio, ogni dettaglio ha un suo valore. I cioccolatini sono colati a mano negli stampi, uno a uno. Alcune forme nascono da prototipi realizzati internamente, anche con l’ausilio di tecniche moderne come la stampa 3D e il taglio laser. La personalizzazione è un pilastro: non c’è limite alla creatività, e il cliente può scegliere ricettazione, forma, incarto.
L’azienda conta oggi 18 dipendenti fissi e, da settembre in avanti, si affida anche a personale stagionale per affrontare l’aumento della produzione in vista del periodo natalizio. Ogni persona che lavora qui partecipa a una visione comune, fatta di rispetto, ricerca, e voglia di fare bene.
Molti sono i momenti simbolici di questa lunga avventura. Tra questi, la realizzazione dell’uovo di Pasqua donato agli abitanti di Accumoli, colpiti dal terremoto. Un uovo di 180 kg, decorato in collaborazione con l’artista Mario Fallini, contenente oltre 350 sorprese donate dalla comunità di Castellazzo Bormida ai bambini di Accumoli: un gesto di bellezza e solidarietà.
L’arte è un elemento vivo nell’universo Giraudi. Giacomo, pur dichiarandosi artigiano e non artista, ha sempre avuto un dialogo profondo con il mondo creativo. Ha collaborato con Antonio Riello, Paolo Castiglioni, Georgia Galanti, Mario Fallini e Marcella Toninello, giovane designer del Politecnico, autrice del disegno del suo cioccolatino più iconico. Non è un caso che sia stato tra i primi a introdurre la codifica a colori per distinguere i propri prodotti.
Nel 2001 nasce ufficialmente la Giraudi S.r.l., fondata da Giacomo insieme alla moglie Nicoletta e ad Angelo Marchesi. Nel 2005 viene inaugurato l’attuale laboratorio, moderno ma fedele alla filosofia originaria. Oggi Giacomo continua a dirigere l’azienda con la stessa determinazione, mentre Davide ne guida la parte produttiva.
Venire da una famiglia di agricoltori poveri e costruire un’eccellenza riconosciuta nel mondo non è un percorso scontato. Richiede sacrificio, visione, coraggio. In Giraudi tutto questo è diventato un impasto di valori, che si sente in ogni morso, si osserva in ogni dettaglio, si respira nei profumi caldi che escono dal laboratorio.
Il cioccolato, qui, è un gesto di amore. E una storia che continua, giorno dopo giorno, come la sua dolce, infinita persistenza. Non resta che fare un salto a Castellazzo Bormida, per provare e assaporare di persona.
Giraudi si trova in Via B. Giraudi 498 – Località Micarella, 15073 Castellazzo Bormida (AL). Per info www.giraudi.it
Lori Barozzino