“Figlio di un mercante di bestiame,/ ebreo circonciso/ con una sola valigia al fianco/ fermo immobile/ come un palo del telegrafo/ sul molo number four del porto di New York”. E’ l’11 settembre 1848, sono le 7 e 25 come segna il grande orologio, è la prima immagine di Henry Lehman sbarcato dalla nave Burgundy dopo un lungo viaggio per terra e per mare, iniziato a “Rimpar, laggiù, in Baviera”:

è l’inizio di una storia, di un grande film, è il respiro epico e naturalissimo, tra saggio e testimonianza, tra drammaticità e divertimento che Stefano Massini (oggi sugli schermi con la vertenza sindacale di 7 minuti per la regia di Michele Placido, da un anno e mezzo circa nuovo consulente artistico del Piccolo Teatro milanese, a fine stagione sul palcoscenico del nostro Carignano in veste d’autore del Nome della rosa dalle pagine di Eco, produzione dello Stabile torinese) ha costruito, capitolo dopo capitolo, con i titoli che magicamente appaiono incisi su di una quinta, dove i personaggi raccontano e si raccontano, centosessantanni di industria e di capitalismo che a passi lenti s’avviano lungo le strade americane (e chiaramente non solo), mettendo una bandierina iniziale a Montgomery in Alabama, per spandersi, tra decisioni e colpi di furbizia, intelligenza e scommesse, vittorie e dure sconfitte, alleanze e contrasti. Una epopea che s’interromperà in un grande, impensato sfracello il 15 settembre del 2008, quando le immagini televisive ci hanno messo di fronte ai tanti uomini e donne che con i loro scatoloni tra le braccia scendevano le scale d’ingresso al grande palazzo newyorkese e alla tragedia che colpiva gli uffici di Wall Street sino a lambire le Borse del vecchio continente.

A quella data ci si volta indietro e si scorge quanto sia lontano e piccolo il negozietto di Montgomery e ristretta e insignificante l’insegna “Henry Lehman” che reclamizza la vendita di stoffe e abiti. E vedi che con l’arrivo degli altri due fratelli, Emanuel e Mayer – nella terna Henry è la testa, Emanuel il braccio e Mayer colui che sta tra la testa e il braccio, detto “Bulbe” (ovvero patata), ovvero una di quelle superfici lisce che si pongono a far da imbottitura tra gli angoli ispidi dei primi due, a smussarne le asprezze -, gli affari prendano spazi maggiori, dall’acquisto del cotone grezzo alla rivendita dello stesso alle industrie, poi lo sviluppo delle ferrovie ed il sempre più ambito terreno del petrolio, su su sino ai mercati di New York e la banca, e comprare e rivendere in un continuo gioco in salita, tutto sotto lo sguardo della nuova insegna “Lehman Brothers”, “Lehman Brothers è un fiume,/ che porta acqua al mare./ Il mare è l’economia degli Stati Uniti”, mentre si cavalcano le pagine della Storia e s’attraversano le antiche piantagioni del Sud, la guerra di Secessione, la crisi del ’29 e due guerre mondiali, la discriminazione razziale, l’assassinio di un presidente. Ma ormai dei vecchi fratelli non è rimasto nessuno, tutti finiti, cancellati negli ingranaggi della Storia, nemmeno dei figli Philip e Herbert che s’è diversificato nella politica, nemmeno del nipote Robert che amava prima di ogni altra cosa l’arte e i cavalli. Ci sono altri nomi, s’affacciano altre nazionalità, ad occupare posizioni che scivolano poco a poco lungo la rovina. Non è rimasto neppure l’equilibrista Salomon Paprinskij, emblematico personaggio della sospensione, del passaggio leggero, della pericolosa instabilità, che per decenni ha steso il suo filo tra due grattacieli e alla fine (di tutto) una caviglia rotta ha costretto a scendere, definitivamente.

Un grande poema Lehman Trilogy, prodotto dal Piccolo di Milano, visto e applaudito anche a scena aperta al Carignano (due parti, “Tre fratelli” e “Padri e figli”, due serate distinte o nei weekend tutte d’un fiato) per la stagione dello Stabile torinese, ultima regia di Luca Ronconi, un testamento grandioso, umano, meravigliosamente intelligente, coinvolgente anche per chi continua a scorgere in tutto ciò che riguarda le banche gli angoli bui dell’incomprensione (oltre che della sfiducia). E’ facile pensare che anche Ronconi abbia inizialmente pensato – lui che dentro i temi dell’economia c’era già passato, da La colpa è sempre del diavolo di Ruffolo a La compagnia degli uomini di Bond proprio a Torino sino al brechtiano Santa Giovanna dei macelli – al testo di Massini facile ad una lettura ma non troppo disponibile alla rappresentazione: e allora ecco la scommessa, stravinta, ecco la cifra e l’affresco giusti, il gioco immenso di caratteri e di voci e di movimenti che è riuscito a trarre da quelle pagine, nella cornice asettica, incline al grigio, pensata da Marco Rossi, dove tutto (come il denaro, come la vita) è in movimento, l’orologio a sottolineare precisi passaggi, le porte che s’aprono e si chiudono velocemente, i tavoli e le sedie portate qua e là o inghiottiti come certi personaggi. Una cornice entro cui si mostra tutta la bravura maiuscola, e la dedizione, degli attori (racchiusi nelle tute scure di Gianluca Sbicca) che contribuiscono alla grandezza dello spettacolo. Ognuno racchiude in sé il padre, il fratello, il figlio, il nipote, l’ha fatto suo, è diventato “lui” in un gioco d’immedesimazione che raramente s’è visto in questi ultimi anni su di un palcoscenico. Le prove di Massimo Popolizio e di Paolo Pierobon e di Fausto Cabra sono semplicemente eccezionali come lo sono quelle dei loro compagni Fabrizio Gifuni, Massimo De Francovich, Roberto Zibetti, Fabrizio Falco, Raffaele Esposito, Denis Fasolo senza dimenticare i ritratti femminili schizzati con gustosa ironia da Francesca Ciocchetti.
Elio Rabbione
Foto di Attilio Marasco
Mercoledì 9 novembre si è svolta al Cinema Massimo di Torino la conferenza stampa di presentazione del 34° TFF
Testo e regia di Monica Luccisano Musiche di Hume, Holborne, Dowland, Locke, de Sainte Colombe, Marais, anonimi del XVI secolo
In occasione del 181esimo compleanno di Cesare Lombroso, (nella foto) si è tenuto a Torino, dal 4 al 6 Novembre, il Festival della Criminologia. Nella città più misteriosa d’Italia, professionisti italiani ed internazionali hanno cercato di spiegare al grande pubblico cosa si nasconde dietro al “male”, in che modo esso si manifesta e quali sono le tecniche d’investigazione attualmente esistenti
“addetta al settore”, ho trovato davvero interessante e ben delineata l’idea di creare una lente d’ingrandimento su quegli aspetti legati al crimine tanto osannati dai media, che spesso, presi dalla foga dello scoop momentaneo, tendono a veicolare false informazioni. Vivere in periferia può condurre con più probabilità alla messa in atto di condotte criminali? Com’è possibile tutelare i beni culturali ed artistici della nostra Nazione? Quanto la criminalità organizzata si è infiltrata sul territorio piemontese? In che modo la psicologia può essere impiegata nell’investigazione dei crimini violenti e non? Questi ed altri quesiti hanno trovato risposta attraverso gli interventi di insegnanti, esperti dell’Arma dei Carabinieri e della Polizia di Stato, criminologi, psicologi, medici, giornalisti, avvocati, giuristi, filosofi, artisti. Un bravissimo Picozzi, attraverso una chiacchierata intervallata dalla proiezione di spezzoni di film, ha spiegato cosa si intende per profiler, fornendo dettagli della sua vita personale e professione che hanno certamente arricchito il dibattito.
Di come, attualmente, esistono strumenti che permettono di combattere, con un’altissima percentuale di vittoria, il cybercrime; delle nuove macchine della verità e dei nuovi algoritmi che rappresentano la vera sfida del futuro perché attraverso il loro utilizzo sarebbe possibile prevedere il crimine. Minority report non è più fantascienza. Questi momenti di discussione si sono alternati con una rassegna cinematografica a cura dell’associazione Museo nazionale del Cinema e una mostra fotografica, estremamente suggestiva, intitolata “Torino nera: crimini e criminali d’altri tempi” in collaborazione con La Stampa e l’Archivio di Stato di Torino. Eventi culturali che arricchiscono ancora di più il popolo sabaudo, sempre incline ad assorbire nuove conoscenze. Anche le location che facevano da sfondo sono state scelte con cura. Ad esempio, nella Cornice di Palazzo Ceriana Mayneri, a contrapporsi
allo stile ottocentesco delle sale immense e adorne, ci si è interrogati,tra le varie cose, su come curare il male, donando un alone di mistero ed inquietudine ad un argomento che già di per sé ne era ricco. Sul sito del festival,
Grande affluenza di pubblico, domenica scorsa 6 novembre a Villa Giulia di Pallanza (VB), per la presentazione del romanzo di Felice Iracà “Dove finisce il mare”, edito da PUNTOLINEA.
di alcuni brani del libro, è stato presentato dal direttore del settimanale Eco Risveglio, Andrea Dalla Pina, e dalla professoressa Silvia Magistrini. Dopo una breve introduzione del Prefetto del VCO Iginio Olita e di Monica Abbiati, Assessore alla Cultura del Comune di Verbania:” Ho ritrovato la freschezza espressiva di un libro precedente” ha detto Magistrini ” e la sua persona intrisa di umanità; tre sono i verbi che mi hanno colpito e si ricollegano al terremoto: resistere, sperare, rinascere”. Dal canto suo, Dalla Pina aveva sottolineato il fatto che “ ….il romanzo è composto da tanti piccoli quadri, che delineano un tipo di psicologia umana”. Gli stessi quadri, richiamano alla mente personaggi e situazioni de “i Promessi Sposi”, quasi a sottolineare corsi e ricorsi storici che si perpetuano nel tempo. “Un romanzo di mare e di cielo, che esplora l’eterno duello tra il bene e il male, la legalità e il malaffare…”. Felice Iracà, ingegnere e giornalista pubblicista, vive a Verbania dove è Comandante Provinciale dei Vigili del Fuoco del Verbano Cusio Ossola. Ha già scritto “Le Campane di San Leonardo”, dove si descrivono avventure di pompieri a Intra e Pallanza e, nel 2006 ,“Io ce l’ho un’anima – 10 storie di quotidiana anormalità “. Come ha detto lo stesso autore, l’idea di scrivere quest’ultimo romanzo, è “scoccata” circa 3 anni fa.
American Pastoral – Drammatico. Regia di Ewan McGregor, con Ewan McGregor, Jennifer Connelly e Dakota Fenning. Tratto dal romanzo di Philip Roth, è la storia di Seymour Levov, detto “lo svedese”, un uomo cui la vita ha regalato tutto, il successo non soltanto sportivo, una fortunata carriera come imprenditore, una moglie ex reginetta di bellezza, una famiglia di cui andare fieri. Il classico americano self-made man. Fino al giorno in cui questo mondo perfetto – siamo nel 1968 – scoppia e va in frantumi, allorché la figlia sedicenne, che appartiene ad un gruppo terroristico, fa esplodere un ufficio governativo procurando la morte di un uomo. Durata 108 minuti. (Centrale, anche V.O.)
Carrell e Blake Lively. Bobby, trentenne neyworkese e rampollo di una squinternata famiglia ebraica, dove circolano pure componenti malavitosi, corre a Hollywood per entrare a servizio dello zio, apprezzato agente di divi e divette. Si innamorerà della giovane segretaria di studio. Ma c’è già un altro nel suo cuore e le cose inevitabilmente si ingarbuglieranno. Uno sguardo al vecchio cinema, gli amori, le battute di Woody a raffica, tutto secondo i canoni di un autore giunto bulimicamente al suo 47° film. Durata 97 minuti. (Romano sala 3)
apprezzati in Italia, celebre per il suo “Buongiorno” lanciato dalla prima pagina della “Stampa”, volto televisivo del Circo Barnum firmato Fazio e oggi pure in autonomia (riempitiva da rimpicciolimento spazi). Un romanzo che è la perdita della madre da parte di un bambino di soli nove anni, una perdita che ha condizionato la vita di un uomo oltre i quarant’anni. Durata 134 minuti. (Due Giardini sala Nirvana e Ombrerosse, Lux sala 2, Massimo 2, Reposi, The Space, Uci)
Genius – Drammatico. Regia di Michael Grandage, con Colin Firth, Jude Law, Laura Linney e Nicole Kidman. Nella New York della fine degli anni Venti, l’incontro e l’amicizia tra lo scrittore Thomas Wolfe e l’editor Maxwell Perkins, che già aveva fiutato giusto tra le pagine di Scott Fitzgerald e di Hemingway grazie ad un talento non comune. Tanto lo scrittore è stravolto di esuberanza nel carattere e in una scrittura che si porta appresso numeri impensabili di pagine, quanto Max è di poche parole, amante della vita familiare, di calmi sguardi paterni, di aggiustamenti, di desiderio di sfrondare quel troppo scrivere. Wolfe morì appena trentottenne, e i rapporti tra i due alla fine s’incrinarono parecchio, accusato l’editor di aver stravolto con tutte le rigacce lanciate sul foglio quel che più di impetuosamente genuino c’era nello scrittore. Bello il soggetto, interessante per quanto scarnifica di quel rapporto, ma la passione è altra cosa, sia quella delle immagini e dei dialoghi sia quanto quella che lo spettatore vede crescere in sé. Il tutto scardinato da una sempre più incartapecorita Kidman, che non riesce più a costruire uno straccio di personaggio, anche soltanto per brevi tocchi. Durata 104 minuti. (Massaua, Romano sala 2, The Space, Uci)
puntata, ormai gli intrighi di Dan Brown, la spettacolarizzazione di Howard e il faccione di Hanks/Robert Langdon, prezioso professore di simbologia ad Harvard che invecchia con saggezza sono una vera garanzia. A tutto questo s’aggiungano le cornici di Firenze Venezia Istanbul, gli enigmi che hanno inizio con la Sala dei Cinquecento e con l’affresco del Vasari, il capolavoro del Poeta, gli amici e i nemici che indossano differenti maschere, un virus letale di cui vorrebbe servirsi un pazzo per dare un taglio netto alla sovrappopolazione: molto, moltissimo materiale perché il pubblico, già prodigo verso il “Codice da Vinci” e “Angeli e demoni”, corra al cinema. Durata 121 minuti. (Greenwich sala 1, The Space, Uci)
una cicatrice e un occhio che non ha più e accudisce la madre malata. Ogni giorno scene in città a raccontare storie fantastiche, come quella di suo padre, un eroico samurai di cui nessuno ha più avuto notizie, e a guadagnare qualche soldo. Il ritorno a casa, alle prime ombre della notte, nasconde le insidie che gli tendono il vecchio nonno che con le odiose zie vorrebbe cavargli l’altro occhio: Kubo dovrà difendersi, mentre andrà alla ricerca della spada magica di suo padre come del proprio passato. Durata 101 minuti. (Ideal, The Space, Uci)
Serraiocco. Libero è appena uscito di prigione per spaccio, crede in una propria riabilitazione e incontra Giulia, giovane testimone di Geova. L’amore che nascerà tra i due ragazzi porterà la ragazza a rompere ogni rapporto con tutti. Durata 104 minuti. (Nazionale 2)
7 minuti – Drammatico. Regia di Michele Placido, con Ottavia Piccolo, Ambra Angiolini, Violante Placido e Fiorella Mannoia. Tratto dal testo teatrale di Stefano Massini, il film narra del passaggio di un’azienda tessile italiana nelle mani di una nuova proprietà estera, che esclude i licenziamenti ma pone un’unica richiesta: quanti lavorano all’interno della fabbrica dovranno rinunciare a sette minuti della pausa pranzo. Toccherà al consiglio di fabbrica avallare o no la richiesta. Durata 92 minuti. (Eliseo rosso, Greenwich sala 2, Uci)
The Accountant – Thriller. Regia di Gavin O’Connor, con Ben Affleck, Anna Kendrich e J.K. Simmons. Christian Wolff, genio matematico, lavora sotto copertura in un piccolo studio come contabile per il crimine organizzato. Accetta di seguire gli affari di un nuovo cliente, una società di robotica dove si sono scoperti ammanchi per milioni di dollari. Non appena Christian inizia a intravedere i responsabili e la soluzione, parecchie persone sono tragicamente coinvolte. Durata 128 minuti. (Greenwich sala 2, Uci)
Sabato 12 novembre alla Biglietteria del Teatro Regio (dalle 10,30 alle 16) inizia la vendita dei biglietti per tutte le recite dei seguenti titoli:
Lenti avanzammo su di quel grigio asfalto
Ti sarai ormai decomposto