Carlo Collodi, all’anagrafe Carlo Lorenzini, nacque a Firenze il 24 novembre del 1826, esattamente centonovant’anni fa, e divenne celebre come autore del romanzo “Le avventure di Pinocchio.Storia di un burattino”. Il padre Domenico era cuoco e la madre, Angiolina Orzali, domestica, entrambi a servizio dei marchesi Ginori. Quest’ultima era originaria di Collodi , una frazione di Pescia, in provincia di Pistoia. E proprio il nome del paese della madre ispirò lo pseudonimo che rese famoso in tutto il mondo l’autore di Pinocchio. A diciotto anni entrò nel mondo dei libri, prima come commesso nella libreria Piatti a Firenze e poi come redattore. Nel 1845 ottenne una dispensa ecclesiastica che gli permise di leggere l’Indice dei libri proibiti e due ani più tardi, iniziò a scrivere recensioni ed articoli per La Rivista di Firenze. Allo scoppio della Prima guerra d’indipendenza, nel 1848, Collodi si arruolò volontario combattendo con altri studenti toscani a Curtatone e Montanara contro gli austriaci. Tornato a Firenze fondò una rivista satirica, Il Lampione (censurata da lì a breve). Per anni svolse un’intensa attività culturale nel campo dell’editoria e del giornalismo, occupandosi di letteratura, musica, arte. Nel 1856, durante la sua collaborazione con la rivista umoristica La Lente, per la prima volta si firma con lo pseudonimo di Collodi. E inizia a pubblicare i primi libri. Nella Seconda guerra d’indipendenza non si tira indietro e vi partecipa come soldato regolare piemontese nel Reggimento Cavalleggeri di Novara. Finita la campagna militare, ritornato a Firenze, si occupa di critica teatrale e su invito del Ministero della Pubblica Istruzione, entrò a far parte della redazione di un dizionario di lingua parlata, il “Novo vocabolario della lingua italiana secondo l’uso di Firenze”. Il suo approccio al mondo delle favole inizia all’aba dei cinquant’anni quando ricevette dall’editore Paggi il compito di tradurre le fiabe francesi più famose. Ma nons i limitò a questo: effettuò anche l’adattamento dei testi integrandovi una morale; e questo lavoro venne poi pubblicato sotto il titolo de “I racconti delle fate”. Nel 1877 apparve “Giannettino”, il primo di una lunga serie di testi per l’educazione che spaziavano dalla geografia alla grammatica e all’aritmetica . Questa serie faceva parte della Biblioteca Scolastica dell’editore Felice Paggi: un libro era venduto a due lire e, se era Legato in tela con placca a oro, a tre lire. Sia questa serie che il successivo “Minuzzolo”, anticipano di fatto la nascita di Pinocchio. Ed ecco che, il 7 luglio 1881, sul primo numero del periodico per l’infanzia “Giornale per i bambini “( praticamente il pioniere dei periodici italiani per ragazzi) uscì la prima puntata de Le avventure di Pinocchio, con il titolo Storia di un burattino. Due anni dopo, raccolte in volume ed arricchite dalle illustrazioni di Enrico Mozzanti, le avventure del burattino che voleva diventare un bambino in carne e ossa, vennero
pubblicate e, nel medesimo anno, Collodi diventò direttore del “Giornale per i bambini”. Carlo Lorenzini, detto Collodi, morì a Firenze nel 1890; dove è sepolto nel cimitero delle Porte Sante. Pinocchio, invece, in barba ai suoi 133 ( che non dimostra) è stato pubblicato in 187 edizioni e tradotto in 260 lingue o dialetti, è diventato protagonista di film, cartoni animati e sceneggiati, è stato riprodotto in una infinità di situazioni ed occasioni. In molti hanno provato a catalogarne significati e “morali”. Una di queste è particolarmente originale. Secondo Italo Calvino, Pinocchio è l’unico vero picaro della letteratura italiana, seppure in forma fantastica: le sue avventure rocambolesche, a volte scanzonate a volte drammatiche, sono tipiche di questa figura letteraria trova origine in Spagna, dal “Lazarillo de Tormes” fino a quella grande opera che segna la nascita del romanzo moderno europeo: il Don Chisciotte della Mancia di Miguel de Cervantes (1605). A noi, che lo incontrammo da piccoli e che imparammo ad amarlo, piace pensarlo all’Osteria del Gambero Rosso , in compagnia del Gatto e della Volpe) , mentre fugge con Lucignolo nel «Paese dei Balocchi» e finisce per trasformarsi, dopo cinque mesi di cuccagna, in un asino, finendo in una compagnia di pagliacci. Mastro Ciliegia, Geppetto, Mangiafuoco e la Fata Turchina lo accompagnano fin quando smette di essere un burattino e diventa un ragazzo in carne ed ossa. Pinocchio è un libro per bambini, edificante, educativo, letto anche dagli adulti perché ci aiuta a non perdere il contatto con la fantasia. Personalmente l’avevo perso di vista ma ho avuto la fortuna d’avere accanto chi mi ha aiutato a ritrovarlo.
Marco Travaglini





il boom economico, possono essere indipendenti economicamente dalla famiglia e possono coltivare i loro gusti musicali, il proprio modo di vestire. Il cinema racconta puntualmente questo cambiamento, e l’Archivio dell’ Istituto Luce lo segue passo passo. Attraverso una serie di interviste inedite ( Rita Pavone,stasera presente al Reposi, Caterina Caselli,Shel Shapiro, Mal, Ricky Gianco, Gianni Pettenati, Piero Vivarelli…) e un’approfondita ricerca sul materiale d’archivio e sui film musicali, rappresenta una carrellata su un’Italia che presenta le contraddizioni e le complessità dei cambiamenti di quel decennio che reca insieme i segni del consumismo e dell’omologazione ma anche i germi del dissenso e della rivolta. Una rivolta che, con il passare del tempo, diventerà anche politica e sociale. “ Non deve stupire infatti se se i ragazzi e gli adolescenti impazzivano per il rock di Celentano e poi per il beat di Caterina Caselli, di Rita pavone e dei Rokes diventeranno poi i protagonisti del ’68 e della rivolta giovanile.” “ Con ‘ Nessuno CI può giudicare’ – continua Steve – volevamo raccontare proprio quello. E ciò grazie all’ Istituto Luce, il più grande archivio di immagini del xx secolo,alla disponibilità della Titanus e a un archivio privato, i Superottimisti, che ci hanno fornito le immagini a colori di quel periodo.



prima prova narrativa, tra spostamenti temporali che cancellano non poco la chiarezza della vicenda, delle sensazioni, degli stati d’animo, con la fragilità di un’azione che alla fine si rivela decisamente inconcludente, si contrappone la durezza del cileno Jesus di Fernando Guzzoni. La storia di un ragazzo, della sua passione per la street dance, dei rapporti tempestosi con il padre, con cui trattare soltanto del maggior ordine nella casa o di una scuola a cui iscriversi, del suo perdersi nell’alcol e nella droga, un ritratto che non risparmia nulla, in cui i rapporti familiari sono pressoché zero con la conseguenza dell’idea che il branco sia l’unica soluzione, che la ragazzina di turno sia prontamente disponibile per un imperativo sessuale, che la stessa cosa possa succedere con l’amico cui si è più legati, in un rapporto omo di irruente immediatezza, senza ripensamenti. In quel perdersi capita che, nel panorama notturno di un parco abbandonato, Jesus e i suoi amici, ubriachi, irresponsabili, pestino a morte un altro ragazzo. La paura che sempre più s’impadronisce del ragazzo, mentre dal branco arrivano avvertimenti e minacce, fa sì che padre e figlio si sentano più vicini, che la richiesta d’aiuto venga ascoltata. Ma sino a quando? Preferirà forse il padre, vittima della propria durezza e disillusione, trovare una soluzione “migliore” per la rieducazione del figlio? A tratti davvero inconcepibile la forza con cui Guzzoni tratteggia e segue i suoi protagonisti, giovani e no, la rabbia e il vuoto che esiste in tutti, li fotografa sino all’annientamento di ogni regola, di ogni prospettiva per il futuro.




dimenticasse dell’antico allievo della Facoltà di Lettere Casalegno, che fu professore di liceo e giornalista, autore di migliaia di articoli e di pochi libri. Se le BR non gli avessero stroncato la vita a 61 anni, Casalegno – me lo confidò più volte con speranza per il futuro e rammarico per il passato e il presente – si sarebbe dedicato ad opere storiche che aveva in mente e che allora erano incompatibili con i ritmi di lavoro di un giornalista.
democratico come fondamento delle regole civili che sovrintendono la vita sociale. Egli sentiva il richiamo del Risorgimento liberale e della tradizione subalpina dello Stato, rifiutando con fastidio i contestatori che nel loro velleitarismo ideologico e nel loro richiamo e ricorso alla violenza, non solo verbale, si opponevano a quella civiltà fondata sulla tolleranza, profondamente amata da Casalegno. Spadolini lo definì giustamente un cittadino esemplare dell’«Italia della ragione» . Casalegno ebbe il torto, o meglio, il grande merito e soprattutto il coraggio e la lucidità, di vedere la deriva terroristica anche come frutto dell’estremismo contestatore. E questo sbocco eversivo egli denunciò con fermezza, pagando con la vita. E in quegli anni di piombo rispondere con l’arma della penna a chi usava il mitra per affermare le sue farneticazioni ideologiche fu la scelta di un democratico moderato che rifiutava per cultura, ma prima ancora per scelta morale, la violenza estremista.