Prosegue alla Casa degli archi “Martino Poletti” di Bureglio di Vignone (Vb) la mostra di pittura “I Longoni” , con le opere di Alberto Longoni e Lidia Josepyszyn. La mostra sarà visitabile fino al 20 agosto, tutti i giorni nel pomeriggio, dalle 16 alle 19, e nei giorni festivi anche al mattino, dalle 10 alle 12. L’evento artistico è patrocinato dal comune di Vignone e dall’associazione “la Degagna”. Quella dei Longoni è una famiglia di artisti, con il capostipite Alberto, la moglie Lidia e la
figlia Elisa. Nato a Milano nel 1921 e morto a Miazzina, sulle colline del Verbano, nel 1991, Alberto Longoni è stato un artista completo. Scrittore e illustratore di libri (tra i quali “Il gioco delle perle di vetro” di Hermann Hesse, una delle opere che contribuirono ad attribuire all’autore di “Siddharta” il Nobel per la letteratura ) eseguì incisioni, graffiti, dipinti, illustrò riviste italiane e straniere, copertine di dischi, ceramiche, sculture e collaborò all’architettura di giardini. Durante la guerra, militare a Creta, fu fatto prigioniero dei tedeschi e internato in Germania nel campo di concentramento di Buchenwald, a pochi chilometri da Weimar, la città di Goethe e Friedrich Schiller. L’orrore e la violenza nazista a due passi dal centro spirituale,
intellettuale e artistico della Germania e d’Europa. Lì, nel lager sulla collina dell’Ettersberg, incontrò una ragazza polacca, Lidia Josepyszyn, che diventò poi sua moglie. Una esperienza durissima, tremenda quella del lager in Turingia – dove morì
Mafalda di Savoia – che si può leggere proprio nella prima sala del Museo al Deportato di Carpi, dove si trova un suo graffito grande come tutta la parete che raffigura centinaia di deportati così come essi diventavano nel campo: magri, ridotti a pelle e ossa, con gli occhi vuoti e privi di espressione, senza bocca. Nel 2006 è stata pubblicata,a cura del comune di Verbania, in occasione di una mostra sulle opere di Alberto Longoni a Villa Giulia, la favola “Il cavaliere che non sapeva di essere cavaliere”, scritta dalla figlia Elisa e impreziosita dalle illustrazioni in bianco e nero del padre Alberto.
La rivista di umorismo e satira “Buduàr”, mensile online che si sfoglia come un giornale, riscopre e ripropone Enzo Tortora nella sua veste di scrittore pubblicando a puntate il suo libro “Le forche caudine”, premiato con la Palma D’Oro per la Letteratura Umoristica al XX Salone Internazionale dell’Umorismo di Bordighera del 1967.
giornale, è curato da Dino Aloi, Alessandro Prevosto e Marco De Angelis e vanta la collaborazione di molte delle migliori firme italiane e straniere, tra cui i disegnatori Giuliano, Staino, Bozzetto, Contemori, Silver, Lunari, Carnevali, Magnasciutti, Natali, Nardi, Trojano, Squillante, Ballouhey, Khiari, e gli scrittori Lico, Belluardo, Rinaldi, Mellana, Suarez.
Due mesi di grande cabaret e musica di qualità e altrettanti sold-out per gli artisti in calendario


A monte della frazione di Candoglia, nel comune di Mergozzo, sulla sinistra del fiume Toce, proprio all’imbocco della Val d’Ossola, si trovano le cave dalle quali proviene il marmo del Duomo di Milano
Il trasporto via acqua del materiale avveniva dal Toce al Lago Maggiore, lungo il Ticino e il Naviglio Grande per finire nel cuore della città fino alla darsena di S. Eustorgio, a Porta Ticinese. Così, grazie ad un ingegnoso sistema di chiuse, realizzato dalla “Veneranda Fabbrica”, il prezioso carico arrivava fino a poche centinaia di metri dal cantiere della Cattedrale. I barcaioli, per entrare in città senza pagare il dazio, utilizzavano una parola d’ordine – “Auf” – che in realtà era l’abbreviazione di Ad usum fabricae, cioè ad uso della Fabbrica, con la quale potevano passare senza versare il tributo imposto. In Lombardia, e non solo, è rimasta traccia di quell’usanza nell’espressione “A ufo” , intesa come “gratuitamente”. Chissà, poi, perché, a differenza del “gratis”, si è sempre più connotata con un profilo negativo, ma questa è un’altra storia… Il Cavalier Agenore Brusa, grossista di legname, proveniva da una delle famiglie che avevano, per
intere generazioni, fornito il materiale alla Veneranda, un fatto che lo rendeva oltremodo orgoglioso. “Bei tempi quelli, caro Giovanni. Mio nonno, prima, e mio padre poi hanno lavorato per la Fabbrica di Candoglia tutta la vita. E ora, dopo che anch’io ho fatto la mia parte, tocca al mio Giulio tenere alto il buon nome dei Brusa” era solito ripetere all’amico Ambrogini. Il ragionier Giovanni Ambrogini era il braccio destro del signor Brusa. Da oltre trent’anni, senza mancare un giorno dall’ufficio, teneva con scrupolo la contabilità della “Brusa & Figli”. Era diventato, per Agenore, quasi un fratello. E come tale lo trattava, chiedendo consigli e ascoltandone i punti di vista che, immancabilmente, teneva in gran considerazione. Per il resto, grazie all’impegno di tutti, la “Brusa & Figli” era un’azienda più che solida e al fidatissimo contabile l’anziano titolare garantiva un adeguato stipendio, commisurato ai suoi servigi. Da troppo tempo, per mille ragioni, il signor Agenore non si recava a Milano, in visita al Duomo. L’ultima volta, con uno sforzo di memoria, immaginò fosse stata quand’era nato il piccolo Giulio. Ma da allora, di anni n’erano passati ben trentadue. “Occorre andarci, a Milano”, comunicò al ragioniere. “E ci andremo insieme, caro Giovanni. Così vedrai anche tu come sono conosciuto in quella città. Devi sapere che è proprio grazie alla mia attività al servizio della Fabbrica del
Duomo che mi hanno insignito del titolo di Cavaliere del Lavoro”. Agenore teneva moltissimo a quel titolo e amava, come lui stesso affermava, “vestirsi con l’abito giusto”, quello “da Cavaliere”, una divisa che, per l’imprenditore, equivaleva a pantaloni e giacca di fustagno scuro, camicia bianca e corto cravattino nero, scarpe comode e, in testa, un vecchio “Panizza” di feltro al quale teneva molto, regalatogli dal padre Igino. I due partirono dalla stazione di Verbania-Fondotoce con il treno delle 6,29. Era un sabato e non faticarono a trovare posto a sedere sul treno mezzo vuoto, dato che gran parte dei pendolari che si recavano ogni giorno a Milano per lavoro avevano terminato la loro settimana. A Porta Garibaldi presero la linea verde della metropolitana fino a Cadorna e da lì, con la linea rossa, giunsero a destinazione alla fermata “Duomo”. Uscendo dalla metropolitana, in cime alle scale, si trovarono davanti l’imponente e gotica sagoma del Duomo. “Ah, che meraviglia”, esclamò estasiato il Cavalier Brusa, agitando la mano destra dove, tra indice e medio, teneva l’immancabile sigaro toscano. Il ragionier Ambrogini, estrasse dalla tasca un piccolo bloc-notes , leggendo i suoi appunti. “La quarta chiesa in Europa per superficie, dopo San Pietro in Vaticano, l’anglicana Saint Paul di Londra e la cattedrale di Siviglia ;la più importante dell’arcidiocesi milanese, sede della parrocchia di Santa Tecla..”. Il buon Giovanni, preciso come un ferroviere svizzero, si era documentato ben bene. Al Cavaliere quell’accuratezza, diligente e meticolosa, piaceva molto. In molti consideravano l’Ambrogini un pignolo, persino un po’ pedante, ma ciò che i più consideravano un difetto, per Agenore Brusa rappresentava una qualità. E che qualità: cura, scrupolo e rigore! Il massimo che potesse desiderare dal suo più stretto e fidato collaboratore. Lo ascoltava, ammaliato, senza dimenticarsi di ricambiare – con un cenno di capo – al saluto che gli
avevano rivolto alcuni passanti. “Ci sono voluti cinque secoli per costruirlo, durante i quali si sono avvicendati nella Fabbrica del Duomo architetti, scultori, artisti e maestranze, provenienti da tutta Europa. Il risultato è un’architettura unica, una felice fusione tra lo stile gotico d’oltralpe e la tradizione lombarda. Con una decorazione impressionante di guglie, pinnacoli, cornici e un patrimonio immenso di oltre tremila statue. E sulla più alta delle 145 guglie, la celeberrima Madonnina che non è d’oro, ma ricoperta di fogli d’oro”. Il ragioniere era, come sempre, sintetico ed esauriente. A quel punto il Cavalier Brusa lo esortò a varcare il doppio portale in bronzo.“Forza, Giovanni. Andiamo a vedere anche all’interno com’è stato magistralmente lavorato il nostro marmo! A proposito, hai visto che persone ben educate? Salutano, cortesemente. Si vede che anche qui conoscono i Brusa, con tutto quello che abbiamo fatto per Milano, eh?”. Spento il toscano sotto la suola della scarpa e riposto in tasca il resto del sigaro (Brusa era un parsimonioso e il suo motto era “non si butta via niente”), entrarono in Duomo, rimanendo a bocca aperta davanti alle cinque navate. Quella centrale, poi, era davvero ampia e alta e ai lati si potevano ammirare magnifiche vetrate istoriate che raffiguravano scene religiose. Una di esse, superba, rappresentava il Giudizio Universale. Il Cavalier Brusa, informato dal fedele Giovanni, di ciò che conteneva la teca sopra il coro, voleva a tutti i costi ammirare quel chiodo che si riteneva provenisse della croce di Gesù e si avviò in quella direzione con ampie falcate. Mentre camminava, s’accorse di essere
oggetto di insistenti sguardi da parte delle persone che incontrava. Alcuni sgranavano gli occhi, altri si davano di gomito. Mentre avanzava impettito, gli venne incontro un sacerdote in chiaro stato d’ansia, visibilmente affannato. Il prelato , rivolto al Cavaliere, ripeteva concitato la stessa breve frase, in milanese: “ Sciur, al Brüsa”, “Sciur, al Brüsa”, “Sciur, al Brüsa”, … Agenore Brusa, voltandosi verso il ragionier Ambrogini, disse soddisfatto: “Vedi, Giovanni. Qui mi conoscono tutti”. E solo in quel momento il povero ragioniere s’accorse che la marsina del suo principale stava andando in fiamme. Evidentemente il toscano non era stato spento bene e si era ravvivato nella tasca. Il prete, sicuramente lombardo e certamente alterato, aveva lanciato l’allarme rivolgendosi al Cavaliere in dialetto meneghino e quel “Sciur, al Brüsa”, più che ad una individuazione dell’identità del signor Agenore equivaleva all’allarmante fumo che proveniva dal vestito del medesimo, ignaro, visitatore del Duomo. Così, spento l’incendio, i due lasciarono la cattedrale e Milano, frastornato e ammutolito, Giovanni Ambrogini, contrariato e scuro in volto, il Cavaliere che, una volta tanto e suo malgrado, era stato costretto a venir meno al suo principio del “non buttar via niente”, lasciando in un bidone della spazzatura la giacca bruciacchiata e quel resto di sigaro che aveva tenuto per il viaggio di ritorno.
Giovedì 3 agosto alle ore 21, in piazzale Buraggi, sul Lungomare di Finale Ligure, il prof. Valentino Castellani, docente universitario e già Sindaco di Torino
“Centofiori” per il ciclo “Un libro per l’estate”. Il nuovo libro di Quaglieni raccoglie trenta ritratti di personalità italiane delle storia recente da Einaudi ad Amendola, da Calamandrei a Chabod, da Jemolo a Bobbio,da Montanelli, da Luraghi a Ciampi, da Spadolini a Romeo, da Olivetti a Pininfarina, da Tortora a Pannella. Ne viene fuori un ritratto dell’Italia civile che l’autore ritiene vada riscoperta e valorizzata come patrimonio irrinunciabile anche per il futuro delle nuove generazioni. La storia ligure Bianca Montale ha visto nel libro di Quaglieni un ” grande equilibrio storico” che gli evita di cadere nell’agiografia o nella critica di parte. Dino Cofrancesco, recensendo il libro, ha detto che Quaglieni “non fa sconti neppure agli amici”. Il libro segue un percorso storico, mai scontato in cui l’autore narra dei suoi incontri e delle sue amicizie con tanti dei protagonisti di cui scrive. Il libro ha avuto il riconoscimento speciale del Premio Pontremoli e recentemente del Premio “Cesare Pavese “che verrà consegnato all’autore il 27 agosto a Santo Stefano Belbo.
Io conobbi un De Benedetti vecchio e “buono” che si beveva una bottiglia di whisky in un pomeriggio , rimanendo quasi lucido nel suo buen ritiro di Rosta. Conobbi un ex direttore de “La Stampa” che portava ad un giovane appena laureato un suo articoletto nel primo covo del centro “Pannunzio ” di piazza Castello ,chiedendo con squisita ironia di leggerlo e di dirgli se andava bene. Ma tutti gli amici giornalisti che ho conosciuto ,salvo forse Ferruccio Borio e Carlo Casalegno ,mi parlavano con rabbia di “gdb “, com’era soprannominato e come amava firmare i suoi fondi che sembra fossero scritti da altri,alcuni dicono da Casalegno.
tipicamente , lucidamente, liberalissimamente pannunziana “. Bettiza che per brevissimo periodo fu comunista prima dei vent’anni, esule da Spalato conquistata dai titini, e’ stato un testimone dell’anticomunismo liberale che seppe opporsi a tutti gli autoritarismi e i totalitarismi del Novecento che egli considerò non un secolo breve, ma un secolo semmai troppo lungo a causa del comunismo che tenne banco dal 1917 in poi. Rispetto a quelli che Giovanni Giovannini chiamava con disprezzo direttorini e giornalistini ,egli seppe tenere la schiena diritta sempre. Una grande lezione anche deontologica ai tanti che nei giornali chinano non solo la schiena, ma anche la testa. Pure con l’amico Montanelli, quando ritenne di dissentire, lo fece liberamente, andandosene dal giornale di cui era condirettore. Soprattutto per tanti di noi, in primis per chi scrive, nel 1976 fu di esempio perché invece di “turarsi il naso” e votare Dc o firmare manifesti per annunciare il voto al Pci come fece la maggioranza dei giornalisti e degli intellettuali italiani, fu tra i promotori, con Alberto Ronchey e Cesare Zappulli, di un’iniziativa di minoranza che non fu premiata dagli elettori e invece ebbe grande importanza morale perché significò per noi il non arrendersi all’ondata clerico-marxista che rischiava di travolgere la democrazia italiana : la lista liberale, repubblicana, socialista democratica proposta in alcune regioni italiane . Bettiza e Zappulli vennero eletti ,Ronchey no. Ma va ricordato che quella lista riaffermava il senso storico-politico di un’alleanza dopo che nel PLI era prevalso Zanone ,nel PRI circolavano i vaneggiamenti senili di La Malfa a favore del
compromesso storico e i socialdemocratici ,dopo le amministrative del 1975, erano passati, armi e bagagli, a sostenere le giunte rosse, tradendo il voto degli elettori. E’ naturale quindi che Bettiza abbia visto con favore Bettino Craxi e il suo tentativo di affrancare il socialismo italiano che fu di Rosselli e di Matteotti ,ma anche di Saragat e di Nenni,dall’abbraccio mortale del Pci e del compromesso storico con una Dc di sinistra che aveva rinnegato del tutto lo spirito degasperiano. Ci siamo sentiti spesso e abbiamo collaborato sovente. E ‘stato naturale che gli fosse conferito il Premio “Pannunzio”.Un premio azzeccato come quello a Spadolini,a Montanelli,a Ronchey che ha avuto anche premiati immeritevoli soprattutto per quello che fecero dopo il conferimento come Furio Colombo ,Vittorio Feltri e l’incredibile
Barbara ,figlia di Altiero Spinelli, che, dopo aver parlato del comunismo come di “un’utopia assassina”, si riposizionò nell’estremismo nostalgico del comunismo ed occupò un posto al Parlamento europeo, malgrado avesse dichiarato che, se eletta, avrebbe rinunciato al seggio. Una volta Bettiza, quando nel 2003 venne nominato da Ciampi cavaliere di Gran Croce mi telefono ‘ e mi disse ,scherzando, che finalmente anche lui era stato nominato ,sia pure quattro anni dopo di me. Era rimasto colpito dalla rosetta che mi vide all’occhiello. Inutile dire che Bettiza, che fu senatore e deputato, non amava titoli e nastrini di nessun tipo. Il suo essere stato esule non fu per lui, come per tanti italiani che dovettero lasciare la propria terra dopo il Trattato di pace del 1947 ,un elemento di particolare
distinzione che non volle mai rivendicare. Bettiza ,come racconto ‘ nel suo straordinario romanzo “Esilio” cercò subito di mettersi al lavoro, inserendosi attivamente in Italia, cosa che non era così facile per i circa 350 mila istriano-giuliano- dalmati dell’esodo-di cui Enzo non si sentì parte-accolti malamente in patria e considerati dei fascisti. All’inizio accettò qualsiasi lavoro e solo in tempi successivi incominciò a fare il giornalista nel 1953 ad “Epoca”, per poi passare alla “Stampa” nel 1957. La sua è una storia totalmente diversa ,ad esempio, da quella di Ottavio Missoni ,nato a Ragusa da padre di origine giuliana ,che invece fu con orgoglio sindaco della “Libera città di Zara” in esilio e fu insieme al patriota Lucio Toth, uno dei difensori delle ragioni di chi patì l’esodo ed ebbe lutti famigliari a causa degli infoibamenti.
Infatti nel “Giorno del ricordo delle foibe e dell ‘esodo” che venne celebrato il 10 febbraio in tutta Italia a partire dal 2004 non fu possibile coinvolgerlo. Io cercai di farlo, ma fu irremovibile. Gli offrii l’opportunità di parlare a palazzo Carignano di Torino, ma mi disse che dovevo farlo io come storico e non lui come esule. Fu irremovibile. Enzo si sentiva certo italiano, ma non solo italiano era anche un po’ nostalgico dell’impero austro-ungarico e del mondo in cui era nato e vissuto a Spalato in cui convivevano slavi e italiani ed in cui egli aveva appreso il bilinguismo come un qualcosa di ovvio e naturale. La Dalmazia era certamente una terra italiana, veneziana e romana per storia e cultura, ma aveva anche un’identità slava che non poteva essere negata e che Enzo sentiva come sua. Qualcuno lo ha definito mitteleuropeo, anche se la Dalmazia è geograficamente nei Balcani e proprio dall’Europa orientale Bettiza ha tratto stimolo per affermare costantemente i valori della libertà come valori irrinunciabili. 
Ultimo concerto prima della pausa estiva, il 30 luglio a Moncalieri, poi Voci e Volti ritorna da metà settembre con gli appuntamenti conclusivi della rassegna
Il prestigioso Edinburgh International Festival propone il meglio del panorama musicale e teatrale non solo europeo e, per celebrare i 70 anni di attività, ha scelto il Regio quale Resident Company