IL COMMENTO di Pier Franco Quaglieni
Il cambiamento non sempre riesce a premiare. Neppure in Tv dove le rendite di posizione sono molto frequenti e il pubblico in parte e’ fidelizzato. Il passaggio dalla rete 3 alla 1 di Fabio Fazio che scherzosamente a Savona chiamano il Fazioso ,si sta rivelando un flop,malgrado Fabio costi tantissimo alla Rai. Fabio e’ il tipico personaggio adatto a Rai 3 e al pubblico di quella che fu Telekabul. Sono ex comunisti che nell’intimo sono rimasti tali e sono caratterizzati da un antiberlusconismo epilettico ( uso l’aggettivo di Emilio Lussu adoperato per gli anticomunisti ) e in precedenza da un rifiuto viscerale di Craxi considerato un social – fascista .Fazio e la sua degnissima compagna di scena Luciana Littizzetto, reginetta torinese delle volgarità e delle banalità più stupide, hanno il loro pubblico che li ama e li segue. Sono lo zoccolo duro di cui parlava Occhetto. Oltre non vanno. Il pubblico di Rai 1 che può
avere mille altri difetti ,non accetta l’untuosa faziosita ‘ del Savonese e le chiacchierate scurrili e piene di bile della ineffabile Lucianina piemontarda nell’accento e poco urbana nei modi. Non ci voleva molto a capirlo. Forse adesso sia Fazio che la Littizzetto e la loro compagnia “selvaggia e matta”, anche se molto conformista e legata al cachet come massimo valore, sono diventati renziani e forse non piacciono neppure più al loro zoccolo duro. Un altro errore di Rai1 e’ aver allontanato Massimo Giletti,un professionista serio,capace,libero,una sorta di antiFazio . Io lo apprezzo dal tempo in cui era studente al liceo d’Azeglio di Torino e non si fece intruppare nella
contestazione . La sua “Arena “era un ‘arena di dibattito libero in cui si ponevano domande coraggiose e per molti ardue .Ne usciva fuori la pochezza della classe politica odierna . A Giletti si doveva imporre la mordacchia . Le due sorelle Parodi sono piacevoli ma sono visibilmente fragili e si comportano come pesci fuor d’acqua. Anche il pomeriggio domenicale di Rai1 e’ un insuccesso. Giletti e’ un uomo coraggioso,un giornalista incredibilmente bistrattato dall’Ordine dei Giornalisti ,malgrado sia ,come si dice oggi, uno con le palle , cioè con una sua autonomia di giudizio.La tv di Stato non ha saputo tenerselo, ma il pubblico continuerà a seguirlo come merita. E’ uno dei pochi torinesi che tenga alto con orgoglio il nome di Torino senza scadere nel provincialismo. Anche solo per questo motivo una rarità .
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Magri espedienti che tuttavia negli esempi citati possono dare il via a confessioni e a distruzioni. Ha senza dubbio motivazioni più forti, serie e attualissime la cena che a poco a poco si profila all’orizzonte di Disgraced/Dis-crimini con cui lo Stabile torinese ha aperto la propria stagione al Carignano nei giorni scorsi.
l’aria del successo e innamorata della cultura islamica, un agente/critico/affarista ebreo, che ragiona con rabbia di rapporti israelo/palestiniani e si tranquillizza con le doti artistiche e con il corpo dell’artista, la di lui moglie, afroamericana, che non troverà di meglio che far le scarpe al collega avvocato e sistemarsi come meglio non potrebbe nella buona società. La regia del tedesco Martin Kušej entra perfettamente nelle psicologie dei personaggi, ne scava gli intimi rapporti, divide la vicenda per capitoli intervallati da lunghe zone buie, come tutto il resto inondate da un commento musicale ossessivo, setaccia le parole e i movimenti, tende all’astratto asciugando la scena (di Annette Murschetz, un’immagine certo non uno sviluppo) di ogni elemento per ridurla ad una angolare parete
bianca, sporcata di tanto in tanto dalla padrona di casa con insignificanti scarabocchi, e ad uno scricchiolante – per le camminate e gli assaggi sessuali dei protagonisti – pavimento nerastro di carbone. Inevitabilmente ogni cosa muta, come in uno specchio ormai deformato, niente sarà più come prima, gli assurdi convenevoli sulla porta di casa e l’elenco delle portate sanno di estrema assurdità. Ogni cosa inevitabilmente si sporca, nella realtà come nel luogo mentale che si è costruito attorno ai dialoghi, gli attori soprattutto, chiamati a una fatica non da poco, che alla fine si libera con gli applausi, visi e mani e gambe impiastricciati, in questo sconcerto di cambiamenti che nasce dalla lotta, dalle belle maniere in via di distruzione, dalle regole che non possono più essere le stesse. Forse tutto appare volto all’eccesso, ma si può anche essere d’accordo con una simile lettura che raccoglie nell’intimo di ciascuno le parole dell’autore, che universalizza, spingendoci a farle più nostre, a rimodellarle, a ripensarle. 

colleghi – che gli chiedeva un’opera per la sua collezione lagunare. Certamente fu uno dei più grandi scultori italiani del ‘900. Molto apprezzato in vita – fu anche docente all’Accademia Libera di Belle Arti e all’Istituto Statale d’Arte di Torino, oggi Liceo artistico “Aldo Passoni” – ebbe pure una significativa fortuna collezionistica in particolare nella Torino degli Anni ’60: alcune sue opere fanno oggi parte
questo senso fu artista di stampo assolutamente singolare, Giansone. Celebre in vita, quasi dimenticato dopo la scomparsa. La bellissima mostra che in Sala Atelier, Palazzo Madama dedica oggi ai suoi gioielli in oro è dunque un tributo doveroso e intelligente alla memoria di un artista che, in tutta la sua vita, ha scolpito, disegnato e dipinto seguendo emozioni e percorsi spirituali tradotti in forme sospese fra “sintetica figuratività” e “astrazione pura”. Curata da Marco Basso e dall’amico-collezionista Giuseppe Floridia, la rassegna – inserita nell’ambito di “Torino Design of the City”– mette insieme una quarantina di opere (in gran parte di proprietà dell’“Associazione Archivio Storico Mario Giansone”, più alcuni pezzi prestati da collezioni private) datate fra il 1935 e il 1997 in cui spiccano i suoi “gioielli”, veri e propri “gioielli da indossare”: microsculture fuse in oro che, accanto a disegni e sculture in metallo e pietra, mettono spesso in evidenza un altro grande amore di Giansone, quello per il jazz. Che fu tema ispirativo di opere imponenti (mirabili nel rapporto fra “vuoti” e “pieni” e nella definizione di effetti luminosi di magica suggestione), come l’ “Orchestra jazz” in porfido del ’67 o l’incantevole bronzo su pietre di fiume “Ideogramma del jazz” del ’58, stesso anno della tempera su cartone
“Pianista e orchestra jazz”. Motivi che troviamo anche incisi o riportati in rilievo in molti dei suoi preziosi monili (collane, anelli, girocolli, bracciali), in cui l’artista si sforza sempre di porre in risalto la componente plastica, più che vezzi e cifre stilistiche dell’arte orafa del tempo. A dirlo sono anche i contenitori lignei degli stessi gioielli – “scatole” intagliate in legni durissimi come il mogano, il palissandro, la radica e soprattutto l’ebano – che diventano a loro volta piccole sculture e capolavori artistici. A tentare Giansone e a metterlo a faticosa prova, armato di scalpello e sgorbia, è infatti soprattutto la “materia dura”, il marmo o la pietra o il ferro o i legni più tenaci, in
cui scavare e sottrarre per arrivare a quella che lui definiva “scultura diretta”, capace di “dare forma e vita alle sue emozioni, alla sua visione dell’umanità, dell’universo e dell’ultraterreno”. E perfino alla sonorità e alle improvvisazioni tipiche della musica jazz. Sensazioni. Emozioni forti che sarà possibile sperimentare, in misura ancor più intensa, visitando lo studio di Mario Giansone ( in via Messina 38 a Torino), che, in occasione della mostra a Palazzo Madama, resterà eccezionalmente aperto per visite guidate a prenotazione obbligatoria fino al 20 gennaio del prossimo anno, tutti venerdì e sabato alle 17,30 e alle 18,30 (ad esclusione dei giorni 8, 9, 22, 23, 29 e 30 dicembre); inoltre, in occasione di “Artissima”, lo studio sarà visitabile dal 3 al 5 novembre con orario prolungato, dalle 10 alle 19,30. Info e prenotazione obbligatoria: tel. 011/4436999 oppure didattica@fondazionetorinomusei. It.
Si spense la sera del 14 gennaio 1938 Giacomo Grosso, acclamatissimo cantore della buona borghesia torinese, e non soltanto, il ritrattista per antonomasia delle signore bene, degli industriali come Vittorio Tedeschi, degli scultori come Calandra e dei pittori come Delleani e dei grandi musicisti come Verdi, delle nudità femminili che negli anni addietro avevano fatto scandalo.
assoluta povertà, di “disperante miseria” – come anche ricordava De Amici in una breve biografia del 1906: “Il genio del celebre pittore piemontese germinò e fiorì nella miseria… campavano di stenti e pativano spesso la fame” -, che è accettato in differenti seminari, con tanto di punizioni e di sottrazione di una scatola di colori che gli era utile per i primi esercizi, che entra, grazie all’intercessione di Andrea Gastaldi, nelle sale dell’Accademia Albertina, a sostenerlo la somma di trecentosessanta lire annue che sotto il titolo di pensione gli fa pervenire il sindaco di Cambiano, Michele Rocco, che arrotonda ripassando con il colore ingrandimenti fotografici dovuti a Giuseppe Vanetti, che ha lo studio in piazza Vittorio, compenso cinque lire ciascuno. Poi i primi premi, il primo mecenate che lo ospita addirittura a Roma con tanto di atelier nel palazzo del Quirinale, i primi viaggi all’estero, l’insegnamento (mantenne la cattedra di Pittura per 46 anni) e lo studio presso l’Albertina, Grand’Ufficiale della Corona d’Italia, senatore del Regno, a due anni dalla scomparsa una personale presso il salone de “La Stampa” che in quindici giorni raccoglie oltre 120.000 visitatori.
attività posti nella sala del Consiglio del Palazzo Comunale di Cambiano, dove s’ammira l’impressionistico Favorito, sguardo ravvicinato tra una elegante ragazza e il suo azzurrognolo pavone o gli autoritratti giovanili, la vivacità di quella vetrina realissima di peperoni carnosi nei loro colori rosso e giallo e d’uva piena di riflessi o quel Pater Noster che pecca già oltre misura di finzione, subito riscattato dai ritratti della madre e del padre, umanamente immediato dentro la semplicità dell’abito e della poltrona che lo accoglie, le dite intrecciate di quelle mani che per l’intera vita hanno lavorato il legno, omaggio autentico di un figlio. Nelle sale dell’Albertina, inserendosi quasi a fatica tra le abituali collezioni, inquadrando per se stesse spazi color crema nell’azzurrino che siamo soliti visitare, ritroviamo la concretezza di certi ritratti di amici pittori, certi angoli romani o di Venezia, le nature morte che allineano ciliegie o un tripudio di ostriche e anguille e un grosso pesce ammirato e “fotografato” su un banco di qualche antico mercato. O quei funghi che sono un fornitissimo pantone di tinte marrone, raccolti soltanto ieri in val di Susa. O la naturalezza di una verza, polposissima, gigantesca. O la tranquillità della Sera che avanza in quel borgo che sale su per la montagna, dove dentro stanno tanti nomi di colleghi piemontesi. O quel capolavoro che da solo meriterebbe la visita, quella Figura di monaca, di verghiana memoria o forse manzoniana, senza ricciolo in bella mostra ma con quegli occhi che lasciano intravedere un’ombra di sottile perfidia e di complicità. Ritroviamo – con un bell’avamposto fotografico che sono le immagini delle modelle nella loro completa nudità ad opera di Ferdinando Fino, una vetrina di fotografie autocrome stereoscopiche, ovvero il 3D odierno, che ci riportano all’interno dello studio dell’artista, stanza preziosa curata da Fabio Amerio – La nuda, esempio perfetto di procace bellezza muliebre, immersa a guardare lo spettatore nel bianco immenso di una pelliccia d’orso, capace già di scandalizzare e di scombussolare gli ingessati signori del tempo (mai quanto Il supremo convegno alla Biennale veneziana del 1895, momento altamente funebre ed erotico di cinque donne attorno alla bara dell’antico amante, occasione degli strali di Papa Sarto, vendicato di quel peccato da un incendio che a New York, con la sua stima di 150.000 dollari, lo ridusse in cenere.
IL COMMENTO
Mario l’aveva portata da Tellaro a Corconio, dalla frazione più orientale del comune di Lerici, nello spezzino, dove aveva scelto di vivere i suoi ultimi anni, al luogo che, forse, più di altri, aveva lasciato un segno, una traccia indelebile nel suo animo, sulla collina che guarda il lago d’Orta.
più bella e più soleggiata dell’albergo, con una finestra a nord e una a ovest”. I ricordi erano come un fiume in piena. Le lunghe chiacchierate davanti al fuoco del camino, mangiando castagne arrosto o bollite, bevendo il vino nuovo nelle ciotole, si accompagnavano alle pagine che vennero scritte, ai libri che presero forma, agli articoli e ai saggi critici che consentirono loro di racimolare il necessario per poter vivere “da scrittori”. L’ambiente circostante si offriva in tutta la sua bellezza da una sponda del lago all’altra; da Gozzano a Orta, fino ad Omegna e da lì verso Oira, Ronco, Pella e Lagna. Dal balconcino della casa di Corconio, il panorama era rimasto intatto. Mario guardava, ammirato, la camelia dai fiori color panna e fragola. Poi, chiusi gli occhi, annusando l’aria, immaginava i colori del lago. Mario dubitava di potervi tornare. L’età non consentiva grandi progetti e nemmeno il coltivar illusioni. Lo consolava il pensiero che la più bella delle sue camelie potesse rimaner lì, a dimora. Un gesto d’amore di un uomo che in quei luoghi aveva lasciato un pezzo del suo cuore.
Sono quaranta i clochard torinesi protagonisti del docu-film ”Al di qua” di Corrado Franco.

IN RASSEGNA ANCHE OPERE A TEMA DI NIKI DE SAINT PHALLE.
con lo scopo preciso di accompagnare il gioco delle carte dei Tarocchi. E che dire del nostro grande Italo Calvino (1923-1985) e del suo celebre “Castello dei destini incrociati”, libro in cui lo scrittore di origini cubane utilizza proprio le carte dei Tarocchi per raccontare le storie di un gruppo di viaggiatori radunati dal destino in un castello.
volte guardati anche (per la loro più o meno acclarata funzione divinatoria) con un certo imbarazzante sospetto, ma una cosa è certa: dalla filosofia alla psicoanalisi, dalle scienze storiche alla letteratura alla poesia e all’arte, non esiste campo dell’espressività e dello “scibile” umano che non sia stato tentato e toccato dalla magia innegabile di queste antiche 78 carte. Che hanno storia lunga, storia che dura da sei secoli. A farne un suggestivo e dettagliato resoconto, attraverso un evento espositivo unico nel suo genere e a cura di Anna Maria Morsucci, sono il MEF (Museo Ettore Fico) e la Casa editrice “Lo Scarabeo” di Torino che, su oltre mille metri quadri dello spazio museale di via Cigna,
presentano un ricchissimo repertorio di mazzi antichi e moderni, carte miniate in oro, libri, documenti provenienti da importanti collezioni private, editti, matrici di stampa e bozzetti inediti di celebri artisti contemporanei.
seicenteschi “Tarocchini bolognesi” realizzati dall’incisore Giuseppe Maria Mitelli, insieme alle edizioni antiche dei “Tarocchi marsigliesi”, ai Tarocchi austriaci” della Secessione Viennese e ad altri rarissimi mazzi di produzione italiana, francese e tedesca.
innovativi del tempo (come quelli della Pop Art o della Street Art), bene accompagnati a prove preziose di alcuni “grandi” della storia dell’arte novecentesca: da Renato Guttuso (in mostra, l’inquietante “Appeso”), a Franco Gentilini, a Emanuele Luzzati (con i suoi solari e giocosi “Bambini amanti”) fino a Ferenc Pintér a Sergio Toppi e a molti altri. Curiosa anche la sezione a “luci rosse”, dedicata ai “Tarocchi erotici” con opere di Paolo Eleuteri Serpieri, di Giacinto Gaudenzi e Mauro De Luca. Così come quella volta a documentare l’influenza dei Tarocchi nel fumetto (da Dylan Dog ai Supereroi, da Diabolyk a Corto Maltese), nel cinema, nella musica e nella letteratura.