Il Divine Queer Film Festival (DQFF) si terrà dal 10 al 12 novembre. Tre giorni di proiezioni sui temi di identità di genere, migrazione e disabilità. Tutti e tre i temi trattati, ovviamente, in una prospettiva Queer. La location quest’anno sarà al Via Baltea – Laboratori di Barriera, in via Baltea, 3 a Torino. La sostanza però non cambia: sarà un festival cinematografico ricco di produzioni indipendenti e soprattutto a ingresso libero e gratuito. Divine, giunto ormai alla sua terza edizione, nasce dal desiderio di infrangere, attraverso il linguaggio cinematografico, stereotipi, pregiudizi, tabù e paure sulle persone transessuali/transgender, disabili e migranti. Raccontando in modo ironico e positivo le storie di chi, ogni giorno, non si arrende e continua a lottare in maniera costruttiva per apportare un cambiamento.

È online la programmazione sul sito ufficiale www.divinequeer.it: le pellicole avranno una provenienza ricca e varia: Italia, Belgio, Australia, India, Turchia, Germania, Canada, Irlanda, Nuova Zelanda, Francia, e Stati Uniti. Nel palinsesto sono previsti corti, medi e lungometraggi sia di finzione che documentaristici. Inoltre tutte le proiezioni saranno in lingua originale e sottotitolati in Italiano e per tutti i dibattiti/interventi sarà garantito il servizio di interpreti LIS, offerto dalla Città di Torino. Via Baltea garantisce la massima accessibilità alle persone con disabilità fisiche.
Inoltre verrà proiettato tutte le sere il film Verba Volant dedicato a due giovani insegnanti in sciopero della fame da più di 200 giorni in Turchia. L’edizione è quest’anno interamente dedicata a Mario Mieli, attivista e teorico Queer in Italia.Anche in questa edizione saranno assegnati tre premi ai film in gara: un premio assegnato dal DQFF, uno assegnato da una giuria internazionale e uno assegnato dal pubblico. Tutti i premi sono stati realizzati dall’artista Roque Fucci. La premiazione è prevista l’ultima sera del Festival. Sono previsti inoltre interventi di alcuni registi e ogni sera si potrà anche fare convivialità con aperitivi, spaghettate all’interno di Via Baltea. Prima, durante e dopo il Festival tutti gli aggiornamenti saranno disponibili sul sito web ufficiale del DQFF e sui social newtork Twitter(@DivineQueerFF) e Facebook(@divineqff). Incomincia a seguirci!
Tutte le sere inoltre sono previsti momenti conviviali, aperitivi, spaghettate e pizzate divine e sabato 11 ci sarà una festa con dj Maestro Totale con cui ci scateneremo sulle note di musica anni ’80 fino alle 3 del mattino! Il Divine è organizzato dall’associazione culturale Taksim ed è patrocinato dalla Regione Piemonte, dalla Città Metropolitana di Torino, dal Comune di Torino e da Amnesty International (Italia).


parte per sedersi a fiato corto nel seguito con buone zone di noia. Si scomoda Shakespeare, si camuffano brevi suoi brani, si va a finire negli insegnamenti e nella signorilità dell’uno (ah! i ringraziamenti, anche quelli, diceva un vecchio autore e regista teatrale scomparso, Aldo Trionfo, di cui nessuno si ricorda più) confrontati con il naïf che è ben ancorato nel cuore di Andrew, si contorna il tutto con figurine più riuscite altre decisamente no (la fidanzatina ventinovenne e vergine, avversa al sesso prematrimoniale, che prova a essere Ofelia), si condisce il tutto con un dialogo che dovrebbe sfavillare ma che a tratti s’ammoscia e non trova la strada del più schietto e allargato divertimento. E anche la regia di Alessandro Benvenuti la si vorrebbe più tagliente e cattiva, più corrosiva nel fronteggiare due mondi lontani anni luce e invece è lì più a inquadrare e a rincorrere il piccolo effetto del momento. Ugo Pagliai “porge” con eleganza le proprie battute e gigioneggia e sbevacchia meno – crediamo – di quanto non facesse il suo Barrymore, Paola Gassman trova, come uscendo da un altro testo, un angolo di ricordi e di danza con il reduce di una lontana avventura, Annalisa Favetti centra in pieno la sua agente e la sorpresona Guglielmo Favilla a tratti mette in ombra tutti quanti nell’irruenza senza tregua del suo regista imbonitore. E poi c’è lui, Gabriel Garko, che tutti aspettano al varco, un attore su cui persino Ronconi un giorno volle
scommettere, assieme a Zeffirelli e Ozpetek. È il suo testo, quello che pare scritto apposta per lui, divetto televisivo prestato al palcoscenico, lo ha ammesso: e allora godiamocelo così come è, con i suoi inciampi, con la sua dizione rattoppata, con la sua s imperfetta, con i vuoti non riempiti quando ascolta i colleghi con le loro battute, con la sua unica espressione, con quei tentativi di salire il primo gradino della recitazione. L’importante è partecipare, diceva quel tale: tanto poi magari dietro l’angolo c’è un’altra bella (ed economicamente corroborante) serie di Canale Cinque ad aspettarlo, fatta di onori rispetti peccati e vergogne. Qui c’è già un bel coraggio ad autoironizzarsi, a scendere in pista.

doppia ribellione, con una stretta napoletaneità, con un linguaggio esasperato, con un gesticolare plateale, con le voci alte, gettate l’una contro la faccia dell’altro: mentre poi ha asciugato parole e gesti verso i territori della conciliazione, della tranquillità, della famiglia salvaguardata, in un percorso dove ogni sconquasso poco a poco si rimette al proprio posto, rallentandosi i tempi, le azioni, le voci. Sino al quadro finale. Una regia che non si pone soltanto al servizio “freddo” del testo e della volontà dell’autore, ma che butta là una personalissima cifra, ovvero non ancorando la vicenda agli anni dell’immediato dopoguerra, sino a schiacciarla, ma lasciandola venire un po’ più verso di noi, senza troppe ristrettezze. Con i più giovani attori, che pur con qualche inciampo rientrano appieno nel successo dello spettacolo, non possono passare senza citazione le prove di Mimmo Mignemi, uomo tuttofare di Soriano da sempre, che sfugge a tratti dal partenopeo per tradire origini siciliane, e soprattutto di Nunzia Schiano, “salvata” da Filumena, pure lei a squadernare un passato fatto di sacrifici e un presente dove per i figli non c’è più posto (bravissima: del resto, basterebbe ricordarla come madre di Siani in “Benvenuti al Sud”, pronta a sfornare per colazione strani sanguinacci ad un Bisio quantomai sconcertato e recalcitrante).
Sarà inaugurata il 6 novembre Torino: vedute d’insieme, una mostra diffusa e ricca di iniziative che si svilupperà in diverse date in varie sedi – Polo del ‘900, Palazzo Birago-Camera di commercio di Torino, Biblioteca Civica Centrale, Biblioteca Civica Musicale “Andrea Della Corte” –
dell’economia del Bel Paese. Un’avventura e un’eredità esemplari, omaggiate come si deve dalla suggestiva mostra “Cinzano: da Torino al mondo”, organizzata, proprio per festeggiare i 260 anni di storia e di eccellenza del marchio, lungo il Corridoio della Camera Italiana del Museo Nazionale del Risorgimento di Torino in piazza Carlo Alberto, fino al 14 gennaio. Curata da un Comitato Scientifico di storici e docenti italiani di altissima levatura e coordinata da Paolo Cavallo, responsabile degli archivi storici della società, la Cinzano rende così disponibile al pubblico, dopo circa vent’anni, alcune delle sue più celebri illustrazioni, insieme a 26 manifesti d’epoca,
documenti, fotografie seppiate, bottiglie e oggettistica promozionale vintage. Sono tre le sezioni tematiche in cui si snoda l’iter espositivo: la comunicazione pubblicitaria, la storia del marchio (dalle origini al consolidamento internazionale) e le collezioni di oggetti storici del mondo bar, dalle targhe promozionali ai vassoi, dai bicchieri e dagli shaker fino alle più antiche bottiglie, alcune pesantemente segnate dall’incedere del tempo risalenti all’Ottocento. Secolo in cui avviene il vero salto di qualità (da attività artigianale a conduzione famigliare, a grande impresa industriale) con Francesco I e Francesco II Cinzano; grazie soprattutto a un’intelligente e lungimirante strategia
pubblicitaria – che vanta collaborazioni con grandi artisti dell’epoca, da Adolf Hohenstein a Leonetto Cappiello (sua l’immagine guida della mostra, la “Donna adagiata su grappoli d’uva”), da Nico Edel a Raymond Savignac, da Jean-Pierre Otth a Giuseppe Magagnoli – ma anche al lavoro di infaticabili viaggiatori di commercio (come Giuseppe Lampiano, autore del libro “Attraverso il mondo” edito nel 1934 con dedica ad Alberto Marone Cinzano, e i fratelli Carpaneto, che già a inizi Novecento erano riusciti a portare i prodotti Cinzano in oltre 50 Paesi del mondo, fra Europa, Amerca Latina e Africa. E il viaggio, da allora, continua. Inarrestabile, ovunque nel mondo. Negli Anni ’60, quelli del boom economico (quando le campagne pubblicitarie portano la firma, fra gli altri, di Guido Crepax e nei
Caroselli tv hanno il viso di Pel di Carota – Rita Pavone) sono ben 65 le filiali Cinzano sparse in cinque continenti. Per arrivarci, bisogna però fare ancora un passo indietro e passare attraverso le “prime bollicine”, comparse nel 1866 quando Francesco II Cinzano riesce ad ottenere in affitto la tenuta reale del Moscatello in terra di Langa, dove nella prima metà dell’ ‘800 re Carlo Alberto aveva avviato la costruzione di un formidabile complesso di cantine sotterranee e messo in piedi un laboratorio per la sperimentazione sulle uve locali del metodo “champenois”. L’opera non venne mai portata a termine. Ma nel 1887 (tre anni dopo la partecipazione alla grande Esposizione Generale Italiana tenuta a Torino), ormai famoso per i suoi vermouth prodotti sotto la Mole, Francesco Cinzano, nei moderni stabilimenti di Santa Vittoria d’Alba e Santo Stefano Belbo – costruiti per soddisfare una domanda sempre in aumento – inizia a produrre su vasta scala vermouth, barolo, barbera e moscato, “specialmente perfezionati – si legge in documenti del tempo- e ridotti a squisiti vini spumanti, che cominciarono ad acquistare

Di Pier Franco Quaglieni
Rossi, definendolo <<un uomo del Risorgimento>> per la probità morale del suo agire, per la intensa passione civile che sempre caratterizzò la sua vita. Giovanissimo, andai ad ascoltare La Malfa e rimasi colpito da quel discorso. Ne parlai dopo lezione all’Università, a Palazzo Campana(dove pochi mesi dopo sarebbe nata la contestazione studentesca) con Aldo Garosci, che era uno dei miei professori più amati alla Facoltà di Lettere dov’egli insegnava Storia del Risorgimento e Storia delle dottrine politiche. Garosci era stato in aspra polemica con Rossi pochi anni prima per” il caso “Piccardi”, una vicenda che non merita di essere ricordata, anche se sconquassò il Partito Radicale di allora ,in verità già minato da dissensi ben più profondi. Garosci non solo riconobbe la grandezza di Rossi, ma si espresse con parole di assoluta generosità e rispetto verso il combattente per la libertà e la democrazia Ernesto Rossi. Paradossalmente non fu così generoso Massimo Mila che aveva condiviso con lui il carcere a Roma.E’ impossibile far rivivere il suo gusto per la battuta tagliente, per il paradosso, per la polemica più feroce che caratterizzarono i suoi scritti.
personalità, che seppe fare scelte coraggiose e sempre controcorrente, non coincidenti con quelle del marito. Successivamente relegato al confino di Ventotene, scrisse nel 1941, con Altiero Spinelli, il famoso Manifesto da cui – in piena guerra – trasse impulso l’idea federalista di un’Europa libera ed unita. Un modo di intendere l’Europa diverso da quello che fu di Federico Chabod e dello stesso Luigi Einaudi. Tra i fondatori del Partito d’Azione e poi del Partito Radicale, visse l’esperienza de “Il Mondo” di Mario Pannunzio, di cui fu una delle “colonne”: le sue inchieste appartengono ormai alla storia del giornalismo italiano, così come alcuni suoi libri hanno lasciato una traccia difficilmente cancellabile: pensiamo, ad esempio, a I padroni del vapore.Fu vicinissimo a Marco Pannella all’atto della rifondazione del Partito Radicale di cui fu subito uno degli iscritti già nel 1962/63. Rossi era un liberista convinto, che proveniva dalla scuola di Einaudi, ma aveva anche appreso da Salvemini e da Rosselli i valori della giustizia e del socialismo liberale. Negli anni del pontificato di Pio XII esemplari ( e, forse, non sempre accettabili) furono le sue battaglie ferocemente anticlericali. Alessandro Galante Garrone ha così sintetizzato il carattere di Rossi: << Spiritaccio scanzonato, una delle coscienze più pure ed intemerate del nostro tempo>>. Fu uno degli ultimi “illuministi” che si lasciava guidare, come egli stesso scrisse, dal << cerino acceso della nostra ragione>>. Nel buio morale dei nostri giorni, la lezione scomoda di Enesto Rossi è una di quelle che vanno raccolte e ricordate anche da parte di chi ha dissentito dai suoi “furori” polemici: egli stesso è una piccola luce che ci indica la strada da percorrere, senza tradire: è stato, parafrasando Benda, << un chierico che non ha tradito>>, un cittadino esemplare di quella <<Italia civile>> di cui parla Bobbio.
Gli studenti del “Bosso -Monti” seguono altre strade e va loro reso merito. Non è, per altri versi, un caso che Rossi venga riscoperto dai giovani. Già nel 1987 gli studenti dell’Istituto superiore di Bergamo, dove Rossi insegnava prima dell’arresto e dove conobbe la futura moglie sua collega di insegnamento, fecero un video sulla vita del professore che diede lustro alla loro scuola . Ricordo con piacere l’invito a Bergamo che mi venne fatto per ricordare Ernesto Rossi nel ventennale della morte. Oggi gli studenti torinesi riscoprono la sua figura anche collegandola alle radici piemontesi della sua famiglia. E’ un segno che non bisogna disperare e che bisogna guardare con fiducia alle nuove generazioni. 

LE TRAME DEI FILM NELLE SALE DI TORINO
posto a caccia dei replicanti ribelli, ancora una volta nel desiderio di una vita vera, quella che non può non avere sentimenti e infelicità, sogni. Ma è anche il racconto della sua vita reale, in piena solitudine, senza ricordi o la fittizia ricostruzione di essi, è l’unione con una compagna virtuale che in qualsiasi momento può esser fatta scomparire, è il disordine e la violenza del cieco scienziato Wallace, che tende a eliminare i vecchi replicanti rimasti per poter creare nuovi esempi, è l’incontro con l’antico agente Harrison Ford, rinato dal cult di Ridley Scott, dall’ormai lontano 1982. Un film che occhieggia ancora verso l’autore Philip K. Dick, che s’impone nella grandezza dei propri ambienti scenografici, che non teme i tempi lunghi, che già le critiche inglesi e provenienti da oltre oceano definiscono come un capolavoro. Durata 163 minuti. (Greenwich sala 2, Reposi, Uci)
Geostorm – Azione. Regia di Dean Devlin, con Gerard Butler, Jim Sturgess, Abbie Cornish, Andy Garcia e Ed Harris. Due fratelli impegnati a salvare il mondo da un’imminente catastrofe. Mentre i capi di stato delle maggiori potenze mondiali si riuniscono per definire la realizzazione di una complessa rete di satelliti in grado di controllare le condizioni meteorologiche e garantire la sicurezza dei cittadini, ecco che per un malfunzionamento tecnico il sistema che dovrebbe porre tutti in salvo è la causa della imminente distruzione della Terra: tempeste, tsunami, frane, uragani e terremoti. In una corsa contro il tempo i due uomini dovranno tentare di salvare ogni essere umano. Durata 109 minuti. (Ideal, The Space, Uci anche in V.O.)
botteghini Usa. Durante un temporale, il giovanissimo George guarda la sua barchetta di carta scendere giù per i rivoli d’acqua e scomparire nella fogna di Derry, piccola città del Maine che sembra il ricettacolo di ogni male. Là è nascosto IT, che si nasconde sotto gli abiti e il viso colorati di Pennywise, vero orco per le giovani vittima che scoverà in città. Sette ragazzini pieni di paure, molestati, dalla debole salute, grassi e spaventati, con grosse lenti poggiate sul naso, neri ed ebrei. Tutti pronti a unirsi pur di distruggere il Male. Salvo rimandare la conclusione delle gesta ad un prossimo capitolo, buttato al di là di una trentina d’anni, in un’età più che matura. Durata 135 minuti. (Massaua, Ideal, Lux sala 3, Reposi, The Space, Uci)
Il mio Godard – Biografico. Regia Michel Hazanavicius, con Louis Garrel, Bérénice Bejo e Stacy Martin. Con una buona dose di ironia nei confronti di quella critica francese che dagli anni Sessanta ha guardato alla figura di Godard in un misto di rispetto ed esaltazione, Hazanavicius – sopravvalutassimo autore oscarizzato con il muto “The Artist”, (ri)caduto con “The search” – tenta di descrivere il Sessantotto, il maoismo, le proteste contro la guerra in Vietnam, gli scritti e le arringhe, la politica nella vita e dietro la macchina da presa, l’amore per Anne Wiazemsky, la gelosia e il possesso dell’autore della “Cinese”. Durata 107 minuti. (Massimo sala 1 anche in V.O.)
Christina Hendricks, Max Irons, Julian Sands e Gillian Anderson. Basato sul romanzo di Agata Christie pubblicato in Italia con il titolo “È un problema”, il film è un giallo corale che tanto piacciono all’autrice: un confronto incrociato tra i componenti di una ricca famiglia inglese. Per ottenere finalmente la mano della ricca Sophia, il giovane investigatore privato Charles Hayword deve risolvere il mistero che avvolge la morte del nonno della ragazza. Mentre tutti puntano il dito contro la giovane seconda morte dello scomparso, spetterà a Charles scoprire nuovi moventi e indizi e la verità. Durata 105 minuti. (Eliseo Grande, Nazionale sala 1, The Space, Uci)
Bonneville e Manish Dayal. Il nipote della regina Vittoria, Lord Mountbatten, come ultimo Viceré, ha il compito di accompagnare l’India nella transizione verso l’indipendenza. Ma la violenza esplode tra musulmani, induisti e sikh, sfociando in quella che è definita la “Partition” tra Pakistan e India, coinvolgendo anche gli oltre 500 membri dello staff che lavorano al Palazzo. La storia d’amore tra due giovani, musulmana lei, induista lui, rischia di essere travolta dal conflitto delle rispettive comunità religiose. Durata 106 minuti. (Ambrosio sala 3)
Marmaï. Dieci anni fa Jean ha lasciato la famiglia, proprietaria di un grande vigneto in Borgogna, per trasferirsi all’estero. A causa della malattia terminale del padre, lascia l’Australia, dove vive con moglie e figlio, e torna a casa per rincontrare la sorella Juliette e il fratello Jérémie. Ma c’è la morte del padre, c’è la ricerca di una forte somma di denaro per pagare le tasse di successione: sarà l’occasione per i tre fratelli i legami che li hanno tenuti vicini un tempo. Durata 113 minuti. (F.lli Marx sala Harpo)
Blanchett e Tom Hiddleston. Il verde Hulk a dare una mano al dio del tuono, questa volta privato del suo fantastico martello e in lotta con Hela, la dea della morte, che vorrebbe prendersi il trono di Asgard, e ancora prigioniero in una terra lontana dove è costretto a combattere per il piacere di un tiranno amante del rischio e pronto a manipolare le deboli vite altrui. Durata 130 minuti. (Massaua, Ideal, Lux sala 2, Reposi, The Space, Uci)
Richelmy e Valentina Bellè. Dal romanzo di Beppe Fenoglio. “Over the rainbow” è il disco più amato da tre ragazzi nell’estate del ’43. Si incontrano nella villa estiva di Fulvia, che gioca con i sentimenti di entrambi: con quelli di Milton, pensoso e riservato, con quelli di Giorgio, bello ed estroverso. Un anno dopo Milton, partigiano, si ritrova davanti alla villa di Fulvia ormai chiusa, il custode lo riconosce e insinua un dubbio, che Fulvia, forse, abbia avuto una storia con Giorgio. Ogni cosa pare fermarsi per il ragazzo, la vita, le amicizie, la lotta partigiana, è ossessionato dalla gelosia e vuole scoprire la verità. Deve ritrovare Giorgio ma l’amico di un tempo è stato fatto prigioniero dai fascisti. Durata 84 minuti. (Romano sala 1)
Ali Fazal, Michael Gambon e Olivia Williams. Nel 1887 Abdul lascia l’India per Londra, per poter donare alla regina settantenne, sul trono da oltre cinquant’anni, una medaglia, proprio in occasione del suo Giubileo d’Oro. La sovrana è attratta dalla cultura che l’uomo porta con sé, dalla sua giovinezza e dalla prestanza, contro lo scandalo che il suo nuovo amico semina in tutta la corte, che non esita a bollarla come pazza. Più “storiucola” che Storia, a tratti imbarazzante per quell’aria di operetta senza pensieri che circola all’interno: naturalmente per il regista di “Philomena” (da ricordare) e di “Florence” (da dimenticare) il ventiquattrenne Abdul è senza macchia, la vecchia e inamidata corte inglese da mettere alla berlina e allo sberleffo, il piccolo entourage regale che grida “sommossa” se ne ritorna tranquillo a servire la vecchia sovrana. Ma ci voleva ben altro polso e visuale, e qui Frears ha tutta l’aria di voler andare in pensione. Durata 112 minuti. (Ambrosio sala 1, Centrale V.O., Eliseo Blu, Reposi, The Space, Uci)