Il tema della follia declinato da Pirandello va in scena al teatro Carignano dal 13 febbraio, alle 19.30, nell’ “Enrico IV”, capolavoro indiscusso del drammaturgo siciliano, per l’adattamento e la regia di Carlo Cecchi, che ne è anche superbo interprete. Il testo pirandeliano si basa sul pretesto da parte di un uomo di inscenare la propria follia, per ritirarsi dietro le quinte della realtà e, da lì, contemplare con un leggero sogghigno le miserie e le ipocrisie della società. Il protagonista, il cui nome rimane ignoto per tutta la durata dello spettacolo, dopo una caduta da cavallo nel corso di una rievocazione storica, decide di fingersi
pazzo e mostrare di essere convinto di essere Enrico IV di Francia. Carlo Cecchi riprende il testo pirandelliano, uno dei più penetranti e intensi sul tema della maschera e del rapporto realtà – finzione, nonché magistrale esempio di teatro nel teatro, rimaneggiandolo, però, in modo da farlo risultare ancora più incisivo, capace di sottolineare l’aspetto psicologico e di critica sociale. Cecchi riduce in modo drastico i lunghi monologhi che, in origine, erano stati scritti per Ruggero Ruggeri e colloca la vicenda in un costante equilibrio tra finzione e realtà. L’essere e l’apparire risultano due facce della stessa medaglia, cui si aggiunge il nascondersi dietro la lucidità insinuante e sferzante, dentro un mondo ovattato, in un’epoca remota della storia, o dietro maschere che ognuno di noi indossa, pur senza definirsi attore. Il protagonista vive, fingendosi Enrico IV, una esistenza fiabesca con l’aiuto di alcuni uomini da lui pagati per fingersi suoi consiglieri segreti; ad un certo punto riconquista la ragione, ma continua a fingersi pazzo ed osserva dall’esterno la sceneggiata predisposta per lui, che coinvolge anche la donna amata, Matilde Spina, e l’amante di lei, Belcredi, un medico che vuole provocare uno choc per farlo rinsavire. Cecchi elimina diverse ridondanze e non appesantisce di lunghi monologhi la piece teatrale, usando finzione e umorismo, riuscendo benissimo a rendere il pirandellismo del testo.
Mara Martellotta
Pannunzio a 50 anni dalla sua morte. Gli telefonai per complimentarmi con lui che era riuscito a storicizzare la figura di Pannunzio, andando oltre le celebrazioni acritiche e le polemiche contingenti in cui si è impelagato Eugenio Scalfari. Fu generoso con me e mi disse che aveva letto e apprezzato il mio articolo su Pannunzio per il suo “taglio innovativo”. Mi disse che , pur essendomi occupato per quasi 50 anni dell’argomento, avevo saputo dare un taglio distaccato. Concordò con me sul fatto che Pannunzio non aveva avuto un biografo adeguato. Una telefonata di pochi minuti, l’ultima tra tante. Ma soprattutto la nostra frequentazione era avvenuta a Palazzo Filomarino, dove abitava Alda Croce e dove ha sede l’istituto italiano di studi storici in cui Galasso si era formato alla scuola di Federico Chabod, come accadde a Rosario Romeo e Renzo De Felice. Una volta gli proposi di succedere ad Alda Croce alla presidenza del Centro “Pannunzio”,lui ringraziò ma mi disse che spostarsi a Torino di frequente era per lui troppo disagevole. Nel suo ricordo di Alda Croce nel 2009 al momento della sua morte omise di ricordare che era stata Presidente del Centro “Pannunzio”,ma quando lo chiamai per farglielo notare, mi chiede scusa e mi disse che aveva dovuto scrivere il pezzo in pochissimo tempo. Un tratto essenziale, fondamentale di Galasso è che fu anche attivo politicamente: fu deputato repubblicano per tre legislature e sottosegretario di Stato ai beni culturali. 

e dai racconti degli studenti e artisti coinvolti nella fase messicana del progetto internazionale “Megalopolis”, ideato e diretto dalla compagnia. Una drammaturgia originale, bilingue, fatta non solo di parole ma anche di azioni fisiche, suoni, canti, immagini che mettono insieme più voci, quelle stesse voci che ancora oggi si uniscono al grido “Todos somos Ayotzinapa!”. Un grido di rabbia e di richiesta di giustizia che continua ad animare le piazze delle città messicane e di tutto il mondo, che rimarrà nei graffiti metropolitani e che si è diffuso attraverso la rete. Instabili Vaganti propongono una performance forte, un atto di protesta che si unisce alle azioni dal basso, che sono diventate globali attraverso i social networks, oltrepassando censure e barriere. “DESAPARECIDOS#43” è anche un inno alla speranza che fa nascere da mucchi di vestiti insanguinati delicati fiori rossi: “Volevano seppellirci ma non sapevano che eravamo semi”. Uno spettacolo di teatro d’impegno civile “emozionale” che riprende la stessa innovativa metodologia di lavoro usata per “MADE IN ILVA”, opera cult della compagnia, pluripremiata a livello
internazionale, trasformando interviste, dati e informazioni di denuncia in azioni fisiche, immagini ed emozioni capaci di suscitare una reazione immediata in chi guarda. Fondata nel 2004 dalla regista e attrice Anna Dora Dorno e dall’attore Nicola Pianzola, “Instabili Vaganti” si caratterizza per il suo lavoro di ricerca e sperimentazione nel teatro fisico e contemporaneo e per l’internazionalità dei suoi progetti. Instabili Vaganti opera nella creazione e produzione di spettacoli e performance, nella direzione di progetti, workshop e percorsi di alta formazione nelle arti performative a livello internazionale, svolgendo un continuo lavoro di ricerca sull’arte dell’attore.
stato selezionato, perseguendo una personalissima passione per il bello e per gli oggetti preziosi. Ne sono un esempio: gli incantevoli mobili intarsiati in avorio di Pietro Piffetti; la scrivania “mazzarina” dell’inizio del XVIII secolo, con il monogramma “VA”; la Venditrice di Amorini in biscuit di Meissen; le miniature francesi che ritraggono eleganti gentiluomini e nobildonne del XIX secolo; i ritratti dei Savoia realizzati da Giovanni Panealbo e da Louis Michel Van Loo o ancora i raffinati oggetti montati su bronzo dorato con porcellane della manifattura Vincennes e della dinastia Qing. I mobili, i dipinti, gli argenti e tutte le opere esposte in mostra rappresentano, pertanto, un omaggio incondizionato alle arti decorative e rendono il museo un’istituzione in continuo divenire.
Al Teatro Superga torna a grande richiesta il musical con un titolo leggendario: “Cats” dal 16 al 18 febbraio per tre repliche della versione italiana con atmosfere e costumi steampunk, accettata e apprezzata dal suo creatore, A.L. Webber.

ambiziosa con questa rassegna e, a quanto pare, l’abbiamo stravinta!”. RassegnaT prosegue con altri quattro spettacoli, alcuni dei quali, vedranno protagoniste grandi personalità del teatro. Il prossimo appuntamento è fissato per il 24 febbraio, con “Due di Cuori”, con Esther Ruggero, Oscar Ferrari e Federica Tripodi. I biglietti saranno in vendita, a partire da mercoledì 15 febbraio, presso il Bar Caffetteria Kiosko, sito in Piazza Cays, a Caselette.
IN ESPOSIZIONE ALLA PINACOTECA ALBERTINA DI TORINO, RACCONTA UNO SPACCATO ESEMPLARE DEL GRANDE RINASCIMENTO PIEMONTESE. FINO AL 25 FEBBRAIO
la voglia di recitare insieme. Certi titoli, da quegli anni, uno non se li scorda, La provincia di Jimmy e Allegretto… perbene ma non troppo soprattutto, per arrivare a certe riproposte del Decamerone o della Clizia o della Mandragola di Machiavelli, a Benvenuti in casa Gori a 4 bombe in tasca, per non tacere del fatto che anche il grande Shakespeare è stato rivisitato. Certi spettacoli dei piccoli capolavori, i testi presi dalla cronaca come dalla letteratura, l’amalgama perfetto che si era creato, i personaggi inventati, la glorificazione della terra toscana e ben oltre. Fino a domenica sono all’Erba e questa compagnia, se ancora non la conosceste, dovreste davvero
andare ad applaudirla. Propongono L’avaro di Molière ed è un piacere riascoltarli. Chiti, da buon deus ex machina si accaparra adattamento, regia, l’intero spazio scenico (un interno grigio pronto a farsi piccolo giardino con le sue belle piante ornamentali, certe porte sghembe che non sarebbero spiaciute ai futuristi) e pure i costumi, questi ultimi in combutta con la veterana Giuliana Colzi, pronta pure a vestire gli abiti e i mantelli della mezzana Frosina: ed è un pezzo da antologia il
suo dialogo di donna abituata a maneggiare matrimoni e con la pretesa di ricavarci qualcosa con il protagonista Arpagone. Quanto lo conosce Molière il buon Chiti! Lo conosce così tanto che non gli pesa affatto rigirarselo tra le mani, attualizzarne la lingua e gli ammiccamenti al pubblico, usare la parola con ogni freschezza possibile, vivacizzare oltremodo gli amori contrastati tra le due giovani coppie in scena, i figli vittime di un padre per cui ogni più piccola spesa viene intesa come un capestro e ogni dote da accompagnare al matrimonio un supplizio che lo porta alla tomba, un’agnizione finale che è trattata come un frettoloso sberleffo drammaturgico, inventarsi un prologo e soprattutto un epilogo che quasi annienta lo spilorcio sotto il peso del proprio denaro, forsennatamente raccolto nelle saccocce del suo abito nero. È un giocare continuo sul personaggio principale, i suoi sbalzi d’umore, il terrore
che gli si legge in viso al solo pensiero che quel tesoro nascosto nella cassetta sepolta in giardino gli venga sottratto, la sua gioia quando crede d’aver trovato un alleato, il ritratto dell’Egoismo e della Cupidigia. Alessandro Benvenuti, primo attore che non ha bisogno di sgomitare ma che si mette al servizio del regista e della insostituibile bravura dei propri compagni, provoca la risata, usa intelligenza e divertimento, dà l’immagine concreta di quella che è una malattia, occhieggia al pubblico, rumina tra sé e bofonchia giudizi e speranze, si perde quasi con felicità in quelle splendenti monete ritrovate. Della mezzana tratteggiata con grande bravura dalla Colzi s’è detto, come Dimitri Frosali è un perfetto mastro Giacomo e la presenza di Massimo Salvianti riaccompagna alla Commedia dell’Arte. Con le più giovani leve hanno fatto il successo della serata, durante e al termine accompagnata da interminabili applausi.
una morte misteriosa a Napoli. Ma era pur sempre un principe e un poeta e ciò che qui ci interessa ricordare è il suo passaggio in Piemonte, attraverso Cuneo, Savigliano, Torino, fino ad Exilles, sulla strada verso la Francia. Soggiorni brevissimi durante i quali Zizim non fu arrestato in quanto figlio del sultano Conquistatore ma al contrario entrò nelle simpatie dei cuneesi che videro in lui un fiero
ribelle anti-ottomano, forse l’ultima speranza di abbattere l’Impero sul Bosforo e riportare in mano cristiana la città di Costantino. Come aspirante al trono imperiale, Zizim restava pur sempre una minaccia per l’impero turco.
preziose lo rendevano ugualmente affascinante e simpatico. Forse anche perchè sua madre, una concubina dell’harem del padre, era, probabilmente, una principessa serba. E poi era il figlio del grande sultano Maometto II che il 29 maggio 1453, a suon di cannonate, conquistò la capitale dell’Impero romano d’Oriente. Non era certo facile trovare un principe ottomano che scorazzasse per l’Europa alla fine del Medioevo, sicuro di farla franca e di non finire in qualche buia prigione della penisola a trascorrere il resto della sua vita. Zizim, governatore ottomano di alcune province dell’impero, poeta e scrittore, divenne ben presto un acerrimo rivale della corte sultaniale di Costantinopoli. Stava scappando dal fratello Bayazed che, alla morte del padre, era sul punto di salire al vertice dell’Impero come nuovo sultano ma doveva sbarazzarsi del fratello Zizim che pretendeva di essere il legittimo successore del sultano in quanto nato quando suo padre era già sul trono mentre Bayazed nacque prima della sua scalata al potere. Vinto in due battaglie dal fratello maggiore e ben consapevole di rimetterci la testa in caso di cattura, il principe Zizim fuggì in Egitto ma non trovò l’appoggio dei governanti mamelucchi. Lasciò la famiglia sulle rive del Nilo e partì per l’isola di Rodi dove ricevette accoglienza e sostegno politico da parte dei Cavalieri dell’Ordine di San Giovanni di Gerusalemme, i futuri Cavalieri di Malta.
da usare, se necessario, contro il nuovo sultano. L’ospitalità a Rodi fu favolosa. Fu accolto dai Cavalieri di San Giovanni come se fosse un monarca mentre tutta la città era in festa con le strade affollate di cittadini, marinai e pescatori e con i balconi affollati da rodioti che volevano vedere il figlio del sultano che aveva cercato di distruggere la loro città. Zizim fu ospite del Gran Maestro dei Cavalieri di Rodi Pierre d’Aubusson che invece di tenerlo in prigione lo invitò a feste e banchetti con musica, donne e vino in abbondanza. Era un principe libero sull’isola ma costantemente sorvegliato dai Cavalieri. Per eliminare i suoi oppositori nascosti all’estero, Bayazed II (sultano dal 1481 al 1512) sguinzagliava i suoi 007 che si infiltravano nelle città nemiche senza troppi ostacoli. Avrebbe potuto assediare Rodi in qualsiasi momento ma l’isola, pur strategicamente importante, poteva aspettare il suo turno. Non solo, ma promise di far la pace con i Cavalieri, a condizione che tenessero sempre sotto custodia Zizim, sia a Rodi che in altre città europee. A tal proposito il sultano firmò un accordo con il Gran
Maestro d’Aubusson impegnandosi a pagare una somma annua di 45.000 ducati all’Ordine di San Giovanni per tenere Zizim prigioniero e per evitare di trovarselo magari al comando di un’armata europea diretta contro di lui. Ma le spie turche infestavano il Mediterraneo e il Gran Maestro decise di inviare Zizim in esilio in Francia. Sbarcò a Nizza nel settembre 1482 ma una terribile pestilenza aveva decimato la popolazione, quindi Zizim proseguì la sua cavalcata fino a Cuneo dove giunse l’8 febbraio 1483 e poi a Savigliano il giorno successivo, nell’ ultima domenica di carnevale. L’ingresso in città fu trionfale. Scortato da un centinaio di uomini a cavallo tra cui quaranta devoti cavalieri turchi fu accolto dalle autorità comunali come un vero principe e, in suo onore, fu organizzata, come scrivono gli storici ottocenteschi Carlo Novellis e Casimiro Turletti nelle loro poderose Storie di Savigliano, “una magnifica festa da ballo in maschera e un concerto musicale sotto l’ampio portico di Emanuele Tapparelli illuminato sontuosamente per una splendida e capricciosa serata”. E le danze cominciarono… “Strano ricevimento per un Turco! Fu egli posto a sedere, con un vestito ricco e abbagliante, sopra una specie di trono frammezzo alle sue due donne, delle quali la favorita vestiva un abito di color cremesi e l’altra era in vestito ricamato d’argento”. Ignoriamo i particolari di questa festa, ammette il Novellis, “ma sappiamo però che le dame saviglianesi concorsero a rendergli omaggio e, nello accomiatarsi, non disdegnarono di fargli riverenza e di baciargli la mano. Ritirossi egli nel suo alloggio co’ suoi e dovendo poi proseguire la sua strada per la Francia, partì il dì seguente per Exilles”.
raggiungere la fortezza della Val Susa la comitiva partì alla volta di Torino, come racconta il Turletti, “salutata dalla popolazione accorsa in folla ad ammirare più che altro gli stranissimi costumi di quest’uomo di gran lunga più degno di sedere sul trono del padre che non il fratello Bayazed”. Dopo alcuni anni trascorsi in Francia il principe ottomano giunse a Roma, ospite-prigioniero di Papa Innocenzo III e poi di Papa Alessandro VI Borgia. Infine fu ceduto come ostaggio al re di Francia Carlo VIII che dopo aver occupato Roma restituì la libertà a Zizim, la cui vita, avventuosa e romantica, interessò a lungo le corti d’Europa e finì tragicamente a Napoli, dove il turco fu ucciso dal rasoio avvelenato di un finto barbiere. Era il 25 febbraio 1495 e Zizim aveva appena 35 anni. A Savigliano, da qualche tempo, il carnevale non impazza più come una volta ma siamo sicuri di veder folleggiare il grande principe anche in questi giorni tra nobildonne mascherate e danzanti, ansiose di baciargli la mano nei palazzi più blasonati e aristocratici di Savian, anche se in città nessuno sa chi fosse davvero Zizim-sultan… 
una ragazza di borgata. Opera con un buon inizio se poi non prendesse la strada delle vogliose signore che in un modo o nell’altro vogliono accaparrarsi il misero quanto problematico single. Con una comicità che fa acqua da ogni parte (in sala piena ho contato un paio di risate davvero convinte), non priva di momenti quantomai imbarazzanti (oltrepassando di gran lunga, all’italiana, lo spudorato ma tranquillo divertimento della scena clou di “Harry, ti presento Sally”, la signora che nasconde il cellulare “nel posto più bello del mondo” finisce per ritrovarsi in una storiellina soltanto fuori dei limiti; l’attore/regista che si mette a fare il cicerone all’interno di palazzo Altemps a Roma denuncia tutta la sua odierna mancanza d’idee, lontanissimo dalle cose migliori; e poi le pasticche, i balletti, le cianfrusaglie tra colori e suoni…). La gieffina Pastorelli rimane se stessa in ogni occasione, immutabile se non fosse per i cambi d’abito (sempre più ristretto), alla ricerca dei begli effetti che una Ramazzotti ci ha dato in altre occasioni. Godetevi la manciata di minuti della Minaccioni. Un toccasana. Durata 109 minuti. (Uci)
Elio, professore universitario, ospita nella propria casa un borsista per l’intera estate. L’arrivo del disinvolto Oliver non lascia insensibile il ragazzo, che scopre il sesso con una coetanea ma che poco a poco ricambiato approfondisce la propria relazione con l’ospite. Un’educazione sentimentale, i libri e la musica, Eraclito e Heidegger, Bach e Busoni, l’ambiente pieno di libertà della sinistra, i discorsi insperati di un padre, il tempo scandito dalle cene e dalle discussioni su Craxi e Grillo, il vecchio factotum che di nome fa virgilianamente Anchise, passeggiate e discussioni, corse in bicicletta, ritrovamenti di statue in fondo al lago, nuotate in piccoli spazi d’acqua, felici intimità, in una delicatezza cinematografica (la macchina da presa pronta ad allontanarsi velocemente da qualsiasi troppo imbarazzo) che assorbe nei temi (“Io ballo da sola”) e nei luoghi (i paesini, i casali, la calura di “Novecento”) il passato di Bertolucci o guarda al “Teorema” pasoliniano. L’ultima opera di un regista (“Io sono l’amore”, “A bigger splash”) che con la critica di casa nostra non ha mai avuto rapporti troppo cordiali, osannato all’estero, in corsa verso l’Oscar con quattro candidature. La sceneggiatura è firmata da James Ivory dal romanzo di André Aciman. Chissà come risponderà il pubblico italiano? Durata130 minuti. (Eliseo Blu, Massimo sala 1 (V.O.), Nazionale sala 1, The Space)
Cinquanta sfumature di rosso – Drammatico. Regia di James Foley, con Dakota Johnson e Jamie Dornan. Si cambia colore (ed è la terza e ultima volta), impaginazione dello stesso regista di “Cinquanta sfumature di nero”. L’ultimo dei romanzi di E.L. James in versione “oggi sposi”, con cerimonia nuziale, bella casa e viaggio di nozze in Europa, con qualche addolcimento per quel che riguarda la “padronanza” del bel tenebroso Christian verso la bella Anastasia, comunque – gli appassionati non disperino – nei dintorni del “bondage soft”. Uscendo un po’ di più dalla camera da letto e imboccando la via del thrilling, rapimenti e inseguimenti in auto si ricollegano ad un passato di gente che non molla, dall’ex datore di lavoro dell’ormai sposina fresca fresca alla Elena della sempre appetitosa e combattiva Kim Basinger, ancora una volta pronta a riconquistarsi il ragazzone che lei stessa ha avviato alle pratiche amorose tutte frustini in bella vista. Durata 104 minuti. (Massaua, Greenwich sala 1, Ideal, Reposi, The Space, Uci anche V.O.)
dalla sceneggiatura scritta dallo stesso regista in compagnia di Francesco Piccolo, Francesca Archibugi e Stephen Amidon (a lui già Virzì si rivolse per “Il capitale umano”), è la storia della coppia del titolo, svanito e smemorato ma forte John, fragile ma lucidissima Ella, è il racconto del loro viaggio, dai grattacieli di Boston ai climi di Key West, lungo la Old Route 1, anche per rivisitare con la (poca e povera) memoria il vecchio Hemingway – John è stato un professore di letteratura di successo che ha coltivato con passione lo scrittore del “Vecchio e il mare” -, un viaggio che ha la forma di una conclusiva ribellione ad una famiglia e soprattutto a un destino che ha riservato per lei il cancro all’ultimo stadio e a lui l’abisso dell’Alzheimer. Momenti di felicità e anche di paura in un’America che sembrano non riconoscere più, una storia attuale e un tuffo nella nostalgia (quella che guarda agli anni Settanta), a bordo del loro vecchio camper, mentre corpo e mente se ne vanno. Un’occasione, per ripercorrere una storia d’amore coniugale nutrita da passione e devozione ma anche da ossessioni segrete che riemergono brutalmente, regalando rivelazioni fino all’ultimo istante. Un film di emozioni per coppie vecchio stampo, due formidabili interpretazioni, due doppiaggi – Ludovica Modugno e Giannini – da ascoltare con attenzione: ma a me è sembrato di essere lontano anni luce dalla stratosferica follia e umanità della “Pazza gioia”. Durata 112 minuti. (Ambrosio sala 3, Eliseo Rosso, F.lli Marx sala Harpo, Romano sala 3)
Final portrait – Drammatico. Regia di Stanley Tucci, con Geoffrey Rush e Armie Hammer. Quinta prova dietro la macchina da presa (Big night, uno per tutti i titoli) di uno dei migliori caratteristi hollywoodiani (ricordiamo soltanto Il diavolo veste Prada e Shall we dance?), questa volta per raccontare l’incontro e l’amicizia (era il 1964) dell’artista Alberto Giacometti con il giovane scrittore e appassionato d’arte James Lord. L’invito dello scultore, il sì con la certezza che si tratterà di poche sedute: sarà l’inizio di un lungo percorso, l’attraversare da parte del ragazzo del mondo di insicurezze e frustrazioni dell’artista, delle sue fragilità e della sensibilità come della sua grandezza artistica. Grande successo all’ultimo TFF, un eccezionale ritratto nell’interpretazione di Rush (Shine, La migliore offerta di Tornatore), con la personalissima immedesimazione, con il suo calarsi appieno nella creatività come nelle zone d’ombra dell’uomo. Durata 90 minuti. (Romano sala 1)
Dini. L’autore di “Radiofreccia” guarda al nostro paese tra malinconia rabbia e qualche speranza con il ritratto di Riko, fortunato per quel lavoro che possiede ma che gli consente con fatica di mantenere la propria famiglia. Una moglie e un figlio e un gruppo di amici che all’occorrenza lo aiutano: ma qualcosa s’inceppa e se Riko vorrà sottrarsi ad altre sconfitte dovrà necessariamente condurre la propria vita in maniera diversa. Durata 104 minuti. (Reposi, The Space, Uci)
che gli sia recapitata la registrazione di un concerto che però registrato non lo è stato. Orchestra, pubblico e pianista dissidente, tutti di nuovo al loro posto. Ma le preoccupazioni sono e saranno ben altre: quella sera stessa, era il 28 febbraio 1953, il dittatore è colpito da un ictus e le varie epurazioni delle vette sanitarie in odore di tradimento fanno sì che le cure non possano arrivare che in ritardo e infruttuose. Cinque giorni dopo, passato lui a miglior vita, può così cominciare l’arrembaggio alla poltrona tanto ambita da quanti tra i collaboratori l’hanno vistosamente sostenuto o tacitamente avversato, a cominciare da un atterrito Malenkov chiamato da un ridicolo Consiglio a reggere le sorti dei popoli. Senza dimenticare, tra il tragico e il ridicolo, le mosse dei tanti Mikoyan, Zukov, Bulganin, Molotov e Berija in atteggiamenti da vero macellaio sino a Nikita Kruscev (un impareggiabile Steve Buscemi, ma ogni personaggio si ritaglia un momento di gloria), astutissimo nel saper raccogliere le tante intenzioni, lotte, sospetti, accuse, sparizioni dei propri colleghi, e capace di afferrare il primo posto. Tutto questo sullo schermo, applaudito al recente TFF, risate e sberleffi come non mai: apprezzato, ma allo stesso temo ti chiedi quanto sia stato giusto cancellare la vena tragica di quelle giornate. E del poi. Durata 106 minuti. (Centrale)
inviso al partito opposto e neppure in grado di poter contare sui suoi colleghi di partito e sul re che lo tollera, mentre le truppe tedesche hanno iniziato a invadere i territori europei, Churchill combatte in una difficile quanto decisiva scelta, se concludere un armistizio con la Germania dopo la repentina caduta della Francia oppure avventurarsi nell’intervento di un conflitto armato. Mentre si prepara l’invasione della Gran Bretagna, si deve pensare alla salvezza del paese, grazie ad una pace anche temporanea, o l’affermazione con una strenua lotta degli ideali di libertà: una delle prime mosse fu il recupero dei soldati intrappolati sulle spiagge di Dunkerque (come già ad inizio stagione ci ha insegnato lo stupendo film di Christopher Nolan). Oldman s’è già visto per il ruolo assegnare un Globe, sta sopravanzando sugli altri papabili per quanto riguarda gli Oscar, un’interpretazione che colpisce per la concretezza, per gli scatti d’ira e per quel tanto di cocciutaggine e lungimiranza britannica che in quell’occasione s’impose. Uno sguardo al trucco dell’interprete: gorse un altro Oscar assicurato. Durata 125 minuti. (Due Giardini sala Ombrerosse, F.lli Marx sala Harpo, Lux sala 1, Massimo sala 2, Reposi, Uci)
attentato, ad opera di un terrorista islamico, sventato sul treno che proveniva da Amsterdam ed era diretto a Parigi da tre ragazzoni californiani che già s’erano fatte le ossa sui vari fronti di guerra. Il film è il racconto delle loro vite sino a quel momento, del loro viaggio attraverso l’Europa, del loro atto di coraggio, di quell’essere in un momento preciso coraggiosi eroi per caso. Eastwood ha voluto che sullo schermo raccontassero la loro vicenda i diretti protagonisti, con i sogni, la realtà, lo spirito d’avventura e l’amicizia della loro età. Il film è il racconto di come quel giorno hanno salvato 500 vite, i buoni contro i cattivi o le avversità, come già avevano combattuto Bradley Cooper cecchino implacabile in “American Sniper” o Tom Hanks in “Sully” ammarando sull’Hudson. Durata 94 minuti. (Massaua, Eliseo Grande, F.lli Marx sala Groucho, Ideal, Lux sala 3, Massimo sala 1 V.O., Reposi, The Space, Uci)
The Party – Drammatico. Regia di Sally Potter, con Timothy Spall, Kristin Scott Thomas, Emily Mortimer, Cillian Murph e Bruno Ganz. Metti una sera a cena, una tavolata di amici, ambiente di sinistra, di quelli ci diciamo tutto in faccia e ancora di più, noi siamo per la schiettezza a qualunque costo, con una padrona di casa (siamo a Londra) che è appena stata nominata ministro ombra della sanità, un marito che sta a guardare e che fatto di tutto per appoggiare la carriera della moglie, anche a scapito della sua, due lesbiche che aspettano un figlio e altro ancora. Uno stile, l’amicizia, la cordialità. l’ideologia, che cosa rimarrà in piedi dopo che il paziente consorte avrà buttato lì sul tavolo un paio di rivelazione che porteranno lo sconquasso tra gli ospiti? Un po’ dalle parti di “Chi ha paura di Virginia Woolf”, un po’ “Carnage”, un po’ anche del nostro Paolo Genovese con il suo “Perfetti sconosciuti”. Durata 71 minuti. (Nazionale sala 2)
ben cinque presidenti per quel che riguardava il coinvolgimento degli States nella sporca guerra nel sud-est asiatico. Il governo proibì che fossero dati alle stampe. Se ne fece carico il direttore del Washington Post (Tom Hanks), sfidando comandi dall’alto e un non improbabile carcere: ma a nulla sarebbe valsa quella voce pure autorevole, se la voce ancora più forte non fosse venuta dall’editrice Katharine Graham, all’improvviso ritrovatasi a doversi porre in prima linea in un mondo esclusivamente maschile, buona amica di qualche rappresentante dello staff presidenziale (in primo luogo del segretario alla difesa McNamara) e pur tuttavia decisa a far conoscere a tutti quel mai chiarito pezzo di storia. L’autore del “Soldato Ryan” e di “Lincoln” si avvale di una sceneggiatura che porta la firma prestigiosa di Josh Singer (“Il caso Spotlight”), della fotografia di Janusz Kaminski (“Schindler’s list”), dei costumi di Ann Roth; con questo ultimo ritratto Meryl Streep si conquista la sua ventunesima nomination agli Oscar. Riuscirà la fantastica Frances McDormand di “Tre manifesti” a sbarrarle la strada? Durata 118 minuti. (Ambrosio sala 1, Centrale V.O., Massaua, Due Giardini sala Nirvana, Lux sala 2, Reposi, The Space, Uci)
sviluppi né certezze ed ecco che allora la madre Mildred compie una mossa coraggiosa, affitta sulla strada che porta a Ebbing, tre cartelloni pubblicitari con altrettanti messaggi di domanda accusatoria e di “incitamento” diretti a William Willoughby, il venerato capo della polizia, onesto e vulnerabile, malato di cancro. Coinvolgendo in seguito nella sua lotta anche il vicesceriffo Dixon, uomo immaturo dal comportamento violento e aggressivo, la donna finisce con l’essere un pericolo per l’intera comunità, mal sopportata, quella che da vittima si trasforma velocemente in minaccia: ogni cosa essendo immersa nella descrizione di una provincia americana che coltiva il razzismo, grumi di violenza e corruzione. Da parte di molti “Tre manifesti” è già stato giudicato come il miglior film dell’anno, i quattro recenti Golden Globe spianano la strada verso gli Oscar. Durata 132 minuti. (Ambrosio sala 2, Eliseo Rosso, Greenwich sala 2)
Charles Chapman. Sul treno di pendolari che prende regolarmente da dieci anni, l’assicuratore Mc Cauley è avvicinato da una bella donna, una psicologa, che gli promette una bella quantità di soldi se lui vorrà fare con lei un gioco: su quel treno viaggia un tale che non ha proprio le caratteristiche di un normale pendolare, a lui scoprire di chi si tratta. Come nelle storie del maestro Hitchcock, l’uomo entrerà negli ingranaggi di un gioco più grande di lui, se volesse sottrarsene ne andrebbe della sua famiglia. Durata 105 minuti. (Massaua, Lux sala 1, The Space, Uci)