Carlo Cecchi ha con Pirandello un rapporto e un giudizio conflittuali, lo considera il più grande autore italiano ma pure il più insopportabile. Prevale – diciamolo subito – in modo sfacciato questa antipatia di fondo condita con una buona dose di gelido sarcasmo, per cui, dopo aver invaso in anni addietro il campo dell’autore siciliano con le rivisitazioni dell’ “Uomo la bestia e la virtù” e dei “Sei personaggi” ecco che oggi si diverte a banalizzare, come un bambino che dispettosamente faccia le linguacce, quel mostro dell’”Enrico IV” scritto nel ’21 per Ruggero Ruggeri.
Le forche caudine inevitabili sono una riscrittura a volte violenta nei confronti del testo e lì sotto Cecchi è costretto a passare. Ma ci passa con gioia. Che in cent’anni circa qualcosa di fumoso e di annebbiato, di troppo acquoso e di macchinoso ci sia è innegabile, che la macchina teatrale scricchioli e possa aver bisogno di un piccolo colpo di manutenzione da anni Duemila potremmo comprenderlo. Ma. Come ognuno sa, un uomo senza nome s’è richiuso da tempo nella pazzia “ideale” e creduta da tutti all’indomani di una caduta da cavallo durante un carnevale in cui aveva assunto la maschera di Enrico IV, non quello di Francia cinquecentesco (e su questo s’era preparato il malcapitato ultimo arrivato tra i servi che con lui si sono esiliati) ma quello che secoli prima attraverso Matilde di Toscana ottenne a Canossa dopo tre giorni d’attesa in mezzo alla neve di gennaio il perdono papale. I cavalieri e le dame di quel tempo sono ora riuniti, nell’eremo dell’imperatore pazzo, a rappresentare un’altra
volta quel gioco, quella cavalcata e quel travestimento, Matilde la donna amata un tempo e quel barone Belcredi che ha preso il posto del vecchio amore, il medico che dovrebbe trovare la via della guarigione con l’improvvisa apparizione della giovane Frida, uguale alla madre giovanissima come una goccia d’acqua. A quel sotterfugio l’uomo non ci sta, afferra una spada, sbudella il buon Belcredi e si affossa vita natural durante nella propria pazzia. Anche Cecchi a quei sotterfugi teatrali, alla commozione cerebrale, alle disquisizioni senza fine non ci sta. Comincia, tra il Bignami e il fast food, a ridimensionare come un forsennato, a ridurre i tre canonici atti ad un unico blocco di 90’, via via via gli intervalli! per carità, a prosciugare di parecchio le lunghe battute del primo attore, guardando di sbieco la Grandattorialità, e a giocare a far apparire in miglior luce gli altri personaggi, a modernizzare il linguaggio di Pirandello seppur con una gran bella risata lasciando e ripetendo certe parole, quelle che già stridono e farle stridere ancora di più, gioca al teatro con i quattro suoi consiglieri, rovistando nella tragedia alta che diventa una insignificante fiction e potendo contare anche su chi s’è preso il compito di riportarlo, copione alla mano, sulla retta via quando lui s’allontana troppo dall’impianto originale. Perché s’allontana. Non gli interessa tanto il percorso da e verso la pazzia del protagonista né la fatidica capocciata – è stato lui a scegliere liberamente di fingersi pazzo, conscio ormai del
mondo che gli si è aperto davanti -, scova e gli interessa il pirandellismo del teatro nel teatro e chiede a Sergio Tramonti una scena che abbia le quinte mobili di uno spazio teatrale e una superficie specchiante sul fondo in cui Enrico si possa guardare sempre più spesso mentre recita con le spalle rivolte al pubblico, in una non-dizione tutta di oggi. Tra uno sfrondare e l’altro, tra una linguaccia e uno sberleffo, il Cecchi nuovo autore trova le occasioni per farci riascoltare un breve brano di una lettera di Pirandello a Ruggeri, improvvisare il grido “Hanno ammazzato compare Turiddu” dalla “Cavalleria” di Mascagni con l’allegria di “Noi siam come le lucciole” e – prima degli applausi finali di un pubblico del Carignano estremamente divertito – un indifferente e frettoloso “dai, alzati, che domani sera abbiamo un’altra replica” rivolto al Tancredi che fino a un secondo prima cercava di esprimere tutta la sua sofferenza come neppure il Gallo morente. Ridicolo andare a cercare il “qua insieme, qua insieme… e per sempre” della tragedia finale, manco da parlarne. Nel pastiche gli stanno accanto Angelica Ippolito, Roberto Trifirò, Gigio Morra, Dario Iubatti, Chiara Mancuso e altri, estremamente obbedienti. I costumi, preziosi, sono di Nanà Cecchi.
Elio Rabbione
foto Matteo-Delbò


di cultura per antonomasia, Torino intende sostenere e promuovere le produzioni e le sperimentazioni musicali, chiamando a collaborare tutte le realtà della città. Saranno infatti coinvolti nel TJF gli oltre 20 club cittadini in cui si suona jazz tutto l’anno e circa 250 musicisti (110 nei concerti del main, oltre 130 nei locali, 16 nei jazz blitz). Cinquanta concerti di cui sette produzioni originali, la prima italiana di un’artista iconica, numerosi spettacoli pomeridiani, aperitivi in musica e le esibizioni serali.Il TJF intende proporsi come evento primaverile internazionale. Tuttavia l’edizione 2018 conta di sperimentare richiami nel resto dell’anno, con appuntamenti musicali e il coinvolgimento delle orchestre di allievi del Conservatorio e della Scuola Civica di musica e gruppi di studenti delle più titolate scuole specialistiche di jazz.Il programma e gli artisti saranno annunciati alla conferenza stampa in agenda mercoledì 28 marzo.
semiscenica, curata da Laurie Feldman, che nesegue fedelmente il libretto, evidenziando gli aspetti fondamentali della grande drammaturgia presente nel capolavoro di Strauss.I personaggi interagiscono tra di loro all’interno di uno spazio scenico connotato da alcune sedie e racchiuso da fondali neri. Il cast è di assoluto livello. Nel ruolo di Salome’ il soprano Erika Sunnegardh, Erode è interpretato dal tenore Robert Brubaker ed il soprano Doris Soffel veste i panni di Erodiade. Il personaggio di Jochanaan è affidato alla voce del baritono Tommi Hakala. Il capolavoro di Salome’ lega il suo nome a quello del teatro Regio di Torino in quanto proprio qui ebbe luogo la prima italiana dell’opera, nel lontano 1906, diretta dallo stesso Strauss. “Salome’ – dichiara il maestro Noseda – è un’opera che dà i brividi. A più di un secolo dalla prima non ha perso nulla del suo fascino seducente e morboso. Per il pubblico d’oggi non presenta più quella mostruosità emotiva che percepivano i primi spettatori agli inizi del Novecento, noi sappiamo già cosa aspettarci, ma l’effetto è dirompente; invade con quell’erotismo selvaggio, con quella sensualità, con quel suo disagio esistenziale.

di 7 Festival, A&R Manager di Sony Music, vincitore di 8 dischi d’Oro; MARCO CIAPPELLI, autore di brani per Noemi, Giuliano Palma, Fiorello, Francesco Facchinetti, Fiorella Mannoia, Patty Pravo, Bianca Atzei, Nina Zilli, Loredana Errore, etc.; ADRIANA ROMBOLA’, Presidente dell’etichetta discografica “Riserva Sonora”; MARCO MORI, già nello staff di Ligabue e manager di Paola & Chiara, direttore artistico di “Riserva Sonora”; GIOVANNI GERMANELLI, promoter artistico per cantanti tramite i principali media radio/televisivi, web e stampa; MARCO COLAVECCHIO, produttore discografico, direttore artistico nel tour di Paolo Vallesi e attualmente impegnato in un progetto con Eros Ramazzotti. La manifestazione si è svolta nei giorni 8 e 9 febbraio al Palafiori di Sanremo ed è andata in onda in diretta su 3 emittenti in streaming. Tutti i partecipanti sono stati
premiati con la consegna del NATIONAL VOICE AWARDS, cerimonia svolta nell’ambito dell’area riservata di Casa Sanremo. Tra coloro che hanno premiato i nostri partecipanti c’erano anche MAURO MARINO di Radio Italia e ROSARIA RENNA di Radio Montecarlo. Un ringraziamento per la collaborazione va a Pulsart Academy nelle persone di Patrizia Mottola e Emiliano Boschetti, a Monica Pera, Ketty Camerlengo e a Massimo Curzio del Big Stone Studio. Sono venuti a trovarci Alice Caioli, Andrea Maestrelli e Alberto Lionetti. Infine un grazie a Paolo Formia, prezioso nell’aiuto delle attività di ascolto e consegna premi, alle belle ed eleganti vallette Carola Falco e Corinne Liscio e a Stefano Celi, nostro partner ufficiale con l’Azienda Agricola valdostana LA SOURCE.
Innanzitutto una novità. Roba da segnare sul proprio diario, da non scordare più. Italiana, contemporanea come più non si potrebbe, negli argomenti, nella felicità con cui delinea i vari personaggi, nel linguaggio incisivo e scoppiettante, con battute godibili a raffica, nell’articolazione delle differenti vicende che vi si incrociano
quale miglior esordiente), quantomai maturo nella propria scrittura e allo stesso tempo ancora troppo debole in un nostrano panorama teatrale che pare non volerlo ancora completamente accettare. E allora ecco che il successo, quello fragoroso, quello di costante ricerca, arriva all’estero, con le presenze nei cartelloni dei teatri del nord Europa, con il Royal Court Theatre londinese che gli commissiona Genova 01, con la Comédie Française che gli mette in scena La malattia della famiglia M. (pronta a raggiungere pure la lontana Taipei, in Taiwan). Qualcuno lo ha definito “uno dei migliori drammaturghi europei”, dal gennaio di quest’anno il Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale lo ha promosso “dramaturg residente”, oggi siamo curiosi del lavoro che saprà svolgere.
attraversano le strisce pedonali di Abbey Road, la Thatcher e Tony Blair, le nuove suffragette dell’ecologismo, le irruzioni e le rivolte. Sino a ritrovarsi dentro un altro vernissage e un’altra galleria, ancora con quella tela e quel viso di donna sconosciuta: ma ecco che Emma compare, lei che quel quadro lo vorrebbe distruggere, a fare i conti con il passato, quello proprio e quello degli altri, in un pistolotto finale di ricordi e di confessioni che vuole tirare tutte le fila. È la chiusura su una bella commedia che nel secondo tempo, con il rischio di girare su se stessa, ha avuto qualche cedimento, qualche fragilità, che prosciugata sarebbe perfetta. Ma il successo della serata rimane, intatto, non soltanto per la brillantezza della scrittura ma pure per l’apporto immediato, tutto uno scoppiettìo, degli interpreti, maschere di un’Italia da manuale, dallo stesso Paravidino a Eva Cambiale, da Gianluca Bazzoli (un fratello perfetto nell’esporre con feroce pragmatismo il modus vivendi di casa sua) alla drammaticissima narratrice Sara Rosa Losilla, da Giacomo Dossi, prete arrapato e bellone da discoteca a Iris Fusetti, la Emma del titolo.
storia è legata al Museo Nazionale del Cinema, accogliendo i principali festival cinematografici torinesi. Nel 2001 è stato completamente ristrutturato in tre sale da proiezione. Il Cinema Alpi sorse nei locali che, dal 1853, avevano ospitato il Caffè omonimo, il quale era situato nel palazzo Saluzzo Paesana tra via Garibaldi e via della Consolata. Fu inaugurato nell’aprile 1914, cambiò il nome in Puntodue d’Essai nel 1977 e in Charlie Chaplin a partire dal 1983. Chiuse definitivamente nel 2003 per far posto a un negozio di abbigliamento in franchising. Torna in questi giorni alla memoria lo Statuto di via Cibrario, di cui ricorre il trentacinquesimo anniversario del rogo, che fece sessantaquattro vittime, soffocate dal fumo e bloccate in sala dalle porte di sicurezza rimaste chiuse. La tragedia costituì il punto di partenza per riscrivere le norme sulla sicurezza nei locali pubblici italiani. Lo Statuto non riaprì mai più; venne abbattuto una decina di anni dopo e, con esso, sparirono molte sale del centro storico
come l’Astor di via Viotti, il Vittoria di via Roma e l’Ariston di via Lagrange. Il nome della sala poteva anche celebrare un pioniere del cinema dei primordi. Torino non ha dedicato una sala al regista di Cabiria Giovanni Pastrone – ci ha pensato invece Asti. Una delle più importanti in città è dedicata, invece, ad Arturo Ambrosio, fondatore della prima compagnia di produzione cinematografica italiana e autore del primo film girato in Piemonte, “La corsa automobilistica Susa-Moncenisio” del 1904. Per iniziativa di Amedeo Reposi, il cui padre Felice era stato un imprenditore cinematografico degli anni Venti, nel 1947 aprì i battenti il Cinema Teatro omonimo. La multisala attuale è nata dalla trasformazione radicale del cinema originario, dotato di 2700 posti, che aveva una particolare forma a interno d’uovo e il soffitto apribile.
schermi delle sale. In tutta la penisola sorsero i vari Excelsior, Major, Arena, Astra, gli Splendor (titolo di un film bello e struggente girato da Scola), i Fulgor (un film sul cinema Fulgor di Rimini rimase un progetto mai realizzato da Fellini). Il Lux venne inaugurato nella primavera del 1934 con il nome di Cinema Rex, nel contesto dei lavori di riqualificazione che interessarono la Galleria Geisser (poi San Federico) e l’intero asse di via Roma (1931-1937). Caratterizzato da una ricca decorazione in stile liberty, con i suoi 1573 posti era il più grande e moderno cinematografo torinese. Ribattezzato successivamente Dux, ritornò (per ovvi motivi) all’attuale nome nel 1945. Nel 2004 è stato oggetto di un completo rifacimento che ha comportato la realizzazione di tre nuove sale. A riprova che la storia italiana è passata anche attraverso i nomi dei cinematografi, l’Adua di corso Giulio Cesare ha tenuto in vita remote fantasie coloniali fino al 2008. Inaugurato nel 1937, venne utilizzato per alcuni anni anche come teatro dal Gruppo della Rocca. Un moderno edificio residenziale ne ha cancellato definitivamente la memoria.
Meritano una menzione particolare due cinema storici della città. Il Nuovo Romano è il cinema della Galleria Subalpina, inaugurata nel 1874. Sorse nel 1897 come Caffè Concerto Romano e nel sottopiano ospitò dal 1905 il Cinematografo Lumière. Nel 1911 il Caffè divenne Cinema Romano, adibito per qualche decennio anche a teatro-varietà. I bombardamenti dell’agosto 1943 causarono gravi danni e la sala rimase chiusa fino alla fine della guerra. Nel 1958 fu sottoposto a una radicale ristrutturazione e poi riaperto al pubblico con un recital di Vittorio Gassman. Il Cinema Nazionale sorge invece sulle ceneri del Teatro omonimo, situato in fondo a Contrada degli Ambasciatori, l’attuale via Pomba. Venne inaugurato nel marzo 1848 con la Lucrezia Borgia di Donizetti. Alla fine degli anni Settanta, quando in tutta Italia si liberalizzò la circolazione dei film hard core, molte sale si riconvertirono, esibendo la classica luce rossa al loro esterno. Esse seguirono un percorso già tracciato, cercando nel nome un’identificazione che le rendesse immediatamente riconoscibili. E fu così che nella nostra città spuntarono l’Artisti Erotic Center, il Zeta Sexy Movie, l’Arco Pussycat, l’Alcione, l’Alexandra. Ne sono rimaste tre o quattro, sopravvissute ai vari Tube online per pochi sparuti spettatori.
I tempi sono cambiati. Oggi non c’è grande città che non abbia il suo Warner Village o un Multiplex Qualchecosa: sulle sponde italiche sono sbarcati i distributori americani con il loro carico di coca-cola e popcorn. Torino non fa eccezione e ha seguito questo cambiamento epocale. La diffusione delle pay-tv, prima, e la rivoluzione digitale, poi, stanno portando a prediligere la visione domestica a scapito della fruizione collettiva. Con buona pace di chi sostiene che il cinema è un’arte di massa (‘di’ e ‘per’ la massa): anzi, è l’arte di massa per eccellenza. Molte sale cittadine hanno dovuto chiudere definitivamente, oppure far posto ad edifici residenziali e attività commerciali. Oltre a quelle già citate ricordo il Doria, inaugurato nel 1947 e costretto ad abbassare le saracinesche qualche anno fa. Il Corso (già Palazzo), situato nel prestigioso edificio Art déco di corso Vittorio Emanuele angolo via Carlo Alberto, aveva invece già chiuso nel 1980 in seguito a un incendio. Ma potrei citare anche il Cristallo, il Capitol, l’Arlecchino e tutti quei cinema di quartiere (lo Studio Ritz e l’Eridano, per nominarne un paio) che resero il grande schermo l’ultimo luogo del Mito. C’era una volta, e un’altra non c’è stata più. Ma quella volta c’era. C’era un pubblico formato da gente semplice che, almeno una notte nella vita, sognò sotto le stelle di un cielo Maestoso.
Benedetta follia – Commedia. Regia di Carlo Verdone, con Carlo Verdone, Ilenia Pastorelli, Lucrezia Lante della Rovere e Paola Minaccioni. Guglielmo, in depressione stabile, è il proprietario di un negozio di arredi sacri e abbigliamento d’eccellenza, per il piacere e l’eleganza della moltitudine di porporati romani. Depresso anche per il fatto che la moglie lo ha appena abbandonato perché innamorata proprio della commessa del suo negozio: quando come un ciclone entra nella sua vita una ragazza di borgata. Opera con un buon inizio se poi non prendesse la strada delle vogliose signore che in un modo o nell’altro vogliono accaparrarsi il misero quanto problematico single. Con una comicità che fa acqua da ogni parte (in sala piena ho contato un paio di risate davvero convinte), non priva di momenti quantomai imbarazzanti (oltrepassando di gran lunga, all’italiana, lo spudorato ma tranquillo divertimento della scena clou di “Harry, ti presento Sally”, la signora che nasconde il cellulare “nel posto più bello del mondo” finisce per ritrovarsi in una storiellina soltanto fuori dei limiti; l’attore/regista che si mette a fare il cicerone all’interno di palazzo Altemps a Roma denuncia tutta la sua odierna mancanza d’idee, lontanissimo dalle cose migliori; e poi le pasticche, i balletti, le cianfrusaglie tra colori e suoni…). La gieffina Pastorelli rimane se stessa in ogni occasione, immutabile se non fosse per i cambi d’abito (sempre più ristretto), alla ricerca dei begli effetti che una Ramazzotti ci ha dato in altre occasioni. Godetevi la manciata di minuti della Minaccioni. Un toccasana. Durata 109 minuti. (Uci)
Freeman e Angela Bassett. Il protagonista è il nuovo re di Wakanda dopo la morte del padre: ma se sulla sua strada trova dei nemici pronti a detronizzarlo, lui sarà pronta a unirsi alla CIA e alle forze speciali del proprio paese. Durata 135 minuti. (Massaua, Greenwich sala 3, Ideal, Reposi, The Space, Uci anche in V.O. e 3D)
Elio, professore universitario, ospita nella propria casa un borsista per l’intera estate. L’arrivo del disinvolto Oliver non lascia insensibile il ragazzo, che scopre il sesso con una coetanea ma che poco a poco ricambiato approfondisce la propria relazione con l’ospite. Un’educazione sentimentale, i libri e la musica, Eraclito e Heidegger, Bach e Busoni, l’ambiente pieno di libertà della sinistra, i discorsi insperati di un padre, il tempo scandito dalle cene e dalle discussioni su Craxi e Grillo, il vecchio factotum che di nome fa virgilianamente Anchise, passeggiate e discussioni, corse in bicicletta, ritrovamenti di statue in fondo al lago, nuotate in piccoli spazi d’acqua, felici intimità, in una delicatezza cinematografica (la macchina da presa pronta ad allontanarsi velocemente da qualsiasi troppo imbarazzo) che assorbe nei temi (“Io ballo da sola”) e nei luoghi (i paesini, i casali, la calura di “Novecento”) il passato di Bertolucci o guarda al “Teorema” pasoliniano. L’ultima opera di un regista (“Io sono l’amore”, “A bigger splash”) che con la critica di casa nostra non ha mai avuto rapporti troppo cordiali, osannato all’estero, in corsa verso l’Oscar con quattro candidature. La sceneggiatura è firmata da James Ivory dal romanzo di André Aciman. Chissà come risponderà il pubblico italiano? Durata130 minuti. (Massimo sala 2 (V.O.), Nazionale sala 2)
“Cinquanta sfumature di nero”. L’ultimo dei romanzi di E.L. James in versione “oggi sposi”, con cerimonia nuziale, bella casa e viaggio di nozze in Europa, con qualche addolcimento per quel che riguarda la “padronanza” del bel tenebroso Christian verso la bella Anastasia, comunque – gli appassionati non disperino – nei dintorni del “bondage soft”. Uscendo un po’ di più dalla camera da letto e imboccando la via del thrilling, rapimenti e inseguimenti in auto si ricollegano ad un passato di gente che non molla, dall’ex datore di lavoro dell’ormai sposina fresca fresca alla Elena della sempre appetitosa e combattiva Kim Basinger, ancora una volta pronta a riconquistarsi il ragazzone che lei stessa ha avviato alle pratiche amorose tutte frustini in bella vista. Durata 104 minuti. (Massaua, Greenwich sala 1, Ideal, Reposi, The Space, Uci)
Ella & John – The Leisure Seeker – Drammatico. Regia di Paolo Virzì, con Donald Sutherland e Helen Mirren. Tratto dal romanzo americano di Michael Zadoorian, con alcune varianti apportate dalla sceneggiatura scritta dallo stesso regista in compagnia di Francesco Piccolo, Francesca Archibugi e Stephen Amidon (a lui già Virzì si rivolse per “Il capitale umano”), è la storia della coppia del titolo, svanito e smemorato ma forte John, fragile ma lucidissima Ella, è il racconto del loro viaggio, dai grattacieli di Boston ai climi di Key West, lungo la Old Route 1, anche per rivisitare con la (poca e povera) memoria il vecchio Hemingway – John è stato un professore di letteratura di successo che ha coltivato con passione lo scrittore del “Vecchio e il mare” -, un viaggio che ha la forma di una conclusiva ribellione ad una famiglia e soprattutto a un destino che ha riservato per lei il cancro all’ultimo stadio e a lui l’abisso dell’Alzheimer. Momenti di felicità e anche di paura in un’America che sembrano non riconoscere più, una storia attuale e un tuffo nella nostalgia (quella che guarda agli anni Settanta), a bordo del loro vecchio camper, mentre corpo e mente se ne vanno. Un’occasione, per ripercorrere una storia d’amore coniugale nutrita da passione e devozione ma anche da ossessioni segrete che riemergono brutalmente, regalando rivelazioni fino all’ultimo istante. Un film di emozioni per coppie vecchio stampo, due formidabili interpretazioni, due doppiaggi – Ludovica Modugno e Giannini – da ascoltare con attenzione: ma a me è sembrato di essere lontano anni luce dalla stratosferica follia e umanità della “Pazza gioia”. Durata 112 minuti. (Romano sala 3)
Final portrait – L’arte di essere amici – Drammatico. Regia di Stanley Tucci, con Geoffrey Rush e Armie Hammer. Quinta prova dietro la macchina da presa (Big night, uno per tutti i titoli) di uno dei migliori caratteristi hollywoodiani (ricordiamo soltanto Il diavolo veste Prada e Shall we dance?), questa volta per raccontare l’incontro e l’amicizia (era il 1964) dell’artista Alberto Giacometti con il giovane scrittore e appassionato d’arte James Lord. L’invito dello scultore, il sì con la certezza che si tratterà di poche sedute: sarà l’inizio di un lungo percorso, l’attraversare da parte del ragazzo il mondo di insicurezze e frustrazioni dell’artista, delle sue fragilità e della sensibilità come della sua grandezza artistica. Partecipazione all’ultimo TFF, un eccezionale ritratto nell’interpretazione di Rush (Shine, La migliore offerta di Tornatore), con una precisa immedesimazione, con il suo calarsi appieno nella creatività come nelle zone d’ombra dell’uomo. Ma qualcosa non funziona, dal momento che la storia e la regia si fanno grigie come il colore che predomina nello studio dell’artista, tutto gira noiosamente su se stesso senza sprazzi e senza invenzioni, Hammer è un bel posacenere ben lontano dal film di Guadagnino: e per tutta la durata del film allo spettatore finisce col non importargli nulla delle stesure di colore e dei ripensamenti artistici di Giacometti. Durata 90 minuti. (Romano sala 1)
Venezia, tredici candidature agli Oscar, arriva l’attesissima storia del mostro richiuso in una gabbia di vetro all’interno di un laboratorio governativo ad alta sicurezza (siamo negli States, in piena guerra fredda, il 1962) e del suo incontro con una giovane donna delle pulizie, Elisa, orfana e muta, dei tentativi di questa di salvarlo dalla cupidigia dei cattivi. Avrà l’aiuto degli amici (il disegnatore gay, lo scienziato russo pieno di ideali, la collega di colore), cancellando la solitudine e alimentando i sogni, in un’atmosfera che si culla sulle musiche di Alexandre Desplat, contaminate da quelle dei grandi del jazz degli anni Sessanta. Durata 123 minuti. (Ambrosio sala 1, Eliseo Grande, Massimo sala 1 (anche V.O.), Reposi, The Space, Uci)
L’ora più buia – Drammatico. Regia di Joe Wright, con Gary Oldman, Kristin Scott Thomas, Lily James e Ben Mendelsohn. L’acclamato autore di “Espiazione “ e “Anna Karenina” guarda adesso al secondo conflitto mondiale, all’ora decisiva del primo anno di guerra, alla figura del primo ministro inglese Winston Churchill. Nel maggio del ’40, dimessosi Chamberlain e da poco eletto lui alla carica, inviso al partito opposto e neppure in grado di poter contare sui suoi colleghi di partito e sul re che lo tollera, mentre le truppe tedesche hanno iniziato a invadere i territori europei, Churchill combatte in una difficile quanto decisiva scelta, se concludere un armistizio con la Germania dopo la repentina caduta della Francia oppure avventurarsi nell’intervento di un conflitto armato. Mentre si prepara l’invasione della Gran Bretagna, si deve pensare alla salvezza del paese, grazie ad una pace anche temporanea, o l’affermazione con una strenua lotta degli ideali di libertà: una delle prime mosse fu il recupero dei soldati intrappolati sulle spiagge di Dunkerque (come già ad inizio stagione ci ha insegnato lo stupendo film di Christopher Nolan). Oldman s’è già visto per il ruolo assegnare un Globe, sta sopravanzando sugli altri papabili per quanto riguarda gli Oscar, un’interpretazione che colpisce per la concretezza, per gli scatti d’ira e per quel tanto di cocciutaggine e lungimiranza britannica che in quell’occasione s’impose. Uno sguardo al trucco dell’interprete: gorse un altro Oscar assicurato. Durata 125 minuti. (Due Giardini sala Ombrerosse, Lux sala 3, Reposi)
germanico. Noi veniamo in scia (molto sbiadita) e immagine che il Duce dai tratti mascolini che ha il viso di Popolizio ricompaia a piazza Vittorio, multietnica, di Roma e venga scambiato per un discreto attore che ne fa discretamente l’imitazione. Trattandosi di pura realtà, il soggetto vuole raddrizzare la molliccia Patria e riprendere le cose là dove le ha lasciate. Un inesistente regista di documentari pregusta già il successo e lo prende sotto la sua ala protettrice: e se i risultati non sono quelli sperati, oggi i social aiutano per cui la buonanima, che ha visto il proprio nome sempre più pubblicizzato, si lascia catturare dalla ferrea vicedirettrice di un’emittente, pronta a spargerlo per l’intero palinsesto. Nell’Italia arrabbiata e indecisa di oggi lo share può salire alle stelle. Ci voleva tutt’altro approccio, altra regia e soprattutto una sceneggiatura che si potesse definire tale. È l’ennesimo esempio dell’insicurezza (o se volete, della pochezza, faciloneria, dabbenaggine, pressapochismo) di certo nostro cinema. Ed è chiara sempre più la rarefazione di quelli che un tempo (per carità, non è che dell’oggi si debba fare tabula rasa!) sapevano mettersi a tavolino e scrivere una vera storia. Con tutta l’intelligenza che serviva. E che servirebbe ancora. Durata 100 minuti. (The Space, Uci)
The Post – Drammatico. Regia di Steven Spielberg, con Meryl Streep e Tom Hanks. Ancora l’America descritta da Spielberg con gran senso dello spettacolo, segue candidatura a due Oscar, miglior film e migliore attrice protagonista. L’argomento è ormai noto, il New York Times aveva tra le mani nel 1971 un bel pacco di documenti comprovanti con estremo imbarazzo la cattiva politica di ben cinque presidenti per quel che riguardava il coinvolgimento degli States nella sporca guerra nel sud-est asiatico. Il governo proibì che fossero dati alle stampe. Se ne fece carico il direttore del Washington Post (Tom Hanks), sfidando comandi dall’alto e un non improbabile carcere: ma a nulla sarebbe valsa quella voce pure autorevole, se la voce ancora più forte non fosse venuta dall’editrice Katharine Graham, all’improvviso ritrovatasi a doversi porre in prima linea in un mondo esclusivamente maschile, buona amica di qualche rappresentante dello staff presidenziale (in primo luogo del segretario alla difesa McNamara) e pur tuttavia decisa a far conoscere a tutti quel mai chiarito pezzo di storia. L’autore del “Soldato Ryan” e di “Lincoln” si avvale di una sceneggiatura che porta la firma prestigiosa di Josh Singer (“Il caso Spotlight”), della fotografia di Janusz Kaminski (“Schindler’s list”), dei costumi di Ann Roth; con questo ultimo ritratto Meryl Streep si conquista la sua ventunesima nomination agli Oscar. Riuscirà la fantastica Frances McDormand di “Tre manifesti” a sbarrarle la strada? Durata 118 minuti. (Ambrosio sala 3, Centrale V.O., Massaua, Due Giardini sala Nirvana, Lux sala 2, The Space, Uci)
L’uomo sul treno – Azione. Regia di Jaume Collet-Serra, con Liam Neeson, Vera Farmiga e Dean-Charles Chapman. Sul treno di pendolari che prende regolarmente da dieci anni, l’assicuratore Mc Cauley è avvicinato da una bella donna, una psicologa, che gli promette una bella quantità di soldi se lui vorrà fare con lei un gioco: su quel treno viaggia un tale che non ha proprio le caratteristiche di un normale pendolare, a lui scoprire di chi si tratta. Come nelle storie del maestro Hitchcock, l’uomo entrerà negli ingranaggi di un gioco più grande di lui, se volesse sottrarsene ne andrebbe della sua famiglia. Durata 105 minuti. (Massaua, The Space, Uci)
Il racconto di Marco Travaglini
un’atmosfera unica, tipica di città come questa o come Vienna, Praga, Trieste. Un mondo ricco di sapori e profumi diversi, uniti e fusi con il brusio delle voci in sottofondo. Quando capitava di guardare , al tramonto o con le prime luci dell’alba, l’acqua scura che passava sotto i ponti , pensava alle parole di Claudio Magris … “… Il Danubio è il fiume lungo il quale s’incontrano, s’incrociano e si mescolano genti diverse…È il fiume di Vienna, di Bratislava, di Budapest, di Belgrado, della Dacia, il nastro che attraversa e cinge , come l’Oceano cingeva il mondo greco, l’Austria asburgica, della quale il mito e l’ideologia hanno fatto il simbolo di una Koinè plurima e sovranazionale, l’impero il cui sovrano si rivolgeva “ai miei popoli” e il cui inno veniva cantato in undici lingue diverse. Il Danubio è la Mitteleuropa tedesca-magiara-slava-romanza-
vicino. Così, a poco a poco, era diventato sempre più umorale, scostante e solitario. Guardò l’orologio. Erano appena passate le quattro del mattino del 27 settembre. Fuori non pioveva più. Ormai sveglio, s’infilò sotto la doccia e in poco di mezz’ora era già nella hall dove, dalla reception, ritirò le chiavi del fuoristrada. Erano le 11 quando, varcata la frontiera austriaca, entrò nell’area dell’aereoporto di Linz. Il volo per Milano era in programma per il pomeriggio. Nel capoluogo lombardo, all’indomani, doveva svolgere una relazione a un convegno sui confini europei, tra l’est e l’ovest. E a lui toccava la parte più complessa, raccontando la realtà dei Balcani.
vecchio DC9 era già sulla pista, in attesa dei pochi passeggeri. Del resto era un volo riservato a non più di 20 persone che dovevano raggiungere l’aerostazione di Malpensa entro le 16 pomeridiane. Lanciando un ultimo sguardo ai campi coltivati con regolarità e meticolosa attenzione e alle nuvole che sfumavano l’orizzonte verso est, sospirò trattenendo con una mano il fascio di giornali ed aggiustandosi, con l’altra, il bavero dell’impermeabile beige. Quando viaggiava all’estero, soprattutto in quella stagione e principalmente nell’area balcanica o nei paesi della mitteleuropea, amava vestirsi così, informalmente. Giacca di velluto, leggera. Pantaloni comodi e camicia non abbottonata sul collo ( niente cravatta, possibilmente). E l’immancabile impermeabile stile Humphrey Bogart che aveva acquistato proprio a Budapest vent’anni prima. Quasi non s’accorse del volo. Appena l’aereo iniziò a rullare sulla pista s’addormentò. Gli accadeva sempre. Non aveva paura di volare, anzi, al contrario, le vibrazioni dell’aereo gli conciliavano il sonno. Era una specie di ninna-nanna tecnologica che lo strappava via dalla realtà, catapultandolo nel mondo dei sogni. E di solito era la voce un po’ citofonata dell’assistente di volo che annunciava l’atterraggio a ridestarlo. E così fu anche questa volta. A Malpensa prese un taxi (niente auto blu e autisti: lo infastidivano) e dalla borsa sfilò la cartellina del convegno, sulla quale spiccava – in rosso – il titolo: “L’abbattimento dei confini europei”. “Strano titolo”, pensò. “Caro onorevole Travas – disse a se stesso, rimuginando – Più che abbatterli, i confini, stanno costruendone di nuovi. Non ci saranno più le barriere delle dogane ma restano alti i muri nelle teste e quelli sono i più duri da sbatter giù”. E qualcuno pensava nuovamente al filo spinato, ai cavalli di frisia, ai muri di cemento armato per bloccare migranti e stranieri. Quando gli capitava di pensare ai suoi impegni si scopriva a parlare da solo, l’onorevole Marco Travas. Un titolo che non amava ostentare, innervosendolo. Sessantenne quasi calvo, alto e piuttosto massiccio, era stato eletto al parlamento europeo nel cartello progressista dopo aver passato più di vent’anni ad impegnarsi nelle battaglie civili. Era stato il rifiuto della guerra e della violenza a spingerlo verso un impegno più diretto. Prima come giornalista, inviato di un noto giornale nei paesi del nord Africa che si affacciavano sul Mediterraneo e poi, freelance nei Balcani durante la guerra. Era stato a Tuzla, Mostar, Srebrenica, Sarajevo. Quegli anni erano stati decisivi per compiere il passo decisivo verso l’impegno a tempo pieno. Toccò anche a lui, giornalista senza padroni, girare lungo i confini della Bosnia sentendosi soffocato dall´impotenza. Da allora, fino all’elezione al parlamento europeo, non aveva smesso di darsi da fare. Per questo, quando l’avevano contattato per il convegno a Milano, non aveva esitato a dire di sì. La sala del convegno era al 31° ed ultimo piano del “Pirellone”, in piazza Duca d’Aosta, a pochi passi dalla stazione Centrale. Lì, in cima al più alto grattacielo d’Italia , si sarebbero confrontati i diversi relatori. Arrivò, come sempre, con largo anticipo dopo aver telefonato e concordato gli ultimi dettagli. Appena uscito dall’ascensore venne accolto dal sorriso di una bella ragazza. Rimase colpito subito dai suoi occhi neri, lucenti. E balbettò quasi il suo nome rispondendo al saluto di
quella voce calda, profonda. “ Buongiorno, sono Carla. Posso esserle utile?”. “Buongiorno, sono l’onorevole Travas… Marco Travas. Sono qui per il convegno sulle frontiere europee”. “Prego, mi segua. E’ uno dei primi ad arrivare, sa?”, rispose sorridente la ragazza. Mentre gli faceva strada non potè evitare al suo sguardo di inquadrare la figura della ragazza che lo precedeva. Capelli lunghi con meches bionde, flessuosa, non tanto alta ma con un portamento deciso. Eh, quante volte si era rimproverato per quel suo modo di guardare. Ma, nonostante tutto, non riusciva a farne a meno. In poco tempo la sala si riempì e il moderatore – un vecchio amico, professore universitario e redattore di “Limes”, una delle più autorevoli riviste di geopolitica – esaurite le presentazioni, aprì il confronto che ( interrotto qua e là da qualche applauso, senza che l’attenzione scemasse ) si protrasse per circa due ore e mezza. Per tutto il tempo, non riuscì a fare a meno di incrociare lo sguardo della ragazza che l’aveva accolto sorridendo. E lei, Carla, seduta ai margini della terza fila, non aveva distolto un istante lo sguardo su di lui. Quel volto, quegli occhi erano una vera calamita, tant’é che – a un certo punto – mentre parlava delle ultime elezioni in Bosnia e delle differenze tra le tre realtà che componevano il mosaico della terra bosniaco erzegovese – perse il filo. Persino l’amico professore, che era tutt’altro che uno sprovveduto in quanto ad affari di cuore, se ne accorse e, terminato il dibattito , esaurite le strette di mano, gli sussurrò in un orecchio ..“l’ho notata,sai, la bella ragazza che ti ha mandato in tilt..”. Arrossì come un adolescente l’onorevole, cosa che non gli accadeva da molto, troppo tempo. Mentre il pubblico lasciava la sala, ormai semivuota, si avvicinò a Carla e , dopo aver commentato l’incontro, chiedendogli le sue impressioni, prese coraggio e le chiese se avrebbe avuto piacere ad accompagnarlo nella zona dei Navigli. “Non vorrei disturbarla, Carla. Ma è tantissimo che non vado più in quella che ritengo sia , insieme a Brera, la Milano che vale più la pena di visitare. E poi, se ci si può andare con una bella ragazza come lei, la cosa è ancora più piacevole”. “Sono lusingata, onorevole. E accetto volentieri l’invito”, rispose Carla, con prontezza ma senza sfacciataggine. Lui, tradendo un filo d’emozione, aggiunse: “Sono contento ma, per favore, non mi chiami onorevole. Mi sa tanto di formale. Mi chiami pure Marco, se non le dispiace”. “ Per me va benissimo, Marco. Con grande piacere”, ribatté Carla con voce cristallina. Il suono delle sue parole, pensò Travas, gli ricordava il tintinnare dei calici di Boemia.
calibro di Chet Baker e Dizzie Gillespie. Prima di entrare, Carla gli strinse delicatamente il braccio. Marco si voltò verso di lei, incrociandone lo sguardo. Lei sorrise e anche lui fece altrettanto. Stava così bene che non riusciva a ricordarsi quand’era stata l’ultima volta che si era sentito così a suo agio, in uno stato di calma che era ben diverso da quella, apparente, che doveva mostrare agli altri. Stava bene “dentro” ed era una cosa piacevolissima e, nello stesso tempo, strana. Non era più abituato a provare emozioni che non fossero quelle in cui inciampava in giro per il mondo. Fu l’inizio di una serata molto bella. Cenarono a lume di candela, ascoltando dell’ottima musica. Brindarono all’incontro e, prima di congedarsi ( Carla doveva rientrare a casa sua, a Gallarate, e aveva lasciato l’auto nel parcheggio sotterraneo davanti alla stazione Centrale ), gli confidò quel suo stato di leggera ebbrezza. E la ringraziò per quelle ore piacevoli che avevano trascorso insieme. L’indomani sarebbe ripartito molto presto per Strasburgo dove era prevista una seduta straordinaria del Parlamento Europeo. Lei, invece, aveva un impegno di lavoro – come hostess di sala – a un incontro promosso dall’assessorato comunale alla cultura in piazza del Duomo, per la presentazione di un progetto legato alle grandi mostre di arte moderna che avrebbero occupato gran parte del panorama della stagione culturale milanese nella primavera prossima. Lei lo strinse a se, gli posò un leggero bacio sulla guancia ed espresse il desiderio di rivederlo quando sarebbe tornato a Milano. Lui ricambiò il gesto d’affetto e confermò lo stesso desiderio. Rimase lì, con la mano alzata in un accenno di saluto, mentre la figura di lei si allontanava dietro ai vetri un po’ appannati del taxi. Raggiunse il suo albergo a piedi, camminando a lungo, e ogni tanto colpiva con il piede un piccolo sasso come faceva da ragazzo, simulando improbabili partite di calcio. Stava bene. Si sentiva bene. Ma iniziava già a sentire la mancanza di quel sorriso, delle parole pronunciate con tono basso, di quegli occhi neri e vivaci che l’avevano fatto sentire meno solo. Presto sarebbe tornato a Milano. Molto presto.