CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 760

Belleville, dagli ultimi giorni della Comune di Parigi a Édith Piaf

Belleville , storico quartiere nel XX° arrondissement parigino, uno dei più popolari della “Ville Lumière”, s’innalza come Montmartre su uno dei colli più alti della città, sviluppandosi tra case e piccole vie tra il parco delle  Buttes- Chaumont e il grande “cimetière de l’Est”, il Père Lachaise.  E’ lì, sul finire del 1915, che vide la luce – al 72 di Rue Belleville – la donna che incarnò una delle leggende e dei miti del filone realista della canzone francese. Si chiamava Édith Giovanna Gassion. Piccola, minuta come un “passero”  (venivano chiamati così i bambini che vivevano nelle strade del quartiere), passò l’infanzia accompagnando con la sua voce le esibizioni del padre contorsionista per poi diventare la celebre Édith Piaf, l’usignolo di Francia. In rue de Belleville una targa ricorda la casa  dove “nacque il 19 dicembre 1915 nella più grande miseria Edit Piaf, la cui voce, più tardi, sconvolgerà il mondo”. Ma la collina di Belleville è conosciuta anche come quella dei martiri della Comune, delle barricate e delle strade che conservano tracce e memorie di lotte e insurrezioni. Fu lì che si concluse l’ultima resistenza di quello che Karl Marx definì “il primo governo operaio della storia”, con i combattimenti tra le tombe del Père-Lachaise. Nata come forma estrema di reazione allo sfascio del Secondo Impero (la guerra franco-prussiana, dopo la sconfitta francese a Sédan, volgeva a favore di Bismarck) la Comune  s’impose come un moto spontaneo di rivolta, cui fece seguito un concreto tentativo di dare allo slancio iniziale la forma di un governo popolare. Dal 18 marzo al 28 maggio del 1871, in settantadue giorni, la Comune mise in atto un programma d’impronta socialista con misure a beneficio dei lavoratori come l’abolizione del lavoro notturno e l’occupazione degli alloggi sfitti, la separazione tra Stato e Chiesa, la socializzazione delle fabbriche abbandonate dagli imprenditori, il riconoscimento delle coppie di fatto, la creazione di una scuola pubblica, laica e gratuita. Tra gli obiettivi della Comune, c’era anche la riappropriazione della città, che le trasformazioni di Haussmann avevano iniziato a rendere estranea agli strati popolari. Misure radicali che però non entrarono quasi mai in vigore in quei tre mesi scarsi. Cosa sarebbe diventata la “Commune de Pàris”? Avrebbe mantenuto il suo profilo di democrazia partecipata dal basso o si sarebbe trasformata in dittatura? Difficile dirlo perché la storia non si fa con i se e con i ma. E’ certo che vi furono delle frizioni tra le varie componenti del governo rivoluzionario ma l’esperimento finì in tragedia con la violenta repressione da parte dell’esercito regolare, ordinata dall’assemblea nazionale riunita a Versailles.Dal 2 aprile in poi Parigi fu assediata e bombardata dalle truppe governative mandate da Adolphe Thiers , il primo presidente della Terza Repubblica francese. I soldati di Versailles entrarono nella capitale il 21 maggio 1871: iniziava la “semaine sanglante”, la tristemente famosa “settimana di sangue“. Sei giorni dopo, sabato 27 maggio, il Peré Lachaise fu teatro di uno degli ultimi, feroci  scontri , durante i quali precipitarono i sogni e le speranze della Comune di Parigi. Obbedendo agli ordini di Thiers, i reparti dei fucilieri di marina provenienti da Charonne e comandati dal generale Vinoy invasero i viali  del grande cimitero dell’Est dove si erano trincerati poche centinaia di federati decisi a battersi fino alla morte per difendere le proprie idee. Gli uomini della Comune si difesero tra le tombe, dietro ogni albero, al riparo di cripte e monumenti. Finite le munizioni, sotto una pioggia battente, i combattimenti proseguirono all’arma bianca fino a notte inoltrata. Gli scontri più violenti si consumarono tra il 48° e il 49° settore , soprattutto nell’area nord occidentale del cimitero, attorno al Rond-point des travailleurs Municipaux, dove sono sepolti Honoré de Balzac e Gerard de Nerval, Eugène Delacroix e lo storico Félix Féris, barone de Beaujour. Ancora oggi è possibile scorgere tracce dei proiettili su alcune tombe come quella di Charles Nodier, lo scrittore che fu precursore del Romanticismo.Le Monde Illustré, nell’occasione, scrisse: “L’orribile dramma ebbe fine al cimitero, come nell’ultimo atto di Amleto, tra tombe scoperchiate, colonne rovesciate, urne profanate, statue e lastre divelte a formare l’ultima barricata. Lottarono passo dopo passo su un terreno disseminato di corone in onore di personaggi immortali, nella fossa comune, con le ossa fino alla caviglie, fin dentro le tombe di famiglia dove la baionetta trafiggeva i vivi infilzandoli assieme ai morti”. I 147 federati sopravissuti, furono immediatamente condannati a morte da una corte marziale straordinaria insediata sul posto, tra le tombe. Immediatamente fucilati, i loro corpi vennero gettati, assieme a circa ventimila altri passati per le armi e provenienti da tutta Belleville, in grandi fosse comuni scavate ai piedi del muro che porta il loro nome, nel 76° settore del Peré Lachaise . In realtà il muro sul quale campeggia la targa “Aux mort de la Commune 21-28 Mai 1871” fu ricostruito successivamente e con i resti del muro originario venne edificato un monumento,“Il muro delle Rivoluzioni”, a loro dedicato dallo scultore Paul Moreau-Vauthier. L’opera si trova all’esterno della cinta cimiteriale, in Square Samuel de Champlain 18, nell’avenue Gambetta. Con un po’ d’attenzione si potrà leggere una citazione di Victor Hugo: “Ce que nous demandons à l’avenir, ce que nous voulons de lui, c’est la justice ce n’est pas la vengeance“ (Ciò che noi domandiamo all’avvenire, ciò che vogliamo da lui è la giustizia, non la vendetta). Parole quanto mai giuste, perfettamente opposte allo spirito e all’intento di colui che all’epoca ordinò di soffocare nel sangue l’insurrezione popolare, agendo con uno spirito vendicativo senza scrupoli, violento e repressivo. Su Adolphe Thiers,  soprannominato “le serpent à lunettes ” e “le croque-mort  de la  Nation “, il becchino della nazione, il giudizio più duro  fu quello pronunciato dal sindaco di Montmartre, Georges Clemenceau. Giornalista e repubblicano, presidente del consiglio e deputato dell’Assemblée Nazionale, Clemenceau durante i giorni della Comune definì  Thiers  “il prototipo del borghese crudele ed ottuso che sguazza nel sangue senza battere ciglio“.Oltre 43 mila federati furono fatti prigionieri e condannati dai consigli di guerra a morte o ai lavori forzati nei bagni penali (soprattutto in Nuova Caledonia, territorio francese d’Oltremare nel sud del Pacifico). Alla Comune furono imputate circa 800 vittime mentre secondo le cifre ufficiali tra i ranghi dei federati furono uccise più di 30 mila persone. Le truppe di Versailles eseguirono fucilazioni in serie, senza processi. A caldo, il giornale inglese “Evening standard” constatò: “Dubitiamo si possa mai stabilire la cifra esatta della carneficina che continua. Persino per gli autori di queste esecuzioni deve essere impossibile dire quanti cadaveri hanno accumulato”.Resta il fatto, tutt’altro che secondario, di un fatto importante che ha segnato in maniera profonda la storia e la memoria collettiva della Francia. Eugène Pottier, il poeta che nel giugno del 1871, nascosto in una soffitta di Parigi per sfuggire alla repressione che seguì alla sconfitta della Comune, compose il famoso inno “L’Internazionale”, scrisse : “L’hanno uccisa a colpi di fucile. A colpi di mitraglia. E avvolta con la sua bandiera nella terra argillosa. E l’accozzaglia di boia panciuti si credeva più forte. Tutto ciò non impedisce che la Comune non sia morta!

 

Marco Travaglini

L’identità scavata in Un passato infinito

L’associazione teatrale Nessun Vizio Minore torna in scena venerdì 16 marzo alle 20.45 nella suggestiva cornice in San Pietro in Vincoli con Un passato infinito, per la regia di Angelo Scarafiotti. Lo spettacolo, nato nel 2015 e vincitore della rassegna teatrale Maldipalco del Tangram Teatro di Torino, è liberamente tratto dal romanzo “Appuntamento a Londra” del premio Nobel Mario Vargas Llosa. Tutto ruota intorno all’incontro in una stanza d’albergo tra Claudio, uomo irrisolto interpretato dall’intenso Davide Bernardi, e Sofia, donna conturbante e fatale, interpretata dall’affascinante Mara Scagli. La rievocazione di un passato lontano riesce a turbare Claudio e l’incontro con la misteriosa donna si tramuta presto in un gioco di specchi che costringe il protagonista a fare i conti desideri, verità inconfessabili, sensi di colpa, ambiguità. In questo tempo cristallizzato il protagonista viene travolto da un’inquietudine che lo conduce senza via di scampo a viaggiare dentro di sé. Il testo affronta con eleganza il tema dell’identità, del suo disvelamento che può avvenire solo nell’incontro con l’altro. La regia e la selezione musicale finemente curate non potevano trovare mani più sapienti di quelle di Angelo Scarafiotti. Attore, regista e formatore teatrale per Assemblea Teatro, Scarafiotti nella sua lunga esperienza professionale si è sempre contraddistinto per la sua ricerca e difesa delle particolarità, che siano individuali, politiche o sociali. Il suo stile è riconoscibile nel suo raffinato e sommesso grido di protesta contro ogni forma di omologazione. Commenta così l’allestimento: “Nella messa in scena ho lavorato molto sull’interazione tra i due personaggi, sulla loro psicologia così sfuggente e misteriosa e sulle loro dinamiche alterne, di incontro e di fuga, cercando di mostrare la loro diversità, prima nascosta e poi, nello svilupparsi della narrazione, sempre più evidente. Un gioco di emersioni consecutive che stupisce lo spettatore fino a rendere chiaro, quasi esplosivo, che, per quanti sforzi si possano fare, il passato torna sempre a presentare il suo conto, perché è possibile fuggire da tutto, tranne che da se stessi”. Intrigante e sensuale la protagonista femminile Mara Scagli che dal 2011, con il suo eccentrico alter ego artistico Carmilla Lux, si esibisce con successo in Italia e all’estero in un sofisticato duetto che mescola il varietà e il burlesque nel Cabaresque Show.Tenuto conto delle tematiche affrontate lo spettacolo ha ricevuto il patrocinio del Servizio LGBT della Città di Torino ed il supporto del Coordinamento Torino Pride GLBT.

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Abbiamo incontrato l’attore Davide Bernardi che è anche autore del testo e uno dei fondatori dell’Associazione Nessun Vizio Minore.

 

Ciao Davide, raccontaci qual è la cifra stilistica della vostra associazione.

La nostra associazione nasce nel 2011 dal’incontro di persone con diversi percorsi artistici, ma che si sono ritrovate a condividere un’ idea comune di messa in scena. Nelle nostre produzioni c’è una grande attenzione al testo, al racconto e, in particolare, a quelle storie che sanno mescolare dramma e commedia, perché il teatro è una metafora della vita e li include entrambi.Nella messa in scena ci piace lavorare col corpo e con gli elementi scenici, con grande attenzione alle scelte musicali. Potremmo definirlo un “teatro di narrazione con una visione contemporanea”. Ci siamo resi conto col tempo che il pubblico riconosce le nostre scelte e apprezza il nostro stile, e questo secondo me è il riconoscimento di una identità forte, di cui siamo grati.

Vieni da una formazione teatrale, e non solo, molto variegata ed eclettica, che spazia dal teatro classico a quello contemporaneo. Qual è l’esperienza che più ti ha segnato e influenzato nella tua decisione di diventare anche regista ad un certo punto del tuo percorso?

Il passaggio dalla recitazione alla regia ha come minimo comune denominatore l’amore per la scrittura. Amo molto la parola: scrivere, adattare, rivedere drammaturgicamente è comunque una forma di interpretazione. Quasi tutti i testi dei nostri spettacoli sono stati proposti da me e sempre da me curati. E quando lavori sui testi viene naturale cedere alla tentazione di vederli rappresentati come li hai immaginate. Il passaggio alla regia è quindi stata una conseguenza logica, anzi inevitabile, per me. Ed è la parte che amo di più ad oggi. L’esperienza più forte è stata proprio la prima: l’adattamento per la scena di un film, “La mia vita senza me”, a sua volta ispirato ad un racconto. Da qui è nata una vera e propria riscrittura originale che aveva come filo guida una immagine scenica che avevo in mente: i nastri delle videocassette VHS fatti scorrere tra le dita come fossero dei lettori di messaggi di una persona che non c’è più. Da questa immagine ho tratto il coraggio per portare in scena la nostra prima produzione di compagnia: “Prima che cada la notte” nel 2012.

 

Lo spettacolo, che è liberamente ispirato al romanzo di Vargas Llosa, “Appuntamento a Londra”, sembra un invito a scavare dentro la propria identità, dove spesso in quello che abbiamo ignorato sembra annidarsi la sostanza stessa della nostra vita. Oggi il teatro ha ancora questo potere di suggestionare, di instillare qualche dubbio, di offrire domande?

Il testo di Vargas Llosa è una indagine sulla verità, quella che riguarda noi stessi e che, proprio per questo, è la più difficile da accettare. In questo caso, il testo affronta l’identità di genere da un lato e l’omofobia dall’altro. Questa storia racconta di quanto difficile sia resistere al giudizio degli altri ed accettare la propria natura più profonda. Come già detto, il teatro è metafora della vita. Io credo profondamente che sia uno strumento per porsi dubbi, vivere alternative che magari non osiamo affrontare nella vita reale. Ma il potere della rappresentazione può darci il coraggio di immaginare quello che possiamo diventare.

 

Se dovessi consigliare ad un giovane che si accosta all’arte drammatica per la prima volta, quale esperienza formativa consiglieresti per cominciare?

Dico sempre che, prima che un attore, io sono un ottimo spettatore. Per avvicinarsi al teatro, io consiglio prima di tutto di andare a teatro: vivere l’attesa del sipario, il buio della sala, la partecipazione al testo, la catarsi degli applausi finali. E poi, se si decide di passare al palcoscenico, di non perdere mai di vista il divertimento, la passione, la curiosità. Si ha spesso l’idea del teatro come una cosa seriosa, noiosa. Chi lo pensa, forse, ha la stessa idea della propria vita. E ilproblema allora non è il teatro.

 

Giuliana Prestipino

 

Il Matisse e la luce della Côte d’Azur

L’inaugurazione del Museo Matisse, avvenuta nel 1963, riflette il profondo attaccamento che il pittore aveva per Nizza, dove soggiornò quasi ininterrottamente dal 1916 e dove morì nel 1954, poco dopo aver donato alla città un cospicuo numero di opere

Henri Matisse proveniva da Parigi, dove aveva aderito alla corrente artistica dei Fauves ed era diventato buon amico di Pablo Picasso (sebbene quest’ultimo lo considerasse sdegnosamente un pittore borghese). Sulla Côte d’Azur cercava quell’atmosfera tersa e luminosa, quei colori accesi della natura che già avevano spinto altri pittori (a cominciare da van Gogh) verso il Sud. Il clima delicatamente mite rendeva la permanenza ancora più gradevole e serena. “Quando ho capito che ogni giorno avrei visto questa luce”, scrisse, “non potevo credere alla mia felicità”. Dopo aver vissuto diversi anni nella città vecchia, nel 1938 Matisse stabilì la sua residenza nell’elegante quartiere di Cimiez, in un appartamento dell’Hôtel Régina, che trasformò in atelier. Cimiez è situato sulla superba collina omonima posta a Nordest di Nizza. Fino alla fine del XIX secolo i ripidi versanti erano interamente piantati ad ulivi. La rapida urbanizzazione cominciò nel 1880 quando venne aperto il Boulevard de Cimiez; sui terreni lottizzati furono edificati palazzi e ville dove la vita mondana della Belle Époque conobbe i fasti maggiori.

Dalle finestre del suo appartamento Matisse poteva scorgere una gran parte della Villa Garin de Cocconato, un edificio seicentesco appartenuto a una nobile famiglia genovese e rimaneggiato nell’Ottocento, secondo le nuove esigenze borghesi. Gli intonaci color ocra della facciata e le finestre decorate à trompe-l’œil spiccavano nella vegetazione dell’ampio parco circostante, dove il pittore era solito passeggiare. Matisse conosceva bene e amava la collina di Cimiez che, accanto alle abitazioni moderne, conserva i segni visibili del passato. I resti del foro e dell’anfiteatro testimoniano l’antica Cemenelum, capoluogo della provincia romana delle Alpi Marittime. Il Monastero Francescano, situato a breve distanza, offre dal suo giardino coltivato a rose un magnifico belvedere sul mare. Così, quando la moglie e i figli di Matisse donarono alla città di Nizza numerose opere per la creazione di un museo, il Municipio acquistò a questo scopo la Villa Garin de Cocconato che, a partire dal 1950, ha preso il nome di Villa des Arènes.

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Il Musée Matisse venne inaugurato nel 1963; una nuova ala edificata nel 1993 ha permesso di aumentare la superficie espositiva e la sistemazione che vediamo attualmente risale al 2002. La famiglia dell’artista pose fin dall’inizio un’attenzione particolare alla presentazione della collezione. Il fine dichiarato era di facilitare e promuovere la comprensione delle opere in un insieme armonioso e coerente, permettendo al visitatore di ricostruire il percorso artistico di Matisse. Una magnifica successione di pitture, disegni e sculture illustrano il cammino dell’artista documentando le ricerche, i tentativi, le tappe creative. Tra i lavori che sono esposti si trovano tutti i primi quadri realizzati a partire dal 1890, cominciando dalla Nature morte aux livres. Fu con la Tempête à Nice (1919-20), dipinta mentre il mistral spazzava il cielo dalle nuvole grondanti pioggia, che Matisse scoprì la luce della Côte d’Azur. L’importante collezione di disegni (da Paysage de Saint-Tropez del 1904 a Grande Tête, Masque del 1952) costituisce un fondo di grande valore per lo studio dell’arte grafica. “Il mio disegno a mano libera è la traduzione diretta e la più pura delle mie emozioni”, scriveva Matisse. Il Museo raccoglie poi arazzi e serigrafie che riproducono ricordi e sensazioni derivanti dal viaggio a Tahiti del 1930. Si possono inoltre vedere i disegni preparatori della composizione murale La Danse, tema ripreso più volte da Matisse, autentica sintesi tra pittura, musica e poesia. Una sala intera è dedicata a un insieme di disegni, tempere su carta poi ritagliate (gouaches découpées) e modelli in scala che portarono alla decorazione della Chapelle du Rosaire di Vence.

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Come ricordava lo stesso Matisse la cappella, inaugurata nel 195, gli costò quattro anni di lavoro esclusivo, assiduo, e rappresentò la summa di tutta la sua vita artistica. Matisse, ormai anziano ed impossibilitato a dipingere, utilizzò la tecnica del “disegnare con le forbici” per la collezione Jazz, comprendente venti tavole accompagnate da riflessioni scritte con un pennello intriso nell’inchiostro nero. Colorava dei fogli con tempere intense e brillanti, quindi ritagliava delle sagome che assemblava su grandi tavole, creando composizioni di carattere astratto. Fra queste tavolemIcarus e Le cirque possono considerarsi autentiche icone dell’arte moderna.

Nel 1978 il museo si è arricchito di una cinquantina di bronzi donati dal figlio Jean, i quali rappresentano di fatto l’intera attività scultoria dell’artista. Presentati in mezzo ai quadri e ai disegni, permettono di comprendere ancora meglio il suo cammino creativo fondato sulla ricerca costante della massima semplicità. Singolare è l’esposizione di oggetti provenienti dall’Africa, dall’Asia e dall’Oceania, di cui egli amava circondarsi. Sono vasi e statuette di guerrieri cinesi, un bruciaprofumi moresco, un guéridon ottagonale, un moucharabieh di tessuto rosso, un tanka del Tibet. Più che gli oggetti in sé, appare interessante la relazione che questi ebbero con la sua produzione artistica, particolarmente ispirata dalle culture extra-europee. Fanno quindi bella mostra gli ultimi lavori (Nu bleu IV, La vague, Femme à l’amphore), composizioni figurative a collage che giocano sui contrasti tra blu e bianchi, creando un equilibrio mirabile tra pieni e vuoti. Fino alla fine dei suoi giorni, Matisse ha creato opere di qualità altissima, al di sopra e al di là delle correnti che si sono succedute nella storia dell’arte contemporanea. Molti dipinti realizzati da Matisse sono giunti in esposizione a Torino e a Milano negli ultimi anni. La mostra “Matisse e il suo tempo”, che si tenne a Palazzo Chiablese tra il 2015 e il 2016, comprendeva cinquanta opere provenienti dal Centre Pompidou di Parigi. È soltanto nella Villa des Arènes, tuttavia, che la sua produzione artistica trova la naturale e giusta collocazione. Il visitatore non deve pensare di trovare qui i capolavori più noti, quelli sono conservati al Musée d’Orsay o all’Ermitage. Grazie al Musée Matisse ci si avvicina invece alle radici della sua creatività, si percepisce la parte più intima della sua essenza compositiva. Qui si intuiscono quelle che sono state le tappe di un percorso artistico ed esistenziale, dalle origini alla piena maturità espressiva.

Paolo Maria Iraldi

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Muséè Matisse, 164 Avenue des Arènes de Cimiez, 06000 Nizza. Orari di apertura: ore 11-18. Giorno di chiusura: martedì. Ingresso: 10 €.

Sito Internet: http://www.musee-matisse-nice.org/

Visita effettuata il 24 febbraio 2018.

Quando Carlo donò a Carol un “drago da passeggio”

FINO AL 3 GIUGNO

E’una piccola ma raffinata e garbata retrospettiva a due la mostra allestita alla Galleria Sabauda (Musei Reali di Torino) per celebrare i cento anni della nascita di Carol Rama, che sotto la Mole nacque il 17 aprile del 1918 e fu personaggio di punta, nella sua geniale e anarcoide trasgressività, della vita culturale e artistica subalpina– ma non solo – fino alla sua scomparsa avvenuta tre anni fa, nel 2015. Intelligentemente curata da Maria Cristina Mundici, la rassegna prende avvio dalla recente acquisizione, da parte del Ministero dei Beni Culturali e a favore della Galleria di Piazzetta Reale, di un quadro appartenente al periodo di infatuazione per l’astratto che probabilmente segnò il momento meno tribolato e tribolante della pittrice torinese insieme a un bizzarro e improbabile “Drago da passeggio”, uno fra i tanti e insoliti “animali da compagnia” (oggetti cartacei acquistati – si racconta – ai Grandi Magazzini e abilmente decorati con tecniche varie) che il grande Carlo Mollino, architetto, designer fotografo e tante altre “cose” (Torino 1905 – 1973), era solito regalare agli amici più cari per fargli scoprire “il valore del tempo libero”. “Il drago da passeggio, originario dell’India, è il noto drago del Panjab – scriveva ironicamente Mollino nel libretto di istruzioni- di piccola taglia, di singolare intelligenza e vago aspetto. Il mantello, sempre di prestigiosa decorazione, si adatta all’istante con il paesaggio interiore di ciascun proprietario”. E, fra i fortunati a riceverne in dono un esemplare (quello acquistato, per l’appunto, dal MiBACT e presente in mostra) ci fu anche Carol Rama, unita a Mollino da una solida amicizia e dalla non comune eccentricità di un carattere che portò entrambi a seguire percorsi di vita e artistici assolutamente non convenzionali e difficilmente rapportabili ai dettami etici e stilistici dell’epoca. Al “Drago” di Carol, Carlo diede il titolo di “Drago da passeggio n. 70. Notte in laguna”; glielo regalò la notte di Capodanno del ’64 e Carol lo conservò nella sua casa-studio in via Napione a Torino, accanto a una gigantrofia in cui la pittrice compare insieme a Edoardo Sanguineti, altro grande intellettuale amico. Bizzarro cadeau che alla “Sabauda” si confronta con “Pittura 718”, un olio astratto di grande equilibrio geometrico e assonanza di toni cromatici, realizzato da Carol Rama nel 1954, quando la pittrice ebbe a far parte, ma solo per un breve periodo, del MAC – Movimento di Arte Concreta, fondato nel 1948 a Milano da Gillo Dorfles e che a Torino trovò adepti notevoli anche in Albino Galvano, Adriano Parisot e Filippo Scroppo, solo per citarne alcuni. Allo stesso periodo – periodo in cui, a detta di Albino Galvano, “la forma in Carol Rama sfugge al formalismo pur nell’ascesa del ‘lavorar formando’ anziché ‘figurando’” – appartengono altre quattro opere astratte datate primi anni ’50, cui si affiancano due lavori della serie “Senza titolo (Seduzioni)” del 1983, in cui l’artista ritorna ad un immaginario “figurativo”, popolato di misteriose seducenti figure femminili poste a convivere con non meno misteriche e invasive presenze animali. Vent’anni dopo, Carol riceverà il “Leone d’Oro” alla carriera alla Biennale di Venezia del 2003. Una lunga affascinante carriera, di cui troviamo traccia nelle magnifiche fotografie (anch’esse in mostra) scattate da Bepi Ghiotti fra il 2012 e il 2014 nella casa-studio di via Napione, quell’“opera d’arte totale dalle pareti nere”, che presto dovrebbe diventare Museo (c’è già il vincolo della Soprintendenza) e dove Carol si spense a 97 anni d’età.

Gianni Milani

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“Confronti / 4 Carol Rama e Carlo Mollino”

Musei Reali Torino – Galleria Sabauda, Piazzetta Reale 1, Torino; tel. 011/5211106 www.museireali.beniculturali.it

Fino al 3 giugno – Orari: dal mart. alla dom. 9-19,30

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Le immagini:

– Carol Rama: “Pittura 718”, olio su tela, 1954
– Carlo Mollino: “Drago da passeggio n. 70. Notte in laguna”, carta pieghettata e dipinta, vetro e metallo, 1964
– Bepi Ghiotti: “Ritratto di Carol Rama”, 2, 2013

 

“A come Archeologia” all’ Egizio

Martedì 13 marzo 2018, alle ore 18.00, presso la Sala Conferenze del Museo Egizio – via Accademia delle Scienze 6 – l’autore del libro “A come Archeologia”, il Professor Andrea Augenti, dialoga con il Direttore Christian Greco per accompagnare il pubblico in un viaggio nel tempo e nello spazio, dalla Preistoria al Medioevo, passando per l’Europa, l’Asia e l’Africa: un viaggio nel cuore dell’archeologia, attraverso le dieci più importanti scoperte compiute fino a oggi. Quali sono le più importanti scoperte dell’archeologia? Chi non conosce il faraone Tutankhamon o la città di Troia, cantata da Omero? A queste domande tenta di rispondere l’opera di Andrea Augenti, professore di Archeologia medievale all’Università di Bologna, che nel corso degli anni ha condotto numerose campagne di scavo e ricerche archeologiche e ha pubblicato, tra i moltissimi altri, “Città e porti dall’antichità al Medioevo” e “Archeologia dell’Italia Medievale”.

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INGRESSO LIBERO FINO A ESAURIMENTO POSTI

Per informazioni: tel. 0115617776 – info@museoegizio.it

 

(foto: il Torinese)

Orfeo, da mito a favola in musica

In scena al teatro Regio l’opera di Claudio Monteverdi 

 

 

L’Orfeo, celebre opera di Claudio Monteverdi, andrà in scena da martedì 13 marzo prossimo al teatro Regio di Torino, nell’ambito del Progetto dell’Opera Barocca. Sul podio dell’Orchestra e Coro del Teatro Regio di Torino Antonio Florio affronta la ricca partitura del compositore italiano, il nuovo allestimento è firmato nella regia da Alessio Pizzech. Tra gli interpreti il soprano Francesca Boncompagni nel ruolo di Euridice ed il soprano Roberta Invernizzi in quello della Musica e Proserpina, contraddistinta da un timbro dolce, scolpito da una dizione impeccabile ed arricchito da una presenza scenica di primo ordine. Il ruolo di Orfeo è interpretato dal baritono Mauro Borgioni, artista di riferimento per il repertorio barocco. Il mezzosoprano Monica Bacelli interpreta il Messaggero e La Speranza. L’Orfeo, origine del teatro lirico universale, fu rappresentato per la prima volta nel 1607, nel Palazzo Ducale di Mantova, ed è oggi venerato e riconosciuto come il primo esempio di opera in musica.

 

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Rappresenta, infatti, il primo tentativo di applicare tutte le risorse della musica all’ opera, senza alcuna limitazione, dal recitativo all’aria, dal madrigale al balletto, dal concerto strumentale al coro integrato nel dramma. Un lavoro destinato ad un piccolo ambiente, quale era la sala di corte, e che pertanto non aveva bisogno di grandi mezzi, scenografie sfarzose o simili. L’Orfeo esce dall’ambito sperimentale dello stile fiorentino e Monteverdi realizza una fusione tra lo stile madrigalistico del tardo Cinquecento, con la ricchezza scenica dei mezzi intermedi, ed una nuova concezione delle possibilità del canto monodico. L’opera deve la sua nascita ad un’iniziativa del principe ereditario Francesco Gonzaga, che voleva emulare, in campo teatrale e musicale, ciò che i Medici stavano realizzando a Firenze, affidando il progetto all’Accademia degli Invaghiti, della quale faceva parte anche il conte Alessandro Striggio, che stese il testo poetico. Nel testo del libretto stampato per la prima rappresentazione, il finale risulta diverso da quello che oggi conosciamo: i lamenti di Orfeo vengono interrotti dall’irruzione delle Baccanti, che intonano un coro dionisiaco e puniscono il protagonista con la morte, a causa delle sue affermazioni misogine. Gesualdo Bufalino ne “Il ritorno di Euridice” afferma senza mezzi termini che “Orfeo s’era voltato apposta”. L’eroe munito di cetra, che con il suo canto era riuscito a piegare anche l’Averno, si boicotta all’ultimo, si volta e tutta la sua fatica svanisce in un attimo. Forse quel voltarsi indietro nascondeva, in realtà, un altro progetto. Con la scelta di questo tema Claudio Monteverdi dimostra una grande modernità, pur richiamandosi ai miti antichi. Dallo sperimentalismo di quelle corti rinascimentali ancora oggi si avrebbe tanto da imparare.

 

Mara Martellotta

I vincitori del Glocal Film festival

Si è conclusa domenica 11 marzo la 17ª edizione del gLocal Film Festival di Torino, dopo 5 giorni di rassegna che hanno portato in sala 88 film. La serata di PREMIAZIONE vede svelati i film vincitori tra i 20 cortometraggi e i 10 documentari in concorso, partecipanti alle sezioni competitive SPAZIO PIEMONTE ePANORAMICA DOC. Le sezioni, cardine del festival, sono riservate ad opere di autori piemontesi o che hanno scelto il Piemonte per le riprese o realizzate da case di produzione locali.

 

La giuria di PANORAMICA DOC guidata da Emanuela Piovano (regista) con Emanuele Baldino (FIP Film Investimenti Piemonte), Sara Benedetti (Scuola Holden), Ettore Scarpa (attore) e Fabrizio Vespa(giornalista) assegna il

Premio Torèt Alberto Signetto – Miglior Documentario (2.500 €)

La poltrona del padre di Alex Tibaldi e Alex Lora (produzione GraffitiDoc)

Un film coraggioso, che affronta un tema disturbante, conducendolo con essenzialità e maestria nella costruzione registica e nella delineazione dei protagonisti. L’opera, dalla multiforme essenza della realtà, fa emergere una struttura narrativa classica regalandoci una vera lezione di cinema. Nel ritrarre una realtà apparentemente circoscritta, il film richiama temi di carattere universale: la fragilità umana, il conflitto corpo-spirito, il problema della perdita. Un documentario che abbatte le latitudini. Un cammino difficoltoso verso la rinascita, dagli esiti inaspettati e lirici.

Premio Professione Documentario (del valore di 500 €) assegnato da 170 studenti degli istituti ISS Baldessano-Roccati, Liceo Artistico Renato Cottini, ISS Bodoni-Paravia, Piazza dei Mestieri e Scuola O.D.S. Operatori Doppiaggio e Spettacolo

Più libero di prima di Adriano Sforzi

Un film coinvolgente che mostra quanto sia sottile il filo che divide il desiderio di divertimento dal dolore per una tragedia. Il regista è in grado di trasportare lo spettatore direttamente nel salotto in cui la famiglia di Tomaso aspetta ansiosamente il responso, creando un sentimento di trepidante e speranzosa attesa. Immagini e disegni ci aiutano a capire quanto possa essere importante la positività in situazioni apparentemente inaffrontabili.

 

La giuria di SPAZIO PIEMONTE composta da Flavio Bucci, presidente di giuria e i membri Carla Signoris (attrice), Francesco Ghiaccio (regista), Mirna Muscas (Skepto Film Festival) e Stefano Di Polito (regista) assegna i seguenti premi

Premio Torèt – Miglior Cortometraggio (1.500 €)

Framed di Marco Jemolo (produzione Grey Ladder, distribuzione Lights On)

Per la regia, l’impianto, la messa in scena, la ricerca dell’immagine, il ritmo che creano identificazione e rendono reale il protagonista. Siamo tutti uomini di pongo.

Premio O.D.S. – Miglior Attore (buono di 600 € per i percorsi di formazione o seminari di O.D.S.)

Gianluca Bottoni per Tale figlio di Giacomo Sebastiani.

Per aver dato emozione a un personaggio succube di una vita spoglia e monotona, vittima del proprio destino.

Premio O.D.S. – Miglior Attrice (buono di 600 € per i percorsi di formazione o seminari di O.D.S.)

Alice Piano per Musicomantia di Mauro Loverre

Per la consapevolezza con la quale si è calata in un’interpretazione intesa, cambiando registro in ogni snodo narrativo.

Premio Miglior Corto d’Animazione (buono di 200 € in libri presso la libreria Pantaleon di Torino)Dandelion di Elisa Talentino

Per la leggerezza del tratto che esalta la profondità dell’amore dei due protagonisti…si cercano, si allontanano, si uniscono e si dissolvono per poi ritornare. Speriamo.

Le giurie partner del gLocal Film Festival assegnano i seguenti premi

 

Premio Cinemaitaliano.info – Miglior Corto Documentario (pubblicazione del corto sul portale Cinemaitaliano.info) assegnato da Cinemaitaliano.info

Makhno di Sandro Bozzo

Per il coraggio mostrato nell’usare la sperimentazione per raccontare una terra e una realtà unica e dimenticata, mantenendo però una forte valenza documentaria e narrativa.

 

Premio Scuola Holden – Miglior sceneggiatura (partecipazione a uno dei corsi Palestra Holden) assegnato dagli allievi del primo anno di College Cinema della Scuola Holden

Framed di Marco Jemolo

Per la brillantezza e l’ingegnosità con cui la coscienza del burattino è indagata e interpretata, in una ricca rete di riferimenti kafkiani e orwelliani.

 

Premio Machiavelli Music – Miglior Colonna Sonora (pubblicazione della colonna sonora su iTunes e sui principali digital stores sul web) assegnato da Machiavelli Music Publishing

Julia Kent per la colonna sonora originale del film Dandelion, regia di Elisa Talentino

Musica ed animazione in Dandelion interagiscono tra loro rincorrendosi come in un gioco, in un crescendo onirico, in una danza visionaria che ci racconta dell’incontro tra due Amanti. Le note della Bourrée di Julia Kent sono emozioni che diventano immagini; accompagnano e ritmano poeticamente la danza di Seduzione dei Due che, trascinati dalla musica, arrivano ad incarnare l’archetipo dell’Uomo e della Donna nel loro trepidante incontro.

Frank Horvat. Storia di un fotografo

FINO AL 20 MAGGIO

Mostra di quelle rare. Che quando hai terminato di visitarle ti sembra di aver capito tutto, ma proprio tutto, “vita opere e miracoli”, dell’ artista che l’ha firmata.Grandiosa per qualità, importanza storica e ricchezza di significati e contenuti, l’antologica di Frank Horvat ospitata nelle “Sale Chiablese” dei Musei Reali di Torino è anche la prima, per portata di pezzi esposti – ben 210 – che mai sia stata dedicata in Italia all’artista nato nel 1928 a Opatjia (Abbazia, allora città italiana, oggi Croazia) e che, a pieno titolo, può collocarsi fra i massimi rappresentanti della grande storia della fotografia internazionale dagli anni ’50 a oggi. Curata dallo stesso Horvat, la rassegna testimonia appieno l’enorme ricchezza e la varietà di un percorso artistico segnato, da quasi settant’anni, dalla curiosità per mondi ed esperienze totalmente diverse fra loro. Da fotoreporter attento al puntuale racconto di realtà sconosciute e lontane dalla nostra, a fotografo di moda fra i più gettonati e assolutamente sui generis in quel singolare immergere le sue modelle nei fatti quotidiani, rubandole ad asettici studi e a rutilanti passerelle per farne figure comuni nel via vai di gente comune fra piazze strade e civiche metropolitane, Horvat (che da tempo vive in Francia) ha sempre guardato con grande interesse e ansia di confronto e conoscenza anche agli stimoli della pittura e della scultura, fotografando uomini e donne e animali e paesaggi carichi di “interiori esplorazioni”e colte assonanze estetiche , non meno che – sotto l’aspetto tecnico – alla sperimentazione di quei “nuovi” mezzi e virtuosismi digitali (è stato fra i primi a usare Photoshop e qualche anno fa ha studiato un’applicazione per iPad chiamata Horvatland) che ancor oggi danno al suo linguaggio i caratteri di un’attualità decisamente al passo coi tempi. Il suo è un geniale pungente ragionare da caparbio giovanotto novantenne (lo sarà in aprile) che di mestiere fa da sempre il fotografo e da sempre cerca di imbrigliare a suo uso e consumo quello strumento fotografico in cui “c’è davvero –scrive convinto – qualcosa di faustiano o mefistofelico, soprattutto nell’illusione di arrestare il movimento continuo che ci trascina”. E poi precisa: “Ho un’età in cui si guarda al proprio passato per cercarne un senso”. In totale serenità e con le idee ben chiare. “Più che i soggetti in se’ – puntualizza – mi interessano le relazioni fra le cose. Così, se dovessi fotografare le piramidi, aspetterei il passaggio di un cammello, di un turista, di una jeep o qualcos’altro. Immortalare le piramidi in se’ e per se’ non mi importa nulla”. Del resto “la fotografia è – per lui – l’arte di non premere il bottone”. Almeno fino a quando non si è di fronte alla possibilità (che ti cade addosso inaspettatamente come un fulmine) di compiere in un battito di secondi il “miracolo”, di fermare con uno scatto “un fatto unico, accaduto una volta sola e che non accadrà mai più”. E’ il caso delle trentuno foto della ricchissima collezione personale di Horvat, realizzate da grandi maestri e amici-colleghi che egli stesso ha voluto portare in mostra e che rappresentano in modo iconico la Storia della fotografia come il celebre scatto di Jeff Widener che, nel 1989 a Pechino, ritrae il giovane studente di fronte ai carri armati di piazza Tienanmen. Accanto, altre a firma di Cartier-Bresson, Robert Doisneau, Mario Giacomelli, Helmut Newton e Sebastiao Salgado, solo per fare qualche nome. Maestri autentici che a tratti hanno anche segnato la carriera di Horvat e determinato in certo modo quella sua “versatilità” che non sempre è stato un vantaggio per lui: “Alcuni hanno messo in dubbio – sottolinea – la sincerità del mio impegno, altri hanno trovato che le mie foto erano poco ‘riconoscibili’, come se fossero state fatte da autori diversi. Questo mi ha spinto a ripercorrere la mia opera per cercarvi un denominatore comune. Ne ho trovati quindici e li ho chiamati ‘chiavi’. E quindici sono appunto le sezioni-chiave in cui si articola la mostra torinese. Si va (fra le più suggestive) da Luce – con scatti in debito di magica suggestione da Cartier-Bresson, non meno che da Caravaggio e Rembrandt – a Condizione umana (al centro le “persone che soffrono” anche se “non mi piace l’idea che la mia arte si nutra del suo dolore”), da Tempo sospeso a Voyeur. Via via in un sorprendente eclettico percorso artistico, che in Vere somiglianze ci presenta grandi e bellissimi ritratti femminili di corposa e “plastica” sensualità, fino alle Foto fesse e agli Autoritratti (ma “trovarsi di fronte a se’ stessi, quando non si è Montaigne, può diventare noioso”). E, all’uscita, c’è perfino uno spazio per farsi un selfie a ricordo della mostra. Il massimo per un grande giovanotto di appena novant’anni. Ancora da compiere.

Gianni Milani

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“Frank Horvat. Storia di un fotografo”

Musei Reali Torino – Sale Chiablese, Piazzetta Reale 1, Torino; tel. 011/5211106 www.museireali.beniculturali.it

Fino al 20 maggio – Orari: lun. 14-19; dal mart. alla dom. 10-19

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Nelle foto:
– “Monique Dutto all’uscita della metro”, Parigi, 1959
– “Scarpe e Tour Eiffel”, Parigi, 1974

 

Quando la paura arriva a teatro

Partirà a marzo da Torino la tournée di “La Bambola Maledetta”, spettacolo inedito che segna l’arrivo della paura come ingrediente fondamentale, preso in prestito dal mondo cinematografico per creare suspense e coinvolgimento all’ennesima potenza fra le comode poltrone del teatro. Un esperimento che il giovane cast di “Chi è di scena”, associazione con quartier generale a Bosconero (To), fra le campagne del Canavese, ha già testato negli scorsi anni con “La Dama in Nero” e che viene prepotentemente riproposta in questo 2018 con un nuovo spettacolo non privo di agganci con la magica Torino e con il territorio piemontese. Annunciata dallo slogan “#sfidalapaura”, la trama di “La Bambola Maledetta” esordisce con due domande: “Da dove arriva quella bambola? E quale viaggio l’avrà portata nella notte dei tempi proprio nel piccolo borgo di Coatbridge?” Interrogativi che aprono la strada ad un enigma tutto da risolvere da parte del pubblico in sala che vivrà sulla propria pelle il confine assai labile fra la bambola come strumento di gioco e come trappola della dimensione introspettiva e psicologica dell’infanzia personale di ognuno di noi. E da un Piemonte misterioso che fa da grande culla a storie inedite, la scena “vola” oltre Manica, per atterrare nell’atmosfera lugubre di un villaggio scozzese dove, negli anni Quaranta il ritorno del protagonista, il restauratore Eric, alla vecchia casa di famiglia e dell’infanzia, non è che l’inizio di un crescendo di coinvolgimento per il pubblico in sala. Gli spettatori avranno a teatro un benvenuto fatto di effetti speciali tipici del mondo cinematografico e rivolti al gradimento di una platea di ogni età. Eric inizia a compiere un cambiamento sempre più inspiegabile dinanzi la moglie Isabel e la figlia Eveline.

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E gli strani fatti, con sempre maggior intensità e incredulità, si manifesteranno nella casa preoccupando via via anche James, medico e amico di Eric, Norah, maestra di Eveline, e Paul, il sarto del villaggio. Il tutto sotto gli occhi costanti di quella bambola e di suoni e voci che generano un’inquietudine insostenibile. Un passato angosciante si impadronisce nuovamente della casa, forse per chiudere i conti ancora in sospeso. In attesa del debutto le aspettative crescono, alimentate da tanti fattori peculiari fra i quali il mix di talento creativo del giovane ed eclettico cast di “Chi è di scena” che vede i componenti operare nella scrittura teatrale, nella danza, nei costumi. Uno spettacolo di sola paura? Non esattamente: la paura va a braccetto con quell’inafferrabile sfera psicologica che caratterizza l’essere umano e che da allo spettacolo un valore riflessivo e quasi di indagine degli stati più reconditi della mente umana. Al comando della regia e nei panni di attore Gioacchino Inzirillo, artista multiforme con esperienze in recitazione e musical anche televisive (Rai5 e La7, fra le altre), supportato da un interprete di fama quale Michele Renzullo, cofondatore della Compagnia della Rancia e volto noto sulle scene teatrali nazionali, e dagli attori Francesca Melis, Chiara Gusmini, Gabriele de Mattheis , Mariasole Fornarelli e Noemi Garbo, molti dei quali già impegnati in “La Dama in nero”. I costumi (studio di Gabriele de Mattheis) sono messi a punto dall’Old House Company, le scenografie sono a cura del gruppo di professionisti chiamato “COB” ovvero lo street artist Matteo Capobianco, il scenotecnico Alessio Onida e il designer Cosimo Bertone mentre le luci, i sorprendenti effetti live e l’audio sono curati da Roberto Chiartano. Infine vi sono musiche inedite, composte da Nicola Barbera che ha studiato effetti sonori davvero “da brivido” per far vivere al pubblico le forti emozioni dello spettacolo. A precedere l’atto unico, nato per impedire di perdere anche solo un minimo secondo di puro coinvolgimento, è in fase di studio un “pre-show” per fare entrare gli spettatori nel “mood” di “La Bambola Maledetta”, facendo conoscere la storia realmente avvenuta fra Torino e il Monferrato, che fa da premessa allo spettacolo. Prima assoluta a Torino, al Teatro Cardinal Massaia di via Sospello dove la paura potrà essere sfidata dal pubblico del debutto nazionale previsto nelle serate di venerdì 16 e sabato 17 marzo 2018.

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Prenotazioni al link: http://www.bigliettoveloce.it/new_spettacolo.aspx?id_show=5024

Il Capitano di Lavia vittima dei perfidi raggiri della moglie

Duro, vecchio, solidissimo teatro. Fuori del nostro tempo, un’immagine eternamente ferma e bloccata, se non fosse per l’eterna lotta tra i sessi che ancora oggi crudelmente troppe volte sfocia in fatti di sangue. Quindi la immutabilità fotografata da Gabriele Lavia nel mettere in scena – per la terza volta lungo la sua carriera – Il padre di August Strindberg, fino a domenica sul palcoscenico del Carignano per la stagione dello Stabile torinese. Un testo (del 1887) che autobiograficamente gronda misoginia (e assistere alla replica della serata dell’8 marzo qualche problema l’ha comportato), la vivisezione di un rapporto coniugale che deflagra allorché il Capitano pretende in una discussione d’imporsi alla moglie Laura circa l’educazione della figlioletta Berta, che lui vorrebbe spedire in città a farsi le ossa per diventare una brava insegnante. “Un capolavoro di dura psicologia”, lo definiva Nietzsche, e la rabbiosa introspezione calata nei caratteri, l’arretrare continuo e lento dell’uomo, il gioco perfido della donna che manipola anche i più piccoli indizi e s’accaparra tutti gli occupanti della casa, la vecchia balia e il pastore suo cognato, il medico arrivato da poco e messo lì immediatamente a giudicare una situazione e a schierarsi, gli stessi giovani militari della guarnigione, anche la ragazzina che al contrario ad ogni incontro stravede per la figura paterna, ogni momento della tragedia è uno studio perfetto e carico a suo modo di una dolente umanità. Il gioco e la forza della donna hanno il sopravvento quando fa entrare nell’animo e nel cervello dell’uomo il tarlo e il dubbio di una paternità che potrebbe far guardare Berta con occhi diversi. Strindberg tende con ogni sua forza verso il Capitano, spalleggia una parabola inevitabilmente dolorosa, svela a poco a poco le ragioni del suo rifugiarsi negli studi – quelli che la donna ha cercato in ogni modo di ostacolare, nascondendogli quelle lettere che erano per lui i rapporti e gli sviluppi con i vari editori -, come la logicità nel contrastare le opposizioni che come una banda di ciechi gli presentano quanti gli stanno intorno. Il mondo del Capitano, quello familiare come quello militare (come ha sempre governato questo vorrebbe governare quello), sparisce, anche quello delle stelle, suo ultimo baluardo, viene meno mentre lui cerca di recuperare la propria dignità di uomo e di padre con le stesse parole dello Shylock shakespeariano: e sotto lo sguardo della Vincitrice, la vecchia balia lo aiuterà a indossare la camicia di forza. Stretto in un’epoca in cui la scienza non aveva ancora prodotto i mezzi per una sicurezza paterna, chiuso nella cupezza di un primo atto della lunghezza di un’ora e 55’ e di un secondo, quasi come una liberazione per il protagonista, di 25’, quasi soffocato in uno spazio di enormi tendaggi rossi che calano vertiginosamente sino giù in platea (la scena è firmata da Alessandro Camera, con le poltrone e la scrivania e l’orologio che scandisce le ore tenuti sghembi e incerti, i costumi sono di Andrea Viotti), luogo dell’intimità e del dolore nel finale, una volta spogliato di ogni arredo, Lavia costruisce senza risparmio personale uno spettacolo angoscioso, soffocante e lentissimo, ma grandioso, in cui la fa da padrone, con un ritratto di protagonista, granitico nella voce e negli atteggiamenti prima, un esempio di resa perfetta poi, che s’acclama per la saggezza con cui lo compone, per la disperazione e la drammaticità di quel suo perdersi tra le grinfie della sua personale altra metà del cielo. Di fronte a lui un’incisiva Federica Di Martino e tutti gli altri in ottima resa. Se una stonatura c’era, possiamo averla ritrovata in quell’incessante bamboleggiamento della balia e della figlia soprattutto, che si sarebbe potuto alleggerire o assolvere del tutto.

 

Elio Rabbione