Belleville , storico quartiere nel XX° arrondissement parigino, uno dei più popolari della “Ville Lumière”, s’innalza come Montmartre su uno dei colli più alti della città, sviluppandosi tra case e piccole vie tra il parco delle Buttes- Chaumont e il grande “cimetière de l’Est”, il Père Lachaise. E’ lì, sul finire del 1915, che vide la luce – al 72 di Rue Belleville – la donna che incarnò una delle leggende e dei miti del filone realista della canzone francese. Si chiamava Édith Giovanna Gassion.
Piccola, minuta come un “passero” (venivano chiamati così i bambini che vivevano nelle strade del quartiere), passò l’infanzia accompagnando con la sua voce le esibizioni del padre contorsionista per poi diventare la celebre Édith Piaf, l’usignolo di Francia. In rue de Belleville una targa ricorda la casa dove “nacque il 19 dicembre 1915 nella più grande miseria Edit Piaf, la cui
voce, più tardi, sconvolgerà il mondo”. Ma la collina di Belleville è conosciuta anche come quella dei martiri della Comune, delle barricate e delle strade che conservano tracce e memorie di lotte e insurrezioni. Fu lì che si concluse l’ultima resistenza di quello che Karl Marx definì “il primo governo operaio della storia”, con i combattimenti tra le tombe del Père-Lachaise. Nata come forma estrema di reazione allo sfascio del Secondo Impero (la guerra franco-prussiana, dopo la sconfitta francese a Sédan, volgeva a favore di Bismarck) la Comune s’impose come un moto spontaneo di rivolta, cui fece seguito un concreto tentativo di dare allo slancio iniziale la forma di un governo popolare. Dal 18 marzo al 28 maggio del 1871, in settantadue giorni, la Comune mise in atto un programma d’impronta socialista con misure a beneficio dei lavoratori come l’abolizione del lavoro notturno e l’occupazione degli
alloggi sfitti, la separazione tra Stato e Chiesa, la socializzazione delle fabbriche abbandonate dagli imprenditori, il riconoscimento delle coppie di fatto, la creazione di una scuola pubblica, laica e gratuita. Tra gli obiettivi della Comune, c’era anche la riappropriazione della città, che le trasformazioni di Haussmann avevano iniziato a rendere estranea agli strati popolari. Misure radicali che però non entrarono quasi mai in vigore in quei tre mesi scarsi. Cosa sarebbe diventata la “Commune de Pàris”? Avrebbe mantenuto il suo profilo di democrazia partecipata dal basso o si sarebbe trasformata in dittatura? Difficile dirlo perché la storia non si fa con i se e con i ma. E’ certo che vi furono delle frizioni tra le varie componenti del governo rivoluzionario ma l’esperimento finì in tragedia con la violenta repressione da parte dell’esercito regolare, ordinata dall’assemblea nazionale riunita a Versailles.Dal 2 aprile in poi Parigi fu assediata e bombardata dalle truppe governative mandate da Adolphe Thiers , il primo presidente della Terza Repubblica
francese. I soldati di Versailles entrarono nella capitale il 21 maggio 1871: iniziava la “semaine sanglante”, la tristemente famosa “settimana di sangue“. Sei giorni dopo, sabato 27 maggio, il Peré Lachaise fu teatro di uno degli ultimi, feroci scontri , durante i quali precipitarono i sogni e le speranze della Comune di Parigi. Obbedendo agli ordini di Thiers, i reparti dei fucilieri di marina provenienti da Charonne e comandati dal generale Vinoy invasero i viali del grande
cimitero dell’Est dove si erano trincerati poche centinaia di federati decisi a battersi fino alla morte per difendere le proprie idee. Gli uomini della Comune si difesero tra le tombe, dietro ogni albero, al riparo di cripte e monumenti. Finite le munizioni, sotto una pioggia battente, i combattimenti proseguirono all’arma bianca fino a notte inoltrata. Gli scontri più violenti si consumarono tra il 48° e il 49° settore , soprattutto nell’area nord occidentale del cimitero, attorno al Rond-point des travailleurs Municipaux, dove sono sepolti Honoré de Balzac e Gerard de Nerval, Eugène Delacroix e lo storico Félix Féris, barone de Beaujour. Ancora oggi è possibile scorgere tracce dei proiettili su alcune tombe come quella di Charles Nodier, lo scrittore che fu precursore del Romanticismo.Le Monde Illustré, nell’occasione, scrisse: “L’orribile dramma ebbe
fine al cimitero, come nell’ultimo atto di Amleto, tra tombe scoperchiate, colonne rovesciate, urne profanate, statue e lastre divelte a formare l’ultima barricata. Lottarono passo dopo passo su un terreno disseminato di corone in onore di personaggi immortali, nella fossa comune, con le ossa fino alla caviglie, fin dentro le tombe di famiglia dove la baionetta trafiggeva i vivi infilzandoli assieme ai morti”. I 147 federati sopravissuti, furono immediatamente condannati a morte da una corte marziale straordinaria insediata sul posto, tra le tombe. Immediatamente fucilati, i loro corpi vennero gettati, assieme a circa ventimila altri passati per le armi e provenienti da tutta Belleville, in grandi fosse comuni scavate ai piedi del muro che porta il loro nome, nel 76° settore del Peré Lachaise . In realtà il muro sul quale campeggia la targa “Aux mort de la Commune 21-28 Mai 1871” fu ricostruito successivamente e con i resti del muro originario venne edificato un monumento,“Il muro delle Rivoluzioni”, a loro dedicato dallo scultore Paul Moreau-Vauthier. L’opera si trova all’esterno della cinta cimiteriale, in Square Samuel de Champlain 18, nell’avenue Gambetta. Con un po’ d’attenzione si potrà leggere una citazione di Victor Hugo: “Ce que nous
demandons à l’avenir, ce que nous voulons de lui, c’est la justice ce n’est pas la vengeance“ (Ciò che noi domandiamo all’avvenire, ciò che vogliamo da lui è la giustizia, non la vendetta). Parole quanto mai giuste, perfettamente opposte allo spirito e all’intento di colui che all’epoca ordinò di soffocare nel sangue l’insurrezione popolare, agendo con uno spirito vendicativo senza scrupoli, violento e repressivo. Su Adolphe Thiers, soprannominato “le serpent à lunettes ” e “le croque-mort de la Nation “, il becchino della nazione, il giudizio più duro fu quello pronunciato dal sindaco di Montmartre, Georges Clemenceau. Giornalista e repubblicano, presidente del consiglio e deputato dell’Assemblée Nazionale, Clemenceau durante i giorni della Comune definì Thiers “il prototipo del borghese crudele ed ottuso che sguazza nel sangue senza battere ciglio“.Oltre 43 mila federati furono fatti prigionieri e condannati dai consigli di guerra a morte o ai lavori forzati nei bagni penali (soprattutto in Nuova Caledonia, territorio francese d’Oltremare nel sud del Pacifico). Alla Comune furono imputate circa 800 vittime mentre secondo le cifre ufficiali tra i ranghi dei federati furono uccise più di 30 mila persone. Le truppe di Versailles eseguirono
fucilazioni in serie, senza processi. A caldo, il giornale inglese “Evening standard” constatò: “Dubitiamo si possa mai stabilire la cifra esatta della carneficina che continua. Persino per gli autori di queste esecuzioni deve essere impossibile dire quanti cadaveri hanno accumulato”.Resta il fatto, tutt’altro che secondario, di un fatto importante che ha segnato in maniera profonda la storia e la memoria collettiva della Francia. Eugène Pottier, il poeta che nel giugno del 1871, nascosto in una soffitta di Parigi per sfuggire alla repressione che seguì alla sconfitta della Comune, compose il famoso inno “L’Internazionale”, scrisse : “L’hanno uccisa a colpi di fucile. A colpi di mitraglia. E avvolta con la sua bandiera nella terra argillosa. E l’accozzaglia di boia panciuti si credeva più forte. Tutto ciò non impedisce che la Comune non sia morta!”
Marco Travaglini
interpretata dall’affascinante Mara Scagli. La rievocazione di un passato lontano riesce a turbare Claudio e l’incontro con la misteriosa donna si tramuta presto in un gioco di specchi che costringe il protagonista a fare i conti desideri, verità inconfessabili, sensi di colpa, ambiguità. In questo tempo cristallizzato il protagonista viene travolto da un’inquietudine che lo conduce senza via di scampo a viaggiare dentro di sé. Il testo affronta con eleganza il tema dell’identità, del suo disvelamento che può avvenire solo nell’incontro con l’altro. La regia e la selezione musicale finemente curate non potevano trovare mani più sapienti di quelle di Angelo Scarafiotti. Attore, regista e formatore teatrale
per Assemblea Teatro, Scarafiotti nella sua lunga esperienza professionale si è sempre contraddistinto per la sua ricerca e difesa delle particolarità, che siano individuali, politiche o sociali. Il suo stile è riconoscibile nel suo raffinato e sommesso grido di protesta contro ogni forma di omologazione. Commenta così l’allestimento: “Nella messa in scena ho lavorato molto sull’interazione tra i due personaggi, sulla loro psicologia così sfuggente e misteriosa e sulle loro dinamiche alterne, di incontro e di fuga, cercando di mostrare la loro diversità, prima nascosta e poi, nello svilupparsi della narrazione, sempre più evidente. Un gioco di emersioni consecutive che stupisce lo spettatore fino a rendere chiaro, quasi esplosivo, che, per quanti sforzi si possano fare, il passato torna sempre a presentare il suo conto, perché è possibile fuggire da tutto, tranne che da se stessi”. Intrigante e sensuale la protagonista femminile Mara Scagli che dal 2011, con il suo eccentrico alter ego artistico Carmilla Lux, si esibisce con successo in Italia e all’estero in un sofisticato duetto che mescola il varietà e il burlesque nel Cabaresque Show.Tenuto conto delle tematiche affrontate lo spettacolo ha ricevuto il patrocinio del Servizio LGBT della Città di Torino ed il supporto del Coordinamento Torino Pride GLBT.
Lo spettacolo, che è liberamente ispirato al romanzo di Vargas Llosa, “Appuntamento a Londra”, sembra un invito a scavare dentro la propria identità, dove spesso in quello che abbiamo ignorato sembra annidarsi la sostanza stessa della nostra vita. Oggi il teatro ha ancora questo potere di suggestionare, di instillare qualche dubbio, di offrire domande?
quello che possiamo diventare.
L’inaugurazione del Museo Matisse, avvenuta nel 1963, riflette il profondo attaccamento che il pittore aveva per Nizza, dove soggiornò quasi ininterrottamente dal 1916 e dove morì nel 1954, poco dopo aver donato alla città un cospicuo numero di opere


di un quadro appartenente al periodo di infatuazione per l’astratto che probabilmente segnò il momento meno tribolato e tribolante della pittrice torinese insieme a un bizzarro e improbabile “Drago da passeggio”, uno fra i tanti e insoliti “animali da compagnia” (oggetti cartacei acquistati – si racconta – ai Grandi Magazzini e abilmente decorati con tecniche varie) che il grande Carlo Mollino, architetto, designer fotografo e tante altre “cose” (Torino 1905 – 1973), era solito regalare agli amici più cari per fargli scoprire “il valore del tempo libero”. “Il drago da passeggio, originario dell’India, è il noto drago del Panjab – scriveva ironicamente Mollino nel libretto di istruzioni- di piccola taglia, di singolare intelligenza e vago aspetto. Il mantello, sempre di prestigiosa decorazione, si adatta all’istante con il paesaggio interiore di ciascun proprietario”. E, fra i fortunati a riceverne in dono un esemplare (quello acquistato, per l’appunto, dal MiBACT e presente in mostra) ci fu anche Carol Rama, unita a Mollino da una solida amicizia e dalla non comune eccentricità di un carattere che portò entrambi a seguire percorsi di vita e artistici assolutamente non convenzionali e difficilmente rapportabili ai dettami etici e stilistici dell’epoca. Al “Drago” di Carol, Carlo diede il
titolo di “Drago da passeggio n. 70. Notte in laguna”; glielo regalò la notte di Capodanno del ’64 e Carol lo conservò nella sua casa-studio in via Napione a Torino, accanto a una gigantrofia in cui la pittrice compare insieme a Edoardo Sanguineti, altro grande intellettuale amico. Bizzarro cadeau che alla “Sabauda” si confronta con “Pittura 718”, un olio astratto di grande equilibrio geometrico e assonanza di toni cromatici, realizzato da Carol Rama nel 1954, quando la pittrice ebbe a far parte, ma solo per un breve periodo, del MAC – Movimento di Arte Concreta, fondato nel 1948 a Milano da Gillo Dorfles e che a Torino trovò adepti notevoli anche in Albino Galvano, Adriano Parisot e Filippo Scroppo, solo per citarne alcuni. Allo stesso periodo – periodo in cui, a detta di Albino Galvano, “la forma in Carol Rama sfugge al formalismo pur nell’ascesa del ‘lavorar
formando’ anziché ‘figurando’” – appartengono altre quattro opere astratte datate primi anni ’50, cui si affiancano due lavori della serie “Senza titolo (Seduzioni)” del 1983, in cui l’artista ritorna ad un immaginario “figurativo”, popolato di misteriose seducenti figure femminili poste a convivere con non meno misteriche e invasive presenze animali. Vent’anni dopo, Carol riceverà il “Leone d’Oro” alla carriera alla Biennale di Venezia del 2003. Una lunga affascinante carriera, di cui troviamo traccia nelle magnifiche fotografie (anch’esse in mostra) scattate da Bepi Ghiotti fra il 2012 e il 2014 nella casa-studio di via Napione, quell’“opera d’arte totale dalle pareti nere”, che presto dovrebbe diventare Museo (c’è già il vincolo della Soprintendenza) e dove Carol si spense a 97 anni d’età.
Martedì 13 marzo 2018, alle ore 18.00, presso la Sala Conferenze del Museo Egizio – via Accademia delle Scienze 6 – l’autore del libro “A come Archeologia”, il Professor Andrea Augenti, dialoga con il Direttore Christian Greco
Omero? A queste domande tenta di rispondere l’opera di Andrea Augenti, professore di Archeologia medievale all’Università di Bologna, che nel corso degli anni ha condotto numerose campagne di scavo e ricerche archeologiche e ha pubblicato, tra i moltissimi altri, “Città e porti dall’antichità al Medioevo” e “Archeologia dell’Italia Medievale”.
principe ereditario Francesco Gonzaga, che voleva emulare, in campo teatrale e musicale, ciò che i Medici stavano realizzando a Firenze, affidando il progetto all’Accademia degli Invaghiti, della quale faceva parte anche il conte Alessandro Striggio, che stese il testo poetico. Nel testo del libretto stampato per la prima rappresentazione, il finale risulta diverso da quello che oggi conosciamo: i lamenti di Orfeo vengono interrotti dall’irruzione delle Baccanti, che intonano un coro dionisiaco e puniscono il protagonista con la morte, a causa delle sue affermazioni misogine. 
internazionale dagli anni ’50 a oggi. Curata dallo stesso Horvat, la rassegna testimonia appieno l’enorme ricchezza e la varietà di un percorso artistico segnato, da quasi settant’anni, dalla curiosità per mondi ed esperienze totalmente diverse fra loro. Da fotoreporter attento al puntuale racconto di realtà sconosciute e lontane dalla nostra, a fotografo di moda fra i più gettonati e assolutamente sui generis in quel singolare immergere le sue modelle nei fatti quotidiani, rubandole ad asettici studi e a rutilanti passerelle per farne figure comuni nel via vai di gente comune fra piazze strade e civiche metropolitane, Horvat (che da tempo vive in Francia) ha sempre guardato con grande interesse e ansia di confronto e conoscenza anche agli stimoli della pittura e della scultura, fotografando uomini e donne e animali e paesaggi carichi di “interiori esplorazioni”e colte assonanze estetiche , non meno che – sotto l’aspetto tecnico – alla sperimentazione di quei “nuovi” mezzi e virtuosismi digitali (è stato fra i primi a usare Photoshop e qualche anno fa ha studiato un’applicazione per iPad chiamata Horvatland) che ancor oggi danno al suo linguaggio i caratteri di un’attualità decisamente al passo coi tempi. Il suo è un geniale pungente ragionare da caparbio giovanotto novantenne (lo sarà in aprile) che di mestiere fa da sempre il fotografo e da sempre cerca di imbrigliare a suo uso e consumo quello strumento fotografico in cui “c’è davvero –scrive convinto – qualcosa di faustiano o mefistofelico, soprattutto nell’illusione di arrestare il movimento continuo che ci trascina”. E poi precisa: “Ho un’età in cui si guarda al proprio passato per cercarne un senso”. In totale serenità e con le idee ben chiare. “Più che i soggetti in se’ – puntualizza – mi interessano le relazioni fra le cose. Così, se dovessi fotografare le piramidi, aspetterei il passaggio di un cammello, di un turista, di una jeep o qualcos’altro. Immortalare le piramidi in se’ e per se’ non mi importa nulla”. Del resto “la fotografia è – per lui – l’arte di non premere il bottone”. Almeno fino a quando non si è di fronte alla possibilità (che ti cade addosso inaspettatamente come un fulmine) di compiere in un battito di secondi il “miracolo”, di fermare con uno scatto “un fatto unico, accaduto una volta sola e che non accadrà mai più”. E’ il caso delle trentuno foto della ricchissima collezione personale di Horvat, realizzate da grandi maestri e amici-colleghi che egli stesso ha voluto portare in mostra e che rappresentano in modo iconico la Storia della fotografia come il celebre scatto di Jeff
Widener che, nel 1989 a Pechino, ritrae il giovane studente di fronte ai carri armati di piazza Tienanmen. Accanto, altre a firma di Cartier-Bresson, Robert Doisneau, Mario Giacomelli, Helmut Newton e Sebastiao Salgado, solo per fare qualche nome. Maestri autentici che a tratti hanno anche segnato la carriera di Horvat e determinato in certo modo quella sua “versatilità” che non sempre è stato un vantaggio per lui: “Alcuni hanno messo in dubbio – sottolinea – la sincerità del mio impegno, altri hanno trovato che le mie foto erano poco ‘riconoscibili’, come se fossero state fatte da autori diversi. Questo mi ha spinto a ripercorrere la mia opera per cercarvi un denominatore comune. Ne ho trovati quindici e li ho chiamati ‘chiavi’“. E quindici sono appunto le sezioni-chiave in cui si articola la mostra torinese. Si va (fra le più suggestive) da Luce – con scatti in debito di magica suggestione da Cartier-Bresson, non meno che da Caravaggio e Rembrandt – a Condizione umana (al centro le “persone che soffrono” anche se “non mi piace l’idea che la mia arte si nutra del suo dolore”), da Tempo sospeso a Voyeur. Via via in un sorprendente eclettico percorso artistico, che in Vere somiglianze ci presenta grandi e bellissimi ritratti femminili di corposa e “plastica” sensualità, fino alle Foto fesse e agli Autoritratti (ma “trovarsi di fronte a se’ stessi, quando non si è Montaigne, può diventare noioso”). E, all’uscita, c’è perfino uno spazio per farsi un selfie a ricordo della mostra. Il massimo per un grande giovanotto di appena novant’anni. Ancora da compiere.
riproposta in questo 2018 con un nuovo spettacolo non privo di agganci con la magica Torino e con il territorio piemontese. Annunciata dallo slogan “#sfidalapaura”, la trama di “La Bambola Maledetta” esordisce con due domande: “Da dove arriva quella bambola? E quale viaggio l’avrà portata nella notte dei tempi proprio nel piccolo borgo di Coatbridge?” Interrogativi che aprono la strada ad un enigma tutto da risolvere da parte del pubblico in sala che vivrà sulla propria pelle il confine assai labile fra la bambola come strumento di gioco e come trappola della dimensione introspettiva e psicologica dell’infanzia personale di ognuno di noi. E da un Piemonte misterioso che fa da grande culla a storie inedite, la scena “vola” oltre Manica, per atterrare nell’atmosfera lugubre di un villaggio scozzese dove, negli anni Quaranta il ritorno del protagonista, il restauratore Eric, alla vecchia casa di famiglia e dell’infanzia, non è che l’inizio di un crescendo di coinvolgimento per il pubblico in sala. Gli spettatori avranno a teatro un benvenuto fatto di effetti speciali tipici del mondo cinematografico e rivolti al gradimento di una platea di ogni età. Eric inizia a compiere un cambiamento sempre più inspiegabile dinanzi la moglie Isabel e la figlia Eveline.
sarto del villaggio. Il tutto sotto gli occhi costanti di quella bambola e di suoni e voci che generano un’inquietudine insostenibile. Un passato angosciante si impadronisce nuovamente della casa, forse per chiudere i conti ancora in sospeso. In attesa del debutto le aspettative crescono, alimentate da tanti fattori peculiari fra i quali il mix di talento creativo del giovane ed eclettico cast di “Chi è di scena” che vede i componenti operare nella scrittura teatrale, nella danza, nei costumi. Uno spettacolo di sola paura? Non esattamente: la paura va a braccetto con quell’inafferrabile sfera psicologica che caratterizza l’essere umano e che da allo spettacolo un valore riflessivo e quasi di indagine degli stati più reconditi della mente umana. Al comando della regia e nei panni di attore Gioacchino Inzirillo, artista multiforme con esperienze in recitazione e musical anche televisive (Rai5 e La7, fra le altre), supportato da un interprete di fama quale Michele Renzullo, cofondatore della Compagnia della Rancia e volto noto sulle scene teatrali nazionali, e dagli attori Francesca Melis, Chiara Gusmini, Gabriele de Mattheis , Mariasole Fornarelli e Noemi Garbo, molti dei quali già impegnati in “La Dama in nero”. I costumi (studio di Gabriele de Mattheis) sono messi a punto dall’Old House Company, le scenografie sono a cura del gruppo di professionisti chiamato “COB” ovvero lo street artist Matteo Capobianco, il scenotecnico Alessio Onida e il designer Cosimo Bertone mentre le luci, i sorprendenti effetti live e l’audio sono curati da Roberto Chiartano. Infine vi sono musiche inedite, composte da Nicola Barbera che ha studiato effetti sonori davvero “da brivido” per far vivere al pubblico le forti emozioni dello spettacolo. A precedere l’atto unico, nato per impedire di perdere anche solo un minimo secondo di puro coinvolgimento, è in fase di studio un “pre-show” per fare entrare gli spettatori nel “mood” di “La Bambola Maledetta”, facendo conoscere la storia realmente avvenuta fra Torino e il Monferrato, che fa da premessa allo spettacolo. Prima assoluta a Torino, al Teatro Cardinal Massaia di via Sospello dove la paura potrà essere sfidata dal pubblico del debutto nazionale previsto nelle serate di venerdì 16 e sabato 17 marzo 2018.
serata dell’8 marzo qualche problema l’ha comportato), la vivisezione di un rapporto coniugale che deflagra allorché il Capitano pretende in una discussione d’imporsi alla moglie Laura circa l’educazione della figlioletta Berta, che lui vorrebbe spedire in città a farsi le ossa per diventare una brava insegnante. “Un capolavoro di dura psicologia”, lo definiva Nietzsche, e la rabbiosa introspezione calata nei caratteri, l’arretrare continuo e lento dell’uomo, il gioco perfido della donna che manipola anche i più piccoli indizi e s’accaparra tutti gli occupanti della casa, la vecchia balia e il pastore suo cognato, il medico arrivato da poco e messo lì immediatamente a giudicare una situazione e a schierarsi, gli stessi giovani militari della guarnigione, anche la ragazzina che al contrario ad ogni incontro stravede per la figura paterna, ogni momento della tragedia è uno studio perfetto e carico a suo modo di una dolente umanità. Il gioco e la forza della donna hanno il sopravvento quando fa entrare nell’animo e nel cervello dell’uomo il tarlo e il dubbio di una paternità
che potrebbe far guardare Berta con occhi diversi. Strindberg tende con ogni sua forza verso il Capitano, spalleggia una parabola inevitabilmente dolorosa, svela a poco a poco le ragioni del suo rifugiarsi negli studi – quelli che la donna ha cercato in ogni modo di ostacolare, nascondendogli quelle lettere che erano per lui i rapporti e gli sviluppi con i vari editori -, come la logicità nel contrastare le opposizioni che come una banda di ciechi gli presentano quanti gli stanno intorno. Il mondo del Capitano, quello familiare come quello militare (come ha sempre governato questo vorrebbe governare quello), sparisce, anche quello delle stelle, suo ultimo baluardo, viene meno mentre lui cerca di recuperare la propria dignità di uomo e di padre con le stesse parole dello Shylock shakespeariano: e sotto lo sguardo della Vincitrice, la vecchia balia lo aiuterà a indossare la camicia di forza. Stretto in un’epoca in cui la scienza non aveva ancora prodotto i mezzi per una sicurezza paterna, chiuso nella cupezza di un primo atto della lunghezza di un’ora e 55’ e di un secondo, quasi come una liberazione per il protagonista, di 25’, quasi soffocato in uno spazio di enormi tendaggi rossi che calano vertiginosamente sino giù in platea (la scena è firmata da
Alessandro Camera, con le poltrone e la scrivania e l’orologio che scandisce le ore tenuti sghembi e incerti, i costumi sono di Andrea Viotti), luogo dell’intimità e del dolore nel finale, una volta spogliato di ogni arredo, Lavia costruisce senza risparmio personale uno spettacolo angoscioso, soffocante e lentissimo, ma grandioso, in cui la fa da padrone, con un ritratto di protagonista, granitico nella voce e negli atteggiamenti prima, un esempio di resa perfetta poi, che s’acclama per la saggezza con cui lo compone, per la disperazione e la drammaticità di quel suo perdersi tra le grinfie della sua personale altra metà del cielo. Di fronte a lui un’incisiva Federica Di Martino e tutti gli altri in ottima resa. Se una stonatura c’era, possiamo averla ritrovata in quell’incessante bamboleggiamento della balia e della figlia soprattutto, che si sarebbe potuto alleggerire o assolvere del tutto.