Dal 14 dicembre al 7 gennaio 2018 il palcoscenico de Le Musichall ospita il Gran Varietà, lo spettacolo che inaugura ufficialmente il teatro torinese, sotto la direzione artistica di Arturo Brachetti. Con quello che si può definire una sorta di “zapping teatrale” con numeri di ballo, canto, teatro, circo e poesia che si alternano a ritmo incalzante, Le Musichall diventa così la prima casa d’Italia di quell’arte teatrale che ha fatto la storia dello spettacolo internazionale: ilvarietà.

Il 14 dicembre le 300 luci de Le Musichall si accendono su un’esibizione unica dedicata a un genere che richiama la tradizione, ma qui proposto in chiave contemporanea e dinamica. Frizzante e comico, goliardico e ammiccante, a tratti onirico e surreale, il Gran Varietà travolge il pubblico con una storia, anzi con tante storie diverse che non hanno un filo conduttore. Lo spettacolo in cartellone è leggero, disimpegnato, ma intelligente e di qualità, proseguendo così la proposta offerta dal teatro e quello che intende rappresentare. Sul palco una girandola di artisti, quattordici, dalla formazione più diversa: ci sono le ballerine di can can e gli acrobati, i cantanti, i clown, gli attori comici, i maghi, a formare una compagnia d’eccezione selezionata dalla Torino Musical Academy che ha collaborato alla realizzazione dello spettacolo, la cui regia è di Stefano Genovese.
Cos’è il varietà
Si tratta di uno spettacolo teatrale di derivazione popolare che presenta un repertorio misto di canzoni, musiche, balli, scenette comiche. Ben lontano da quello che era il teatro accademico a cui era abituata la borghesia del tempo, il varietà nasce in Italia, e più precisamente a Napoli, alla fine del XIX secolo, rifacendosi alla tradizione del Cafè-Chantant francese. Da questa esperienza prenderanno vita molti dei filoni teatrali, ma anche televisivi, che hanno fatto la storia dello spettacolo italiano, diventando una sorta di patrimonio culturale condiviso. La sua storia è intensa, ma si consuma in brevissimo tempo, nel lasso di tempo che va dalla fine dell’Ottocento alla fine degli anni Sessanta del Novecento.
Cos’è Le Musichall
Le Musichall è il teatro delle varietà con la direzione artistica di Arturo Brachetti, il maestro internazionale del quickchange e l’attore teatrale italiano oggi più celebre al mondo. Il progetto nasce dalla collaborazione tra Arte Brachetti srl e l’Opera Torinese del Murialdo, proprietaria del teatro, con l’obiettivo di rivitalizzare quelle forma di spettacolo popolare e coinvolgente, di arte varia, teatrale e musicale. Si propone come teatro in cui è protagonista un intrattenimento leggero, divertente e di qualità, trasversale per proposte e per discipline, internazionale nell’approccio, capace di accogliere quelle realtà che faticano a trovare un luogo perché sono ‘altro’ rispetto alle tradizionali etichette, non rientrando negli schemi classici. Il teatro, nato agli inizi del ‘900 come Teatro degli Artigianelli, dopo una gloriosa stagione negli anni ‘80 e ‘90, è stato chiuso per lungo tempo e oggi torna dopo un restauro di quasi tre anni che ha permesso di riportare alla luce gli affreschi originali del soffitto stile Belle Epoque e rifunzionalizzare l’intero spazio.
Il calendario
Giovedì 14 dicembre ore 21
Venerdì 15 dicembre ore 21
Sabato 16 dicembre ore 21
Giovedì 21 dicembre ore 21
Venerdì 22 dicembre ore 21
Sabato 23 dicembre ore 21
Martedì 26 dicembre ore 17
Mercoledì 27 dicembre ore 21
Giovedì 28 dicembre ore 21
Venerdì 29 dicembre ore 21
Domenica 31 dicembre ore 22
Giovedì 4 gennaio 2018 ore 21
Venerdì 5 gennaio 2018 ore 21
Sabato 6 gennaio 2018 ore 17
Domenica 7 gennaio 2018 ore 17
Ingresso intero: 23 euro + 1,50 di prevendita
Ingresso ridotto di legge (over 65 – under 12) e convenzionati (Abbonamento Musei, Torino+Piemonte card e Torino+PiemonteContemporary card): 20 euro + 1,50 euro di prevendita
Ingresso serata speciale con brindisi di Capodanno: 50 euro + 1,50 euro di prevendita
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Le Musichall
Via Juvarra, 15 – 10122 Torino (ingresso temporaneo da Corso Palestro 14)
Per informazioni e prenotazioni 011 1911 7172
www.lemusichall.com – info@lemusichall.com
Facebook: @LeMusichallTorino / Instagram: lemusicahalltorino





frangente storico giocò un ruolo centrale un generale piemontese a riposo, Giacomo Lombardi, nella sua qualità di commissario prefettizio dei Comuni in via di cessione. Militare di grande prestigio, che aveva fatto già la I Guerra mondiale e parte della seconda, combattendo anche a El Alamein al fianco di Rommel, Lombardi arrivò a Tenda nel luglio 1946, con l’assai poco gradito compito di passare la mano ai francesi. Mentre al tavolo delle trattative di Parigi la cessione di Tenda e di altri territori andavano avanti – e si sarebbero concluse ufficialmente il 10 febbraio 1947 – il generale-commissario non restava certo con le mani in mano. Si dedicava, anzi, alla cura del grande patrimonio forestale pubblico, facendo provvedere al taglio dei boschi comunali e ritrovando, nell’occasione, una squadra di boscaioli cadorini, che erano stati suoi alpini dell’8°reggimento in Albania. Nelle sue memorie, raccolte nel volume “Pipe e soldati”, Lombardi racconta di una calorosa tavolata in mezzo ai boschi, con una fumante polenta e un sugo a base di gatto! E’ egli stesso a rilevare l’incertezza e la contraddizione che dominava quei territori, voluti fortemente dai francesi ma chiamati, il 2 giugno 1946, a scegliere tra monarchia e repubblica nel referendum istituzionale. Ebbene, la percentuale dei votanti fu del 90 % e, osserva Lombardi: “Ciò fa ancora pensare che se il Governo avesse sostenuto l’autonomia economica dei Comuni dell’Alta Valle Roja e gli antichi diritti del 1861, in quel momento, il filo-francesismo sarebbe stato definitivamente sepolto”.
lasciare loro libero il transito del colle. Ai margari, però, il generale “senza por tempo in mezzo” indicò gli itinerari degli alti valichi alpini non ancora sorvegliati dalla gendarmeria, dove poterono evacuare nottetempo con le mandrie senza pagare odiose tangenti. Finalmente sabato 20 settembre, concluso il passaggio di consegne, durante il quale i francesi rifiutarono di acquisire i crocefissi appesi nei locali comunali – e Lombardi li prese con sé – si chiudeva il compito del commissario. A mezzogiorno in punto, ora limite fissata per il passaggio delle nuova frontiera che poi sarebbe rimasta chiusa per anni, i due camion con le suore del convento dell’Assunzione di San Dalmazzo tagliarono la linea del confine, e “alle 12 e 2 minuti, lasciò la sbarra calata l’ex Commissario col fido segretario Oggero. All’uscita dalla lunga galleria il suo volto era rigato da amarissime lagrime”. La stessa commozione che ancor oggi si prova passando sotto il porticato antistante il municipio di La Brigue, l’antico Comune di Briga, dove compare inciso nel bronzo il proclama della vittoria firmato dal generale Armando Diaz, a conclusione della Grande Guerra.
Tutti gli appuntamenti culturali in programma
dell’antiterrorismo. Il suo primo obiettivo sarà colpire il misterioso Ghost, che è in possesso di una bomba di settanta chili di plutonio in grado di scatenare la Terza Guerra mondiale. Durata 112 minuti. (The Space, Uci)
cinematografica del romanzo della Christie dopo l’edizione firmata da Sidney Lumet nel ’74, un grande Albert Finney come investigatore dalle fiammeggiati cellule grigie. Un titolo troppo grande per non conoscerlo: ma – crediamo, non foss’altro per il nuovo elenco di all star – resta intatto il piacere di rivederlo. Per districarci ancora una volta tra gli ospiti dell’elegante treno, tutti possibili assassini, una partenza da Istanbul, una vittima straodiata, una grande nevicata che obbliga ad una fermata fuori programma e Poirot a ragionare e a dedurre, sino a raggiungere un amaro finale, quello in cui la giustizia per una volta non vorrà seguire il proprio corso. Durata 114 minuti. (Ambrosio sala 1, Massaua, Eliseo Grande, Ideal, Lux sala 2, Reposi, The Space, Uci anche in V.O.)
Borg McEnroe – Drammatico/biografico. Regia di Janus Metz Pedersen, con Shia LaBeouf, Sverrir Gudnason e Stellan Skarsgård. Due campioni, due storie e due personalità diversissime, gli stili che catturano opposte folle di fan, i movimenti freddi e calibrati dell’uno contro quelli nervosi e impetuosi dell’altro, la calma contro il nervosismo, la loro rivalità che li vide a confronto per 14 volte tra il ’78 e il 1981, fino alla finale di Wimbledon, che qualcuno ancora oggi considera una delle più belle partite della storia del tennis. Fino alla loro amicizia, fuori dai campi. Durata 100 minuti. (F.lli Marx sala Chico, Uci)
Anthony Mackie. Premio Oscar, l’autrice di “The hurt rocker” e di “Zero Dark Thirty” guarda oggi a quei fatti sanguinosi scoppiati nel luglio del 1967 in un locale privato – privo di licenza – dove un gruppo di persone di colore festeggiavano due ragazzi, anch’essi di colore, ritornati a casa dalla guerra del Vietnam. Lo sguardo sulla repressione seguita, le violenze della reazione, l’invio da parte del governatore Romney della Guardia Nazionale e da parte del presidente Johnson dell’esercito: contro chi vorrebbe seguire ogni regola della legalità c’è chi con violenza la oltrepassa, facendosi forte dell’omertà che nelle forze di comando si fa ben visibile. Lo sguardo sui fatti dell’hotel Algiers, dove tre ragazzi, tra i 17 e i 20, sono barbaramente trucidati. I responsabili, al processo, non subiranno nessuna condanna. Durata 143 minuti. (Greenwich sala 1)
Lebghil. Leila e Armand dagli studi di scienze politiche a Parigi vorrebbero passare a uno stage alle Nazioni Unite. A pochi giorni dal viaggio, in casa della ragazza piomba il fratello Mahmoud, proveniente dallo Yemen dove ha abbracciato il radicalismo islamico. Innanzitutto, impedisce ai due giovani di frequentarsi: ad Armand non rimane che indossare il niqab e presentarsi così alla ragazza che ama, come una studentessa che ha bisogno di lezioni. Ma che succederà se Mahmoud si innamora di quella “ragazza” e la chiede in moglie? Durata 88 minuti. (Due Giardini sala Ombrerosse, Ideal, Massimo sala 2 anche V.O., Uci)
Finché c’è prosecco c’è speranza – Giallo. Regia di Antonio Padovan, con Giuseppe Battiston, Roberto Citran e Silvia D’Amico. Tra le colline venete e i filari e le cantine, l’ispettore Stucky – radici veneziane e persiane, appena promosso, impacciato ma pieno di talento, deve fare i conti con le proprie paure e con un passato ingombrante – è chiamato a risolvere quello che a tutti pare un caso di suicidio, quello del ricco possidente Desiderio Ancillotto. La terra, la proprietà, la passione e la professione: là si nasconde un assassino. Durata 101 minuti. (Eliseo Rosso, Greenwich sala 2)
Papaleo, Matilda De Angelis e Alessandro Gassman. Un road movie, sguardo tra generazioni, una vena di autobiografia. Un vecchio padre, grande scrittore, si reca a Stoccolma, in un lungo viaggio in macchina, per ricevere il Nobel per la letteratura. Lo accompagnano i figli, due tra i tanti che ha avuto per il mondo, e il fedele segretario. Sarà un viaggio utile, tra incontri e scoperte che potranno cambiare i vecchi rapporti. Durata 96 minuti. (Ambrosio sala 2, Massaua, Ideal, Lux sala 1, Reposi, The Space, Uci)
Gli sdraiati – Commedia. Regia di Francesca Archibugi, con Claudio Bisio e Gaddo Bacchini. Giorgio e Tito sono padre e figlio. Due mondi opposti che si scontrano all’interno di un appartamento a Milano. Giorgio è un giornalista di successo, apprezzato dai colleghi e dal pubblico, famoso volto televisivo, separato dalla moglie, discorsi con il figlio a livello pressoché zero. Il quale ultimo è un adolescente indolente, chiuso, refrattario a tutto e a tutti, incapace o senza la minima voglia di trasmettere le proprie emozioni agli altri, che si sente soffocato dalle attenzioni altrui, il suo (ristretto, piccolo) mondo sono gli amici per parlare di niente e i videogiochi Nemmeno l’invito del padre ad andare a fare insieme la vendemmia lo smuove: o forse sì, e allora potrebbe essere il modo per tentare di costruire insieme un minimo di comunicazione. Dal romanzo di Michele Serra. Durata 103 minuti. (Massaua, F.lli Marx sala Chico, Reposi, Romano sala 3, Uci)
The Place – Drammatico. Regia di Paolo Genovese, con Valerio Mastandrea, Marco Giallini, Sabrina Ferilli, Giulia Lazzarini, Silvio Muccini, Vittoria Puccini, Vinicio Marchioni, Alessandro Borghi. Un film corale, un’ambientazione unica, una bella carrellata di attori italiani per altrettanti personaggi che Paolo Genovese – l’autore di quel piccolo capolavoro che è “Perfetti sconosciuti” – ha basato su una serie americana, ripensata e adattata, “The Booth at the Edge”, creta dall’autore e produttore Christopher Kubasik nel 2010. Un uomo misterioso, giorno e notte ospite abituale di un bar, con il suo tavolo sul fondo del locale, e personaggi e storie che a lui convogliano, di uomini e donne, lui pronto a esaudire desideri e a risolvere problemi in cambio di alcuni “compiti” da svolgere. Tutti saranno pronti ad accettare quelle richieste? Durata 105 minuti. (Ambrosio sala 3, Uci)
curatore di un importante museo di Stoccolma, divorziato e amorevole padre di due bambine, sempre all’inseguimento delle buone cause. Nel museo c’è grande fermento per il debutto di un’installazione, “The Square”, che invita all’altruismo e alla condivisione (“il quadrato è un santuario di fiducia e altruismo”): ma quando gli vengono rubati il cellulare e il portafoglio per strada, Christian reagisce in modo scomposto. Nel frattempo, l’agenzia che cura le pubbliche relazioni del museo crea un’inaspettata campagna pubblicitaria a promuovere l’installazione, ottenendo una risposta da parte del pubblico che manda in crisi sia Christian che il museo stesso. Strano e brillante, pieno di interrogativi, simpatico (si ride! si ride!), certo meno “chiarito” rispetto a quel “Forza maggiore” che ci aveva fatto conoscere il regista svedese all’interno del TFF, da guardare (e da ammirare) con occhio decisamente interessato non nella sua complessità ma nei grumi di scene che via via si susseguono e si solidificano, tra il filosofico e il divertito (eccezionale la scena della performance dell’uomo scimmia, costellata dalla curiosità e dallo scetticismo e dalla allegria attenta del pubblico, pronti a farsi terrore), nello sguardo ironico buttato sulla pochezza e sulle turlupinatura di certa arte contemporanea (i vari mucchietti di sabbia che danno vita ad una installazione recuperati in un sacco della spazzatura da un addetto alle pulizie). Durata 142 minuti. (Nazionale sala 2)
Vittoria e Abdul – Drammatico (ma piuttosto commedia). Regia di Stephen Frears, con Judy Dench, Ali Fazal, Michael Gambon e Olivia Williams. Nel 1887 Abdul lascia l’India per Londra, per poter donare alla regina settantenne, sul trono da oltre cinquant’anni, una medaglia, proprio in occasione del suo Giubileo d’Oro. La sovrana è attratta dalla cultura che l’uomo porta con sé, dalla sua giovinezza e dalla prestanza, contro lo scandalo che il suo nuovo amico semina in tutta la corte, che non esita a bollarla come pazza. Più “storiucola” che Storia, a tratti imbarazzante per quell’aria di operetta senza pensieri che circola all’interno: naturalmente per il regista di “Philomena” (da ricordare) e di “Florence” (da dimenticare) il ventiquattrenne Abdul è senza macchia, la vecchia e inamidata corte inglese da mettere alla berlina e allo sberleffo, il piccolo entourage regale che grida “sommossa” se ne ritorna tranquillo a servire la vecchia sovrana. Ma ci voleva ben altro polso e visuale, e qui Frears ha tutta l’aria di voler andare in pensione. Durata 112 minuti. (Massimo sala 3 V.O.)
IN MOSTRA ALLA “BIBLIOTECA NAZIONALE” DI TORINO, I DIPINTI E I DISEGNI DI ELEONORA E GIORGIO, MADRE E FIGLIO, ENTRAMBI ARTISTI ENTRAMBI VITTIME DELLA SHOAH
Giorgio durante la marcia di evacuazione dal campo di Sosnowitz nel gennaio del ’45. La mostra alla “Nazionale”, realizzata per iniziativa della figlia di Giorgio, Rossella Tedeschi e del marito, il musicologo Enrico Fubini, con la preziosa e attenta curatela di Giovanna Galante Garrone, già alla direzione della Soprintendenza per i Beni Artistici e Storici del Piemonte, intende dunque sottrarre ad anni di ingiusto oblio un ingente patrimonio artistico “praticamente sconosciuto” e
gelosamente custodito fra le mura domestiche da Giuliana Fiorentino Tedeschi, moglie di Giorgio mancata nel 2010. In tal senso rappresenta un “dovuto risarcimento” alle figure di Eleonora (Nora, come amava firmare i suoi quadri) e di Giorgio, oltreché “un importante novità sul piano storico ed artistico”. I dipinti di Nora (nata a Torino nel 1884 e allieva prediletta di Carlo Follini, che a lei
dedica il luminoso “Persone su una strada lungo il mare”, un olio del 1898 esposto in mostra) si presentano al pubblico per la prima volta, mentre una piccola parte dei disegni di Giorgio (nato a Torino nel 1913) era già stata esposta nel 1979 all’Unione Culturale di Torino per volontà della moglie Giuliana, sopravvissuta alla deportazione ad Auschwitz e che, al suo ritorno a Torino, ritrovò le figlie Rossella ed Erica, entrambe nascoste e salvate dalla barbarie nazi-fascista da una domestica. Giuliana, oltreché amorevole “custode” dell’ingegno artistico della suocera e del marito, fu anche autrice di testi fondamentali sull’esperienza del lager, come “Questo povero corpo” edito nel 1946 e “C’è un punto della terra…Una donna nel lager di Birkenau” pubblicato nel 1988. In tal senso, la mostra vuole essere un tributo anche a lei e alla sua ferrea volontà di tenere vivo il ricordo della Shoah. Nella scrittura, nell’educazione delle figlie, nello stile di vita e nei frequenti contatti con gli alunni delle scuole torinesi. Le opere da lei conservate mantengono in rassegna le stesse cornici usate per le pareti di casa. Pochissime quelle datate; ragion per cui vengono esposte in sequenza non cronologica, ma tematica. Di Giorgio, convinto dal padre Cesare – imprenditore laniero e presidente del “gruppo tessili” dell’Unione Industriale, morto nel ’31 in giovane età – a laurearsi in Architettura (lavorando dopo la laurea a Milano nello studio di Giò Ponti), troviamo anche in mostra alcune foto di edifici, progettati con spirito “razionalista”, per la Montecatini. “Femminista ante litteram” (dal memoriale del figlio Gino), Nora Levi si ribellò all’esclusione – impostale – dagli studi superiori per gettarsi anima e corpo nella pittura. E se Follini poté insegnarle “le teorie del
colore, una pittura veloce ma precisa, l’allieva – scrive bene Giovanna Galante Garrone – si espresse nei suoi quadri con un tocco sensibile, uno spiccato gusto materico e una non comune energia”: così é in quel “sentiero” che fatica a farsi largo sotto l’incombere di una vorticosa vegetazione o “nella luce di un placido canale”, come “nella selvaggia resa di una spiaggia disseminata di cespugli” o nella suggestione de “La casa bianca”, olio su tavola di singolare minimalista narrazione, non fosse per quei pini in primo piano bruscamente “scossi dal vento”. In certi “audaci accostamenti di colori puri”, Galante Garrone parla anche di “vicinanza ad alcune prove giovanili di Carlo Levi”, così come – aggiungerei – nel fragoroso turbinio di inquieti scorci
paesistici, alle arruffate marine di Enrico Paulucci. E’ del ’29 la prima mostra dei “Sei”, alla Galleria “Guglielmi” di Torino. Fra di loro “Nora non avrebbe sfigurato”. Una passione per l’arte, la sua, trasmessa in toto al figlio Giorgio, che già da bambino disegnava in continuazione. Daltonico, esplorò e approfondì, con risultati per davvero notevoli, le possibilità del bianco e nero (o della sanguigna), lasciando un ricchissimo patrimonio di disegni dal tratto veloce e istintivo, in cui spiccano gli svariati ritratti di anziani insieme ad altri di più intima famigliarità, agli autoritratti di grande rigorosa scrittura, alle ironiche “caricature” di professori e compagni di scuola e ad alcuni morbidi e delicati nudi femminili. Non mancano i paesaggi e i rustici di campagna e quelle “Barche nel porto” di ineccepibile freschezza e levatura tecnica. Ha visto bene Giovanna Galante Garrone: in questi ultimi pezzi, “in particolare nelle case appena accennate, si riconoscono l’attenzione e la mano dell’architetto”.
ugualmente rispettato come violinista, violista, direttore d’orchestra, pedagogo e musicista da camera. Anche la Camerata Salzburg esercita un’attrattiva particolare, non solo perché il suo nome evoca il luogo natale del grande musicista ma in quanto depositaria di una tradizione non tanto antica – l’orchestra è nata nel 1952 – ma che ha nel suo patrimonio genetico il pensiero e l’insegnamento di alcuni dei più autorevoli “mozartiani” del Novecento, da Bernhard Paumgartner che l’ha fondata a Sándor Végh e tanti altri grandi direttori e solisti fino ai giorni nostri. La Camerata Salzburg ha sperimentato un nuovo stile di esibizioni fin dai primi anni Sessanta: durante una tournée in Germania, Géza Anda decise di dirigere l’orchestra dal pianoforte, una mossa alquanto coraggiosa a quei tempi. Il programma della serata è tutto squisitamente “viennese”, con i tre grandi protagonisti della stagione classicista. Si apre con la Romanza per violino e orchestra n. 1 in sol maggiore op. 40 di Ludwig van Beethoven, databile all’incirca ai primi anni dell’Ottocento, nella quale il virtuosismo cede il passo alla cantabilità e all’espressività. Con il Concerto per violino e orchestra n. 5 in la maggiore KV 219 di Wolfgang Amadeus Mozart torniamo al 1775, quando Mozart adempie ai suoi doveri come Konzertmeister nella Salisburgo dell’Arcivescovo Colloredo componendo musica da camera e da chiesa, compresi i cinque Concerti per violino e orchestra, dei quali il KV 219 è l’ultimo e forse il più conosciuto, grazie anche al suo Finale con il famoso episodio centrale in stile “alla turca”. Si chiude con la Sinfonia n. 83 in sol minore “La poule” di Franz Joseph Haydn, unica in minore tra le sei sinfonie cosiddette “parigine”, così chiamata per la nota puntata e ribattuta degli oboi nel primo tempo che ricorda il verso della gallina. Il titolo non deve però trarre in inganno, “La poule” è uno dei lavori più impegnativi del “padre della sinfonia”. 

