Sono alcuni ritratti di personaggi di casa Savoia ad accogliere il visitatore nelle sale della Fondazione Accorsi-Ometto in occasione della mostra Da Piffetti a Ladatte. Dieci anni di acquisizioni curata dal presidente Giulio Ometto e da Luca Mana, conservatore del Museo: l’esposizione di un centinaio di pezzi tra gli oltre duecentocinquanta – i mobili, i dipinti, le miniature, gli orologi, gli argenti e altro ancora – giunti nel palazzo di via Po attraverso acquisti e vendite, donazioni, aste, scoperte, recuperi importanti, scommesse con se stessi nel desiderio di un ritorno a casa che può anche aver voluto dire una lotta impari con il Louvre ad un’asta di Sotheby, come è avvenuto per la terracotta Il Trionfo della Virtù dovuta a Francesco Ladatte, donata dal settecentesco financier parigino Ange-Laurent de La Live de Lully ad una consorte dai costumi più che leggeri e strappata l’anno scorso per una cifra di circa 180 mila euro. Il risultato, tutto questo,
mai stabilizzato ma sempre in progredire (“con i miei collaboratori immagino un museo che possa cambiare continuamente aspetto, ben oltre la codificata raccolta museale”, è convinto Mana), dovuto alla volontà di presentare e di offrire al pubblico (“anche a quello giovane, di studi liceali, quello che – io ne sono convinto – in una crisi sociale ed economica, come è quella che stiamo vivendo, cerca appoggio nella bellezza e nel passato un punto di riferimento”) un patrimonio di arredi e di opere d’arte, inseguito non soltanto nel nostro paese ma nel mondo intero, una vasta collezione d’eccezione che rispecchi le ambientazioni e gli oggetti del XVIII e del XIX secolo, nell’impronta dell’accanita ricerca, dell’intelligenza delle scelte, nel riconoscimento costante di quello che amiamo definire come il “gusto Accorsi”.
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Una raccolta, un patrimonio prezioso, che non è esclusivamente la visione della bella opera d’arte esposta ma che ha alle spalle storie diverse di appartenenza, di affetti, di passioni e di culture che già a loro volta, ben al di là del rapporto economico, hanno tentato di mantenerne intatta la presenza e di cancellarne per molti casi la dispersione in un imprecisato altrove. Dei ritratti, si diceva, che
iniziano il ricco percorso. Come quello di Maria Luisa Gabriella di Savoia da bambina, ad opera di Louis-Michel van Loo, appartenuto ad una importante dinastia di pittori di origini olandesi, al seguito del padre nei vari viaggi professionali, da Torino a Roma e a Parigi, non ancora trentenne al servizio della corte sabauda per lasciare le fattezze di principi e principesse, ancora ritrattista a Madrid e in maniera definitiva alla corte di Luigi XV. Il quadro offre tutta l’impertinenza della principessina che tra eleganti abiti e un piccolo bosco alla sue spalle stringe un verde pappagallo ansioso di recuperare la propria libertà. O ancora il ritratto di Maria Giuseppina di Savoia, contessa di Provenza dovuto a François-Hubert Drouais (anch’egli legato alle corti europee, ci ha tramandato la Pompadour e la du Barry), sguardo educato e rispettoso, rosa tra le mani e velluto rosato attorno al collo forse a cercare di nascondere quella poca pulizia di cui a corte si vociferava e che il sovrano Luigi XV stigmatizzava nelle lettere scritte al di lei consorte, affinché la regale dama si lavasse un po’ meglio almeno quando doveva frequentare pranzi e balli. Accanto a quel Trionfo della Virtù che dicevamo strappato al museo parigino, importanti ancora del Ladatte le Allegorie dell’Inverno e dell’Autunno (da Parigi nel 2014), mentre prezioso biscuit degli anni 1790/1800 proveniente dalla manifattura di Meissen è La venditrice di amorini, ricavato da un dipinto pompeiano (fu proprietà di Galeazzo Ciano), una coppia di giovani ragazze nell’intento di
scegliere gli amori che una fattucchiera presenta loro, estraendoli da un leggero colonnato circolare.
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Da osservare con attenzione i tanti esempi delle miniature che affollano angoli delle sale, vedute e paesaggi di anonimo come di Moreau e di Giuseppe Bison, le nevi e gli alberi di Angelo Cignaroli, i personaggi eleganti e impreziositi che ci accompagnano nella prima metà dell’Ottocento, donne, giovani uomini, gruppi familiari, dovuti all’acclamato Jean-Baptiste Isabey, a Jacques Le Gros, a Hyacinthe Mercier. Come nelle teche esplodono da un mondo antico le altre porcellane di Meissen – esempi montati su bronzo dorato guarnito di fiori in porcellana di Vincennes -, candelieri a più luci (quello in bronzo dorato, su modello di Juste-Aurèle Meissonier, rischiava di restare all’estero, mentre adesso, dopo il suo acquisto a Parigi nel 2016, è tornato nuovamente a Torino), coppie di doppieri, bouquet con scene pastorali, centrotavola, vasi, pot-pourri; e ancora pendole (quella detta “all’elefante”, attribuita a Jean-Joseph de Saint-Germain, maître fondeur dal 1748), orologi da tavolo o da mensola (di manifattura francese, della metà del XVIII secolo, frutto di una donazione, un orologio in bronzo, osso e smalti), argenterie e candelieri – di fattura napoletana o francese -, la maiolica torinese con i cinque vasi dell’Ardizzone. Come s’impongono gli esempi di porcellana cinese, della dinastia Qing, primo quarto del XVIII secolo o quella denominata “famiglia rosa”, della dinastia Qing, tarda Era Qianlong, 1736-1795).
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Arrivando ai preziosi esempi di ebanisteria che si ammirano in mostra, davvero eccezionali le opere che ancora una volta dimostrano il genio del torinese Pietro Piffetti (1701 – 1777), nominato a trent’anni ebanista di corte, fino alla morte artefice, con preziose tarsie, dell’arredamento di corte, tra Palazzo Reale e Venaria, tra la Villa della Regina e Stupinigi. Il cofano-forte, 107 cm. di altezza, intarsiato di palissandro, pruno e avorio, risalente al 1750-1770 e acquistato da Sotheby’s nel 2013, appartenuto a Beatrice di Savoia all’interno della sua villa di Città del Messico; uno scrittoio databile al 1770 circa, un tavolo da centro o “buffetto” (del 1745 circa, Pietro Accorsi lo vendette all’inizio degli anni Quaranta a una signora della buona borghesia torinese, legata da una più che intima liaison al più importante industriale torinese: quando questi morì, se ne volle disfare e Accorsi lo riacquistò, secondo un patto tra i due, all’antico costo di vendita) e una coppia di armadi pensili, databili tra il 1735 e il 1740 (uno dei due in prestito alla Venaria per la prossima mostra sul Piffetti), legno tartaruga e avorio, due grandi medaglioni ad intarsio sulle ante, provenienti dalla casa di un’agiata coppia di coniugi torinesi e da questi conservati con affettuosa passione, un tempo segnalati come appartenenti alla scuola e oggi giudicati come opera propria del Maestro.
Elio Rabbione
Nelle foto:
Manifattura di Meissen (modello di Christian Gottfried Jüchtzer), La Venditrice di Amorini, 1790-1800, biscuit
Louis-Michel van Loo (Tolone, 1707 – Parigi, 1771), Ritratto di Maria Luisa Gabriella di Savoia da bambina, 1773, olio su tela
Pietro Piffetti (Torino, 1701 – 1777), Cofano-forte, 1750-1770, legno e avorio.
Pietro Piffetti (Torino, 1701 – 1777), Coppia di armadi pensili, 1735-1740, legno, tartaruga e avorio
Manifattura francese, Bouquet con scena pastorale, 1747-1749, Porcellana di Meissen montata su bronzo dorato guarnito di fiori in porcellana di Vincennes
OLTRE 500 IMMAGINI IN MOSTRA DA “CAMERA” A TORINO
Italiano per la Fotografia- con una personale che mette insieme oltre 500 immagini, molte delle quali inedite e provenienti dalle Collezioni del Politecnico torinese, Archivi Biblioteca Gabetti e Fondo Carlo Mollino. Curata da Francesco Zanot, la rassegna è la più grande e completa mai realizzata sul tema ed evidenzia a fondo il ruolo privilegiato riservato dall’artista alla fotografia, vista sia come fondamentale strumento di documentazione del proprio lavoro, sia come originale e personalissimo mezzo espressivo, “occhio magico” del proprio vivere quotidiano. Figlio d’arte,
Mollino si imbatte e si invischia a tutto corpo nella fotografia fin da bambino, trafficando fra negativi, macchine fotografiche e pellicole da sviluppare, nella camera oscura ricavata dal padre Eugenio (ingegnere, anche lui appassionato fotografo) nella villa di famiglia a Rivoli. Dai primi scatti alle esperienze della maturità, la pura passione diventa per lui – passando fra i canoni obbligatori della
tradizione agli slanci di una sperimentazione che ne fortifica l’immaginario espressivo – atto creativo in cui regole e coscienza critica dettano leggi e riflessioni che lo conducono a pubblicare nel ’49 “Il messaggio della camera oscura”, colossale e – in quegli anni- fondamentale volume per la definitiva consacrazione e accettazione della fotografia fra le arti maggiori. Una dovuta “promozione” frutto di riflessioni e teoremi che ben si riflettono nelle quattro sezioni tematiche (impossibile seguire un criterio cronologico, data la vastità delle immagini esposte) in cui si articola la rassegna di Camera. In “Mille case” – titolo della prima- gli scatti raccontano il mestiere dell’architetto, il tema dell’abitare, con le immagini degli interni e dei primi edifici progettati fra gli anni Trenta e Quaranta, fra cui la casa della Federazione degli Agricoltori a Cuneo e la “mitica” sede della Società Ippica Torinese, progettata e realizzata nel ’40, incautamente demolita dal Comune nel ’60 per scaduta concessione (oggi sull’area sorge il Liceo Classico “Alfieri”) e di cui la mostra presenta un fotomontaggio –prima
versione del moderno photoshop? – realizzato con l’amico fotografo Riccardo Moncalvo. Nella stessa sezione troviamo anche still-life di oggetti domestici di sua creazione e una serie di istantanee riprese durante i suoi viaggi: dalle case in legno e paglia della campagna rumena al Guggenheim Museum di Frank Lloid Wright a New York, dai mulini olandesi alle vedute di Chandigarh, la “City Beautiful” dell’India settentrionale nata dal piano urbanistico disegnato da Le Corbusier. Di ispirazione surrealista e dada, la più libera e imprevedibile dell’intera mostra, è sicuramente la seconda sezione. A partire dal titolo: “Fantasie di un quotidiano impossibile”. Per ribadire ciò che spesso affermava lo stesso Mollino: “Tutto è permesso, fatta salva la fantasia”. Ecco allora immagini di vetrine che tanto avrebbe amato il “fotografo di Parigi” per eccellenza Eugène Atget (prediletto da Man Ray, suo vicino di studio a Montparnasse), oggetti e specchi dalle rare misteriose qualità, fotografie di altre fotografie, i singolari Draghi da passeggio fino alle
preziose immagini tratte dalla pubblicazione “Occhio magico” (da cui il titolo della mostra), voluta dallo stesso Mollino e di cui uscirono solo quattro numeri fra il ’44 e il ’45. All’uomo-artista amante della velocità coraggiosamente e indifferentemente praticata alla guida di un’auto da corsa o di un aereo o sugli sci (Mollino fu anche direttore della Coscuma – Commissione delle scuole e dei maestri di sci) è invece dedicata la terza sezione della rassegna. Titolata alla “Mistica dell’acrobazia”, riunisce fotografie che lo immortalano in passioni sportive da dinamico superman che lo porteranno a progettare (insieme a Mario Damonte e a Enrico Nardi) il famoso “Bisiluro”, automobile con cui partecipò nel ’55 alla “24 ore di Le Mans”. Di 180 fotografie è infine composta la quarta e più ampia sezione “L’amante del duca”, con le famose polaroid dei ritratti femminili (spesso e volentieri “donnine discinte” o di antica postura statuaria) e gli sciatori. In entrambi i casi, prevale l’esercizio di stile, la grammatica dell’artista scrupolosamente attento al controllo della posa, alle sinuose curve degli sci sulla neve e all’ossessiva e armoniosa ripetizione dei gesti.
Più di trent’anni dopo la direzione di Giorgio Strehler, nel 1986/87, la piece teatrale “Elvira” viene riproposta nella regia ed interpretazione di Toni Servillo, che lo sta portando in scena al teatro Carignano per la stagione del Teatro Stabile di Torino
l’apologia del mestiere dell’attore, capace di svelare parole, tecnica e rigore di una pietra miliare del teatro come Louis Jouvet, che affermava che “una messinscena è una confessione “. “Elvira – spiega Toni Servillo – porta il pubblico all’interno di un teatro chiuso, quasi a spiare tra platea e palcoscenico, con un’allieva ed un maestro impegnati in un vero e proprio momento di fenomenologia della creazione del personaggio”. L’allieva di Jouvet si chiamava Paula Dehelly, una giovane interprete che, dopo il diploma, a causa delle sue origini ebraiche, fu costretta ad abbandonare le scene e lasciare Parigi, per tornare a lavorare in teatro ed al cinema solo nel dopoguerra. La stenografa Charlotte Delbo, poco dopo le trascrizioni, entrò nella Resistenza e sopravvisse ad Auschwitz, utilizzando poi l’esperienza con Jouvet ed il ricordo delle battute di Moliere quali risposte attive all’orrore. Toni Servillo, grande interprete, dirige tre giovani attori, Petra Valentini, Francesco Marino e Davide Cirri, in una grande celebrazione del teatro, capace di far conoscere al pubblico la fatica, il dolore e la tensione che si provano affrontando il palcoscenico, insomma la segreta realtà dell’attore, messaggero di poesia e verità.
nei giorni della Repubblica di Weimar, tra barricate e disordini, con la grave crisi economica che attanagliava il paese, con l’estrema sinistra degli spartachisti e l’assassinio di Rosa Luxemburg, con il nazionalsocialismo che correva verso il potere.
Emanuele Gamba propongono, all’insegna della simpatia di Veronica Pivetti, con Viktor und Viktoria uno spettacolo che intenerisce e diverte il pubblico ma che non convince appieno. Ne risulta uno svagato susseguirsi di scenette che hanno vita propria ma che con difficoltà riescono a dar vita ad un affresco unico e compatto, che vogliono farci spiare dal buco della serratura il mondo dello spettacolo con tutti i dolori e le gioie ma che a fatica ce lo sanno rendere con qualche benedetta zampata, che strizzano l’occhio ad un linguaggio (del tutto fuori luogo) e ad una realtà di oggi ma dimenticano di calarsi con convinzione in quella che fu la società del tempo. È come se non si volesse approfondire, sempre che si voglia dare alla Storia il posto che le spetta, se si volesse incentrare ogni sviluppo drammaturgico nell’attenzione al disordine sessuale di chi abita la scena, con un buon spazio ai doppi sensi che inevitabilmente accaparrano risate. Per cui lo spettacolo soffre di una certa “povertà” di scrittura soprattutto e di messa in scena, mentre le
ingombranti scenografie inventate da Alessandro Chiti (due alte quinte girevoli, che altrettanti volenterosi attrezzisti, accomunati negli applausi finali, pensano a manovrare per l’intera serata) sembrano rallentare il tutto. Dentro i costumi davvero belli, questi senza alcuna riserva, di Valter Azzini, la prof amata da mezza Italia – l’altra stravede – è servita malamente dal testo (assai meglio dalle canzoni brechtiane arrangiate da Maurizio Abeni) e non riesce, pur nella ricerca continua dell’effetto più che azzeccato, nella battuta veloce, nello sfruttamento appropriato di quella sua faccia da monella e incasinata cronica che tutti le conosciamo, a convincere appieno. Con lei Giorgio Lupano che ha quasi paura di farsi avanti con le emozioni e i sentimenti del suo conte, Yari Gugliucci che semina un po’ di napoletaneità in terra tedesca, Pia Engleberth, Nicola Sorrenti e l’amabilissima Roberta Cartocci, che comunque, a dispetto delle spiegazzature di cui sopra, la sala stracolma del Gioiello ha alla prima ampiamente applaudito. Si replica sino a domenica 18.
trasportate dalla Siria a Torino, vengono innestate e coltivate in un letto di terra, con la speranza che mettano radici e crescano. La stessa di milioni di rifugiati siriani e un rimando, che addolora, al bisogno di appartenenza e origine. Ma ancor più straziante è il racconto di annullamento della memoria e delle storie individuali contenuto in “342 names”, litografie dedicate alle vittime di sparizione forzata in Turchia a seguito del colpo di stato militare del 1980, i cui nomi vengono sovrapposti l’uno sull’altro, fino a diventare macchie illeggibili. Pasticci grafici. Nomi innominabili, storie senza storia, vite senza vita. Pozzo di incredibile dolore anche le 117 lastre di zinco (“Fantasies of violence”) visibili fronte e retro sulle quali sono incisi segni astratti che riportano immagini di violenza frutto di un’attenta ricerca compiuta dall’artista su giornali internazionali di Turchia, Europa e America. Immagini interrotte dall’astrazione dei segni. Cristallizzate nell’essenzialità di forme che ancor più evidenziano (sul retro compare la narrazione letteraria dell’evento) la macabra rappresentazione dell’atto violento. Di brutture umane che dobbiamo trovare la forza di guardare e di vedere. La stessa che guida Fatma Bucak nella sua ricerca estetica. Nell’urlo (presunto) lanciato al cielo da quella nuda figura femminile che scaglia pietre a vuoto, in quel solitario paesaggio di terra rossa che potrebbe essere il primo seme di un nuovo mondo.

dall’abbandono. Al di là dell’ingresso si trova un giardino disordinato, con erba troppo alta e alberi dai rami invadenti, tutto è in procinto di essere inghiottito dall’edera. Attorno a quello che un tempo doveva essere un elegante cortile interno, si trova un porticato di colonne massicce, dietro le quali gli accessi all’interno della struttura si presentano come portali misteriosi, complici dell’ombra che non fa intuire dove conducano.
miei passi fino a che non raggiungo il vero cuore pulsante: il terrazzo esterno. Qui vi è un balconcino in stile classico, che da una parte si affaccia a strapiombo sulla strada, dall’altra parte – a ridosso della collina- esso è costeggiato da una serie di colonne massicce, oltre le quali si insinua un altro giardino ribelle.
1821, motivo per cui non era molto stimato dai detentori del potere dell’epoca.
Gotenborg, città svedese interessante nella costruzione di un repertorio molto originale in Europa. Cherkaoui diventa, così, artista associato del Festival Torinodanza per i prossimi tre anni di programmazione. Noetic fonda il proprio disegno creativo su elementi aerei supportati da elementi scenici che costituiscono affascinanti geometrie e forme; invece in Icon elementi di argilla danno vita alla scenografia e gli oggetti che ne derivano ancorano pesantemente al suolo forme e movimenti. In entrambi i lavori si celano domande universali. In “Icon” il coreografo si pone la questione del modo in cui la società contemporanea senta la necessità di crearsi sempre nuovi miti, vere e proprie “icone”, per poi distruggerle e sostituirle, in una spirale infinita. In ” Noetic” ci si interroga sul rapporto tra scienza e coscienza, forme fisiche e forme della mente. Il tema della contaminazione sarà al centro di questa edizione del festival, come nello spettacolo pluripremiato “The Great Tamer” di Dimitris Papaioannou, in programma alle Fonderie Limone dal 20 al 22 settembre prossimi, cui si aggiungerà la video installazione “Inside”, che sarà presentata nei nuovi spazi delle Ogr, sempre ad opera dell’ artista greco. The Great Tamer, il grande domatore, si richiama al concetto di Tempo, che, secondo la concezione omerica, agisce come domatore di illusioni. Siamo al crocevia tra danza, teatro ed arti visive, in una creazione che ben riflette la genialità del suo autore, Papaioannou, noto al grande pubblico per aver curato le Cerimonie di apertura e chiusura delle Olimpiadi di Atene del 2004.
A casa tutti bene – Commedia. regia di Gabriele Muccino, con Stefano Accorsi, Massimo Ghini, Stefania Sandrelli, Valeria Solarino e Gianmarco Tognazzi. Una ricorrenza da festeggiare, le nozze d’oro dei nonni, una permanenza forzata, il traghetto bloccato e l’isola di Ischia a fare da sfondo: gli antichi ristoratori, i tre figli che hanno preso strade diverse, le mogli attuali e quelle di un tempo, il cugino solo e poveraccio con debiti e un figlio in arrivo, i rancori, le confessioni e le urla, il ritratto di una famiglia italiana in perfetto stile Muccino, figliuol prodigo tornato a casa dopo i (quasi totali) successi d’oltreoceano. Ma Muccino rimane Muccino, con le tante tessere di una storia, con il suo nervoso montaggio, con una sceneggiatura che non brilla, con certi attori presi nel vortice del dramma ad ogni costo, con altri che continuano a ripetere i loro soliti personaggi. Però un palmarès alle prove di Massimo Ghini e Valeria Solarino, all’invasione altissima del mai così bravo Gianmarco Tognazzi. Durata 105 minuti. (Massaua, Lux sala 2, The Space, Uci)
Garcia e Ary Abittan. Come se dicessimo: dal dire al fare. C’è uno scrittore, un intellettuale decisamente aperto, punto di riferimento della scena letteraria, sposato ad una ereditiera lontanissima dalla realtà che la circonda. È il fortunato autore di un libro, “Benvenuti a casa mia”, in cui auspica che ogni suo lettore, soprattutto i ricchi e benestanti, accettino di aprire le loro abitazioni a chi ne ha davvero bisogno. Ma se il suo avversario lo sfida a mettere in pratica, lui per primo, quanto il libro consiglia, se quella sera stessa qualcuno busserà alla sua porta, che cosa potrà succedere? Durata 92 minuti. (Greenwich sala 1, The Space, Uci)
Chiamami col tuo nome – Drammatico. Regia di Luca Guadagnino, con Timothée Chalamet, Armie Hammer e Amira Casar. Nei dintorni di Crema, il 1983: come ogni anno il padre del diciassettenne Elio, professore universitario, ospita nella propria casa un borsista per l’intera estate. L’arrivo del disinvolto Oliver non lascia insensibile il ragazzo, che scopre il sesso con una coetanea ma che poco a poco ricambiato approfondisce la propria relazione con l’ospite. Un’educazione sentimentale, i libri e la musica, Eraclito e Heidegger, Bach e Busoni, l’ambiente pieno di libertà della sinistra, i discorsi insperati di un padre, il tempo scandito dalle cene e dalle discussioni su Craxi e Grillo, il vecchio factotum che di nome fa virgilianamente Anchise, passeggiate e discussioni, corse in bicicletta, ritrovamenti di statue in fondo al lago, nuotate in piccoli spazi d’acqua, felici intimità, in una delicatezza cinematografica (la macchina da presa pronta ad allontanarsi velocemente da qualsiasi eccessivo imbarazzo) che assorbe nei temi (“Io ballo da sola”) e nei luoghi (i paesini, i casali, la calura di “Novecento”) il passato di Bertolucci o guarda al “Teorema” pasoliniano. L’ultima opera di un regista (“Io sono l’amore”, “A bigger splash”) che con la critica di casa nostra non ha mai avuto rapporti troppo cordiali, osannato all’estero. La sceneggiatura firmata da James Ivory e tratta dal romanzo di André Aciman ha conquistato meritatamente l’Oscar. Durata130 minuti. (Eliseo blu)
per la famiglia reale (qualcuno ha visto il ritratto del celebre Norman Hartnell), per le stelle del cinema, per ereditiere, debuttanti e dame sempre con lo stile distinto della casa di Woodcock. Il grande sarto è anche un incallito e incredibile dongiovanni, nella cui vita le donne, fonte d’ispirazione e occasione di compagnia, entrano ed escono: fino a che non sopraggiunge la presenza della semplice quanto volitiva, a modo suo spregiudicata, Alma, una giovane cameriera di origini tedesche, pronta a diventare parte troppo importante della vita dell’uomo, musa e amante. L’ordine e la meticolosità, doti che si rispecchiano meravigliosamente nella fattura degli abiti e nella condotta di vita, un tempo così ben controllata e pianificata, vengono sovvertiti, in una lotta quotidiana tra uomo e donna. Film geometrico e algido quanto perfetto, forse scontroso, eccezionale prova interpretativa per la Manville e per Day-Lewis, forse il canto del cigno per l’interprete del “Mio piede sinistro” e di “Lincoln”, convinto da oggi in poi ad abbandonare lo schermo. Oscar per i migliori costumi. Durata 130 minuti. (Centrale in V.O., Due Giardini sala Nirvana, Reposi, Romano sala 2)
La forma dell’acqua – The shape of water – Fantasy. Regia di Guillermo del Toro, con Sally Hawkins, Doug Jones, Octavia Spencer, Michael Stulhbarg e Michael Shannon. Leone d’oro a Venezia, tredici candidature agli Oscar, arriva l’attesissima storia del mostro richiuso in una gabbia di vetro all’interno di un laboratorio governativo ad alta sicurezza (siamo negli States, in piena guerra fredda, il 1962) e del suo incontro con una giovane donna delle pulizie, Elisa, orfana e muta, dei tentativi di questa di salvarlo dalla cupidigia dei cattivi. Avrà l’aiuto degli amici (il disegnatore gay, lo scienziato russo pieno di ideali, la collega di colore), cancellando la solitudine e alimentando i sogni, in un’atmosfera che si culla sulle musiche di Alexandre Desplat, contaminate da quelle dei grandi del jazz degli anni Sessanta. Durata 123 minuti. (Ambrosio sala 2, Massaua, Eliseo Grande, Massimo sala 1 anche V.O., Reposi, The Space, Uci)
costa orientale per studiare e dedicarsi al cinema. Anche Christine sogna di iscriversi ad una università nella parte opposta degli States, sottrarsi alla madre autoritaria, alla figura del padre senza lavoro, a quel piccolo mondo che la circonda. S’inventa storie, fa fronte alle prime prove d’amore, dal risultato negativo, fa di tutto per mettersi in buona luce agli occhi dei compagni di scuola che sembrano valere più di lei, ricavandone delusioni, s’appiccica quel nome del titolo: quale sarà il suo futuro? Un ritratto femminile già visto altre volte, che cerca continuamente sfide interpretative e di regia: ma un film che non lascerà un grande ricordo di sé, a bocca asciutta nella notte degli Oscar. Durata 94 minuti. (Eliseo Rosso, Nazionale sala 2, Uci)
Maria Maddalena – Drammatico. Regia di Garth Davis, con Rooney Mara, Joaquin Phoenix e Chiwetel Ejiofor. Una visione nuova nei confronti di una Maddalena vista come la peccatrice e la prostituta, figura alimentata per secoli. Il regista australiano (che tuttavia ha scoperto gli ambienti adatti in Sicilia) vede questa donna come un esempio di femminismo ante litteram, colei che sfugge ai compiti di moglie e madre che la società del tempo inevitabilmente le impone, colei che stabilisce di seguire il Maestro e di abbracciarne in modo completo la dottrina: quella che tra i tanti discepoli è scelta dal Maestro ad assistere alla sua Resurrezione. Guardando anche alle figure di Giuda e di Pietro, messi di fronte ad un messaggio che sconvolgerà il mondo ma incapaci di assumerne l’esatta interpretazione. Durata 120 minuti. (Ambrosio sala 1, Massaua, Greenwich sala 1, Ideal, Reposi, The Space, Uci)
Di Luigi, Miriam Leone, Barbara Bouchet e Eros Pagni. Un giovane e incorruttibile finanziere e una bella restauratrice, con un paio di aiutanti al seguito, che vive grazie alla pensione della nonna visto che lo Stato tarda a riconoscerle i quattrini che le deve per tutto il lavoro che ha svolto. E se la vegliarda passa a miglior vita? Spetterà alla ragazza ingegnarsi per la sopravvivenza, l’elettrodomestico del titolo fa al caso suo, le amiche un piccolo aiuto non lo negano e la pensione della nonna si potrà continuare a percepire. Durata 100 minuti. (Massaua, Greenwich sala 2, Reposi, The Space, Uci)
Nome di donna – Drammatico. Regia di Marco Tullio Giordana, con Cristina Capotondi, Valerio Binasco, Adriana Asti e Bebo Storti. Nina, madre di una bambina, trova lavoro in una elegante residenza per anziani, nel territorio di Cremona, dove il direttore, spalleggiato da un sacerdote fuori da ogni regola di accoglienza, fa il buono e cattivo tempo. Sulle dipendenti soprattutto, che ha molestato e che molesta, che continuano ad accettare. Nina rompe gli schemi ormai affermati, denuncia, cerca disperatamente ma inutilmente l’appoggio delle colleghe. Un tema quanto mai attuale, pronto a far discutere. Come è consuetudine per le storie raccontate da Giordana, da “Maledetti vi amerò” alla “Meglio gioventù”. Durata 98 minuti. (Due Giardini sala Ombrerosse, Uci)
che lo tollera, mentre le truppe tedesche hanno iniziato a invadere i territori europei, Churchill combatte in una difficile quanto decisiva scelta, se concludere un armistizio con la Germania dopo la repentina caduta della Francia oppure avventurarsi nell’intervento di un conflitto armato. Mentre si prepara l’invasione della Gran Bretagna, si deve pensare alla salvezza del paese, grazie ad una pace anche temporanea, o l’affermazione con una strenua lotta degli ideali di libertà: una delle prime mosse fu il recupero dei soldati intrappolati sulle spiagge di Dunkerque (come già ad inizio stagione ci ha insegnato lo stupendo film di Christopher Nolan). Oldman s’è visto per il ruolo assegnare un Globe, ha meritatamente conquistato poche sere fa l’Oscar, un’interpretazione che colpisce per la concretezza, per gli scatti d’ira e per quel tanto di cocciutaggine e lungimiranza britannica che in quell’occasione s’impose. Uno sguardo al trucco dell’interprete: un secondo Oscar al film, premio agli artefici e alle tante ore di perfezione ogni giorno di lavorazione cui l’attore s’è sottoposto. Durata 125 minuti. (Greenwich sala 3)
adrenalinica trilogia, dal momento che lo scrittore Jason Matthews, un ex agente della Cia che ha parecchie cose da raccontare dovute a una più che trentennale lotta sul campo, ha anche pubblicato, oltre a questo primo romanzo, “Il palazzo degli inganni” e “The Kremlin’s Candidate”. Con il visino, la carica erotica e l’escalation senza freni della bella Jennifer già pluripremiata e oscarizzata nonostante i suoi “soli” ventisette anni, la ballerina del Bolshoi Dominika, in una guerra fredda che sembra affatto terminata, dovrà vedersela con un intrepido agente della Cia sotto copertura al di là della Cortina, ma si sa che in questi incontri/scontri possono farsi strada crocevia amorosi. Dirige il regista di “Hunher Games”, intriganti i panorami che si inseguono tra Atene e Mosca, tra Helsinki e Washington. Durata 139 minuti. (Massaua, Ideal, Lux sala 2, Reposi, The Space, Uci)
La terra buona – Commedia drammatica. Regia di Emanuele Caruso, con Fabrizio Ferracane, Giulio Brogi, Lorenzo Pedrotti e Viola Sartoretto. Tre storie che s’intrecciano per confluire insieme in un angolo di serenità. La giovane Gea, malata terminale, all’insaputa della famiglia si rifugia con un amico, forse innamorato di lei, in una valle piemontese al confine con il territorio svizzero. Là, in una borgata antica, fatta di case di pietra, dimenticata, vivono un vecchio frate eremita che ha raccolto negli anni una ricchissima biblioteca e un medico, in cerca di medicamenti alternativi, senza risposte certe, e per questo cacciato dalla civiltà che lo ha giudicato e condannato. Un’altra scommessa per l’autore che tre anni fa con “E fu sera e fu mattina” divenne un caso cinematografico, ovvero budget ridotto all’osso e grande successo per i cinefili doc. Durata 110 minuti. (Reposi)
York Times aveva tra le mani nel 1971 un bel pacco di documenti comprovanti con estremo imbarazzo la cattiva politica di ben cinque presidenti per quel che riguardava il coinvolgimento degli States nella sporca guerra nel sud-est asiatico. Il governo proibì che fossero dati alle stampe. Se ne fece carico il direttore del Washington Post (Tom Hanks), sfidando comandi dall’alto e un non improbabile carcere: ma a nulla sarebbe valsa quella voce pure autorevole, se la voce ancora più forte non fosse venuta dall’editrice Katharine Graham, all’improvviso ritrovatasi a doversi porre in prima linea in un mondo esclusivamente maschile, buona amica di qualche rappresentante dello staff presidenziale (in primo luogo del segretario alla difesa McNamara) e pur tuttavia decisa a far conoscere a tutti quel mai chiarito pezzo di storia. L’autore del “Soldato Ryan” e di “Lincoln” si avvale di una sceneggiatura che porta la firma prestigiosa di Josh Singer (“Il caso Spotlight”), della fotografia di Janusz Kaminski (“Schindler’s list”), dei costumi di Ann Roth. Durata 118 minuti. (F.lli Marx sala Harpo, Greenwich sala 1)
Tomb Raider – Avventura. Regia di Roar Uthaug, con Alicia Vikander e Dominic West. Dopo l’avventura firmata da Angiolina Jolie, ecco nuovamente Lara Croft. La quale decide di partire, dopo l’insperato ritrovamento di un quaderno d’appunti, per una sconosciuta isola del mar del Giappone alla ricerca di suo padre dato per scomparso. Durata 115 minuti. (Massaua, Ideal, Lux sala 1, Reposi, The Space, Uci anche in V.O.)
Abbiamo partecipato all’inaugurazione della mostra “The Art of Rights” dell’artista Sabrina Rocca. 

https://www.youtube.com/watch?v=0tiE9I-26K8
di lettura del suo lavoro: “Se vuoi entrare in possesso dell’invisibile, penetra il più profondamente possibile nel visibile”.
suggerendoci, con apparente leggerezza, una visione ottimistica ed una filosofia positiva della vita. Nella serie Gioie dell’infanzia , però, i suoi occhi guardano gli oggetti e i feticci del tempo perso, quel tempo in cui ognuno di noi era felice per le piccole gioie della vita di tutti i giorni, quando era sufficiente la magia di una pistola ad acqua o di una bolla di sapone per attivare un sorriso entusiasta. 
Unite, l’arte diventa uno strumento per contribuire a costruire consapevolezza e conoscenza dei diritti. Sabrina è una formidabile story teller anzi la definirei una story and right teller: con i suoi quadri racconta storie ed evoca i diritti: l’uguaglianza di genere, la libertà, l’esclusione sociale, la povertà, il diritto all’istruzione. Il binomio arte-diritto non è circoscritto all’opera di Sabrina Rocca, da ultimo mi sovviene il Calendario Lavazza 2018 “2030 What are you doing?” che attraverso 17 scatti del celebre fotografo Platoon identifica e valorizza il tema della crescita sostenibile e delle azioni per contrastare i cambiamenti climatici. Ma potrei andare avanti a lungo citando Shepard Fairey meglio noto come Obey, autore del manifesto elettorale di Obama “Hope”, e il cosidetto artista invisibile Cinese Liu Bolin, noto per le sue performance hiding in the city , in cui tocca temi universali non solo dei diritti umani ma anche del rapporto tra pensiero e potere politico. In un contesto come quello nel quale viviamo siamo sempre più influenzati dai social
media che ci invitano alla sintesi; la narrazione avviene sempre più attraverso le immagini che hanno un’efficacia comunicativa assai più diretta ed immediata delle parole: dunque l’immagine, sia essa una foto, un video, un dipinto, e’ in grado di rappresentare con potenza a volte inaspettata concetti complessi ed astratti come quelli giuridici. E’ una bella sfida per chi, come me, vive di parole, quella di tradurle in un’immagine: la più mirabile delle sintesi. Forse è per questo motivo che tra tutti i social media preferisco Instagram che mi porta ad un’esercizio intellettuale sempre gratificante e, poiché mi sembra che l’immagine, spesso scattata semplicemente con il cellulare, abbia come interlocutore il mondo intero mi induce a scrivere “caption”, didascalie in inglese, così l’esercizio è duplice!
Federica Ballario Cristiana Sardo e altri collaboratori dopo la ristrutturazione dei locali, abbiamo ospitato una mostra di fotografie da noi selezionate dagli archivi de “La Presse”. Si trattava foto che hanno segnato la storia recente come quella della Strage dei Soldati Italiani a Nassiriya che è negli occhi e nel cuore di tutti: il soldato in mimetica davanti alle macerie con la mano destra alla testa in un gesto che racchiude in sé l’orrore per la guerra. Non dimentichiamo che i nostri soldati erano in Iraq in operazione di peacekeeping, in ossequio di una risoluzione del
deformazione professionale?
intenti, di essere strumento per la realizzazione dei diritti. Per concludere anche noi avvocati – dice sorridendo – abbiamo risposto alla “call to action” del Segretario Generale Antonio Guterres: in fondo ospitare in studio mostre di artisti sensibili ai temi sociali come Sabrina Rocca contribuisce all’obiettivo di diffondere la conoscenza dei 17 obiettivi posti dall’ONU per la crescita sostenibile e alla divulgazione dei diritti umani.
Belleville , storico quartiere nel XX° arrondissement parigino, uno dei più popolari della “Ville Lumière”, s’innalza come Montmartre su uno dei colli più alti della città, sviluppandosi tra case e piccole vie tra il parco delle Buttes- Chaumont e il grande “cimetière de l’Est”, il Père Lachaise
Piccola, minuta come un “passero” (venivano chiamati così i bambini che vivevano nelle strade del quartiere), passò l’infanzia accompagnando con la sua voce le esibizioni del padre contorsionista per poi diventare la celebre Édith Piaf, l’usignolo di Francia. In rue de Belleville una targa ricorda la casa dove “nacque il 19 dicembre 1915 nella più grande miseria Edit Piaf, la cui
voce, più tardi, sconvolgerà il mondo”. Ma la collina di Belleville è conosciuta anche come quella dei martiri della Comune, delle barricate e delle strade che conservano tracce e memorie di lotte e insurrezioni. Fu lì che si concluse l’ultima resistenza di quello che Karl Marx definì “il primo governo operaio della storia”, con i combattimenti tra le tombe del Père-Lachaise. Nata come forma estrema di reazione allo sfascio del Secondo Impero (la guerra franco-prussiana, dopo la sconfitta francese a Sédan, volgeva a favore di Bismarck) la Comune s’impose come un moto spontaneo di rivolta, cui fece seguito un concreto tentativo di dare allo slancio iniziale la forma di un governo popolare. Dal 18 marzo al 28 maggio del 1871, in settantadue giorni, la Comune mise in atto un programma d’impronta socialista con misure a beneficio dei lavoratori come l’abolizione del lavoro notturno e l’occupazione degli
alloggi sfitti, la separazione tra Stato e Chiesa, la socializzazione delle fabbriche abbandonate dagli imprenditori, il riconoscimento delle coppie di fatto, la creazione di una scuola pubblica, laica e gratuita. Tra gli obiettivi della Comune, c’era anche la riappropriazione della città, che le trasformazioni di Haussmann avevano iniziato a rendere estranea agli strati popolari. Misure radicali che però non entrarono quasi mai in vigore in quei tre mesi scarsi. Cosa sarebbe diventata la “Commune de Pàris”? Avrebbe mantenuto il suo profilo di democrazia partecipata dal basso o si sarebbe trasformata in dittatura? Difficile dirlo perché la storia non si fa con i se e con i ma. E’ certo che vi furono delle frizioni tra le varie componenti del governo rivoluzionario ma l’esperimento finì in tragedia con la violenta repressione da parte dell’esercito regolare, ordinata dall’assemblea nazionale riunita a Versailles.Dal 2 aprile in poi Parigi fu assediata e bombardata dalle truppe governative mandate da Adolphe Thiers , il primo presidente della Terza Repubblica
francese. I soldati di Versailles entrarono nella capitale il 21 maggio 1871: iniziava la “semaine sanglante”, la tristemente famosa “settimana di sangue“. Sei giorni dopo, sabato 27 maggio, il Peré Lachaise fu teatro di uno degli ultimi, feroci scontri , durante i quali precipitarono i sogni e le speranze della Comune di Parigi. Obbedendo agli ordini di Thiers, i reparti dei fucilieri di marina provenienti da Charonne e comandati dal generale Vinoy invasero i viali del grande
cimitero dell’Est dove si erano trincerati poche centinaia di federati decisi a battersi fino alla morte per difendere le proprie idee. Gli uomini della Comune si difesero tra le tombe, dietro ogni albero, al riparo di cripte e monumenti. Finite le munizioni, sotto una pioggia battente, i combattimenti proseguirono all’arma bianca fino a notte inoltrata. Gli scontri più violenti si consumarono tra il 48° e il 49° settore , soprattutto nell’area nord occidentale del cimitero, attorno al Rond-point des travailleurs Municipaux, dove sono sepolti Honoré de Balzac e Gerard de Nerval, Eugène Delacroix e lo storico Félix Féris, barone de Beaujour. Ancora oggi è possibile scorgere tracce dei proiettili su alcune tombe come quella di Charles Nodier, lo scrittore che fu precursore del Romanticismo.Le Monde Illustré, nell’occasione, scrisse: “L’orribile dramma ebbe
fine al cimitero, come nell’ultimo atto di Amleto, tra tombe scoperchiate, colonne rovesciate, urne profanate, statue e lastre divelte a formare l’ultima barricata. Lottarono passo dopo passo su un terreno disseminato di corone in onore di personaggi immortali, nella fossa comune, con le ossa fino alla caviglie, fin dentro le tombe di famiglia dove la baionetta trafiggeva i vivi infilzandoli assieme ai morti”. I 147 federati sopravissuti, furono immediatamente condannati a morte da una corte marziale straordinaria insediata sul posto, tra le tombe. Immediatamente fucilati, i loro corpi vennero gettati, assieme a circa ventimila altri passati per le armi e provenienti da tutta Belleville, in grandi fosse comuni scavate ai piedi del muro che porta il loro nome, nel 76° settore del Peré Lachaise . In realtà il muro sul quale campeggia la targa “Aux mort de la Commune 21-28 Mai 1871” fu ricostruito successivamente e con i resti del muro originario venne edificato un monumento,“Il muro delle Rivoluzioni”, a loro dedicato dallo scultore Paul Moreau-Vauthier. L’opera si trova all’esterno della cinta cimiteriale, in Square Samuel de Champlain 18, nell’avenue Gambetta. Con un po’ d’attenzione si potrà leggere una citazione di Victor Hugo: “Ce que nous
demandons à l’avenir, ce que nous voulons de lui, c’est la justice ce n’est pas la vengeance“ (Ciò che noi domandiamo all’avvenire, ciò che vogliamo da lui è la giustizia, non la vendetta). Parole quanto mai giuste, perfettamente opposte allo spirito e all’intento di colui che all’epoca ordinò di soffocare nel sangue l’insurrezione popolare, agendo con uno spirito vendicativo senza scrupoli, violento e repressivo. Su Adolphe Thiers, soprannominato “le serpent à lunettes ” e “le croque-mort de la Nation “, il becchino della nazione, il giudizio più duro fu quello pronunciato dal sindaco di Montmartre, Georges Clemenceau. Giornalista e repubblicano, presidente del consiglio e deputato dell’Assemblée Nazionale, Clemenceau durante i giorni della Comune definì Thiers “il prototipo del borghese crudele ed ottuso che sguazza nel sangue senza battere ciglio“.Oltre 43 mila federati furono fatti prigionieri e condannati dai consigli di guerra a morte o ai lavori forzati nei bagni penali (soprattutto in Nuova Caledonia, territorio francese d’Oltremare nel sud del Pacifico). Alla Comune furono imputate circa 800 vittime mentre secondo le cifre ufficiali tra i ranghi dei federati furono uccise più di 30 mila persone. Le truppe di Versailles eseguirono
fucilazioni in serie, senza processi. A caldo, il giornale inglese “Evening standard” constatò: “Dubitiamo si possa mai stabilire la cifra esatta della carneficina che continua. Persino per gli autori di queste esecuzioni deve essere impossibile dire quanti cadaveri hanno accumulato”.Resta il fatto, tutt’altro che secondario, di un fatto importante che ha segnato in maniera profonda la storia e la memoria collettiva della Francia. Eugène Pottier, il poeta che nel giugno del 1871, nascosto in una soffitta di Parigi per sfuggire alla repressione che seguì alla sconfitta della Comune, compose il famoso inno “L’Internazionale”, scrisse : “L’hanno uccisa a colpi di fucile. A colpi di mitraglia. E avvolta con la sua bandiera nella terra argillosa. E l’accozzaglia di boia panciuti si credeva più forte. Tutto ciò non impedisce che la Comune non sia morta!”