CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 756

Il signor Brusa e il Duomo di Milano

A monte della frazione di Candoglia, nel comune di Mergozzo, sulla sinistra del fiume Toce, proprio all’imbocco della Val d’Ossola, si trovano le cave dalle quali proviene il marmo del Duomo di Milano. L’idea di usare quella pietra bianca, screziata di rosa, al posto del mattone per la costruzione della cattedrale fu di Gian Galeazzo Visconti che, per rifornirsi della materia prima, fondò la “Veneranda Fabbrica del Duomo”. Il Signore di Milano, affascinato dalla bellezza cristallina del marmo, cedette in uso alla Fabbrica le cave di Candoglia, concedendo altresì il trasporto gratuito dei marmi fino al capoluogo lombardo,  attraverso le strade d’acqua. Era il 24 ottobre 1387. E, da allora, per secoli, da quelle cave si è estratto il marmo che è servito a costruire il monumento simbolo del capoluogo lombardo, dedicato a Santa Maria Nascente, sormontato dalla madonnina che venne innalzata sulla guglia maggiore del Duomo negli ultimi giorni di dicembre del 1774. Si trattava di un lavoro faticoso, ritmato da picconi, mazze, punte, cunei e palanchini. Così, partendo dall’impressionante caverna della cava Madre, la montagna è stata risalita, scavandola nel ventre, tagliando i blocchi di pietra con il filo in metallo. Il trasporto via acqua del materiale avveniva dal Toce al Lago Maggiore, lungo il Ticino e il Naviglio Grande per finire nel cuore della  città fino alla darsena di S. Eustorgio, a Porta Ticinese. Così, grazie ad un ingegnoso sistema di chiuse, realizzato dalla “Veneranda Fabbrica”, il prezioso carico arrivava fino a poche centinaia di metri dal cantiere della Cattedrale. I barcaioli, per entrare in città senza pagare il dazio, utilizzavano una parola d’ordine – “Auf” – che in realtà era l’abbreviazione di Ad usum fabricae, cioè ad uso della Fabbrica, con la quale potevano passare senza versare il tributo imposto. In Lombardia, e non solo, è rimasta traccia di quell’usanza nell’espressione “A ufo” , intesa come “gratuitamente”. Chissà, poi, perché, a differenza del “gratis”, si è sempre più connotata con un profilo negativo, ma questa è un’altra storia… Il Cavalier Agenore Brusa, grossista di legname, proveniva da una delle famiglie che avevano, per intere generazioni, fornito il materiale alla Veneranda, un fatto che lo rendeva oltremodo orgoglioso. “Bei tempi quelli, caro Giovanni. Mio nonno, prima, e mio padre poi hanno lavorato per la Fabbrica di Candoglia tutta la vita. E ora, dopo che anch’io ho fatto la mia parte, tocca al mio Giulio tenere alto il buon nome dei Brusa” era solito ripetere all’amico Ambrogini. Il ragionier Giovanni Ambrogini era il braccio destro del signor Brusa. Da oltre trent’anni, senza mancare un giorno dall’ufficio, teneva con scrupolo la contabilità della “Brusa & Figli”. Era diventato, per Agenore, quasi un fratello. E come tale lo trattava, chiedendo consigli e ascoltandone i punti di vista che, immancabilmente, teneva in gran considerazione. Per il resto, grazie all’impegno di tutti, la “Brusa & Figli” era un’azienda più che solida e al fidatissimo contabile l’anziano titolare garantiva un adeguato stipendio, commisurato ai suoi servigi. Da troppo tempo, per mille ragioni, il signor Agenore non si recava a Milano, in visita al Duomo. L’ultima volta, con uno sforzo di memoria, immaginò fosse stata quand’era nato il piccolo Giulio. Ma da allora, di anni n’erano passati ben trentadue. “Occorre andarci, a Milano”, comunicò al ragioniere. “E ci andremo insieme, caro Giovanni. Così vedrai anche tu come sono conosciuto in quella città. Devi sapere che è proprio grazie alla mia attività al servizio della Fabbrica del Duomo che mi hanno insignito del titolo di Cavaliere del Lavoro”. Agenore teneva moltissimo a quel titolo e amava, come lui stesso affermava, “vestirsi con l’abito giusto”, quello “da Cavaliere”, una divisa che, per l’imprenditore, equivaleva a pantaloni e giacca di fustagno scuro, camicia bianca e corto cravattino nero, scarpe comode e, in testa, un vecchio “Panizza” di feltro al quale teneva molto, regalatogli dal padre Igino. I due partirono dalla stazione di Verbania-Fondotoce con il treno delle 6,29. Era un sabato e non faticarono a trovare posto a sedere sul treno mezzo vuoto, dato che gran parte dei pendolari che si recavano ogni giorno a Milano per lavoro avevano terminato la loro settimana. A Porta Garibaldi presero la linea verde della metropolitana fino a Cadorna e da lì, con la linea rossa, giunsero a destinazione alla fermata “Duomo”. Uscendo dalla metropolitana, in cime alle scale, si trovarono davanti l’imponente e gotica sagoma del Duomo. “Ah, che meraviglia”, esclamò estasiato il Cavalier Brusa, agitando la mano destra dove, tra indice e medio, teneva l’immancabile sigaro toscano. Il ragionier Ambrogini, estrasse dalla tasca un piccolo bloc-notes , leggendo i suoi appunti. “La quarta chiesa in Europa per superficie, dopo San Pietro in Vaticano, l’anglicana Saint Paul di Londra e la cattedrale di Siviglia ;la più importante dell’arcidiocesi milanese, sede della parrocchia di Santa Tecla..”. Il buon Giovanni, preciso come un ferroviere svizzero, si era documentato ben bene. Al Cavaliere quell’accuratezza, diligente e meticolosa, piaceva molto. In molti consideravano l’Ambrogini un pignolo, persino un po’ pedante, ma ciò che i più consideravano un difetto, per Agenore Brusa rappresentava una qualità. E che qualità: cura, scrupolo e rigore! Il massimo che potesse desiderare dal suo più stretto e fidato collaboratore. Lo ascoltava, ammaliato, senza dimenticarsi di ricambiare – con un cenno di capo – al saluto che gli avevano rivolto alcuni passanti. “Ci sono voluti cinque secoli per costruirlo, durante i quali  si sono avvicendati nella Fabbrica del Duomo architetti, scultori, artisti e maestranze, provenienti da tutta Europa. Il risultato è un’architettura unica, una felice fusione tra lo stile gotico d’oltralpe e la tradizione lombarda. Con una decorazione impressionante di guglie, pinnacoli, cornici  e un patrimonio immenso di oltre tremila statue. E sulla più alta delle 145 guglie, la celeberrima Madonnina che non è d’oro, ma ricoperta di fogli d’oro”. Il ragioniere era, come sempre, sintetico ed esauriente. A quel punto il Cavalier Brusa lo esortò a varcare il doppio portale in bronzo.“Forza, Giovanni. Andiamo a vedere anche all’interno com’è stato magistralmente lavorato il nostro marmo! A proposito, hai visto che persone ben educate? Salutano, cortesemente. Si vede che anche qui conoscono i Brusa, con tutto quello che abbiamo fatto per Milano, eh?”. Spento il toscano sotto la suola della scarpa e riposto in tasca il resto del sigaro (Brusa era un parsimonioso e il suo motto era “non si butta via niente”), entrarono in Duomo, rimanendo a bocca aperta davanti alle cinque navate. Quella centrale, poi, era davvero ampia e alta e ai lati si potevano ammirare magnifiche vetrate istoriate che raffiguravano scene religiose. Una di esse, superba, rappresentava il Giudizio Universale. Il Cavalier Brusa, informato dal fedele Giovanni, di ciò che conteneva la teca sopra il coro, voleva a tutti i costi ammirare quel chiodo che si riteneva provenisse della croce di Gesù e si avviò in quella direzione con ampie falcate. Mentre camminava, s’accorse di essere oggetto di insistenti sguardi da parte delle persone che incontrava. Alcuni sgranavano gli occhi, altri si davano di gomito. Mentre avanzava impettito, gli venne incontro un sacerdote in chiaro stato d’ansia, visibilmente affannato. Il prelato , rivolto al Cavaliere, ripeteva concitato la stessa breve frase, in milanese: “  Sciur, al Brüsa”, “Sciur, al Brüsa”, “Sciur, al Brüsa”, … Agenore Brusa, voltandosi verso il ragionier Ambrogini, disse soddisfatto: “Vedi, Giovanni. Qui mi conoscono tutti”. E solo in quel momento il povero ragioniere s’accorse che la marsina del suo principale stava andando in fiamme. Evidentemente il toscano non era stato spento bene e si era ravvivato nella tasca. Il prete, sicuramente lombardo e certamente alterato, aveva lanciato l’allarme rivolgendosi al Cavaliere in dialetto meneghino e quel “Sciur, al Brüsa”, più che ad una individuazione dell’identità del signor Agenore equivaleva all’allarmante fumo che proveniva dal vestito del medesimo, ignaro, visitatore del Duomo. Così, spento l’incendio, i due lasciarono la cattedrale e Milano, frastornato e ammutolito, Giovanni Ambrogini, contrariato e scuro in volto, il Cavaliere che, una volta tanto e suo malgrado, era stato costretto a venir meno al suo principio del “non buttar via niente”, lasciando in un bidone della spazzatura la giacca bruciacchiata e quel resto di sigaro che aveva tenuto per il viaggio di ritorno.

Marco Travaglini

“Figure dell’Italia civile” con Castellani a Finale Ligure

Giovedì 3 agosto alle ore 21, in piazzale Buraggi, sul Lungomare di Finale Ligure, il prof. Valentino Castellani, docente universitario e già Sindaco di Torino ed il giornalista Sandro Chiaramonti presenteranno il libro di Pier Franco Quaglieni “Figure dell’Italia civile”, Golem Edizioni
La presentazione di Finale aprirà le presentazioni estive del libro che si terranno il 7 agosto ad Alassio, il 22 ad Andora per proseguire in Versilia, a Selinunte, a Valdieri e a Pollone. Organizza l’incontro la Libreria “Centofiori” per il ciclo “Un libro per l’estate”.  Il nuovo libro di Quaglieni raccoglie trenta ritratti di personalità italiane delle storia recente da Einaudi ad Amendola, da Calamandrei a Chabod, da Jemolo a Bobbio,da Montanelli, da Luraghi a Ciampi, da Spadolini a Romeo, da Olivetti a Pininfarina, da Tortora a Pannella. Ne viene fuori un ritratto dell’Italia civile che l’autore ritiene vada riscoperta e valorizzata come patrimonio irrinunciabile anche per il futuro delle nuove generazioni. La storia ligure Bianca Montale ha visto nel libro di Quaglieni un ” grande equilibrio storico” che gli evita di cadere nell’agiografia o nella critica di parte. Dino Cofrancesco, recensendo il libro, ha detto che Quaglieni “non fa sconti neppure agli amici”. Il libro segue un percorso storico, mai scontato in cui l’autore narra dei suoi incontri e delle sue amicizie con tanti dei protagonisti di cui scrive. Il libro ha avuto il riconoscimento speciale del Premio Pontremoli e recentemente del Premio “Cesare Pavese “che verrà consegnato all’autore il 27 agosto a Santo Stefano Belbo.

Addio a Enzo Bettiza l’italiano austro-ungarico

di Pier Franco Quaglieni

Con la scomparsa a novant’anni di Enzo Bettiza, il giornalismo italiano perde una delle sue firme più autorevoli e “La Stampa” il suo ultimo editorialista importante che nell’ultimo decennio e’ comparso pochissimo sulle pagine del quotidiano di via Lugaro. Bettiza era un uomo autorevole e l’autorevolezza non gli venne con l’età ma era in lui qualcosa di innato. Autorevole e quindi indipendente e non disposto a scrivere a comando. Ebbe il coraggio di scontrarsi con il direttore – tiranno, suocero di Scalfari,Giulio De Benedetti che cerco’ inutilmente di umiliarlo. Io conobbi un De Benedetti vecchio e “buono” che si beveva una bottiglia di whisky in un pomeriggio , rimanendo quasi lucido nel suo buen ritiro di Rosta. Conobbi un ex direttore de “La Stampa” che portava ad un giovane appena laureato un suo articoletto nel primo covo del centro “Pannunzio ” di piazza Castello ,chiedendo con squisita ironia di leggerlo e di dirgli se andava bene. Ma tutti gli amici giornalisti che ho conosciuto ,salvo forse Ferruccio Borio e Carlo Casalegno ,mi parlavano con rabbia di “gdb “, com’era soprannominato e come amava firmare i suoi fondi che sembra fossero scritti da altri,alcuni dicono da Casalegno. L‘unico che seppe tenergli testa fu Bettiza che se ne andò dalla “Stampa” e passo ‘ al “Corriere della Sera “. Ma anche al quotidiano di via Solferino ,quando il direttore Piero Ottone volle ,in ossequio alle bizzarrie della proprietaria – zarina sovietica del giornale ,fare del quotidiano che aveva incarnato la borghesia italiana ,l’organo del cedimento al compromesso storico ,Enzo seppe andarsene dal “Corriere” che veniva cogestito dal comitato di redazione(con diritto di veto) e dal direttore allineato al nuovo corso.  Con Montanelli fondò “Il Giornale”, ispirandosi al “Mondo” di Pannunzio ,come mi disse una volta . E scrisse che gli era parso di aver condotto una battaglia di retroguardia e di testimonianza contro il clima creato dalle “masse facinorose e urlanti ” ,dai “terroristi che sparavano a Montanelli e sprangavano i nostri lettori” e dalla ” stampa conformista che ci calunniava “. In effetti non fu così, aggiunse, “perché nel 1989, con il crollo del Muro, capimmo di aver condotto una battaglia di avanguardia perigliosa perché solitaria ed elitaria : una battaglia cioè tipicamente , lucidamente, liberalissimamente pannunziana “. Bettiza che per brevissimo periodo fu comunista prima dei vent’anni, esule da Spalato conquistata dai titini, e’ stato un testimone dell’anticomunismo liberale che seppe opporsi a tutti gli autoritarismi e i totalitarismi del Novecento che egli considerò non un secolo breve, ma un secolo semmai troppo lungo a causa del comunismo che tenne banco dal 1917 in poi. Rispetto a quelli che Giovanni Giovannini chiamava con disprezzo direttorini e giornalistini ,egli seppe tenere la schiena diritta sempre. Una grande lezione anche deontologica ai tanti che nei giornali chinano non solo la schiena, ma anche la testa. Pure con l’amico Montanelli, quando ritenne di dissentire, lo fece liberamente, andandosene dal giornale di cui era condirettore. Soprattutto per tanti di noi, in primis per chi scrive, nel 1976 fu di esempio perché invece di “turarsi il naso” e votare Dc o firmare manifesti per annunciare il voto al Pci come fece la maggioranza dei giornalisti e degli intellettuali italiani, fu tra i promotori, con Alberto Ronchey e Cesare Zappulli, di un’iniziativa di minoranza che non fu premiata dagli elettori e invece ebbe grande importanza morale perché significò per noi il non arrendersi all’ondata clerico-marxista che rischiava di travolgere la democrazia italiana : la lista liberale, repubblicana, socialista democratica proposta in alcune regioni italiane . Bettiza e Zappulli vennero eletti ,Ronchey no. Ma va ricordato che quella lista riaffermava il senso storico-politico di un’alleanza dopo che nel PLI era prevalso Zanone ,nel PRI circolavano i vaneggiamenti senili di La Malfa a favore del compromesso storico e i socialdemocratici ,dopo le amministrative del 1975, erano passati, armi e bagagli, a sostenere le giunte rosse, tradendo il voto degli elettori. E’ naturale quindi che Bettiza abbia visto con favore Bettino Craxi e il suo tentativo di affrancare il socialismo italiano che fu di Rosselli e di Matteotti ,ma anche di Saragat e di Nenni,dall’abbraccio mortale del Pci e del compromesso storico con una Dc di sinistra che aveva rinnegato del tutto lo spirito degasperiano. Ci siamo sentiti spesso e abbiamo collaborato sovente. E ‘stato naturale che gli fosse conferito il Premio “Pannunzio”.Un premio azzeccato come quello a Spadolini,a Montanelli,a Ronchey che ha avuto anche premiati immeritevoli soprattutto per quello che fecero dopo il conferimento come Furio Colombo ,Vittorio Feltri e l’incredibile Barbara ,figlia di Altiero Spinelli, che, dopo aver parlato del comunismo come di “un’utopia assassina”, si riposizionò nell’estremismo nostalgico del comunismo ed occupò un posto al Parlamento europeo, malgrado avesse dichiarato che, se eletta, avrebbe rinunciato al seggio. Una volta Bettiza, quando nel 2003 venne nominato da Ciampi cavaliere di Gran Croce mi telefono ‘ e mi disse ,scherzando, che finalmente anche lui era stato nominato ,sia pure quattro anni dopo di me. Era rimasto colpito dalla rosetta che mi vide all’occhiello. Inutile dire che Bettiza, che fu senatore e deputato, non amava titoli e nastrini di nessun tipo. Il suo essere stato esule non fu per lui, come per tanti italiani che dovettero lasciare la propria terra dopo il Trattato di pace del 1947 ,un elemento di particolare distinzione che non volle mai rivendicare. Bettiza ,come racconto ‘ nel suo straordinario romanzo “Esilio” cercò subito di mettersi al lavoro, inserendosi attivamente in Italia, cosa che non era così facile per i circa 350 mila istriano-giuliano- dalmati dell’esodo-di cui Enzo non si sentì parte-accolti malamente in patria e considerati dei fascisti. All’inizio accettò qualsiasi lavoro e solo in tempi successivi incominciò a fare il giornalista nel 1953 ad “Epoca”, per poi passare alla “Stampa” nel 1957. La sua è  una storia totalmente diversa ,ad esempio, da quella di Ottavio Missoni ,nato a Ragusa da padre di origine giuliana ,che invece fu con orgoglio sindaco della “Libera città di  Zara” in esilio e fu insieme al patriota Lucio Toth, uno dei difensori delle ragioni di chi patì l’esodo ed ebbe lutti famigliari a causa degli infoibamenti. Infatti nel “Giorno del ricordo delle foibe e dell ‘esodo” che venne celebrato il 10 febbraio in tutta Italia a partire dal 2004 non fu possibile coinvolgerlo. Io cercai di farlo, ma fu irremovibile. Gli offrii l’opportunità di parlare a palazzo Carignano di Torino, ma mi disse che dovevo farlo io come storico e non lui come esule. Fu irremovibile. Enzo si sentiva certo italiano, ma non solo italiano era anche un po’ nostalgico dell’impero austro-ungarico e del mondo in cui era nato e vissuto a Spalato in cui convivevano slavi e italiani ed in cui egli aveva appreso il bilinguismo come un qualcosa di ovvio e naturale. La Dalmazia era certamente una terra italiana, veneziana e romana per storia e cultura, ma aveva anche un’identità slava che non poteva essere negata e che Enzo sentiva come sua. Qualcuno lo ha definito mitteleuropeo, anche se la Dalmazia è geograficamente nei Balcani e proprio dall’Europa orientale Bettiza ha tratto stimolo per affermare costantemente i valori della libertà come valori irrinunciabili. Penso che Bettiza sia stato soprattutto un sincero europeo che aveva visto e denunciato la tragedia dell’Europa orientale oppressa dal comunismo. Europeo ,non necessariamente europeista alla maniera di Spinelli e di Rossi. E’ stato uno dei migliori deputati al Parlamento europeo. Forse in lui era presente “l’idea d’Europa” di cui parlava Chabod. Se l’Europa avesse avuto rappresentanti come lui a Strasburgo, non sarebbe finita arenata sugli scogli e non si sarebbe confusa con gli interessi finanziari di alcuni potenti. Bettiza fu soprattutto un rarissimo esempio di giornalista libero e di scrittore raffinato. I giornalisti tentano di fare spesso anche gli scrittori, diceva Mario Soldati, e spesso gli scrittori tentano di fare anche i giornalisti. Quasi mai ci riescono pienamente. Il giornalismo è mestiere, la scrittura letteraria è arte. Solo pochissimi riescono ad essere chiari come dei giornalisti, scrivendo in modo non banale pagine che durino oltre lo spazio di un mattino. Gli articoli e i libri di Bettiza sono destinati a restare. Davvero è stato un giornalista principe.

quaglieni@gmail.com

Moncalieri, ultima sera di “Voci e volti”

Ultimo concerto prima della pausa estiva, il 30 luglio a Moncalieri, poi Voci e Volti​ ritorna da metà settembre con gli appuntamenti​ conclusivi della rassegna

La rassegna si concluderà il 24 settembre, al termine di un “viaggio” tra arte e tradizione. Un percorso che porterà artisti internazionali della musica popolare in luoghi dall’alto valore culturale del territorio piemontese. Voci e Volti visiterà con gli spettatori, tra gli altri, il Castello di Moncalieri, il Castello di Masino, il Castello della Manta, l’Abbazia di Vezzolano, l’Abbazia di Santa Maria a Cavour, Infini.To Planetario, il Filatoio di Caraglio.

Voci e Volti ospiterà artisti provenienti da Finlandia, Senegal, Tunisia, Argentina, Brasile, Canada e da diverse regioni d’Italia. Sonorità, volti, etnie, simbolo ed espressione di tradizioni musicali che variano enormemente fra di loro inviteranno il pubblico a un viaggio unico: dalle torride strade africane ai racconti dei vecchi gitani, dai ritmi del sud Italia alle ballate nord europee, dalle sfumature occitane al calore del tango argentino.

La direzione artistica di Voci e Volti è affidata ai componenti dell’Orchestra Multietnica MOM che accompagneranno gli artisti ospiti durante l’intera rassegna.

Il progetto nasce dall’esperienza pluriennale della Fondazione Dravelli in ambito interculturale.

I concerti sono tutti ad ingresso gratuito e si svolgeranno anche in caso di pioggia.

​PROSSIMI APPUNTAMENTI

Domenica 30 luglio, ore 21.00 – Duo Bottasso in concerto

Il Giardino delle Rose del Castello Reale, Piazza Baden Baden, 4 Moncalieri (TO)

Il Duo Bottasso ci porta nel mondo della musica OCCITANA, inserendolo in un coinvolgente spettacolo di WORLD MUSIC con composizioni proprie e reinterpretazioni di brani tradizionali. Il Duo è composto dai fratelli Simone (organetto) e Nicolò (violino), che interpretano repertori di musica tradizionale rendendoli vivi e attuali.

Il Duo è sempre alla ricerca di una mediazione tra la delicatezza sui propri strumenti e la dirompente energia che non manca mai ai due giovani musicisti: tutto questo unito dalla complicità propria di due fratelli legati dal desiderio di mantenere in costante evoluzione la tradizione della loro terra d’origine.

Nel 2014 esce il loro primo album Crescendo, realizzato con la collaborazione di numerosi ospiti tra cui Elena Ledda, Mauro Palmas, Gilson Silveira e Christian Thoma. Crescendo non rimanda solo alla terminologia musicale ma rispecchia anche la storia di due fratelli musicisti partiti dalla musica da ballo dell’area occitana d’Italia per inoltrarsi nei sentieri della nuova composizione e dell’improvvisazione. Il Duo partecipa attivamente in qualità di direttore e docenti al progetto orchestrale Folkestra&Folkoro.

 

Sabato 16 settembre, ore 21.00 – Oscar Doglio Sanchez in Aer Mundis

Abbazia di Santa Maria, Via Saluzzo, 72 Cavour (CN)

Le musiche di Aer Mundis sono scritte integralmente da Gian Giacomo Parigini, musicista e pittore che in occasione di questo concerto incontra il violoncellista Oscar Doglio Sanchez. La struttura della suite classica accoglie l’improvvisazione propria del jazz, rendendo questa serata interessante quanto imprevedibile.

Il Complesso Abbaziale, comprendente l’Abbazia Benedettina di Santa Maria e il Museo Archeologico di Caburrum, è situato nel Parco Naturale della Rocca di Cavour.

È prevista una visita guidata al complesso abbaziale ed al “Museo archeologico di Caburrum” a cura dell’Associazione Culturale Anno Mille. Per info e prenotazioni: 334.9774348lab@abbaziasantamaria.it

 

Il Regio alla conquista di Edimburgo

Il prestigioso Edinburgh International Festival propone il meglio del panorama musicale e teatrale non solo europeo e, per celebrare i 70 anni di attività, ha scelto il Regio quale Resident Company per questa importante edizione celebrando così il Teatro Regio quale emblema dell’eccellenza italiana. Sono ben tre le produzioni che il teatro torinese porta  in Scozia: due opere e un concerto, per un totale di otto serate, tutte dirette da Gianandrea Noseda.  Al Festival Theatre – capienza totale 1.915 posti  –  vanno in scena Macbeth di Giuseppe Verdi con la regia di Emma Dante e La bohème di Giacomo Puccini nell’allestimento firmato da Àlex Ollé, realizzato con il contributo degli Amici del Regio e con la collaborazione di Alcantara. Nella prestigiosa Usher Hall – capienza totale 2.200 posti – Gianandrea Noseda dirige il Requiem di Verdi.

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287 persone in viaggio, 107 circa gli strumenti, 9 container via nave per il trasporto di scenografia, costumi e attrezzeria, 1.500 in totale i pezzi di scenografia, 40 bauli di costumi, circa 400 paia di scarpe, circa 8.000 a oggi le mail con oggetto Edimburgo.  Si può seguire  la tournée a Edimburgo guardando le clip quotidiane di Paola Giunti sulla pagina Facebook del Teatro: reportage, immagini inedite e backstage dalle tre produzioni, e sui  social media usando l’hashtag #EdintFest

 

(foto: Giuseppe Ramella)

Andrea Doria, la “nave più bella del mondo” rivive in un romanzo

Il Consiglio regionale sale a bordo di uno storico transatlantico e ne ripercorre la drammatica vicenda. Un viaggio ideale, reso possibile dal libro Clandestino sull’oceano. Andrea Doria, otto giorni di navigazione prima del disastro, dello scrittore Claudio Cantore, presentato giovedì 27 luglio presso la sala Udp di Palazzo Lascaris, a Torino.

Sono intervenuti, oltre all’autore, Daniela Ruffino, vicepresidente del Consiglio regionale, Silvana Rizzato, sindaca di San Martino Canavese, Celestino Torta, sindaco di Reano, il professor Piero Leonardi, divulgatore letterario ed esperto di teatro di narrazione che ha letto alcuni brani tratti dal romanzo e, quale ospite speciale Pierette Simpson, statunitense originaria di Pranzalito (frazione di San Martino Canavese), che ha portato la sua testimonianza di sopravvissuta al naufragio del transatlantico, avvenuto nella nelle prime ore del 26 luglio 1956, mentre l’imbarcazione stava per raggiungere la sua meta finale, nel porto di New York.“È necessario tornare sulle cause e sulle responsabilità di quella irreparabile sciagura che non furono mai del tutto chiarite e che, all’epoca dei fatti, vennero addossate al capitano Piero Calamai e all’equipaggio dell’Andrea Doria, gettando forte discredito sulla Marina italiana. Ma ‘la storia non muore’ ed è giusto che qualcuno voglia ripercorrerla per approfondire la realtà dei fatti. È il caso della giovane fanciulla natia di Pranzalito – diventata in America professoressa di lingue e letteratura – che, forse anche per rimuovere i tristi ricordi della tragedia vissuta, si è incamminata su questo impegnativo percorso. Su questa strada, con i sindaci di Reano e San Martino, con tutti i presenti e con l’autore Claudio Cantore – che attraverso Johnny ripercorre quei momenti – noi la vogliamo accompagnare per saperne di più”, ha affermato Daniela Ruffino, vicepresidente del Consiglio regionale.

Il romanzo intreccia la storia e le avventure a lieto fine di Johnny, un giovane apprendista pasticcere, salito a bordo dell’Andrea Doria come clandestino, con gli ultimi giorni di navigazione prima dello speronamento che decretò l’affondamento della nave. “L’Andrea Doria era il simbolo della rinascita di un’Italia uscita sconfitta e distrutta da una Guerra mondiale”, afferma Cantore. “Lei era la ‘nave dei sogni’ e solo uno sperone rinforzato di una rompighiaccio, colpendola sul fianco, poteva spezzare questo sogno, tramutandolo in leggenda”.

Il racconto, nel precisare le responsabilità del disastro, attribuito all’errata e fatale interpretazione della scala della distanza del radar a bordo dello Stockholm, l’altra nave coinvolta nell’incidente, getta una luce nuova sulla figura del comandante Piero Calamai. Costui venne infatti colpevolizzato sul momento dalle circostanze di comodo della compagnia assicurativa, mentre i suoi uomini e i fatti, così come si sono svolti, lo hanno riabilitato evidenziandone il coraggio e la correttezza delle scelte.

L’impegno dei membri dell’equipaggio e del comandante Calamai  – costretto dai suoi a lasciare la nave quando ormai a bordo non c’era più nessuno da salvare – sono stati sottolineati dalla toccante testimonianza di Pierette Simpson, che aveva 9 anni quando, con i nonni, si imbarcò sulla nave ammiraglia della flotta italiana per intraprendere il viaggio verso l’America e ricongiungersi con la madre, già emigrata anni prima a Detroit. Il ricordo della sciagura che fece 52 vittime, le storie degli immigrati che si erano imbarcati in cerca di fortuna oltreoceano e il salvataggio dei naufraghi con un’operazione di soccorso perfetta sono stati raccontati anche in un libro scritto dalla stessa SimpsonL’ultima notte dell’Andrea Doria e trasposto nel docu-film, Andrea Doria: i passeggeri sono in salvo?, diretto da Luca Guardabascio. La proiezione del film in Piemonte, a Ivrea e a San Martino Canavese rivolta alle scuole e alla cittadinanza tutta, è stata promossa l’anno scorso dal Consiglio regionale e dalla sua Consulta femminile. La pellicola è stata girata tra Genova, gli Stati Uniti (in special modo a Detroit) e nel Canavese (a Pranzalito e San Martino) dove la popolazione locale, dalle istituzioni ai singoli cittadini, si è messa a disposizione per realizzare un vero miracolo cinematografico, facendo rivivere con dispendio di mezzi ed energie, la storia della partenza della piccola Piera con i suoi nonni.

Le operazioni di soccorso dell’Andrea Doria  da parte del transatlantico Île de France e di tutti gli altri mezzi navali a disposizione, vista la rapidità e il modo in cui si svolsero, fecero del disastro di quel ‘grattacielo viaggiante’, con 700 cabine distribuite su 11 livelli e  1.706 persone a bordo, la più grande operazione di soccorso della storia marittima dell’epoca. Il relitto dell’Andrea Doria, mai recuperato, giace tuttora posato sul fianco di dritta a una profondità di 75 metri.

ec – www.cr.piemonte.it

Speciale Venere di Botticelli a #Realedisera

Dalle 18,30 con visita guidata al capolavoro. Ingresso al prezzo speciale di 3 Euro

 

Dopo essersi fatta ammirare negli Stati Uniti e aver entusiasmato i pubblici d’oltreoceano, torna a casa la Venere di Botticelli dei Musei Reali di Torino, ospite d’onore di una serata speciale di #Realedisera interamente dedicata a lei, proprio di venerdì, nel giorno che gli antichi consideravano consacrato a Venere. Il 28 luglio, dalle ore 18,30 i visitatori possono vedere il capolavoro del maestro fiorentino nell’ambito delle serate di apertura straordinaria dei Musei Reali, usufruendo dell’ingresso al vantaggioso prezzo di 3 Euro. Ma non solo: per tutti coloro che vogliono conoscere di più sulla “Venere di Torino” e sulla sua storia, è prevista una visita guidata all’opera a cura della direttrice della Galleria Sabauda Annamaria Bava alle 21 (inclusa nel biglietto d’ingresso).

Qual è la storia che si cela dietro al rapporto tra Sandro Botticelli e Simonetta Vespucci, amata da Giuliano de’ Medici e morta tragicamente all’età di ventitré anni, la cui bellezza è stata resa immortale in quest’opera, amata e riconosciuta in tutto il mondo? Già durante la vita dell’artista, il mercante fiorentino Antonio Billi scriveva che l’artista dipingeva bellissime donne nude e Giorgio Vasari, nelle sue Vite, confermava la testimonianza con queste parole: “Per la città, in diverse case fece tondi di sua mano, e femmine ignude assai”. Solo tre Veneri sopravvivono, attribuibili a Sandro o alla sua bottega: la Venere di Berlino, quella di Torino e una già in collezione privata a Ginevra. Le prime due sono state esposte entrambe ai Musei Reali in occasione della prima edizione di Confronti, nel 2016. Si tratta di nudi monumentali, che possono essere annoverati tra i primi dipinti profani dell’Europa postclassica e che trovano ispirazione in un modello antico che conosciamo come Venere de’ Medici, o Venere pudica, dove la Dea è sorpresa a coprirsi con le mani il seno e il pube. La “Venere di Torino” proviene dalla collezione Gualino. La prima traccia dell’opera risale al 1844 quanto fu acquistata da un reverendo inglese, che in seguito la cedette a un barone. L’opera si pensava perduta nell’incendio della casa di quest’ultimo ma fu ritrovata dagli eredi da cui la acquistò il grande collezionista biellese Riccardo Gualino. Nel 1930 la Venere, realizzata da Botticelli con la collaborazione dei suoi allievi, divenne patrimonio della Galleria Sabauda. L’opera rientra brevemente in Italia dopo un lungo viaggio negli Stati Uniti (Boston in Massachusetts, e Williamsburg in Virginia); in autunno potrebbe riprendere il suo ruolo di testimonial dell’italianità nel mondo. #Realedisera rappresenta anche un’ottima occasione per ammirare le diverse mostre in corso ai Musei Reali, con visite guidate tenute dai curatori di ognuna. Gli appuntamenti previsti per i prossimi venerdì sono:

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Venerdì 28 luglio

–      19,45 – Museo di Antichità

Prima del bottone. Accessori e ornamenti del vestiario nell’antichità, con Elisa Panero

–      21 – Galleria Sabauda

Visita alla Venere di Botticelli, con Annamaria Bava

–      21,30 – Galleria Sabauda

Le bianche statuine. I biscuit di Palazzo Reale, con Franco Gualano

 

Venerdì 4 agosto

–      19,45 – Museo di Antichità

Prima del bottone. Accessori e ornamenti del vestiario nell’antichità

–      21 – Galleria Sabauda

Visita alla Venere di Botticelli, con Annamaria Bava

–      21,30 – Galleria Sabauda

Le invenzioni di Grechetto, con Giorgio Careddu

 

#Realedisera Si tiene ogni venerdì fino al 6 ottobre e prevede l’accesso ai Musei Reali fino alle 22,30 (ultimo ingresso alle 21,30). Il costo del biglietto è di 3 Euro (fatte salve le gratuità di legge e possessori dell’Abbonamento Musei, della Torino+Piemonte Card e della Royal Card); la tariffa speciale si applica dalle 18,30.

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MUSEI REALI TORINO

www.museireali.beniculturali.it

I “ribelli” di Camasca

L’alpe di Camasca è sempre stato uno dei luoghi più sfruttati dagli abitanti di Quarna per il pascolo del bestiame, dalla primavera all’autunno. Considerato da secoli per estensione e bellezza, oltre che per l’invidiabile esposizione al sole, il più importante alpeggio di Quarna Sotto, ospitò nelle sue baite – nel settembre 1943 –  i primi partigiani, guidati dal capitano Filippo Maria Beltrami. L’alpeggio cusiano, tra l’ottobre e il dicembre 1943, divenne il centro operativo della formazione partigiana guidata dal “Signore dei Ribelli” che aveva posto il suo comando nella baita del cavalier Sigisfredo Meneveri. Da Camasca, il nucleo partigiano s’irrobustì in numero e forza, operando attorno al lago d’Orta: da Pettenasco a Lagna, da San Maurizio d’Opaglio a Cesara, a Pella e in altre località cusiane non si contarono le audaci azioni degli uomini del “Capitano” per procurarsi armi, munizioni e di che vivere in quegli anni di fuoco e di neve.  Da Camasca venne organizzata la guerriglia contro i nazifascisti. L’11 novembre del ‘43 una squadra, al comando del tenente Bruno Rutto, attaccò il presidio di Gravellona Toce, mentre una sessantina di uomini, al diretto comando del “Capitano”, si spostarono verso Ornavasso in appoggio all’insurrezione di Vilaldossola . Tra le formazioni operanti nelle zone tra la Valsesia e il Verbano-Cusio-Ossola si stipularono intese e alleanze operative. Il 30 novembre ‘43 , proprio il gruppo “Quarna” guidato da Filippo Maria Beltrami, insieme alle formazioni garibaldine valsesiane del comandante Eraldo Gastone (“Ciro”) e del commissario politico Vincenzo Moscatelli (“Cino”), occupò Omegna . La prima “calata al piano” impegnò una sessantina di uomini, con uno scopo chiaramente dimostrativo. L’azione si svolse, infatti, nel giro di poche ore tra la folla festante e senza necessità di scontri armati.Il “Capitano”” e ” Cino” , in piedi sul cassone di un autocarro, rivolsero due brevi discorsi alla popolazione, per ringraziarla e incoraggiarla a resistere e ad aver fiducia nei partigiani intenzionati a battersi fino alla vittoria finale. Ma nel pomeriggio, quando ormai i partigiani se n’erano già andati da un pezzo, la milizia fascista locale rientrò in città sparando a casaccio e colpendo a morte un bambino di cinque anni, Luciano Masciadri. Al funerale del piccolo, il 3 dicembre, parteciparono più di cinquemila persone (tra le quali numerosi resistenti) mentre i fascisti, impauriti, si rifugiarono in caserma. Tra le corone una portava un grande nastro tricolore con la scritta “I Patrioti non ti dimenticheranno”. Fino all’antivigilia di Natale del ‘43 gli uomini di Beltrami, partendo dagli alpeggi di Camasca, insidiarono il controllo del Cusio alle forze della Repubblica di Salò. Poi, il 23 dicembre, il gruppo “Quarna” fu obbligato a trasferirsi dall’alpe a Campello Monti, in Valle Strona,  in seguito alla minaccia dei tedeschi di bombardare per rappresaglia l’abitato di Quarna. Dopo la tragica battaglia di Megolo , in bassa Val d’Ossola, dove Beltrami e altri dodici uomini persero la vita il 13 febbraio del ’44 dopo quattro ore di aspro combattimento, l’intera zona fu rioccupata dai partigiani guidati da Bruno Rutto. Ma la rappresaglia non tardò e il 14 aprile 1944, approfittando dell’assenza della Divisione Alpina d’Assalto “Filippo Maria Beltrami” , milizie nazifasciste, nel corso di un rastrellamento, raggiunsero l’alpeggio, appiccando il fuoco a tutte le cascine e alle baite. Da Quarna videro levarsi in cielo dense colonne di fumo e il vento portò lontano l’acre odore dell’incendio. In poche ore le fiamme mandarono in fumo il lavoro e la fatica di intere generazioni, cancellando parte della storia di quella comunità di montanari. Bruciarono trentadue tra case, cascine e baite, in quella tristissima giornata di metà aprile. Ma la Resistenza non si fiaccò, crescendo fino ai giorni della liberazione, nell’aprile del 1945.

Marco Travaglini

Marco “Baz” Bazzoni e Alexia al Parco Dora Live

Gran finale, dopo due mesi di successo di pubblico e critica per il calendario della rassegna nazionale di spettacolo ‘#Parco Dora Live’, che sino a fine luglio offre concerti e spettacoli di cabaret gratuiti di grandi artisti italiani nella piazzetta esterna del Centro Commerciale ‘Parco Dora’ a Torino in Via Livorno angolo Via Treviso. Dopo gli ottimi show di grandi nomi della musica e del teatro comico, venerdì 28 luglio, presentato dal noto attore comico torinese Gianpiero Perone, sarà di scena Marco ‘Baz Bazzoni’, attore amatissimo dal pubblico, messosi anche recentemente in luce all’Edizione 2017 di ‘Made in Sud’, su Raidue. Domenica 30 luglio, invece, presentata da Gino Latino di Radio GRP (media partner dell’evento) e Carlotta Iossetti, sarà la volta del concerto di Alexia, regina della cosidetta italodance, cantautrice pop dalla grande grinta ed energia, che a settembre pubblicherà il nuovo album di inediti, che vede la produzione del fidato Mario Lavezzi. Tutti gli spettacoli sono gratuiti e iniziano alle 20.30. Per informazioni, www.parcocommercialedora.it.

L’Italia si è desta

IL COMMENTO  di Pier Franco Quaglieni

Malgrado tutto, non sono un antiitaliano alla Bocca, alla Prezzolini e alla Montanelli e non sono neppure un seguace  delle vacanze  smodate alla Briatore che  anzi mi ripugnano .Io continuo ad amare disperatamente l ‘Italia , come diceva Francesco Carnelutti, grande  avvocato, ma anche grande italiano. E quando l’Italia va male, ci soffro

 

Sta per giungere in aula alla Camera, con qualche decennio di ritardo, la legge che stabilisce come inno ufficiale della Repubblica italiana il Canto degli italiani di Novaro -Mameli ,scelto come inno provvisorio il 12 ottobre 1946 dopo il passaggio dalla Monarchia alla Repubblica, in seguito al referendum del 2 giugno di quell’anno. I comunisti ,anche supportati dal convertito al PCI Massimo Mila che godeva fama di critico musicale, anche se non riuscì mai a vincere una cattedra universitaria, volevano l’Inno di Garibaldi. Dopo l’ 8 settembre la Marcia Reale era stata paradossalmente  sostituita con la “Leggenda del Piave” che ricorda l’unica gloria militare Italiana culminata nelle vittoria del 4 novembre 1918.Ma forse fu anche un atto di orgoglio nazionale richiamarsi al Piave nel momento del disfacimento dello Stato e di quella che ,forse a torto, venne considerata la fuga di Pescara. Era lo  stesso re che nel 1917 salvo’ l’Italia a Peschiera con la resistenza sul Piave quello che nel 1943 trasferì il governo a Brindisi ,in territorio non occupato, sapendo che con quel gesto impopolare comprometteva il futuro della dinastia sabauda, ma salvava la continuità dello Stato.

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Adesso , dopo mille rinvii e ripensamenti, l’Inno di Mameli forse diventerà inno ufficiale, anche se c’è il solito sciocchino incolto e fazioso che gli oppone  la pur famosa canzone “Sole mio” ,forse per meglio  rappresentare ciò che è diventata l’Italia di oggi senza spina dorsale patriottica :un paese di furbi  disincantati , di mandolinisti, di pizzaioli, di disoccupati, di astenuti schifati e qualunquisti  alle  elezioni, di debosciati, di drogati, di mafiosi, di perseguitati da una giustizia troppo spesso  politicizzata , di evasori e di tartassati fiscali… Un’idea che neppure la Napoli di ” Sole mio” rispecchia perché la canzone esprime la gioia di vivere dei napoletani, espressa nel Sole con la s maiuscola , già amato da Foscolo e Carducci come simbolo di vita.  Certo quella di oggi  e’ un ‘Italia molto lontana da quella di Mameli che mori’  per i suoi ideali risorgimentali. Anche chi canta “Siam pronti alla morte ”  oggi lo fa con  fortissima riserva mentale  e ,in cuor suo ,fa anche le corna .I tempi del popolo di eroi e’ finito, irrimediabilmente finito da tanto tempo con il disastro della guerra perduta. Ci ha tentato Ciampi a  farci sentire orgogliosi di essere italiani, ma è durata poco .

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Il decomporsi dell’Italia che non ha più neppure l’acqua  in misura sufficiente ai suoi bisogni quotidiani  e brucia in incendi spesso dolosi, non consente più alla maggioranza di amarla .E ‘ un’Italia invasa di centinaia migliaia di immigrati economici camuffati da profughi che ci porteranno al collasso. Amare questa Italia non è possibile. Specie se ci si prepara alle vacanze e i pensieri sono rivolti a tutt’altro. Io vorrei invece provare, anche se sono stonato, a cantare o canticchiare sotto voce  l’Inno di Mameli e anche la leggenda del Piave. Malgrado tutto, non sono un antiitaliano alla Bocca, alla Prezzolini e alla Montanelli e non sono neppure un seguace  delle vacanze  smodate alla Briatore che  anzi mi ripugnano .Io continuo ad amare disperatamente l ‘Italia , come diceva Francesco Carnelutti, grande  avvocato, ma anche grande italiano. E quando l’Italia va male, ci soffro. Come sarebbe bello pensare ad un “‘Italia che s’e ‘ desta ” ,come dice il nostro Inno.