CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 720

Luigi Serralunga tra simbolismo e Liberty

FINO AL 18 FEBBRAIO

Con un raffinato “Autoritratto”, olio su tela del 1918, si inizia il lungo percorso espositivo della selezionatissima antologica dedicata a Luigi Serralunga – fra i più valenti interpreti della cultura artistica italiana di fine Ottocento inizi Novecento – e ospitata, fino a febbraio, nelle Cucine Reali della Palazzina di Caccia di Stupinigi. Serralunga aveva allora 38 anni e, in cornice, mostra uno sguardo intenso, occhialini alla Cavour e baffi folti moderatamente rigirati all’insù. Il bianco colletto della camicia libera il volto dal fondo in ombra del soggetto. Nato a Torino nel 1880, da famiglia borghese legata all’amministrazione regia, nel ‘18 aveva già da tempo terminato gli studi all’Accademia Albertina di Belle Arti, dove suo provvidenziale maestro era stato soprattutto Giacomo Grosso, pittore già affermato – giunto al successo con la prima Biennale di Venezia – e riferimento costante ( a volte in modo fin troppo eccessivo) per tutta la carriera artistica di Serralunga. Che, dopo aver iniziato ad esporre dal 1904 (e lo farà ininterrottamente fino al 1939, anno precedente la morte) alla Società Promotrice di Belle Arti, andò gradualmente affermandosi nella nutrita e non facile scena artistica torinese, confrontandosi puntigliosamente con artisti del calibro di un Lorenzo Delleani o di un Leonardo Bistolfi e di un Giovanni Guarlotti. Pittore particolarmente amato dalla nobiltà e dalla buona borghesia sabauda, Luigi Serralunga partecipò anche alle Quadriennali torinesi del 1923 e del 1928, oltreché alle rassegne organizzate sempre a Torino dalla Società d’Incoraggiamento alle Belle Arti, nell’ambito del Circolo degli Artisti, e dalla Società Amici dell’Arte, come testimoniano le cronache artistiche del tempo, a firma di Emilio Zanzi, critico della “Gazzetta del Popolo” e della rivista “Emporium”. Apprezzato pittore, Serralunga fu inoltre valente maestro di giovani (allora) promesse dell’arte, come Mattia Moreni e soprattutto Ettore Fico, suo vero “pupillo” ed “erede morale e pittorico della sua opera”, al punto che un buon numero di suoi dipinti sono oggi confluiti nella stessa Fondazione Ettore Fico. E qui il cerchio si chiude. E’ infatti proprio sotto la direzione artistica del MEF – Museo Ettore Fico, in collaborazione con Ordine Mauriziano e Reverse Agency, che nasce la grande antologica di Stupinigi (un’ottantina le opere esposte), curata da Andrea Busto e prima iniziativa in assoluto del Sistema Cultura Nichelino. Un primo passo, per una collaborazione che si auspica possa procedere ed evolversi nel tempo. Luogo espositivo ideale e di forte suggestione, gli ampi spazi delle Cucine Reali della Palazzina. Qui l’itinerario si snoda fra i temi più cari al pittore, in linea con una poetica che “incarna i dettami della tradizione tardo-simbolista, contaminata dalle suggestioni provenienti dalla grande stagione della pittura figurativa ottocentesca”. Ecco allora i “ritratti”, soprattutto di nobildonne ed esponenti della ricca borghesia torinese (ma in parete c’è anche, datato 1907, un interessante e vigoroso “Ritratto di Orsola”corpulenta donna di servizio che Serralunga fissa con evidente e bonaria simpatia e una bimba in “Preghiera” del 1913 che è un autentico soffio di delicata poesia); e poi i “nudi” (il “Nudo su fondo rosso” del 1910 e “Specchio e piumino” fine anni Venti, quadri in cui l’influenza di Giacomo Grosso – per certa opacità e velatura del segno, così come per la stessa postura delle figure ritratte – si fa sentire con evidenza, a tratti fin troppo marcata come nel sensuale “Nudo disteso” del 1916); per terminare con vigorose “nature morte” e con altrettanto robuste e mosse “scene di caccia” ( esemplare la “Lotta di cani con un cinghiale” del 1915). Altro dato interessante della mostra, in modo particolare rispetto ai “nudi” e ai “ritratti”, é l’accostamento dei quadri alle copie di foto originali (stampe a sali d’argento) eseguite dallo stesso pittore e successivamente elaborate al cavalletto. Dipinto e foto della stessa modella in posa raccontano in fondo di quanto l’ispirazione, l’istinto e la visionarietà dell’artista possano tradursi, alla resa dei conti, in “narrati” parzialmente o assolutamente diversi dalla realtà cristallizzata in un semplice scatto fotografico. Esempio eclatante, la grande “Lea”, olio su tela del ’32, “modella di lusso” come lei stessa amava definirsi. Certo non più giovane ma con classe da vendere. Rossetto sgargiante e smalto alle unghie, sontuoso abito scuro, portamento sofisticato e altero, dalla fierezza aristocratica nella posa fotografica; pensierosa e sobria, avvolta in una semplicissima tunica nera priva di orpelli e ornamenti che dir si voglia nell’opera pittorica. Atmosfera di silente e malinconica riflessione, il quadro fu acquisito dalla Gam nel 1942, dopo la mostra postuma organizzata dagli amici di Serralunga al Circolo degli Artisti e accompagnata da una commossa presentazione di Giovanni Guarlotti.

 

Gianni Milani

 

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“Luigi Serralunga tra Simbolismo e Liberty”

Palazzina di Caccia di Stupinigi, piazza Principe Amedeo 7, Nichelino , tel. 011/6200634 – www.palazzinastupinigi.it  Fino al 18 febbraio

Orari: mart. – ven. 10-17,30/ sab.- dom. e festivi 10-18,30/ lun. chiuso

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Le immagini:

– Luigi Serralunga: “Autoritratto”, olio su tela, 1918

– Luigi Serralunga: “Specchio e piumino”, olio su tela, fine anni Venti
– Luigi Serralunga: “Natura morta con pesche e uva”, olio su tela, prima metà anni Trenta
– Luigi Serralunga: “Lotta di cani con cinghiale”, olio su tela, 1915

Arte e occulto alla Pinacoteca Agnelli

La Pinacoteca Giovanni e Marella Agnelli prosegue il suo percorso di ricerca sul tema del collezionismo e presenta PARANORMAL. TONY OURSLER VS GUSTAVO ROL, una raccolta ideale costituita dalle opere dell’artista americano e da una selezione di oggetti appartenenti alla sua enorme collezione legata al mondo dell’occulto, posti in relazione all’attività paranormale e alle opere presenti nelle collezioni torinesi di Gustavo Rol, attivo a Torino nella seconda metà del Novecento.

Le opere sono state individuate da Tony Oursler insieme al curatore della mostra Paolo Colombo e inserite in un ambiente concepito dall’artista stesso che in questa occasione presenterà anche una serie di nuovi lavori, gli Ex Voto, ispirati alla visita alla Chiesa della Consolata di Torino. Marcella Pralormo, Direttrice della Pinacoteca Agnelli, si è occupata della sezione della mostra dedicata a Gustavo Rol, con un lungo lavoro di ricerca delle persone che lo hanno conosciuto e frequentato, rintracciando e selezionando insieme a Tony Oursler e a Paolo Colombo i dipinti e gli oggetti appartenuti a Rol, presenti nelle collezioni private torinesi.

 

Ideatore della video-scultura, Tony Oursler è uno dei più innovativi artisti a utilizzare il video come mezzo espressivo. Le sue opere non si limitano a esprimersi attraverso l’immagine video, ma utilizzano e sovrappongono scultura, design, installazione, proiezioni multimediali, proiezione singola (single channel projection), registrazioni e performance interagendo anche con lo spettatore. Tra i suoi lavori più noti troviamo le proiezioni di volti su superfici di tessuto arrotondato e su altri materiali, eterogenei quanto effimeri, come il fumo; volti che declamano testi solitamente poetici utilizzando un linguaggio criptico e che sono a tutti gli effetti apparizioni proiettate su degli oggetti con presenza scultorea.

 

Oursler ha collezionato per anni oggetti, pubblicazioni, ephemera legati al paranormale, lasciandosi profondamente ispirare per molte sue opere: fotografie di fantasmi, testi di pseudo-scienza, tecnologia primitiva per la creazione di illusioni visive, hanno arricchito negli anni un archivio che oggi conta oltre 15.000 elementi.

Un interesse che ha una profonda radice nella storia familiare dell’artista: suo nonno, Charles Fulton Oursler, scrittore, giornalista e sceneggiatore – autore tra le altre cose di “La più grande storia mai raccontata” (1949) che ha ispirato il celebre film degli anni Sessanta – aveva frequenti interazioni con Sir Arthur Conan Doyle, scrittore inglese sostenitore dello spiritualismo e del paranormale ed è stato grande amico di Harry Houdini, che ha sostenuto nella sua battaglia contro le frodi dei falsi medium durante gli anni Venti, fino alla pubblicazione del libro “Spirit Mediums Exposed” (1930), che rivelava proprio le tecniche di frode.

 

Un percorso che trova innumerevoli legami con la figura di Gustavo Rol, nato nel 1903 da una famiglia della ricca borghesia torinese. Un personaggio fuori dal comune, amante delle arti e pittore egli stesso, colto e carismatico: dopo aver lavorato come giornalista e bancario si è dedicato per tutta la vita alla sua grande passione, l’occulto. I suoi sostenitori gli hanno attribuito proprietà paranormali, i suoi critici hanno parlato di “mentalismo”, ma Gustavo Rol si è sempre dichiarato semplicemente un ricercatore e sperimentatore, con l’unico obiettivo “di incoraggiare gli uomini a guardare oltre l’apparenza e a stimolare in loro lo spirito intelligente“. Un uomo che ha attraversato il Novecento lasciando una traccia profonda nell’immaginario collettivo e nelle numerose personalità internazionali con cui è entrato in relazione: da Walt Disney a Marcello Mastroianni, da alcuni presidenti della Repubblica Italiana, come Giuseppe Saragat e Luigi Einaudi, al presidente John Fitzgerald Kennedy fino alla Regina Elisabetta II. Federico Fellini – di cui in mostra possiamo ammirare due disegni – lo definisce “sconcertante”, legandosi a lui con una profonda amicizia. 

 

Nella lunga intervista presente in catalogo, Paolo Colombo ragiona insieme a Tony Oursler   su numerosi aspetti della sua collezione e del suo agire artistico anche in relazione ai dipinti di Rol, alcuni dei quali pare si animassero, come quel paesaggio con un uomo lungo la strada che capitava si spostasse in punti diversi del dipinto nel corso del tempo. “Quella storia per me è stata la chiave del progetto: l’immagine in movimento. Si lega al balzo tecnologico e la tecnologia è il trauma contemporaneo a cui faccio riferimento […] : l’essere umano contro la macchina” – sostiene Oursler. Un trauma che dialoga con gli eventi drammatici raccontati negli ex voto presenti al Santuario della Consolata di Torino, fonte di ispirazione per gli ultimi lavori di Tony Oursler, realizzati appositamente per questa mostra. “In questa serie, manualità e uso dei macchinari vanno di pari passo. Passo così tanto tempo davanti a un computer che mi piace davvero poter dipingere o comunque poter fare qualcosa di manuale […]. Negli ex voto più antichi si vedono i guai provocati dai primi fallimenti tecnologici, bombe, scontri automobilistici. Uno, che amo particolarmente, mostra un uomo che rischia di essere maciullato perché i suoi vestiti sono rimasti incastrati in un ingranaggio. Da qui c’è un salto, ed ecco le mie nuove opere e i nostri traumi odierni: intelligenza artificiale, scorie radioattive, pensiero magico, […].

 

L’allestimento della mostra è progettato da Marco Palmieri che nel percorso espositivo affianca le installazioni video di Tony Oursler ai dipinti di Gustavo Rol, i contributi e le testimonianze di quanto accadeva in presenza di Rol alla collezione sul paranormale di Oursler, articolando un racconto per immagini che permette allo spettatore di osservare da un nuovo punto di vista – e forse provare a comprendere – fenomeni inspiegabili.

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PARANORMAL

TONY OURSLER VS GUSTAVO ROL

a cura di Paolo Colombo

dal 3 novembre 2017 al 25 febbraio 2018

 

Il catalogo della mostra è edito da Corraini. Gucci è partner della mostra.

 

 

Collezione Permanente e Mostra Temporanea
Biglietti ingresso: Intero €10; Ridotto €8 gruppi, over65, convenzionati; Ridotto speciale €4 scuole e ragazzi 6-16 anni; Gratuito 0-6 anni non compiuti, disabili, Abbonati Musei Torino Piemonte e Torino+Piemonte Contemporary Card

In 10 mila nel weekend alle Ogr

Per il fine settimana dell’arte contemporanea le OGR – Officine Grandi Riparazioni di Torino hanno accolto 9.946 persone
Diversi gli appuntamenti in programma: la grande mostra “Come una falena alla fiamma” organizzata in collaborazione con Fondazione Sandretto Re Rebaudengo; il convegno di AMACI (Associazione Musei d’Arte Contemporanea Italiani) sull’impatto del digitale sull’arte contemporanea e sui musei; la programmazione di Club to Club e agli otto concerti antologici dei Kraftwerk .
I concerti si chiuderanno martedì 7 novembre mentre la mostra proseguirà fino al 14 gennaio.
Un dettaglio dei numeri:
– 150 partecipanti al convegno AMACI
– 5.896 ingressi alla mostra “Come una falena alla fiamma”
– 4.900 presenze ai concerti
– tra questi 326 appartenenti alla stampa e ai media

Torna il Divine Queer Film Festival

Il Divine Queer Film Festival (DQFF) si terrà dal 10 al 12 novembre. Tre giorni di proiezioni sui temi di identità di genere, migrazione e disabilità. Tutti e tre i temi trattati, ovviamente, in una prospettiva Queer. La location quest’anno sarà al Via Baltea – Laboratori di Barriera, in via Baltea, 3 a Torino. La sostanza però non cambia: sarà un festival cinematografico ricco di produzioni indipendenti e soprattutto a ingresso libero e gratuito. Divine, giunto ormai alla sua terza edizione, nasce dal desiderio di infrangere, attraverso il linguaggio cinematografico, stereotipi, pregiudizi, tabù e paure sulle persone transessuali/transgender, disabili e migranti. Raccontando in modo ironico e positivo le storie di chi, ogni giorno, non si arrende e continua a lottare in maniera costruttiva per apportare un cambiamento.

È online la programmazione sul sito ufficiale www.divinequeer.it: le pellicole avranno una provenienza ricca e varia: Italia, Belgio, Australia, India, Turchia, Germania, Canada, Irlanda, Nuova Zelanda, Francia, e Stati Uniti. Nel palinsesto sono previsti corti, medi e lungometraggi sia di finzione che documentaristici. Inoltre tutte le proiezioni saranno in lingua originale e sottotitolati in Italiano e per tutti i dibattiti/interventi sarà garantito il servizio di interpreti LIS, offerto dalla Città di Torino. Via Baltea garantisce la massima accessibilità alle persone con disabilità fisiche.
Inoltre verrà proiettato tutte le sere il film Verba Volant dedicato a due giovani insegnanti in sciopero della fame da più di 200 giorni in Turchia. L’edizione è quest’anno interamente dedicata a Mario Mieli, attivista e teorico Queer in Italia.Anche in questa edizione saranno assegnati tre premi ai film in gara: un premio assegnato dal DQFF, uno assegnato da una giuria internazionale e uno assegnato dal pubblico. Tutti i premi sono stati realizzati dall’artista Roque Fucci. La premiazione è prevista l’ultima sera del Festival. Sono previsti inoltre interventi di alcuni registi e ogni sera si potrà anche fare convivialità con aperitivi, spaghettate all’interno di Via Baltea. Prima, durante e dopo il Festival tutti gli aggiornamenti saranno disponibili sul sito web ufficiale del DQFF e sui social newtork Twitter(@DivineQueerFF) e Facebook(@divineqff). Incomincia a seguirci!

Tutte le sere inoltre sono previsti momenti conviviali, aperitivi, spaghettate e pizzate divine e sabato 11 ci sarà una festa con dj Maestro Totale con cui ci scateneremo sulle note di musica anni ’80 fino alle 3 del mattino! Il Divine è organizzato dall’associazione culturale Taksim ed è patrocinato dalla Regione Piemonte, dalla Città Metropolitana di Torino, dal Comune di Torino e da Amnesty International (Italia).

 

I dubbi interpretativi di Gabriel Garko, tra il vecchio Barrymore e la signorilità di Pagliai

Bel faccino e fisico aitante ma lato interpretativo a quota zero o poco più, Andrew Rally è un divo del piccolo schermo che reduce dalla solita fiction di successo decide un giorno di votarsi al palcoscenico: ovvero rinunciare temporaneamente a qualche milione di dollari per rifarsi una faccia d’attore un po’ più pulita. E con il ruolo di Amleto che farebbe tremare a chiunque le vene e i polsi. Dal mondo dorato di Los Angeles ai patemi di New York il passo è breve e trovare casa nella casa del Greenwich dove negli anni Venti visse il grande John Barrymore, Amleto d’oltreoceano per eccellenza, attraverso i consigli di una svampita agente immobiliare, è cosa presto fatta. Se poi l’agente è anche un po’ medium, perché non stimolare in una traballante seduta lo spirito del vecchio a venire in aiuto del ragazzo a corto di mezzi e d’esperienza? Cigolii e lampi improvvisi ed eccoti là nel grande salone servito il John in calzamaglia e giacca di velluto neri, a lavorare sull’essere o non essere per sei mesi: per ritrovarsi alla fine, dopo la prima, con un pubblico annoiato e una critica con il pollice verso, con un risultato decisamente opaco. Sarebbe la depressione totale se davanti al ragazzo non si ripresentasse (perché già prima aveva tentato di dissuaderlo) il regista dei suoi successi televisivi con la sua nuova barcata di soldi: Andrew dovrà ora decidere se e come crescere, se affrontare il nuovo personaggio di giovane insegnante nell’America di oggi e continuare a reclamizzare le solite merendine tanto redditizie.

Odio Amleto, scritto da Paul Rudnick nel 1991, in scena all’Alfieri fino a domani ad inaugurare la stagione del “Fiore all’occhiello” di Torino Spettacoli, è una di quelle commedie molto lineari e prevedibili che proseguono a divertimento intermittente o che sparano tutti i loro colpi nella prima parte per sedersi a fiato corto nel seguito con buone zone di noia. Si scomoda Shakespeare, si camuffano brevi suoi brani, si va a finire negli insegnamenti e nella signorilità dell’uno (ah! i ringraziamenti, anche quelli, diceva un vecchio autore e regista teatrale scomparso, Aldo Trionfo, di cui nessuno si ricorda più) confrontati con il naïf che è ben ancorato nel cuore di Andrew, si contorna il tutto con figurine più riuscite altre decisamente no (la fidanzatina ventinovenne e vergine, avversa al sesso prematrimoniale, che prova a essere Ofelia), si condisce il tutto con un dialogo che dovrebbe sfavillare ma che a tratti s’ammoscia e non trova la strada del più schietto e allargato divertimento. E anche la regia di Alessandro Benvenuti la si vorrebbe più tagliente e cattiva, più corrosiva nel fronteggiare due mondi lontani anni luce e invece è lì più a inquadrare e a rincorrere il piccolo effetto del momento. Ugo Pagliai “porge” con eleganza le proprie battute e gigioneggia e sbevacchia meno – crediamo – di quanto non facesse il suo Barrymore, Paola Gassman trova, come uscendo da un altro testo, un angolo di ricordi e di danza con il reduce di una lontana avventura, Annalisa Favetti centra in pieno la sua agente e la sorpresona Guglielmo Favilla a tratti mette in ombra tutti quanti nell’irruenza senza tregua del suo regista imbonitore. E poi c’è lui, Gabriel Garko, che tutti aspettano al varco, un attore su cui persino Ronconi un giorno volle scommettere, assieme a Zeffirelli e Ozpetek. È il suo testo, quello che pare scritto apposta per lui, divetto televisivo prestato al palcoscenico, lo ha ammesso: e allora godiamocelo così come è, con i suoi inciampi, con la sua dizione rattoppata, con la sua s imperfetta, con i vuoti non riempiti quando ascolta i colleghi con le loro battute, con la sua unica espressione, con quei tentativi di salire il primo gradino della recitazione. L’importante è partecipare, diceva quel tale: tanto poi magari dietro l’angolo c’è un’altra bella (ed economicamente corroborante) serie di Canale Cinque ad aspettarlo, fatta di onori rispetti peccati e vergogne. Qui c’è già un bel coraggio ad autoironizzarsi, a scendere in pista.

 

Elio Rabbione

D’Abbraccio/Gleijeses tra ribellione e rappacificazione

“Filumena Marturano” di Eduardo, regia di Liliana Cavani, per la stagione dello Stabile


Quante Filumene. Titina prima, poi via via Regina Bianchi e Moriconi, Isa Danieli e Sastri e Melato, senza contare la Sophia nazionale con il film di De Sica. Il testo è uno dei capisaldi del Novecento, non parliamo della fama di questa donna indomita che rappresenta l’assoluta libertà e il sacrificio delle madri del mondo. Il testo di Eduardo, datato 1946, è grande e lo hai visto tante volte, eppure questo titolo-monstre ti acchiappa sempre e ti fa ad ogni occasione tornare la voglia di andare a teatro. Che avrà fatto questa volta il regista (per carità, lasciatelo così come l’autore l’ha scritto, non pensate di rigirarlo come usano fare oggi certi metteurs en scène della lirica, scongiurerebbe qualcuno…), quale voce e quali gesti usciranno dalla bravura dei protagonisti. Per cui ti vai “anche” a vedere Mariangela D’Abbraccio e Geppy Gleijeses. Ed è vera, enorme bravura. Di lei, che scende nella sua madre con tutta la rabbia e l’ardore e l’artistico sotterfugio che a sipario appena aperto già è concluso, balzata dal letto a ribadire la propria dignità di donna, a rigovernarsi i capelli, a ripiegare la “robba” finalmente sua e sopratutto a reclamare pienamente uno status che per anni, venticinque lunghi anni, ha inseguito, quando lui la tolse diciassettenne da un povero basso e dalla fame per farle abbracciare il mestiere più antico del mondo. E poi, con quei sentimenti rimessi in gioco, nell’andare a raccogliere i tre figli disseminati che per anni ha sorvegliato, tre differenti caratteri, tre diversissime professioni, un incrociarsi di spavalderia, di giocosità familiare, di pacatezza; nel suggerire a Domenico Soriano, a Dun Mi’, la verità di una paternità inattesa verso uno di quei tre ragazzi e di uno soltanto, nel portarlo davanti al prete, nel ritrovare una calma che tuttavia non può ancora cancellare qualche battito di troppo del cuore. E di lui, che percorre l’opera tutta dall’esasperazione della belva presa in gabbia, del maschio svelato che dovrà prima o poi rinunciare ad un passato di comodità e privilegi, che dovrà affrontare un percorso di educazione sino alla rappacificazione punteggiata da un “papà!”, convinto e privo di ogni sdolcinatura, che arriva dalla bocca dei figli.

A dirigerli Liliana Cavani, l’autrice di “Galileo” e di “Portiere di notte” e del doppio “Francesco”, alla sua prima prova teatrale (lei che al di là di quelle cinematografiche tanto ha già frequentato i teatri lirici). Ha compattato lo spettacolo, cancellando gli intervalli, ad un’ora e 50’, è stata giustamente attenta a non allontanarsi dalla tradizione e dal naturalismo che la fa da padrone, ha scavato negli angoli più intimi dei suoi due attori, li ha fatti esplodere e li ha tenuti a bada, ha costruito con saggezza – dentro le scenografie di Raimonda Gaetani, la camera da letto e il salotto buono di chi ha fatto fortuna, senza dimenticare le sonorità della chitarra e il resto di Teho Teardo che accompagnano con struggenti melodie la vicenda – la lotta quasi fisica del primo atto, pedana di una doppia ribellione, con una stretta napoletaneità, con un linguaggio esasperato, con un gesticolare plateale, con le voci alte, gettate l’una contro la faccia dell’altro: mentre poi ha asciugato parole e gesti verso i territori della conciliazione, della tranquillità, della famiglia salvaguardata, in un percorso dove ogni sconquasso poco a poco si rimette al proprio posto, rallentandosi i tempi, le azioni, le voci. Sino al quadro finale. Una regia che non si pone soltanto al servizio “freddo” del testo e della volontà dell’autore, ma che butta là una personalissima cifra, ovvero non ancorando la vicenda agli anni dell’immediato dopoguerra, sino a schiacciarla, ma lasciandola venire un po’ più verso di noi, senza troppe ristrettezze. Con i più giovani attori, che pur con qualche inciampo rientrano appieno nel successo dello spettacolo, non possono passare senza citazione le prove di Mimmo Mignemi, uomo tuttofare di Soriano da sempre, che sfugge a tratti dal partenopeo per tradire origini siciliane, e soprattutto di Nunzia Schiano, “salvata” da Filumena, pure lei a squadernare un passato fatto di sacrifici e un presente dove per i figli non c’è più posto (bravissima: del resto, basterebbe ricordarla come madre di Siani in “Benvenuti al Sud”, pronta a sfornare per colazione strani sanguinacci ad un Bisio quantomai sconcertato e recalcitrante).

 

Elio Rabbione

Vedute d’insieme: l’identità di archivi e biblioteche

Sarà inaugurata il 6 novembre Torino: vedute d’insieme, una mostra diffusa e ricca di iniziative che si svilupperà in diverse date in varie sedi – Polo del ‘900, Palazzo Birago-Camera di commercio di Torino, Biblioteca Civica Centrale, Biblioteca Civica Musicale “Andrea Della Corte” – e racconterà con stili e accenti diversi il legame tra i patrimoni culturali e il senso di appartenenza e identità attraverso le testimonianze di chi lavora in ambito archivistico o bibliotecario, di chi fruisce dei patrimoni e di chi vi si rapporta con sentimento di affezione. Il percorso, arricchito dall’esposizione di documenti storici in alcune sedi e dalla proposta di attività culturali per il pubblico più ampio, prevede la proiezione delle digital stories realizzate nell’ambito del progetto “COMMONS. Patrimoni in comune, storie condivise”.

 

La mostra è la naturale conclusione del progetto “COMMONS. Patrimoni in comune, storie condivise” che, a partire dallo scorso gennaio, ha coinvolto numerose istituzioni culturali, ma anche i negozi, le botteghe e i cittadini. Partendo dalla valorizzazione dei patrimoni conservati negli archivi e nelle biblioteche, l’Associazione Passages che ha promosso il progetto è riuscita a raccontarli con linguaggi nuovi, a metterli in dialogo con le memorie e le esperienze di ogni giorno, a costruire con la collaborazione di tutti un’immagine inedita, riflessiva, intima ed emotiva della città.

 

“Che i patrimoni parlino di noi – dice Anna Maria Pecci, coordinatrice del progetto, presidente dell’Associazione Passages – mentre noi stessi ne parliamo, lasciando una testimonianza unica del nostro legame con la città, è il fil rouge che emerge da questo racconto corale frutto di mesi di lavoro appassionante e capace di coinvolgere soggetti diversi”.

 

Nel corso dei mesi sono stati infatti organizzati laboratori di digital storytelling per raccontare, con una dimensione narrativa nuova e partecipata, l’incontro con i patrimoni culturali delle Biblioteche Civiche Torinesi, dell’Archivio Storico della Città di Torino e del Polo del ‘900. Dall’incontro con un tessuto pieno di memoria quale quello della storica Contrada dei Guardinfanti, sono poi nati nuovi racconti nei quali i documenti d’archivio si intrecciano con i ricordi e le storie di chi vive e ama questi luoghi. Questo racconto condiviso è diventato uno spettacolo itinerante per raccontare personaggi e curiosità della Contrada, e poi ancora una serie di video performance inserite nei tour narrati che nel corso dell’autunno hanno riscosso grande successo.

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Le tappe della mostra Torino: vedute d’insieme e le attività proposte da ogni sede:

Dal 6 al 15 novembre

TORINO VEDUTE D’INSIEME ALLA BIBLIOTECA CIVICA MUSICALE “ANDREA DELLA CORTE”

Corso Francia 186

Visitabile lunedì, martedì e giovedì con orario 9.15/18.45; mercoledì e venerdì con orario 9.15/16.45.

Lunedì 6 novembre, ore 17.00: La Biblioteca Civica Musicale si racconta attraverso il digital storytelling.

Presentazione dei video realizzati nell’ambito del progetto COMMONS. Patrimoni in comune, storie condivise grazie al quale la pluralità del patrimonio culturale torinese è stata narrata mediante linguaggi partecipativi e innovativi.

Al termine sarà lanciata una call alla cittadinanza per raccontare la Tesoriera e il suo parco attraverso ricordi, documenti, materiali fotografici e video di chi li ha frequentati nel corso degli anni.

 

Dal 6 al 15 novembre

TORINO VEDUTE D’INSIEME AL POLO DEL ‘900 Palazzo San Daniele

Via del Carmine 14

Visitabile lunedì, martedì, mercoledì e venerdì, sabato e domenica con orario 9/21; giovedì con orario 9/22

Martedì 14 novembre: Storie che dialogano. Visita ore 14.30-15.30 Workshop ore 15.30-17.00 | Palazzo San Celso Via Del Carmine 13. Al Polo del ‘900 un workshop sulla creazione di storie digitali a partire dai luoghi e dai beni comuni di Torino, preceduto dalla visita del nuovo centro culturale nei Quartieri militari juvarriani. Posti limitati. È richiesta la prenotazione (associazionepassages@libero.it) entro lunedì 13 novembre

 

Dal 20 novembre al 7 dicembre

TORINO VEDUTE D’INSIEME ALLA BIBLIOTECA CIVICA CENTRALE

Via della Cittadella 5

Visitabile lunedì 15/19,55; dal martedì al venerdì 8,15/19,55; sabato 10,30/18

Venerdì 1 dicembre COMMONS. Patrimoni in comune, storie condivise

Nella sala conferenze, incontro di presentazione del progetto. Programma e orario in via di definizione

 

Dal 12 al 21 dicembre

TORINO VEDUTE D’INSIEME A PALAZZO BIRAGO – CAMERA DI COMMERCIO DI TORINO

Via Carlo Alberto 16. Visitabile dal lunedì al venerdì con orario 10/12,30 – 14,30/17; sabato e domenica 11/18; martedì 12 dicembre apertura alle ore 15

Dal 12 al 21 dicembre Patrimoni di prossimità. Programma in via di definizione

 

Iniziativa promossa e organizzata dall’Associazione Passages col patrocinio della Camera di commercio di Torino. Il progetto “COMMONS. Patrimoni in comune, storie condivise” realizzato dall’Associazione Passages con il sostegno della Compagnia di San Paolo nell’ambito del bando OPEN 2016-Progetti innovativi di Audience Engagement, è realizzato in partenariato con le Biblioteche Civiche Torinesi, l’Archivio Storico della Città di Torino, il Dipartimento di Filosofia e Scienze dell’Educazione dell’Università di Torino, il Polo del ‘900 e weLaika.

 

Cinzano, da Torino al mondo

7 gennaio 1757: nel verbale di Congrega dell’Università dei Maestri Acquavitai e Confettieri, conservato nell’Archivio di Stato di Torino, compare per la prima volta il nome dei fratelli e vignaioli di Pecetto, paesino della collina torinese, Carlo Stefano e Giovanni Giacomo Cinzano

 

AL MUSEO NAZIONALE DEL RISORGIMENTO ITALIANO DI TORINO, UNA MOSTRA PER CELEBRARE I 260 ANNI DELL’AZIENDA TORINESE

FINO AL 14 GENNAIO 2018

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7 gennaio 1757: nel verbale di Congrega dell’Università dei Maestri Acquavitai e Confettieri, conservato nell’Archivio di Stato di Torino, compare per la prima volta il nome dei fratelli e vignaioli di Pecetto, paesino della collina torinese, Carlo Stefano e Giovanni Giacomo Cinzano. Parte di qui la bella storia dell’Azienda torinese, fornitrice ufficiale dal 6 agosto 1776 (quando i fratelli Cinzano avevano già aperto a Torino “L’arte del confetto” in via Dora Grossa, l’attuale via Garibaldi) della Real Casa, per quanto riguarda gli approvvigionamenti di confetti bianchi e canditi destinati ai battesimi di corte. Quella di Cinzano è la storia esemplare di un brand che s’avvia a festeggiare (mancano in fondo solo quarant’anni) i tre secoli di vita e che ha saputo intrecciare il suo percorso aziendale, passo passo, con l’evoluzione dei gusti, del costume e dell’economia del Bel Paese. Un’avventura e un’eredità esemplari, omaggiate come si deve dalla suggestiva mostra “Cinzano: da Torino al mondo”, organizzata, proprio per festeggiare i 260 anni di storia e di eccellenza del marchio, lungo il Corridoio della Camera Italiana del Museo Nazionale del Risorgimento di Torino in piazza Carlo Alberto, fino al 14 gennaio. Curata da un Comitato Scientifico di storici e docenti italiani di altissima levatura e coordinata da Paolo Cavallo, responsabile degli archivi storici della società, la Cinzano rende così disponibile al pubblico, dopo circa vent’anni, alcune delle sue più celebri illustrazioni, insieme a 26 manifesti d’epoca, documenti, fotografie seppiate, bottiglie e oggettistica promozionale vintage. Sono tre le sezioni tematiche in cui si snoda l’iter espositivo: la comunicazione pubblicitaria, la storia del marchio (dalle origini al consolidamento internazionale) e le collezioni di oggetti storici del mondo bar, dalle targhe promozionali ai vassoi, dai bicchieri e dagli shaker fino alle più antiche bottiglie, alcune pesantemente segnate dall’incedere del tempo risalenti all’Ottocento. Secolo in cui avviene il vero salto di qualità (da attività artigianale a conduzione famigliare, a grande impresa industriale) con Francesco I e Francesco II Cinzano; grazie soprattutto a un’intelligente e lungimirante strategia pubblicitaria – che vanta collaborazioni con grandi artisti dell’epoca, da Adolf Hohenstein a Leonetto Cappiello (sua l’immagine guida della mostra, la “Donna adagiata su grappoli d’uva”), da Nico Edel a Raymond Savignac, da Jean-Pierre Otth a Giuseppe Magagnoli – ma anche al lavoro di infaticabili viaggiatori di commercio (come Giuseppe Lampiano, autore del libro “Attraverso il mondo” edito nel 1934 con dedica ad Alberto Marone Cinzano, e i fratelli Carpaneto, che già a inizi Novecento erano riusciti a portare i prodotti Cinzano in oltre 50 Paesi del mondo, fra Europa, Amerca Latina e Africa. E il viaggio, da allora, continua. Inarrestabile, ovunque nel mondo. Negli Anni ’60, quelli del boom economico (quando le campagne pubblicitarie portano la firma, fra gli altri, di Guido Crepax e nei Caroselli tv hanno il viso di Pel di Carota – Rita Pavone) sono ben 65 le filiali Cinzano sparse in cinque continenti. Per arrivarci, bisogna però fare ancora un passo indietro e passare attraverso le “prime bollicine”, comparse nel 1866 quando Francesco II Cinzano riesce ad ottenere in affitto la tenuta reale del Moscatello in terra di Langa, dove nella prima metà dell’ ‘800 re Carlo Alberto aveva avviato la costruzione di un formidabile complesso di cantine sotterranee e messo in piedi un laboratorio per la sperimentazione sulle uve locali del metodo “champenois”. L’opera non venne mai portata a termine. Ma nel 1887 (tre anni dopo la partecipazione alla grande Esposizione Generale Italiana tenuta a Torino), ormai famoso per i suoi vermouth prodotti sotto la Mole, Francesco Cinzano, nei moderni stabilimenti di Santa Vittoria d’Alba e Santo Stefano Belbo – costruiti per soddisfare una domanda sempre in aumento – inizia a produrre su vasta scala vermouth, barolo, barbera e moscato, “specialmente perfezionati – si legge in documenti del tempo- e ridotti a squisiti vini spumanti, che cominciarono ad acquistare

rinomanza per aroma e limpidezza”. Da allora la strada è tutta in discesa. Si corre ancora per un secolo, fino agli Anni ’80 e ’90 del Novecento. Periodo di transizione e sostanziale cambiamento. Fino alla svolta del 1999 quando il Gruppo Campari rileva il marchio, conferendogli un look più moderno, al passo con il nuovo Millennio. Trasformazioni imposte dai tempi per un’eccellenza italiana che tale continua a essere nel corso dei secoli. Mantenendo ben fermo il segreto dei segreti: quella formula del vermouth Cinzano, tramandata di padre in figlio e ancora oggi preservata nella sua originalità da una sola persona, il “master blender”: colui che seleziona, dosa e combina sapientemente le erbe aromatiche e i vari componenti alla base della preziosa infusione.

Gianni Milani

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“Cinzano: da Torino al mondo”

Museo Nazionale del Risorgimento Italiano, piazza Carlo Alberto 8, Torino, tel. 011/5621147; www.museorisorgimentotorino.it – Fino al 14 gennaio 2018 Orari: dal mart. alla dom. 10 – 18

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Le immagini:

– Leonetto Cappiello: ” Donna adagia su grappolo d’uva”, stampa litografica a colori su carta, 1920

– Jean-Pierre Otth: “The perfect vermouth”, stampa litografica a colori su carta, 1955
– Giuseppe Magagnoli: “Cilindro con bottiglia”, stampa litografica a colori su carta, 1927
– Nico Edel: “Donna che bacia la bottiglia”, stampa litografica a colori su carta, 1938
– Bottiglie Cinzano XIX secolo
– Oggettistica d’epoca del mondo bar

 

Le vittime della nostra ricchezza

Inaugura venerdì 3 novembre alle ore 18 presso l’ARTeficIO di via Bligny 18/L a Torino la mostra di fotografie di Stefano Stranges, The Victims of our wealth, promossa dall’associazione culturale e di promozione sociale Soluzioni Artistiche, in collaborazione con il Centro Piemontese di Studi Africani e Walkabout Ph. La mostra, patrocinata dalla Regione Piemonte, è la prima esposizione nell’ambito di FotoGraffiti, rassegna artistica espositiva a tematica sociale ideata da Soluzioni Artistiche negli spazi di via Bligny. 

The Victims of our wealth (Levittime della nostra ricchezza), aperta fino al 19 novembre, comprende due percorsi per stimolare una riflessione sulla situazione economico – sociale, rispettivamente, di Congo e Ghana, in particolare, sulla produzione e smaltimento di uno dei prodotti di maggiore consumo degli ultimi anni: gli smartphone.  Fondamentale per la realizzazione di questi oggetti è il coltan, un minerale che viene estratto nella zona del Nord Kivu in Congo, con conseguenze catastrofiche sull’ambiente e sulla popolazione. Qui è nato il primo lavoro di Stefano Stranges, tra gennaio e febbraio 2016, con in mostra 34 stampe fotografiche in bianco e nero.
Il coltan è il minerale che ognuno di noi porta in tasca e che è oggetto di una lunga catena commerciale che implica pesanti conseguenze sui diritti umani e ambientali. La Repubblica Democratica del Congo è oggi una delle più grandi riserve di coltan: la mancanza di alternative per sopravvivere e lo scarso livello di scolarizzazione costringe la popolazione a essere schiava nella propria terra e a lavorare come minatori, con dei livelli di sicurezza pari a zero.  La seconda tappa del progetto si sviluppa nella Repubblica del Ghana, nella zona di Agbohbloshie, dove si trova la più grande discarica tecnologica del mondo, in cui vengono riversati rifiuti di ogni genere (in particolare frigoriferi, computer, stampanti, monitor e smartphone…) che arrivano dall’Occidente tramite container. Questa sezione comprende 38 stampe fotografiche a colori scattate da Stranges, insieme a oggetti artigianali prodotti da alcuni abitanti di Agbogbloshie con materiali recuperati dalla discarica. Anche in questa fase sono state analizzate le conseguenze sulla popolazione che vive e lavora all’interno della discarica, chiamata Sodom and Gomorrah, nonché l’impatto sul territorio. 
La mostra presso l’ARTeficIO a Torino è la prima occasione pubblica in cui vengono esposti insieme i due progetti fotografici, corredati anche dalla proiezione di un video documentario del videorepoter e collaboratore Simone Rigamonti. Obiettivo è sensibilizzare il pubblico su una maggior consapevolezza del terribile impatto ambientale e umano che questa filiera può avere su questi territori e non solo, dall’estrazione dei minerali senza un controllo sui diritti umani, allo smaltimento illegale e incontrollato, fino a noi.  La mostra rientra nel programma di attività promosse dal Centro Piemontese di Studi Africani di Torino, che ha appoggiato la prima fase del progetto fotografico di Stefano Stranges, realizzata nelle miniere di coltan delle regioni orientali della Repubblica Democratica del Congo (RDC). Anche a seguito di questa preziosa collaborazione riguardo il contesto della RDC, è stato invitato a Torino il dottor Denis Mukwege, medico e attivista congolese, specializzato in ginecologia e ostetricia, che ha fondato nel 1998 in Congo il Panzi Hospital, ospedale in cui ha curato i danni fisici e psicologici di molte donne oggetto di stupro e violenze nella regione. Nel 2014, dopo essere stato candidato per il Premio Nobel per la pace, ha ricevuto dal Parlamento europeo il Premio Sakharov, massimo riconoscimento che l’Unione Europea conferisce agli sforzi compiuti a favore dei diritti dell’uomo. In parallelo, per il periodo di apertura della mostra, è in via di definizione un calendario di appuntamenti con gli studenti delle scuole secondarie, per visite guidate alla mostra con dibattiti di approfondimento sui temi affrontati.
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THE VICTIMS OF OUR WEALTH
di STEFANO STRANGES
a cura di Soluzioni Artistiche
in collaborazione con il Centro Piemontese di Studi Africani
dal 3 al 19 novembre 2017
vernissage 3 novembre ore 18
l’ARTeficIO – Torino

Ernesto Rossi della Manta, l’aristocratico giacobino piemontese del ‘900

Di Pier Franco Quaglieni

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E’ stata appena inaugurata all’Ufficio Relazioni con il Pubblico  del Consiglio Regionale del Piemonte  in via Arsenale 14 G a Torino  una mostra dedicata ad Ernesto Rossi nel 50° della morte,  che ha per titolo “Ernesto Rossi dal Piemonte all’Europa”, La mostra è organizzata dalla classe V C SS  dall’I.I.S. “Bosso- Monti” di Torino. Essa rimarrà aperta fino al 29 novembre .Roberto Rossi Precerutti,ultimo discendente della casata Rossi della Manta a cui Ernesto apparteneva, ha messo a disposizione la documentazione su una delle famiglie aristocratiche del vecchio Piemonte a cui appartenne questo giacobino coraggioso, certamente incurante delle sue origini nobili, anche se appartenne idealmente , a pieno titolo, due secoli dopo, a quella straordinaria  élite illuministica dei Radicati di Passerano su cui aveva scritto Gobetti. Nato a Caserta nel 1897 e morto a Roma nel 1967, Ernesto Rossi, dopo aver partecipato come volontario alla Prima Guerra Mondiale, conobbe a Firenze Gaetano Salvemini: fu quello l’incontro decisivo della sua vita, che lo portò ad essere sempre coerente con sé stesso, anche nei momenti più duri della sua vita. Rossi rappresenta nella vita politica e culturale italiana l’esempio tipico del “ribelle” o, se vogliamo, del “rompiscatole”, del “donchisciotte”, come disse Gian Carlo Paletta ai suoi funerali. Nel febbraio 1967 ,il giorno dei suoi funerali, Ugo La Malfa tenne un importante discorso al teatro “Carignano” nel quale lanciò il nuovo Partito Repubblicano che superava quello legato alla tradizione mazziniana che a Torino si identificava in Terenzio Grandi e Vittorio Parmentola. All’inizio del suo discorso ricordò Ernesto Rossi, definendolo <<un uomo del Risorgimento>> per la probità morale del suo agire, per la intensa passione civile che sempre caratterizzò la sua vita. Giovanissimo, andai ad ascoltare La Malfa e rimasi colpito da quel discorso. Ne parlai dopo lezione all’Università, a Palazzo Campana(dove pochi mesi dopo sarebbe nata la contestazione studentesca)   con Aldo Garosci, che era uno dei miei professori più amati alla Facoltà di Lettere dov’egli insegnava Storia del Risorgimento e Storia delle dottrine politiche.  Garosci era stato in aspra polemica con Rossi pochi anni prima per” il caso “Piccardi”, una vicenda che non merita di essere ricordata, anche se sconquassò il Partito Radicale di allora ,in verità già minato da dissensi ben più profondi. Garosci non solo riconobbe la grandezza di Rossi, ma si espresse  con parole di assoluta generosità e rispetto verso il combattente per la libertà e la democrazia Ernesto Rossi. Paradossalmente  non fu così generoso Massimo Mila che aveva condiviso con lui il carcere a Roma.E’ impossibile far rivivere il suo gusto per la battuta tagliente, per il paradosso, per la polemica più feroce che caratterizzarono i suoi scritti.

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Oppositore irriducibile del fascismo, fra i fondatori di “Giustizia e Libertà”, Rossi fu arrestato nel 1930 e condannato a vent’anni di carcere (nel suo libro Elogio della galera ci ha lasciato testimonianza di che cosa significasse per lui ” Non mollare”, per dirla con il titolo del giornale antifascista fiorentino a cui aveva collaborato). Visse l’esperienza del carcere con una intransigenza ferrea che gli indurì il carattere, senza impedirgli tuttavia di abbandonarsi alla dolcezza dei sentimenti, quando scriveva alla sua “Pig”, il diminutivo di “Pigolina” attribuito, con catulliana tenerezza, alla sua donna, Ada, che volle sposarlo in carcere e restargli fedele per tutta la vita. La figura di Ada Rossi merita un ricordo a sé perché ella fu una donna di straordinaria personalità,  che seppe fare scelte coraggiose e sempre controcorrente, non coincidenti con quelle del marito. Successivamente relegato al confino di Ventotene, scrisse nel 1941, con Altiero Spinelli, il famoso Manifesto da cui – in piena guerra – trasse impulso l’idea federalista di un’Europa libera ed unita. Un modo di intendere l’Europa diverso da quello che fu di Federico Chabod e dello stesso Luigi Einaudi. Tra i fondatori del Partito d’Azione e poi del Partito Radicale, visse l’esperienza de “Il Mondo” di Mario Pannunzio, di cui fu una delle “colonne”: le sue inchieste appartengono ormai alla storia del giornalismo italiano, così come alcuni suoi libri hanno lasciato una traccia difficilmente cancellabile: pensiamo, ad esempio, a I padroni del vapore.Fu vicinissimo a Marco Pannella all’atto della rifondazione del Partito Radicale di cui fu subito uno degli iscritti già nel 1962/63. Rossi era un liberista convinto, che proveniva dalla scuola di Einaudi, ma aveva anche appreso da Salvemini e da Rosselli i valori della giustizia e del socialismo liberale. Negli anni del pontificato di Pio XII esemplari ( e, forse, non sempre accettabili) furono le sue battaglie ferocemente anticlericali. Alessandro Galante Garrone ha così sintetizzato il carattere di Rossi: << Spiritaccio scanzonato, una delle coscienze più pure ed intemerate del nostro tempo>>. Fu uno degli ultimi “illuministi” che si lasciava guidare, come egli stesso scrisse, dal << cerino acceso della nostra ragione>>. Nel buio morale dei nostri giorni, la lezione scomoda di Enesto Rossi è una di quelle che vanno raccolte e ricordate anche da parte di chi ha dissentito dai suoi “furori” polemici: egli stesso è una piccola luce che ci indica la strada da percorrere, senza tradire: è stato, parafrasando Benda, << un chierico che non ha tradito>>, un cittadino esemplare di quella <<Italia civile>> di cui parla Bobbio.

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E’ molto significativo che in tempi come quelli che viviamo, in cui è stato smarrito il senso della storia e del valore civico,dei giovani studenti torinesi si siano avvicinati a Rossi che fu professore di economia negli Istituti superiori di Stato ed al quale, dopo il carcere duro e il confino, nell’Italia tornata democratica , venne negata ingiustamente la docenza universitaria. E’  anche molto importante che ci siano dei docenti che supportino una ricerca di questo tipo. Licei blasonati torinesi si appiattiscono nei riti autocelebrativi del loro passato, senza uscire dalle solite” vulgate”. Gli studenti del “Bosso -Monti” seguono altre strade e va loro reso merito. Non è, per altri versi, un caso che Rossi venga riscoperto dai giovani. Già nel 1987 gli studenti dell’Istituto superiore di Bergamo, dove Rossi insegnava prima dell’arresto e dove conobbe la futura moglie sua collega di insegnamento, fecero un video sulla vita del professore che diede lustro alla loro scuola . Ricordo con piacere l’invito a Bergamo che mi venne fatto per ricordare Ernesto Rossi nel ventennale della morte. Oggi gli studenti torinesi riscoprono la sua figura anche collegandola alle radici piemontesi della sua famiglia. E’ un segno che non bisogna disperare e che bisogna guardare con fiducia alle nuove generazioni. 

 

quaglieni@gmail.com