CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 702

Giansone, sculture da indossare

FINO AL 29 GENNAIO 2018

Si dice fosse uomo e artista “schivo e indipendente”. Lontano anni luce dai codificati parametri delle mode (“le vere opere d’arte – scriveva – restano sempre contemporanee”) e dei linguaggi stilistici più in voga del tempo, Mario Giansone (Torino 1915 – 1997) fu pittore e scultore di singolarissima personalità

Sordo ai richiami e alle lusinghe delle “sirene” che non fossero carne della sua carne e voce del suo istinto, rifiutò perfino di prendere parte alla Biennale di Venezia del ’66 e disse “no” (si racconta) all’invito di Peggy Guggenheim – invito che avrebbe fatto fare tripli salti mortali ad altri suoi colleghi – che gli chiedeva un’opera per la sua collezione lagunare. Certamente fu uno dei più grandi scultori italiani del ‘900. Molto apprezzato in vita – fu anche docente all’Accademia Libera di Belle Arti e all’Istituto Statale d’Arte di Torino, oggi Liceo artistico “Aldo Passoni” – ebbe pure una significativa fortuna collezionistica in particolare nella Torino degli Anni ’60: alcune sue opere fanno oggi parte delle collezioni della GAM (la subalpina Galleria Civica d’Arte Moderna), della sede Rai di Torino (sua la scultura di “Santa Cecilia” realizzata per l’Auditorium) e di alcune prestigiose collezioni private torinesi. Eppure, dopo la morte, inspiegabilmente il filo della notorietà che in vita lo aveva legato ben stretto agli ambienti artistici della sua città sembrò quasi spezzarsi. O quanto meno allentarsi. E anche in questo senso fu artista di stampo assolutamente singolare, Giansone. Celebre in vita, quasi dimenticato dopo la scomparsa. La bellissima mostra che in Sala Atelier, Palazzo Madama dedica oggi ai suoi gioielli in oro è dunque un tributo doveroso e intelligente alla memoria di un artista che, in tutta la sua vita, ha scolpito, disegnato e dipinto seguendo emozioni e percorsi spirituali tradotti in forme sospese fra “sintetica figuratività” e “astrazione pura”. Curata da Marco Basso e dall’amico-collezionista Giuseppe Floridia, la rassegna – inserita nell’ambito di “Torino Design of the City”– mette insieme una quarantina di opere (in gran parte di proprietà dell’“Associazione Archivio Storico Mario Giansone”, più alcuni pezzi prestati da collezioni private) datate fra il 1935 e il 1997 in cui spiccano i suoi “gioielli”, veri e propri “gioielli da indossare”: microsculture fuse in oro che, accanto a disegni e sculture in metallo e pietra, mettono spesso in evidenza un altro grande amore di Giansone, quello per il jazz. Che fu tema ispirativo di opere imponenti (mirabili nel rapporto fra “vuoti” e “pieni” e nella definizione di effetti luminosi di magica suggestione), come l’ “Orchestra jazz” in porfido del ’67 o l’incantevole bronzo su pietre di fiume “Ideogramma del jazz” del ’58, stesso anno della tempera su cartone “Pianista e orchestra jazz”. Motivi che troviamo anche incisi o riportati in rilievo in molti dei suoi preziosi monili (collane, anelli, girocolli, bracciali), in cui l’artista si sforza sempre di porre in risalto la componente plastica, più che vezzi e cifre stilistiche dell’arte orafa del tempo. A dirlo sono anche i contenitori lignei degli stessi gioielli – “scatole” intagliate in legni durissimi come il mogano, il palissandro, la radica e soprattutto l’ebano – che diventano a loro volta piccole sculture e capolavori artistici. A tentare Giansone e a metterlo a faticosa prova, armato di scalpello e sgorbia, è infatti soprattutto la “materia dura”, il marmo o la pietra o il ferro o i legni più tenaci, in cui scavare e sottrarre per arrivare a quella che lui definiva “scultura diretta”, capace di “dare forma e vita alle sue emozioni, alla sua visione dell’umanità, dell’universo e dell’ultraterreno”. E perfino alla sonorità e alle improvvisazioni tipiche della musica jazz. Sensazioni. Emozioni forti che sarà possibile sperimentare, in misura ancor più intensa, visitando lo studio di Mario Giansone ( in via Messina 38 a Torino), che, in occasione della mostra a Palazzo Madama, resterà eccezionalmente aperto per visite guidate a prenotazione obbligatoria fino al 20 gennaio del prossimo anno, tutti venerdì e sabato alle 17,30 e alle 18,30 (ad esclusione dei giorni 8, 9, 22, 23, 29 e 30 dicembre); inoltre, in occasione di “Artissima”, lo studio sarà visitabile dal 3 al 5 novembre con orario prolungato, dalle 10 alle 19,30. Info e prenotazione obbligatoria: tel. 011/4436999 oppure didattica@fondazionetorinomusei. It.

Gianni Milani

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“Giansone. Sculture da indossare”

Palazzo Madama – Sala Atelier, piazza Castello, Torino, tel. 011/4433501; www.palazzomadamatorino.it Fino al 29 gennaio 2018

Orari: lun. – dom. 10/18; chiuso il martedì

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Nelle immagini

– Mario Giansone: “Orchestra jazz, 5 tempi di sviluppo”, porfido, 1967 

– Mario Giansone: “Bracciale, placca fissa con ideogramma del jazz”, oro, fusione a cera persa, contenitore in ebano intagliato

– Mario Giansone: “Pianista e orchestra jazz”, tempera su carbone, 1958

– Mario Giansone: “Ideogramma del jazz”, bronzo su pietra di fiume, fusione a cera persa, 1958

– Mario Giansone:”Bracciale con ideogramma del jazz”, oro, fusione a cera

 

 

 

 

Il pittore della borghesia e delle bellezze femminili (con un pizzico di scandalo)

Si spense la sera del 14 gennaio 1938 Giacomo Grosso, acclamatissimo cantore della buona borghesia torinese, e non soltanto, il ritrattista per antonomasia delle signore bene, degli industriali come Vittorio Tedeschi, degli scultori come Calandra e dei pittori come Delleani e dei grandi musicisti come Verdi, delle nudità femminili che negli anni addietro avevano fatto scandalo. Aveva lasciato sul cavalletto un nuovo ritratto del generale Badoglio, a cavallo, il bozzetto di una delle eminenze italiane, lui che avrebbe pittoricamente tramandato i visi seri e di circostanza dell’assassinato Umberto, multimedagliato, del regnante e giovanile Vittorio Emanuele e della regina Elena, incoronata, un po’ troppo impettiti, un po’ freddi, seppur scenograficamente perfetti, seppur, lei, invidiabile in quel tripudio di specchi e consolle nella pelliccia e nel suo raso azzurro, vaporizzato a riempire la base della tela. Era nato a Cambiano, nel torinese, quasi settantotto anni prima, in una famiglia di undici figli, da un padre, Guglielmo, falegname e da una madre, Gioanna Vidotti, “setaiola, che però non lavora dovendo badare a una famiglia numerosa”, come ci informa Gian Giorgio Massara nel suo intervento all’interno del bel volume edito da Silvana Editoriale e da Albertina Press che accompagna nel cuore della mostra Giacomo Grosso, una stagione tra pittura e Accademia, curata con caparbia passione da Angelo Mistrangelo e inaugurata nei giorni scorsi in quattro diverse sedi (fino al prossimo 7 gennaio).

Un’esistenza che potrebbe prendere le mosse, anche se per interposta persona, da quel Giacomo adolescente sorpreso dodicenne da Cosola in veste di chierichetto, che attraversa stagioni di assoluta povertà, di “disperante miseria” – come anche ricordava De Amici in una breve biografia del 1906: “Il genio del celebre pittore piemontese germinò e fiorì nella miseria… campavano di stenti e pativano spesso la fame” -, che è accettato in differenti seminari, con tanto di punizioni e di sottrazione di una scatola di colori che gli era utile per i primi esercizi, che entra, grazie all’intercessione di Andrea Gastaldi, nelle sale dell’Accademia Albertina, a sostenerlo la somma di trecentosessanta lire annue che sotto il titolo di pensione gli fa pervenire il sindaco di Cambiano, Michele Rocco, che arrotonda ripassando con il colore ingrandimenti fotografici dovuti a Giuseppe Vanetti, che ha lo studio in piazza Vittorio, compenso cinque lire ciascuno. Poi i primi premi, il primo mecenate che lo ospita addirittura a Roma con tanto di atelier nel palazzo del Quirinale, i primi viaggi all’estero, l’insegnamento (mantenne la cattedra di Pittura per 46 anni) e lo studio presso l’Albertina, Grand’Ufficiale della Corona d’Italia, senatore del Regno, a due anni dalla scomparsa una personale presso il salone de “La Stampa” che in quindici giorni raccoglie oltre 120.000 visitatori.

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Quale secondo appuntamento di quell’itinerario che è “I Maestri dell’Accademia Albertina”, inaugurato l’anno scorso con Gastaldi e destinato a proseguire, oggi Torino dedica a Grosso questa mostra in cui sono raccolte cento opere. Dicevamo in quattro differenti sedi. Con gli inizi di una attività posti nella sala del Consiglio del Palazzo Comunale di Cambiano, dove s’ammira l’impressionistico Favorito, sguardo ravvicinato tra una elegante ragazza e il suo azzurrognolo pavone o gli autoritratti giovanili, la vivacità di quella vetrina realissima di peperoni carnosi nei loro colori rosso e giallo e d’uva piena di riflessi o quel Pater Noster che pecca già oltre misura di finzione, subito riscattato dai ritratti della madre e del padre, umanamente immediato dentro la semplicità dell’abito e della poltrona che lo accoglie, le dite intrecciate di quelle mani che per l’intera vita hanno lavorato il legno, omaggio autentico di un figlio. Nelle sale dell’Albertina, inserendosi quasi a fatica tra le abituali collezioni, inquadrando per se stesse spazi color crema nell’azzurrino che siamo soliti visitare, ritroviamo la concretezza di certi ritratti di amici pittori, certi angoli romani o di Venezia, le nature morte che allineano ciliegie o un tripudio di ostriche e anguille e un grosso pesce ammirato e “fotografato” su un banco di qualche antico mercato. O quei funghi che sono un fornitissimo pantone di tinte marrone, raccolti soltanto ieri in val di Susa. O la naturalezza di una verza, polposissima, gigantesca. O la tranquillità della Sera che avanza in quel borgo che sale su per la montagna, dove dentro stanno tanti nomi di colleghi piemontesi. O quel capolavoro che da solo meriterebbe la visita, quella Figura di monaca, di verghiana memoria o forse manzoniana, senza ricciolo in bella mostra ma con quegli occhi che lasciano intravedere un’ombra di sottile perfidia e di complicità. Ritroviamo – con un bell’avamposto fotografico che sono le immagini delle modelle nella loro completa nudità ad opera di Ferdinando Fino, una vetrina di fotografie autocrome stereoscopiche, ovvero il 3D odierno, che ci riportano all’interno dello studio dell’artista, stanza preziosa curata da Fabio Amerio – La nuda, esempio perfetto di procace bellezza muliebre, immersa a guardare lo spettatore nel bianco immenso di una pelliccia d’orso, capace già di scandalizzare e di scombussolare gli ingessati signori del tempo (mai quanto Il supremo convegno alla Biennale veneziana del 1895, momento altamente funebre ed erotico di cinque donne attorno alla bara dell’antico amante, occasione degli strali di Papa Sarto, vendicato di quel peccato da un incendio che a New York, con la sua stima di 150.000 dollari, lo ridusse in cenere.

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Furoreggiano nelle sale della Fondazione Accorsi-Ometto non soltanto i ritratti di anonime ragazze intente a leggere le ultime indiscrezioni nel giornale arrivato da Parigi (Amusant, vivace, l’allegria di un momento rubato) ma pure quelli delle signore della buona borghesia, delle celebrità dell’epoca, espressioni ormai incastonate, che a volte peccano di una fissità che le rende vittime del déjà vu, del ripetuto esercizio di stile, pronte tuttavia a reclamare maggiore attenzione in quegli abiti di sfrontata eleganza, accurati, risplendenti nella soavità delle stoffe, negli abbinamenti dei colori, nel tatto soffice delle pellicce, nei ricami, nei veli, immediatamente comparabili con due esempi della Sartoria Devalle messi in mostra. È la rappresentazione di un microcosmo, il ritratto di un’epoca, il sospetto di un certo decadentismo, di una perfezione che da qualche parte nasconde un più o meno piccolo tarlo, di un volume di bellezze che ci prepariamo a sfogliare, esempio perfetto di un mondo scomparso (già non pochi contemporanei rimproveravano a Grosso di non voler ricercare nuove strade nella pittura). Freddezza ed esercizio talora, forse: tuttavia non possono escludere una totale ammirazione il Ritratto di signora del ’18 o quello che ci tramanda il viso di Eleonora Guglieminetti Vigliardi Paravia o La pensierosa, quello impertinente di Luisa Chessa (1903) o in ultimo il Ritratto della signora Carriè che ci fa apparire Giacomo Grosso assai “moderno” nel suo modo di interpretare la figura. In ultimo, a conclusione dell’intero percorso della mostra, fate un salto nella Corte medievale di Palazzo Madama (fino al 23 ottobre) e lasciatevi trasportare dalla bellezza della sensuale Ninfea (1907), incastonata in quella barocca Cornice d’alcova che arredava all’Albertina lo studio del Maestro e che possiamo ritrovare come scenografia a parecchie sue opere.

 

Elio Rabbione

 

 

Le immagini:

 

Mio padre, olio su tela, 1887, Accademia Albertina

La nuda, olio su tela, 1896, GAM, Torino

Ritratto di Eleonora Guglielminetti Vigliardi Paravia, olio su tela, 1919. coll. privata

Amusant, olio su tela. 1881, coll. privata

Colombo e Fo tra giganti storici e guitti da palcoscenico

IL COMMENTO 

di Pier Franco Quaglieni

La festa torinese per Dario Fo meritava di essere ignorata: un’apologia acritica condita in salsa grillina, anche se Grillo ha dato forfait . La vera Torino non c’entra nulla con Fo che semmai simpatizzò con le frange estreme della contestazione e del terrorismo a cui predispose un “Soccorso rosso” insieme a Franca Rame che invece venne eletta senatrice a Torino nella lista di Di Pietro. La Messa cantata celebrata al “Carignano” dal figlio Jacopo e da Carlin Petrini e’ uno sperpero di soldi pubblici, se si considera il taglio di 80 milioni ai bilanci comunali. E’ prezzo pagato al grillino Fo che, dopo esser stato fascista repubblichino e comunista sovversivo, diventò seguace di Grillo. Ovviamente della sua militanza repubblichina ne’ Jacopo ne’ Carlin hanno parlato perché ,malgrado una sentenza dica il contrario, Dario Fo sarebbe stato un infiltrato antifascista tra i militi della Rsi, come sostenne falsamente il diretto interessato. Ovviamente il fatto che gli venne, senza meriti sufficienti e adeguati , conferito il Premio Nobel ha posto la sordina sul vero Fo che magari fu anche un guitto divertente, ma non ebbe mai la statura minima per poter aspirare al Nobel. A un anno dalla sua morte, Torino non aveva comunque motivo e giustificazione per celebrarlo , mentre ignora grandi torinesi vivi come Piero Angela e Guido Ceronetti che hanno compiuto 90 anni. Fo , Jacopo e Carlin meritavano il silenzio stampa, mentre gli articoli si sono sprecati.

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Ma il processo a cui ha partecipato Jacopo Fo che ha comminato la damnatio memoriae – cioè l’ergastolo della storia – a Cristoforo Colombo ,obbliga a scriverne. Dario Fo nel 1963 scrisse una commedia dal titolo “Isabella, tre caravelle e un cacciaballe” in cui Colombo venne accusato di crimini infami : assassinio, schiavismo, sfruttamento, rapine ecc. Fo padre era un giullare e poteva essere preso non sul serio il figlio invece pretende di sostenere l’accusa in un processo a Colombo con argomentazioni storiche. Avevano già iniziato gli americani, nell’opera di demolizione, accanendosi contro il monumento dello scopritore del loro Continente. Adesso si aggiunge Fo che dimostra di non capire che quando si tenta di fare storia non la si deve leggere con gli occhi di oggi. La storia di fine 1400 va contestualizzata nella sua epoca che certo non fu un’età mitica dell’oro ,ma un periodo storico di ferro ,di sangue e di fuoco, come , in verità , quasi tutte le epoche storiche ,in primis, il ‘900 rivoluzionario comunista così amato dai due Fo e da Petrini. Jacopo Fo ha paragonato Colombo a Totò Riina. Un parallelo demenziale che abbisogna di confutazioni. Insieme a Lutero, Colombo e’ il padre dell’età moderna; egli è andato oltre le Colonne d’Ercole ed ha cambiato la storia del mondo. Ha fatto una rivoluzione decisiva come Galileo. E’ sicuramente comprensibile che Jacopo Fo non riesca a districarsi in un labirinto fatto di giganti e non di guitti. E scriva di Colombo definendolo “cane rognoso”. Una versione che piace ai grillini, soprattutto ai colti Di Maio e Di Battista, che hanno lasciato gli studi, con la scusa di applicarsi alla politica .

quaglieni@gmail.com

Mario Soldati e la camelia rosso ciliegia chiazzata di candido bianco


Mario l’aveva portata da Tellaro a Corconio, dalla frazione più orientale del comune di Lerici, nello spezzino, dove aveva scelto di vivere i suoi ultimi anni, al luogo che, forse, più di altri, aveva lasciato un segno, una traccia indelebile nel suo animo, sulla collina che guarda il lago d’Orta. La “General Coletti” era una camelia bella, forte e rigogliosa, con i suoi grandi fiori doppi, a peonia, rosso ciliegia intenso chiazzato a macchie di un bianco candido, puro. L’aveva curata con le proprie mani, pazientemente, con l’attenzione necessaria che si presta ad una creatura apparentemente fragile e delicata. Così l’aveva portata con sè, sul lago d’Orta. Tornare in quel luogo dove aveva vissuto, con il suo più caro amico, “l’altro Mario”, un lungo momento magico, tra l’autunno del 1934 e la primavera del 1936 “quando il destino ci appaiò, ci assecondò nella scelta di un volontario esilio sul lago d’Orta”, si era rivelata una buona idea. Anche portare in dono la camelia agli eredi delle due sorelle Rigotti, l’Angioletta e la Nitti, che all’epoca gestivano l’alberghetto dove dimorarono, era stata un’ottima e gradita intuizione. La locanda non c’era più e il suo posto era stato preso da un’abitazione privata che, però, aveva mantenuto intatta la fisionomia dello stabile. Lì, entrambi, quasi adottati da quella famiglia, misero radici e vissero intere stagioni alloggiando in “una stanza d’angolo, la più bella e più soleggiata dell’albergo, con una finestra a nord e una a ovest”. I ricordi erano come un fiume in piena. Le lunghe chiacchierate davanti al fuoco del camino, mangiando castagne arrosto o bollite, bevendo il vino nuovo nelle ciotole, si accompagnavano alle pagine che vennero scritte, ai libri che presero forma, agli articoli e ai saggi critici che consentirono loro di racimolare il necessario per poter vivere “da scrittori”. L’ambiente circostante si offriva in tutta la sua bellezza da una sponda del lago all’altra; da Gozzano a Orta, fino ad Omegna e da lì verso  Oira, Ronco, Pella e Lagna. Dal balconcino della casa di Corconio, il panorama era rimasto intatto. Mario guardava, ammirato, la camelia dai fiori color panna e fragola. Poi, chiusi gli occhi, annusando l’aria, immaginava i colori del lago. Mario dubitava di potervi tornare. L’età non consentiva grandi progetti e nemmeno il coltivar illusioni. Lo consolava il pensiero che la più bella delle sue camelie potesse rimaner lì, a dimora. Un gesto d’amore di un uomo che in quei luoghi aveva lasciato un pezzo del suo cuore.

Marco Travaglini

“Al di qua”: Clochard da Oscar nel docufilm girato a Torino

Sono quaranta i clochard torinesi protagonisti del docu-film ”Al di qua” di Corrado Franco. Il film girato dal regista torinese potrebbe arrivare a vincere l’Oscar 2018 per la  categoria documentari, alla quale è stato ammesso. Il docufilm è girato in bianco e nero con un budget di 200.000 euro e propone le testimonianze sulla vita dei barboni torinesi.

A Laurent Mauvignier il Bottari Lattes Grinzane

È Laurent Mauvignier con “Intorno al mondo” (Feltrinelli) il vincitore del Premio Bottari Lattes Grinzane 2017 per la sezione Il Germoglio, dedicata ai migliori libri di narrativa italiana o straniera pubblicati nell’ultimo anno

Gli altri finalisti al Premio erano: Gianfranco Calligarich con “La malinconia dei Crusich” (Bompiani), Olivier Rolin con “Il meteorologo” (Bompiani) e Juan Gabriel Vásquez con “La forma delle rovine” (Feltrinelli). 

La cerimonia di premiazione si è svolta sabato 14 ottobre presso il Castello di Grinzane Cavour (Cn), condotta dallo scrittore Alessandro Mari.

Protagonisti della giornata sono stati gli studenti rappresentanti delle 24 giurie scolastiche italiane, che hanno incontrato gli scrittori finalisti. Ospite d’onore, il libraio Rosario Esposito La Rossa, “lo spacciatore di cultura”, come è stato definito, che ha appena aperto la libreria “Scugnizzeria” a Scampia e Melito (Napoli), dove da oltre quarant’anni mancava uno spazio dedicato ai libri.

Lo scrittore e sceneggiatore inglese Ian McEwan è stato premiato venerdì 13 ottobre per la sezione La Quercia, dedicata a Mario Lattes e riservata a un autore internazionale che abbia saputo raccogliere nel corso del tempo condivisi apprezzamenti di critica e di pubblico.

I quattro romanzi finalisti del Premio, organizzato dalla Fondazione Bottari Lattes, erano stati designati e annunciati ad aprile a Cuneo, alla sede della Fondazione CRC (che collabora e sostiene il Premio), dalla Giuria Tecnica presieduta da Gian Luigi Beccaria.

Tra aprile e giugno i quattro libri sono stati letti e discussi dai 384 studenti delle 24 Giurie Scolastiche: una a Bruxelles, presso l'”Ecole Européenne Bruxelles”, e ventitré in Italia. Le giurie italiane sono state scelte in modo da coprire tutto il territorio della Penisola, almeno una per ogni regione. 

Il Premio ha avuto il sostegno di: Mibact, Regione Piemonte, Fondazione CRC (main sponsor per il triennio 2017-2019), Cantina Giacomo Conterno (main sponsor), Banca d’Alba, Città di Cuneo, Comune di Alba, Comune di Grinzane Cavour, Comune di Monforte d’Alba, Cantina Terre del Barolo, Enoteca Regionale Piemontese Cavour, Banor, Fiera Internazionale del Tartufo Bianco d’Alba, Antico Borgo Monchiero.

Info al pubblico: 0173.789282 – eventi@fondazionebottarilattes – @BottariLattes

g. m.

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Foto:
– Laurent Mauvignier: “Intorno al mondo” (Feltrinelli)
Lo scrittore e sceneggiatore inglese Ian McEwan 

 

Tarocchi. Dal Rinascimento a oggi

IN RASSEGNA ANCHE OPERE A TEMA DI NIKI DE SAINT PHALLE. FINO AL 14 GENNAIO 2018

“Immagine psicologiche”, figure archetipe nell’inconscio collettivo: così definiva le carte dei Tarocchi – 22 Arcani Maggiori e 56 Arcani Minori – nientemeno che Carl Gustav Jung (1875 – 1961), fondatore della psicologia analitica. Concetti poi ripresi dal saggista Joseph Campbell (1904-1987) e approfonditi dallo sceneggiatore Christopher Vogler, in moltissimi film e saghe hollywoodiane. Molti anni prima, fra il 1469 e il 1478, il poeta Matteo Maria Boiardo realizzava, per diletto della corte estense, una collana di 78 terzine e due sonetti con lo scopo preciso di accompagnare il gioco delle carte dei Tarocchi. E che dire del nostro grande Italo Calvino (1923-1985) e del suo celebre “Castello dei destini incrociati”, libro in cui lo scrittore di origini cubane utilizza proprio le carte dei Tarocchi per raccontare le storie di un gruppo di viaggiatori radunati dal destino in un castello.

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E l’elenco potrebbe continuare. Perché saranno pure “Arcani” finché si vuole, a volte guardati anche (per la loro più o meno acclarata funzione divinatoria) con un certo imbarazzante sospetto, ma una cosa è certa: dalla filosofia alla psicoanalisi, dalle scienze storiche alla letteratura alla poesia e all’arte, non esiste campo dell’espressività e dello “scibile” umano che non sia stato tentato e toccato dalla magia innegabile di queste antiche 78 carte. Che hanno storia lunga, storia che dura da sei secoli. A farne un suggestivo e dettagliato resoconto, attraverso un evento espositivo unico nel suo genere e a cura di Anna Maria Morsucci, sono il MEF (Museo Ettore Fico) e la Casa editrice “Lo Scarabeo” di Torino che, su oltre mille metri quadri dello spazio museale di via Cigna, presentano un ricchissimo repertorio di mazzi antichi e moderni, carte miniate in oro, libri, documenti provenienti da importanti collezioni private, editti, matrici di stampa e bozzetti inediti di celebri artisti contemporanei.

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Il tutto accompagnato da materiale audiovisivo e applicazioni multimediali, capaci di personalizzare e “virtualizzare” come meglio aggrada la visita alla rassegna. Un vero e proprio viaggio “iniziatico” che parte dalla metà del Quattrocento nel Nord Italia, dove i Tarocchi nascono per essere usati nelle taverne come gioco d’azzardo e nelle corti principesche come gioco di società; via via, fino al ‘700 quando in Francia e in Inghilterra per la prima volta vengono usati in chiave esoterica e cartomantica, per arrivare attraverso le più molteplici declinazioni d’uso ai giorni nostri. Fra le opere più significative esposte, alcune carte del “mazzo Visconti” (1451) miniate in oro da Bonifacio Bembo, i seicenteschi “Tarocchini bolognesi” realizzati dall’incisore Giuseppe Maria Mitelli, insieme alle edizioni antiche dei “Tarocchi marsigliesi”, ai Tarocchi austriaci” della Secessione Viennese e ad altri rarissimi mazzi di produzione italiana, francese e tedesca.

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Da segnalare ancora la prima edizione (1909) dei “Tarocchi Rider Waite” – il mazzo più conosciuto nel mondo anglosassone – e quelli dell’esoterista Oswald Wirth (1860 – 1943), più numerosi mazzi contemporanei che ne testimoniano la costante evoluzione. Anche sul piano di una “resa” artistica in linea con i linguaggi maggiormente innovativi del tempo (come quelli della Pop Art o della Street Art), bene accompagnati a prove preziose di alcuni “grandi” della storia dell’arte novecentesca: da Renato Guttuso (in mostra, l’inquietante “Appeso”), a Franco Gentilini, a Emanuele Luzzati (con i suoi solari e giocosi “Bambini amanti”) fino a Ferenc Pintér a Sergio Toppi e a molti altri. Curiosa anche la sezione a “luci rosse”, dedicata ai “Tarocchi erotici” con opere di Paolo Eleuteri Serpieri, di Giacinto Gaudenzi e Mauro De Luca. Così come quella volta a documentare l’influenza dei Tarocchi nel fumetto (da Dylan Dog ai Supereroi, da Diabolyk a Corto Maltese), nel cinema, nella musica e nella letteratura.

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Contemporaneamente alla mostra sui Tarocchi, il MEF ospita anche una fantasiosa rassegna su opere e progetti legati al “Giardino dei Tarocchi” di Niki de Saint Phalle (1930 – 2002). Fra le più importanti esponenti del “Nouveau Réalisme” francese, l’artista ha infatti dedicato gli ultimi anni della sua vita alla realizzazione del parco artistico di Garavicchio (Grosseto) abitato da magiche monumentali sculture in ceramica variopinta, raffiguranti i 22 Arcani Maggiori. A lei è anche dedicata, presso la nuova sede del MEF Out-side ( aperto di recente in via Filippo Juvarra 15, a Torino), in collaborazione con la Fondazione Niki de Saint Phalle e il Mamac di Nizza, un’Antologica che raggruppa opere dell’artista – di singolare giocosità ma anche di acceso impegno sociale – datate dagli Anni ’50 ai ’90.

Gianni Milani

“Tarocchi. Dal Rinascimento a oggi”

MEF- Museo Ettore Fico, via Francesco Cigna 114, Torino, tel. 011/852510; www.museofico.it

Fino al 14 gennaio. Orari: da merc. a ven. 14-19/ sab. e dom. 11-19

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Nelle foto:

– Anonimo della Scuola di Bonifacio Bembo: “Mazzo Visconti – 5 Spade”, 1451

– Franco Gentilini: “La Forza”

– Renato Guttuso: “Appeso”

– Emanuele Luzzati: “Bambini Amanti”

– Niki de Saint Phalle: “Temperance”, litografia, 1997

– Niki de Saint Phalle: “L’arbre de la vie”, serigrafia, 1987

 

I set di Sorrentino, ogni particolare sta sotto la lente del regista

Sorride Paolo Sorrentino, lunghe basette e un triangolo di rughe che partono dall’angolo dell’occhio, sotto le luci di via della Conciliazione, davanti gli sta il Cupolone illuminato. È la prima delle 42 immagini di Gianni Fiorito, fotografo di scena che da più di una quindicina d’anni segue il regista della Grande bellezza, che ne coglie i momenti quotidiani, che ne fissa le inquadrature migliori e pronte a divenire cult, che squaderna i gesti e i visi degli attori, il disincantato alter ego Toni Servillo in primis, che racconta la premura di un autore attento ai particolari, quasi maniacale, alla piega di un abito, alla fissità di uno sguardo, al movimento stanco di una mano, alla noia di un passo, alla perfezione di un trucco, al lasciarsi vivere di una comparsa, ad un viso esattamente grinzoso, ad una mano invecchiata. Adesso sono insieme su un altro set, Loro – nulla vieta di spezzare in due quel titolo con l’inserimento di un apostrofo – “su” Berlusconi, e la prima immagine uscita dalle agenzie, Servillo berlusconizzato, mette quasi i brividi. Immagini che formano ”già” una storia o quanto corre intorno ad essa: Fiorito svolge l’attività di fotogiornalista fin dal 1980, sviluppando e inoltrandosi nella realtà napoletana, documenta il fenomeno camorristico e l’illegalità diffusa, guarda alla realtà sociale e urbanistica delle periferie, le trasformazioni del paesaggio urbano. Negli anni Ottanta, ancora come fotografo si lega al gruppo teatrale “Falso Movimento” di Mario Martone, dal 1999 i suoi interessi si rivolgono sempre più al cuore e ai backstage delle produzioni cinematografiche, i suoi registi, oltre Sorrentino, si chiamano John Turturro, Antonio Capuano, Luca Miniero.

Una carrellata, questa, “Cronache dal set: il cinema di Paolo Sorrentino”, ospitata fino al 7 gennaio prossimo nei locali di Camera, il Centro Italiano per la Fotografia a Torino (via delle Rosine 18) e curata da Maria Savarese, che abbraccia in uno sguardo solo pressoché un’intera cinematografia. Michael Caine perso e sognante tra la musica e i campanacci muti delle verdi montagne elvetiche o gli ospiti della clinica immersi nella tranquillità rigenerativa della piscina sono immagini di Youth, un set preparato, in attesa del ciak, attorno ad una bandiera o le orecchie a sventola di Andreotti/Servillo all’ombra di un incombente ritratto di Marx sono immagini del Divo, la magnifica opulenza di Jude Law, gli abiti ricamati e preziosi, il rosso del mantello che attraversa le strade di Roma, la monaca occhialuta di Diane Keaton, l’impegno dell’abituale Luca Bigazzi a centrare la giusta e più suggestiva inquadratura sono immagini di The young pope, lo sguardo di Cheyenne/Sean Penn, stratruccata e rincantucciata rock star alla ricerca dell’ufficiale nazista è l’immagine-simbolo di This must be the place, Jep Gambardella seduto nella sua giacca rossa accanto alla donna nuda è l’immagine universale della Grande bellezza, come la suorina raggrinzita, il viso intristito di Sabrina Ferilli, quello di Fanny Ardant più spigoloso, Servillo mollemente disteso sull’amaca, il bicchiere di alcol in mano.

Sottolinea Savarese nella presentazione della mostra, piccola chicca per tutti i cinéphiles: “Nella sua ricerca fotografica, Gianni Fiorito non si accontenta di restituire una o più immagini che siano rappresentative dei film, ma da ciascuna di esse cerca di trarre una visione ulteriore che mai si pone a commento di quella già data dal cinema. Ciò che tenta di fare la sua fotografia è ‘vedere oltre’, ragionando sugli elementi fondamentali della scena: l’attore, il regista, la troupe, i luoghi. Fotografare il cinema non è semplice: meno frequente è trovarsi di fronte a risultati che valicano il limite della documentazione per produrre visioni portatrici di senso”. È ‘l’oltre’ ad interessare qui, nelle immagini. Del cinema “sincopato” di Sorrentino, la rappresentazione del suo immergersi nel centro della scena, del colloquio continuo con i vari più o meno piccoli attori e con il personale tecnico, il controllo di ogni cosa, lo spingersi a “dirigere” ogni più impercettibile oggetto di scena, “fotoreporter costantemente presente, ma invisibile e attento, al centro del set”. Fiorito è capace davvero di renderci tutto questo.

 

Elio Rabbione

 

La Rivoluzione d’ottobre vista dai giornali piemontesi dell’epoca

La Rivoluzione russa del 1917? “È stata un disastro – per il popolo russo, per l’Europa, e per la sinistra in tutto il mondo… Questa rivoluzione non ci sarebbe dovuta essere. La società russa non era pronta ad appoggiare e sostenere una rivoluzione autenticamente socialista e democratica”. Quelle che sembrerebbero le parole di un conservatore, in realtà esprimono il giudizio che dell’avvento del comunismo in Russia dà il filosofo Michael Walzer, esponente della sinistra Usa. Ma, a cento anni di distanza, possiamo chiederci come reagì l’opinione pubblica piemontese a quell’evento epocale. Lo facciamo consultando l’archivio online www.giornalidelpiemonte.it che contiene le raccolte di oltre 130 testate locali.

Quella che chiamiamo Rivoluzione d’ottobre fu preceduta, nel febbraio dello stesso 1917, dai moti rivoluzionari che portarono all’abdicazione dello zar Nicola II e al governo “borghese” del nazionalista Kerenskij. I bolscevichi di Lenin e Trockij, in un clima di generale anarchia e di disfacimento delle strutture del potere civile e militare, guidarono l’insurrezione decisiva tra il 7 e l’8 novembre del nostro calendario, che corrispondono al 25 e 26 ottobre del calendario giuliano in vigore in Russia. Cacciarono il governo borghese e diedero avvio al regime comunista che sarebbe durato fino a Gorbaciov. Di questo evento dà puntualmente conto il quotidiano cuneese Sentinella delle Alpi, da cui attingiamo gran parte delle notizie sulle reazioni agli eventi russi. Già il 4 ottobre il giornale scrive che “gli agitatori politici, costituitisi in Comitato rivoluzionario, si sono impadroniti del potere e hanno dichiarato di non riconoscere più il Governo provvisorio”.

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Nei giorni successivi l’attenzione è mirata alle conseguenze belliche della difficile situazione russa. Il 9 ottobre l’Azione Novarese riporta che “I Russi subiscono altri rovesci: le grandi isole Desel e Dagol, che proteggevano ancora dalle incursioni nemiche buona parte del golfo di Riga… sono state conquistate anch’esse e il nemico (tedesco n.d.r.) se ne farà una grande base per altre avanzate nell’infelice Nazione Russa che si dibatte ancora fra le convulsioni dell’anarchia”. E la Sentinella del 20 ottobre titola con grande evidenza che i russi sgombrano aree a 300 km da Pietrogrado, la capitale zarista che si teme di dover evacuare, e il governo è costretto a trasferirsi a Mosca. Perché tutto questo interesse per le vicende di quello che era ancora un alleato dell’Italia? Perché siamo alla vigilia dell’offensiva che l’esercito austro-tedesco, liberato in buona parte dagli sforzi sul fronte russo, sta per sferrare in Venezia Giulia, quella fase della guerra ben nota con il nome di Caporetto, che ancor oggi è sinonimo di una disfatta italiana. Infatti, il Corriere di Saluzzo del 27 ottobre mette in relazione il successo dei rivoluzionari russi con l’avanzare degli Imperi centrali, e scrive “Chi sono i bolsceviki? E’ il partito di quei russi che vogliono la pace con la Germania ad ogni costo”. Ma siamo ormai ai giorni centrali del doppio “dramma”, la ritirata italiana dopo la rotta sul fronte giuliano e la presa di potere dei leninisti. La Sentinella del 10 novembre titola “I massimalisti padroni di Pietrogrado” l’articolo in cui si annuncia che il congresso dei Soviet, dopo un discorso di Lenin che è stato acclamato per aver detto che “questa è la vera rivoluzione”, ha lanciato un proclama che inizia con il primo punto: “Tutto il potere appartiene ai Soviet”. Il presidente Kerenskij è in fuga e la complicità con lui sarà considerata alto tradimento.

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Nello stesso numero un commento esplicita bene il giudizio che il giornale esprime sugli eventi russi, paragonandoli alla Rivoluzione francese del 1789. In quel caso però, spiega l’editorialista, i rivoluzionari seppero far fronte prontamente alle minacce esterne che provenivano alla Francia da ogni dove, perché la “fiamma patriottica” non venne mai meno. Oggi invece, i nuovi capi della Russia si azzuffano tra loro, tutte le forze attive della nazione sono travolte dall’anarchia e la Rivoluzione, come Saturno, sta già divorando i suoi figli. E ora gli italiani “per l’ignavia di questo popolo” sono costretti a “subire l’impeto irresistibile delle immani valanghe teutoniche che si riversano sul fronte orientale della nostra patria…Per noi l’avventura russa significa enorme sagrificio di sangue e di denaro”. Interprete dell’incertezza e disorientamento di quei giorni è il pezzo sul Corriere di Saluzzo del 24 novembre che segnala “in tanto caos” il prevalere dei “bolsceviki capitanati da Lenin” e sottolinea la gravità anche della situazione economica con una laconico “intanto regna sovrana la fame su tutto e su tutti”. La Sentinella del giorno successivo registra che il potere di Kerenskij è ormai finito e che “negli ultimi moti vennero, negli avvenuti saccheggi, rubate opere d’arte e quadri del valore di parecchi milioni di rubli”.

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Infine, merita citare estesamente l’editoriale dal titolo “Melanconie russe” su Il Fossanese del 1° dicembre 1917: “Povera Russia! … dal disordine caotico, dall’anarchia sociale in cui essa sta dibattendosi non è lecito neppure dopo che son trascorsi tanti mesi argomentare e di intuire con qualche approssimazione quale abbia ad essere la configurazione sociale e politica sia nel prossimo che nel lontano avvenire … Per parte nostra non speriamo affatto in una prossima risurrezione della Russia. Noi pensiamo che l’umanità ha sempre proceduto e procederà innanzi per forza di evoluzione e non di rivoluzione: e perché i popoli abbiano ad evolversi e procedere nella via del progresso e della civiltà è necessario che essi educhino, istruiscano e perfezionino sé stessi… La grande massa del popolo russo non ha dato prova di essere giunto a quell’alto grado di educazione politica o di coscienza sociale quale i suoi improvvisati tribuni e quotidiani dittatori inutilmente proclamano… Essa sta facendo invece un terribile, sanguinoso ed inutile sogno di grandezza dopo il quale dovrà ricadere più esausta e più impotente di prima”. Insomma, in un ambito sicuramente conservatore, si facevano già un secolo fa considerazioni analoghe a quelle espresse oggi, da tutt’altro versante, dal filosofo Walzer.

 

Domenico Tomatis

Nella foto una vignetta dal Corriere di Saluzzo del 15 dicembre 1917

 

 

 

I prossimi eventi al “Pannunzio”

MERCOLEDI’ 18 OTTOBRE – “IO, TRAFFICANTE DI VIRUS.

Una storia di scienza e di amara giustizia”

di Ilaria CAPUA

Mercoledì 18 ottobre alle ore 17,30, nell’Aula Magna del Rettorato dell’Università di Torino (v. Verdi, 8), il Centro “Pannunzio” organizza la presentazione che Mattia FELTRI, giornalista de “La Stampa”, farà in dialogo con l’autrice, del libro di Ilaria CAPUA, Direttore del “One Health Center of Excellence for Research and Training” dell’Università della Florida,“IO, TRAFFICANTE DI VIRUS. Una storia di scienza e di amara giustizia”, Rizzoli Editore.

Ilaria Capua, virologa italiana di fama mondiale pluripremiata e riconosciuta da tutta la comunità scientifica, viene indagata in Italia per un presunto traffico di virus e vaccini. Un’accusa vergognosa accompagnata da una campagna stampa infamante, che cade dopo anni di linciaggio mediatico con un proscioglimento. La vicenda, lunga e dolorosa, l’ha costretta a lasciare l’Italia per gli Stati Uniti per continuare a fare con serenità il suo lavoro. Così l’Italia ha perso uno dei suoi cervelli migliori.

Introduce Giuseppe PICCOLI presidente del Comitato scientifico del Centro Pannunzio. Coordinamento di Benedetto CARELLA.

 

VIAGGI

24 – 26 NOVEMBRE 2017

VIAGGIO A VICENZA PER LA MOSTRA SU VAN GOGH,

VISITA DELLA CITTA’ ED ALLE VILLE VENETE

a cura della prof. CLAUDIA DE FEO

PROGRAMMA DEL VIAGGIO

1° GIORNO – Venerdì 24 Novembre: visita guidata alla mostra di Van Gogh e passeggiata nel centro storico di Vicenza

Partenza da Torino in pullman privato alle ore 7,30 in c.so Stati Uniti angolo c.so Galileo Ferraris (Circolo della Stampa) e trasferimento all’Antico Hotel Vicenza, 4 stelle in pieno centro storico. Pranzo libero e, alle ore 15:30, visita guidata alla mostra su Van Gogh. Tra il grano e il cielo, allestita nell’incomparabile scenario della Basilica Palladiana, «casa regale» dalle tradizionali botteghe d’oreficeria al piano terreno, che ha come nucleo il Palazzo della Ragione d’età gotica e come rivestimento le logge con la caratteristica copertura a carena rovesciata, realizzate da Andrea Palladio. Il percorso espositivo si sviluppa sul fil rouge delle struggenti lettere alla madre e al fratello Théo, “illustrate” da docu-film ambientati nei luoghi che hanno fatto da teatro al tragico cammino di Van Gogh verso la luce e la forza espressiva, nella spasmodica attesa di un successo giunto all’indomani della morte. La qualità e l’unicità delle opere esposte rendono la mostra un’occasione irripetibile per ripercorrere i luoghi e i fatti di un’esistenza intensa e tormentata, densa di creazioni di una genialità terribile, sovente sublime, capace di una percezione d’intensità sovrannaturale, di luci e sfumature invisibili a un occhio normale e della magica iridescenza delle ombre.

Dopo la visita, passeggiata nel cuore del centro storico di Vicenza, Patrimonio Mondiale dell’Unesco: Piazza dei Signori, platea grande medievale dov’era il foro romano, fulcro del sistema delle piazze centrali. Oltre alla Basilica e all’adiacente Torre Bissara, vi prospettano la Loggia del Capitaniato, antica sede del reggente militare della Repubblica di Venezia, incompiuta ma pienamente espressiva della maturità palladiana; Palazzo del Monte di Pietà, che annette nel lungo prospetto la trecentesca Chiesa di San Vincenzo (messa officiata in latino) e chiude il lato settentrionale della piazza, suggerendo con la sua scialbata affrescatura a scene bibliche l’immagine dell’urbs picta rinascimentale.

Come “parete ottica” a ideale limite dell’antica platea, sono due colonne evocative dei poteri, temporale e spirituale, cui s’affidava la città: Colonna del Leone, rimarcante il dominio veneziano, e Colonna del Redentore, sormontata dall’omonima statua. Nell’adiacente Piazza delle Biade resta la porta bifronte del Palazzo del Podestà, creata da Palladio, cui si deve anche il portale della vicina Chiesa di Santa Maria dei Servi.

Cena in ristorante tipico e pernottamento in hotel.

2° GIORNO – Sabato 25 Novembre: visita alle Ville palladiane

Prima colazione in hotel. Partenza in pullman privato per un singolare itinerario alla scoperta di una costellazione di capolavori siglati da Palladio o legati al vasto fenomeno del palladianesimo: residenze signorili e luogo di vita colta e raffinata in campagna, dove si situavano gli interessi della famiglia titolare.

Torino 22-05-2017 Foto Daniele Solavaggione CONCERTO DEL PIANISTA SANDRETTO PER I 50 ANNI DEL CENTRO PANNUNZIO NELL’AULA MAGNA DEL RETTORATO

Sosta a Thiene e visita di Villa Da Porto Colleoni, straordinario esempio di residenza pre-palladiana, unico del suo genere per caratteristiche tipologiche e destinazione funzionale, caposaldo nell’evoluzione delle ville venete. Il fabbricato padronale, immerso nel vasto parco romantico, domina sulla grande corte, cinta da mura merlate. Fra le costruzioni di servizio sono la fattoria, dimora del gastaldo, la colombara, le serre, le sfarzose scuderie e le barchesse porticate. Visita di Villa Godi Malinverni nella vicina Lugo di Vicenza. Opera prima di Palladio, che la cita ne I Quattro Libri dell’Architettura, conserva interni splendidamente affrescati a soggetto mitologico ed è stata set per il film Senso di Luchino Visconti. Di grande interesse sono le cucine, emblematiche della concezione palladiana nella localizzazione dei vani di servizio. Al giovane architetto si deve anche l’armonioso disegno del giardino a emiciclo.

Pranzo in ristorante di tradizione con specialità locali, nella cornice unica e suggestiva delle barchesse di Villa Godi Malinverni.

Trasferimento alle falde del colle di San Bastian e visita di Villa Valmarana ai Nani, celebre per lo straordinario ciclo di affreschi di Giambattista Tiepolo, che dipinse la villa nel periodo del suo massimo splendore artistico, e del figlio Giandomenico. Il nomignolo “ai Nani”, con cui è conosciuta, per differenziarla dalle altre ville della stessa famiglia, è dovuto alle 17 sculture in pietra rappresentanti dei nani, un tempo sparsi nel parco, oggi allineati sul muro di cinta.

Rientro a Vicenza, cena libera e pernottamento in hotel.

3° GIORNO – Domenica 26 Novembre: Vicenza

Prima colazione in hotel. Passeggiata lungo il Corso, “salotto” di Vicenza, antico decumano sul quale prospettano molti palazzi palladiani; «le loro facciate sono le pareti della via intesa come un’architettura aperta, continua, transitabile, il cui soffitto è il cielo».

Visita al Teatro Olimpico, il più antico teatro coperto al mondo, ultima opera di Palladio e sommo capolavoro, le cui forme discendono dalla teoria e dalla storia, tramandando significati di grecità incentrati nella cavea semiellittica e nella scena monumentale, dove si aprono strade di nobile architettura, in prospettive tese e sfuggenti.

Dove un tempo era l’area portuale sorge Palazzo Chiericati, la più scenografica fra le residenze cittadine progettate da Palladio, i cui splendidi saloni affrescati sono sede del Museo Civico. Visita mirata alle preziose collezioni, basilari per comprendere i rapporti fra le arti figurative e l’architettura veneta del ‘500: Paolo Veronese, prediletto da Palladio, e i maestri della Scuola Vicentina, collaboratori ricorrenti dell’architetto. Ricchissime le raccolte di bozzetti e progetti autografi di Palladio e Scamozzi, come le collezioni d’arte, dove emergono P. Veneziano, Memling, Tintoretto, Bassano, Sansovino e i Tiepolo.

Tempo a disposizione per il pranzo libero e visita alla Collezione di icone russe nel barocco Palazzo Leone Montanari, con la scenografica Loggia d’Ercole e l’affrescataGalleria delle Verità. È la più importante raccolta di icone fuori dalla Russia, unica nel suo genere a livello nazionale e tra le prime in Occidente per ampiezza cronologica e tematica.

Al termine delle visite, rientro a Torino in pullman privato ed arrivo verso le ore 20,30 circa.

 

DETTAGLI DEL VIAGGIO

VICENZA – HOTEL CAMPO MARZIO 4*

Il Campo Marzio è un hotel 4* recentemente rinnovato con tutti i comfort, wifi gratuito e un servizio di alta qualità ed è ubicato in pieno centro a 20 metri dalla zona pedonale di Vicenza.

QUOTE DI PARTECIPAZIONE:

In camera doppia : euro 550,00;

Supplemento singola: euro 40,00;

Eventuale assicurazione per rinuncia: euro 18,00.

La quota comprende: 2 pernottamenti nell’hotel 4* indicato o equivalente con trattamento di pernottamento e prima colazione; le tasse di soggiorno previste nella città di Vicenza; 1 cena in ristorante tipico a Vicenza, 1 pranzo nella barchessa di Villa Godi Malinverni; trasferimenti in pullman privato come da programma; guida locale per le visite in Vicenza; nostro tour leader alloggiato nella stessa struttura del gruppo; ingressi come da programma; radioguide per tutte le visite.

La quota non comprende: pasti e bevande non espressamente citati; spese a carattere personale, mance ed extra in genere; tutto quanto non indicato alla voce «la quota comprende».

Numero minimo e massimo di partecipanti: 20 – 30 persone.

ANTICIPO DI 250,00 EURO ALL’ATTO DELL’ISCRIZIONE.

SALDO ENTRO L’11 NOVEMBRE.

Le eventuali assicurazioni per rinuncia vanno saldate al momento dell’iscrizione.

Penalità per rinuncia:

10% dal giorno dell’iscrizione fino a 60 giorni dalla partenza;

30% da 59 a 46 gg. prima della partenza;

50% da 45 a 31 gg. prima della partenza;

75% da 30 a 15 gg. dalla data di partenza;

100% 14 gg. prima della partenza.

 

ISCRIZIONI AL PANNUNZIO

QUOTE SOCIALI 2018:

  • Aderenti € 85 (altro famigliare convivente € 60);

  • Ordinari € 200;

  • Sostenitori € 350;

  • Benemeriti € 600;

  • Giovani fino a 18 anni € 5;

  • Giovani fino a 24 anni € 18.

L’ISCRIZIONE FATTA ADESSO È GIÀ VALIDA PER IL 2018.

La quota può essere versata in segreteria nell’orario di apertura o con:

– bonifico bancario UNICREDIT IT55 E 02008 01048 000100174647. Dall’estero

aggiungere codice BIC SWIFT: UNCRITM1AA1;

– c/c postale n. 32038101, Iban IT55 J 07601 01000 000032038101, intestato al Centro

di Studi e Ricerche “Mario Pannunzio” precisando la causale di versamento.

E’ possibile iscriversi online cliccando www.centropannunzio.it.

Sono graditi i contributi volontari per il Centro.
 

 

Centro Pannunzio – via Maria Vittoria 35H, 10123 Torino

WWW.CENTROPANNUNZIO.IT