CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 695

Claude Monet Shadow prosegue al Parco Dora

Meluzzi: “mix di storia e modernità filtrata attraverso l’infinita bellezza dell’arte pura”

Prosegue con successo la mostra ‘Claude Monet Shadow’ al Parco Commerciale Dora, in cui alcuni fra i principali e più amati dipinti del grande Maestro impressionista francese acquistano nuova luce grazie all’innovativa tecnica di videomapping in 3D dell’artista Luca Agnani, ideatore dell’evento. Il 15 novembre, dalle ore 18, a impreziosire lo spazio espositivo di circa 55mq vi sarà anche l’esibizione musicale di un gruppo di allievi del Liceo Classico Cavour, che svolgono anche funzione di guida culturale al percorso di mostra. Alla brillante iniziativa è anche giunto il plauso del noto psichiatra, sociologo e studioso Alessandro Meluzzi, che l’ha definita un riuscito mix di storia e modernità filtrata attraverso l’infinita bellezza dell’arte pura. Tutte le informazioni sul sito www.parcocommercialedora.it.

Diagnosi del moderno di Albino Galvano

La GAM di Torino presenta il volume dedicato all’intellettuale torinese

Mercoledì 14 novembre, ore 18

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A vent’anni, fu fra i frequentatori a Torino della “scuola di via Galliari” animata dall’allora maestro dei maestri Felice Casorati; qualche anno dopo fonda, insieme a Franco Antonicelli, l’Unione Culturale torinese e nel ’48 promuove il MAC – Movimento Arte Contreta, fondato a Milano da Atanasio Soldati insieme a Gillo Dorfles, cui aderirono artisti (illuminati da un libero astrattismo geometrico) i cui nomi vanno da Bruno Munari, a Filippo Scroppo e a Gianni Monnet, fino a Nino Di Salvatore. Pittore, storico e critico d’arte nonché filosofo (fu docente di Filosofia, dopo esserlo stato di Pittura all’Accademia Albertina, ai Licei “Gioberti” e “Galileo Ferraris” di Torino) e intellettuale di levatura europea non sufficientemente conosciuto – né riconosciuto – neppure in Italia, ad Albino Galvano (Torino, 1907 – 1990), l’Editrice “Nino Aragno” dedica meritevolmente un volume dal titolo “Diagnosi del moderno”, a cura di Alessandra Ruffino, attenta studiosa dei rapporti fra arte e letteratura, già docente all’Università di Torino con Marziano Guglielminetti e giornalista collaboratrice de “Il Giornale dell’Arte”, nonché consulente di varie istituzioni pubbliche e privata e nell’editoria. Articolato in 33 testi, suddivisi in otto sezioni, il volume sarà presentato il prossimo mercoledì 14 novembre, alle ore 18, presso la Sala Uno, al piano terra della GAM-Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea, in via Magenta 31, a Torino. Al dibattito, interverranno (oltre alla curatrice dell’opera), Riccardo Passoni, direttore della GAM e Maria Teresa Roberto, docente all’Accademia Albertina. Obiettivo del libro: Offrire a lettori e studiosi la possibilità di accedere a una significativa parte degli scritti di un autore capace di spaziare tra estetica, filosofia, critica d’arte, letteratura, psicoanalisi, storia dell’arte orientale. Senza mai temere la marginalità e l’inattualità, Galvano è stato un lucido testimone del suo tempo e un acuto interprete di quella ‘genesi per opposizione’ che, attraverso il passaggio Simbolismo-Art Nouveau-Astrattismo, ha aperto all’età contemporanea e alle sue tante contraddizioni, illusioni, disillusioni”.

g.m.

Foto
– Albino Galvano: “Santi Anargiri”, olio su tela, 1950, Collezione GAM-Torino

“Burattino senza fili”

Oggi vorrei parlarvi di una delle voci più autorevoli nel panorama musicale italiano degli anni ’70 ed ’80: Edoardo Bennato.

Sono figlia di quegli anni e ricordo della sua discografia, I buoni e i cattivi, La torre di Babele per dirne due, nei quali Edoardo toccava temi importnti che a molti artisti dell’epoca erano ancora sconosciuti. Ma nel 1977, a parer mio, si supera con un concept -album, “burattino senza fili” tramite il quale trasponendo il Pinocchio di Collodi, lega una favola per bambini (molto profonda direi) con il rigido e difficile mondo degli adulti, sbattendoci in faccia le difficoltà cui si è sottoposti a causa dei conformismi e delle convenzioni che ci vengono imposti per “adeguarci” agli schemi sociali. La mia canzone preferita in questo album (che ho ascoltato milionate di volte n.d.r.) è “ E’ stata tua la colpa”. È Stata Tua La Colpa è l’incipit di questo grandissimo disco: mesta e quasi rassegnata, si basa sulla chitarra acustica e l’armonica del cantante, che tratteggia uno scenario amaro sulle costrizioni che la società impone attraverso i suoi “fili”. Trovo Burattino senza fili un album geniale, ben suonato e splendido sotto ogni punto di vista. Burattino Senza Fili mostra un’artista in grandissimo spolvero, in grado di rileggere i personaggi e le situazioni di Collodi e di trasporre attraverso loro la sua visione delle tante storture della società degli “adulti”, piena di approfittatori, burattinai e cialtroni: Pinocchio diventa umano e paga duramente questa decisione, finendo in balia dei vari Mangiafuoco che decidono per lui, manipolando la sua vita con dettami piovuti dall’alto. Una canzone assomiglia a un rebus. È una specie di tragitto invisibile e intricato da portare a termine. In certi casi è matematica, e segue determinate leggi o convenzioni. In altri è soltanto magia, mistero, evocazione. È proprio come sbrogliare il nastro di una musicassetta che si è intrecciato in mille nodi e grovigli inestricabili. È necessario seguire il proprio istinto, ma allo stesso tempo occorre applicare una logica ferrea. Buon ascolto

https://www.youtube.com/watch?v=8Y448Q_G0O4

Chiara De Carlo

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Chiara vi segnala i prossimi eventi …mancare sarebbe un sacrilegio!

Anche lo stakanovista Lulù Massa prima o poi raggiunge il paradiso

(Ri)parlare, teatralmente, di lavoro, che cosa strana. Andare a ricercare l’antica classe operaia, oggi affievolita, qualcuno azzarderebbe inesistente, prendere fiato e spinta e costruzione da quella Classe operaia va in paradiso – il punto centrale della “trilogia della nevrosi” – che Elio Petri (con in testa la sempiterna coppola) con l’aiuto fidato di Ugo Pirro scrisse e diresse nel 1971, premiato a Cannes con il Palmarès l’anno successivo – ex aequo con Il caso Mattei di Francesco Rosi: era l’epoca dei grandi nomi, dei nomi importanti e forti, del cinema che avvolgeva e faceva discutere, che si rispecchiava necessariamente nella società – e sgradito al pubblico e a molta critica all’uscita sui nostri schermi, giudicato eccessivo e sgradevole, sgradito a molta parte della sinistra più ferrea, tanto esasperante che “qualcuno non mancò addirittura di invocare il rogo di tutte le copie della pellicola”. Ritornare a quell’affresco di circa cinquant’anni fa, ha deciso Emilia Romagna Teatro, affidando la nuova scrittura a Paolo di Paolo e la regia a Claudio Longhi, rifotografare un’epoca senza incorrere (troppo) nell’uso dello spazio angusto dell’operazione archeologica, che non ci interesserebbe davvero più, ma controllare con gli occhi di oggi (con la nostra società) se vi possano essere dei ricordi, delle piccole tragedie, dei momenti grotteschi, delle scorie che ci ricordino quel Lulù Massa che aveva la faccia indimenticabile di Gianmaria Volonté.

Un racconto di operai e di pezzi prodotti, di pugni alzati e di scioperi, di padroni e di impiegati messi ad una spanna da te a contarti il tempo, di ideologie contrastanti, di un buongiorno dato dall’altoparlante ma solo per ricordarti che il sole non lo hai visto entrando in fabbrica e nemmeno lo vedrai uscendo, ore e ore chiuso lì dentro. Un sacerdote del cottimo, quel Lulù Massa lì, produrre produrre produrre, la sua personale lotta con il sindacato, i dissidi con i compagni di lavoro, la sua non vita con la Vanda, gli amplessi straveloci in macchina, con i piedi incollati contro il parabrezza, l’incidente con il dito mozzato, un’altra visione della vita e del lavoro, la consapevolezza di essere un ingranaggio tra i tanti, tra i tutti, di far parte della grande Macchina che ti schiaccia. La figura del crumiro, dello stakanovista a tutti i costi che abbraccia i diritti dei lavoratori. E in fondo al tunnel c’è il vecchio Militina, che ha già percorso tutta quanta la vecchia strada, con i suoi sogni di lucidità e di pazzia, con il suo paradiso intravisto e forse alla fine raggiunto. C’è la politica chiusa lì dentro, ma c’è anche la storia di un paese che non è scampata anche oggi a quei ritmi, magari li nasconde nei “lindi, asettici uffici dell’odierno proletariato dei call center” o nelle corse in bicicletta di quei ragazzi che armati di zaino ti recapitano la pizza a casa. E allora bisogna raccontarlo tutto quel mondo antico che si riallaccia con il presente – si è detto Paolo di Paolo, che certo abbandona l’idea della sintesi in questa sua Classe vista al Carignano per la stagione dello Stabile torinese e in scena sino al 18 novembre -, anche con il pericolo bulimico di immettere a forza immagini e suggestioni oltre il dovuto, di creare nuove scene o rimandi a una letteratura che scomoda il Memoriale di Volponi o il selezionatore Donnarumma di Ottieri, di ripercorrere più e più volte i titoli di coda del film o gli apporti della critica non benevola, le discussioni (con gli autori seduti su quelle poltrone care a Fantozzi) e la preparazione e la realizzazione del film, le atmosfere da cineforum, il “Rischiatutto” di Mike o i Tg del tempo, la chitarra e le canzoni, giù giù sino all’immancabile (e come potrebbe essere diversamente?) Charlot che tra un imbullonamento e l’altro scivola tra gli ingranaggi della macchina di Tempi moderni. Ma al di là dei disturbanti sottofinali, lo spettacolo, brechtiano come non se ne vedevano da anni, regge intelligentemente e lo si ammira sino in fondo, nel gioco colorato dei dialetti, per come Longhi si serve della macchina teatrale ideata da Guia Buzzi, con quel tapis roulant dove scorre la catena di montaggio, per come detta il ritmo dell’azione, per come regge la compagine degli attori, mai portati sul terreno instabile della macchietta o del già visto. A cominciare da Lino Guanciale. Che lontanissimo dagli exploit televisivi, qui costruisce il suo Lulù con tutta la maschera e il concreto della sfrontatezza, dell’idea sicura e affermata, della disperazione, della realtà agra e del sogno. È un tutt’uno con il personaggio, si annulla e si riafferma, piange e diverte, usa mezzi che non gli conoscevamo da attore dell’oggi e sicuramente del domani. Accanto a lui si segnalano la prove Franca Penone, visionaria Militina, di Diana Manea, la Vanda che nel film fu una strepitosa Melato, tutta ardori e recriminazioni, e di Simone Francia che con altri ruoli incide a tutto tondo soprattutto quello del crudele impiegato preposto a prendere i tempi di produzione: con Donatella Allegro, Nicola Bortolotti, Michele Dell’Utri, Eugenio Papalia, Simone Tangolo e Filippo Zattini autore delle musiche e degli arrangiamenti compongono il successo della serata.

 

Elio Rabbione

 

Le immagini dello spettacolo sono di Giuseppe Distefano

Gli amici di Piero alle Ogr per beneficenza

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Le OGR Torino aprono le proprie porte agli Amici di Piero. La ventesima edizione dell’evento benefico nato in memoria dell’amico Piero Maccarino si terrà lunedì 12 novembre nelle Officine di Corso Castelfidardo 22. Come ogni anno, l’intero ricavato sarà devoluto in beneficenza alla Fondazione Caterina Farassino e all’UGI, Unione Genitori Italiani

Dal 1999 i musicisti torinesi si riuniscono in una maratona musicale in cui tutti i gruppi si esibiscono gratuitamente e alla pari, senza gerarchie né diritti di precedenza, in memoria dell’amico Piero Maccarino. Per la ventesima edizione dell’appuntamento, sul palco della Sala Fucine delle OGR Torino si esibiranno: Statuto, Subsonica, Linea 77, Johnson Righeira + Bandakadabra, Bianco, Less Than A Cube, Gypsy Eyes, Casino Royale, The Bluebeaters. Piero Maccarino, cantante e fonico, nel 1999 è mancato a causa di un male incurabile. Mai dimenticato rude boy, cantante, ultras del Toro e fonico, Piero è ancora nella mente di tutti come il ragazzo che urlava forte “Torino è la mia città!” dal microfono che impugnava come una rivoltella di parole fronteggiando bolge di pogo selvaggio. E da allora gli Amici di Piero sono sempre di più e coloro che non lo conoscevano hanno imparato ad amarlo e a conoscerlo grazie a questi concerti. Coloro che lo conoscevano, invece, approfittano di questa occasione per suonare, ascoltare buona musica e incontrarsi. Dal punk al rock, dal reggae al soul, dal rock steady al blues e all’hip hop: un melting-pot di generi musicali e artisti di livello nazionale per animare la festa musicale più importante dell’autunno torinese e non solo. Un evento che è cresciuto negli anni fino a diventare un unicum nel panorama musicale italiano oltre che l’occasione per ricordare Piero, ma anche Caterina Farassino e tutti gli amici che nel tempo ci hanno lasciato come Peppo Parolini, Bosh, Fabio “Il Nero” Rosolino e Joe degli Ultras Granata. A presentarli lo scrittore e giornalista Domenico Mungo, che con Maccarino ha condiviso sia le passioni musicali che la vita nel mondo delle curve calcistiche, e Mao, storico cantautore e conduttore radiofonico torinese. Per quanto sia diventato un appuntamento fisso la serata non viene mai vissuta dalle band e dal pubblico come un evento di routine, soprattutto perché il ritrovo serve a sostenere cause benefiche in quanto tutti gli artisti e gli organizzatori dell’evento lavorano gratuitamente. I fondi raccolti per questo evento vengono devoluti all’UGI, Unione Genitori Italiana, attiva all’interno dell’ospedale Regina Margherita a sostegno dei bambini malati di leucemia, e dal 2005 anche alla Fondazione Caterina Farassino che opera a sostegno dei bambini in condizioni economiche disagiate.Le OGR contribuiscono all’iniziativa di quest’anno ospitando la serata a titolo gratuito.

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PIERO MACCARINO dall’età di 17 anni è stato il cantante di uno dei primissimi gruppi punk torinesi: i Rough. Più di dieci anni dopo ha incominciato a lavorare come tecnico del suono fra gli altri per: Bluvertigo, Mao e la Rivoluzione, Massimo Volume, Daniele Silvestri, Subsonica. I Rough vengono considerati, con i bolognesi Nabat, tra le prime e più importanti band Oi! italiane. Si formano nel 1981 ed iniziano rivisitando brani classici del punk inglese. Vengono individuati subito da Giulio Tedeschi, noto pioniere dell’underground musicale italiano, che nel febbraio dell’anno dopo produrrà per la Meccano Records un EP 7″ conosciuto come Torino è la mia città, dal titolo di uno dei 4 brani inediti presentati. Il debutto discografico coincide con il periodo di maggiore notorietà: recensioni sulle riviste specializzate, interviste, concerti. La band si scioglie nel 1984. Ad inizio anni novanta il brano Torino è la mia città diventerà, dopo essere stato reinterpretato da alcune band locali, molto popolare nei Paesi Baschi. Piero Maccarino, primo cantante della band, muore prematuramente nel maggio del 1999.A lui è dedicato il brano degli Statuto “Un fiore nel cemento” e “Microchip emozionale” dei Subsonica.

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FONDAZIONE CATERINA FARASSINO

La Fondazione Caterina Farassino è nata per ricordare la giovane fotografa del rock cittadino volata via troppo giovane. “Al ricordo di Piero, da sette anni abbiamo deciso di unire anche il ricordo di una nostra amica che è volata a scattare le sue foto dal cielo. Caterina Farassino, se ne è andata in una notte di fine autunno, lasciandoci così vuoti e smarriti che ancora non vogliamo crederlo. E il non rassegnarci ad averli visti volare via troppo giovani e sorridenti, ci impone ogni anno di fare qualcosa insieme a loro. Quello che a loro piaceva di più: fare musica, ascoltare musica e coinvolgere più gente possibile in un abbraccio collettivo” (Amici di Piero)

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UGI
L’ Unione Genitori Italiani opera all’interno dell’Ospedale Regina Margherita per assistere i bambini malati di leucemia e le loro famiglie. www.ugi-torino.it

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Benefit Show

12 novembre 2018

dalle 20.00 alle 02.00

ingresso: 15 euro

Presentano Domenico Mungo & Mao

OGR Torino

Corso Castelfidardo 22 – Torino

Torna a teatro il poetico “Elisir”

Ritorna in scena dopo cinque anni al Regio di Torino, martedì 13 novembre alle 20, l’Elisir d’amore di Gaetano Donizetti, con Michele Gamba sul podio dell’ Orchestra e Coro del Teatro Regio, in una delle partiture più leggere, comiche e sentimentali del compositore bergamasco, per la regia di Fabio Sparvoli.L’allestimento è ambientato in un piccolo centro dei Paesi Baschi negli anni Cinquanta e ne è protagonista Nemorino, impersonato da Santiago Ballerini, innamorato dalle ricca e capricciosa Adina, della quale non riesce ad attirare le attenzioni.
Salvifico risulta in paese l’arrivo del medico ciarlatano Dulcamara, la cui parte è interpretata da Simon Orfila, che venderà a Nemorino del vino di Bordeaux, spacciandolo per un potente filtro d’amore. Gaetano Donizetti compose quest’opera in un tempo relativamente breve, anche se forse potrebbe essere una leggenda la voce secondo cui impiego’ soltanto quindici giorni. Gli fu commissionata dall’impresario del Teatro della Cannobiana di Milano, Alessandro Lanari, che aveva ricevuto il forfait da parte di un altro compositore, che gli avrebbe dovuto scrivere l’opera per la stagione della primavera 1832. Donizetti ricorse ad uno dei più celebri librettisti dell’epoca, Felice Romani, che compose un libretto tratto da “Le Philtre” di Scribe e già musicato da Daniel Auber. Gavazzeni definì l’Elisir un “idillio lombardo”; alcuni critici giudicarono l’opera una sorta di “Barbiere di Siviglia” di Donizetti. In realtà la sua peculiarità rimane la commistione tra buffo e lirico, tra il registro del divertimento e quello del sentimento.
La celebre aria cantata da Nemorino, “Una furtiva lagrima”, è toccante e tutt’altro che comica. L’Elisir d’amore è risultato un capolavoro prodigioso non tanto perché nato sulla misura di interpreti eccezionali, ma in virtù della geniale intuizione del suo compositore, capace di dare all’opera un colore poetico assolutamente straordinario, assunto dai timbri strumentali, in primo luogo i fiati. A volte capita che l’orchestra si apra ai toni chiassosi e travolgenti della farsa, come nel caso della famosa banda nella scena del fidanzamento di Adina e Belcore, ma, in realtà, tutta l’opera è percorsa da poetiche sottolineature di flauti e clarinetti, capaci di trovare un culmine nella pagina giustamente più famosa dell’opera, la celebre romanza di Nemorino, “Una furtiva lagrima”, con l’assolo incantato del fagotto, che pare diventare quasi una voce umana, un’eco nostalgica della parola, non meno eloquente di quest’ultima.
 
Mara Martellotta 

Villadeati: dal 1300 alla Resistenza

Villadeati è un comune della Valcerrina, al confine con la Provincia di Asti, situato all’estremità occidentale del Monferrato Casalese, quindi in Provincia di Alessandria. L’insediamento si trova sulla sommità di uno dei rilievi più alti della zona, esposto a mezzogiorno ed affacciato sulle colline astigiane. Il paese prende il nome dalla famiglia Deati che ottenne il territorio in feudo nel XIV secolo. Al 1341 risale il primo documento che attesta l’esistenza di De Villa De Deatis. FU a lungo parte dell’astigiano (con il quale permangono ancora oggi dei rapporti socio – economici stantae la vicinanza con la Città del Palio e con il territorio circostante) dopo rientrò in un sistema militare che poggiava su due castelli che dominavano le valli dello Stura e della Versa. Villadeati fu al centro di un tragico episodio durante la guerra civile. Nell’autunno del 1944 si formò un gruppo di partigiani aggregati alla Divisione ‘Monferrato’. In seguito ad un attacco partigiano ad una colonna armata tedesca nei pressi di Cavagnolo venne ucciso un militare germanico ed un altro venne fatto prigioniero. Quest’ultimo, dopo aver conquistato la fiducia dei partigiani riuscì a fuggire e a denunciare la presenza partigiana nei pressi di Villadeati. Il 9 ottobre del 1944 arrivò la risposta tedesca e fu terribile. Sotto il comando del maggiore Mayer, 24 autocarri e 200 soldati tedeschi, provenienti da Casale e da Valenza raggiungero il paese, entrarono nelle case che furono messe sottosopra, i viveri portati via con prepotenza, i vitelli e le mucche prelevati dalle stalle ed alcune bestie uccise e caricate sugli autocarri. Il peggio, però, doveva ancora venire: Gli abitanti vennero radunati nella piazza del paese ed il comandante scelse quattordici capifamiglia minacciando loro la fucilazione se non si fossero presentati spontaneamente i capi partigiani ricercati. Va detto che due vennero salvati per un intervento del generale Ernesto Botto, pilota mutilato in combattimento e medaglia d’oro al valor militare, già sottosegretario e capo di stato maggiore del ministero dell’Aviazione Nazionale Repubblicana della Rsi. ella Repubblica sociale. Al gruppo dei capifamiglia si aggiunse anche il parroco don Ernesto Camurati che venne considerato dal maggiore Mayer un ‘ribelle’ al pari degli altri partigiani. Il sacerdote chiese al comandante tedesco di essere ucciso lui solo in cambio degli altri che avevano tutti moglie e figli, ma tale richiesta, coraggiosa ed eroica, venne respinta. Don Camurati benedisse, aprì il breviario e una lunga scarica di fucili ruppe il terribile silenzio che era caduto. Erano le 12 del 9 ottobre 1944. Tutti vennero poi passati con il colpo alla nuca. Questo l’elenco delle vittime di Villadeati: don Ernesto Camurati, anni 46; Angelo Caprioglio, anni 50 e tre figli; Carlo Dorato, anni 44, con un figlio; Giuseppe, Dorato anni 50, due figli; Clemente Gippa, anni 60, due figli; Felice Lanfranco, anni 44, due figli; Carlo Odisio, anni 45; Luigi Odisio, anni 49, quattro figli; Giuseppe Odisio, anni 52; Luigi Pietro Quarello, anni 57; Ernesto Vallone, anni 49, quattro figli. Caprioglio fu catturato mentre stava lavorando in cantina. Il 23 ottobre del 1944 il paese su teatro di una nuova incursione dei nazisti che causò una fuga generalizzata degli abitanti ed una nuova uccisione. All’indomani della Liberazione, il 9 maggio 1945, il maggiore Mayer, che nel frattempo si era arreso, rintracciato in campo ad Asti, venne portato nello stesso luogo dove si era verificato l’eccidio ed ucciso. Le vittime delle rappresaglie sono ricordate da un monumento nella piazza principale, che si chiama appunto piazza IX Ottobre, in quanto qui avvenne la barbara esecuzione, e a loro sacrario è stata dedicata la chiesa di San Remigio, recentemente ristrutturata. Ma di questa e di altri beni che si trovano nel Comune di Villadeati, a partire da quello che tutti chiamano ‘Castello Feltrinelli’ si parlerà nelle prossime tappe del viaggio. Infine va ricordato che a Casale Monferrato, in via Mameli (la stessa via dove si trova il palazzo del Municipio), a poca distanza dalla residenza del Vescovo e dalla Curia Vescovile, è stata posta una lapide che ricorda il sacrificio del sacerdote.
Massimo Iaretti

Ruggeri. Opere su carta (dal 1958 al 2008)

Lo Spazio Don Chisciotte di Torino ricorda il pittore torinese 

 

Fino al 22 dicembre

Non opere minori. Né “ancillari” a quelle eseguite su tela. Intensamente vive di vita propria. Prorompenti. Graffianti. Pagine libere di incontenibile esaltazione cromatica, sintesi naturale e perfetta fra grafie di nervosa gestualità e marcate – mai appesantite e ingombranti – stesure di colore, impossibili o comunque più difficili da realizzare attraverso interventi con colori a olio su tela. Sono le “opere su carta” realizzate in cinquant’anni di attività -dal 1958 al 2008- da Piero Ruggeri (Torino, 1930 – Avigliana, 2009), cui la Fondazione Bottari Lattes, in collaborazione con la Fondazione Piero Ruggeri dedica un’attenta rassegna ospitata, fino al prossimo 22 dicembre, nelle sale dello Spazio Don Chisciotte di via della Rocca a Torino. Una trentina i lavori esposti, accompagnati da un testo critico di Francesco Poli, curatore della mostra, il cui obiettivo è anche quello di riportare l’attenzione su tempere o tecniche miste realizzate dall’artista su supporto cartaceo e che da troppi anni non venivano esposte a Torino. Di importanza fondamentale, assimilabili agli oli su tela e, come questi, spesso di grandi dimensioni. Anch’esse opere “roventi”, come s’è scritto più in generale della pittura di Ruggeri che, insieme a Sergio Saroni e a Giacomo Soffiantino, fu maestro nobile di quell’arte informale maturata sotto la Mole negli anni ’50 (dopo gli studi all’Accademia Albertina, allievi di Enrico Paulucci) ma di visione e portata internazionale che guardava all’Europa con Nicolas De Stael e soprattutto all’America con i padri dell’espressionismo astratto De Kooning e Gorky; opere, come sottolinea Francesco Poli, in cui “l’artista – rimanendo fedele agli schemi, alle accensioni cromatiche, agli automatismi gestuali, alle articolazioni spaziali e ai contrappunti ritmici del suo tipico stile informale – attraverso le tempere arriva a realizzare delle composizioni caratterizzate da una più immediata freschezza segnica e tonale e da una particolare lievità espressiva”. In una quasi maniacale e inarrestabile attenzione alla materia fatta di bianchi, rossi, arancioni, gialli e verdi e fondi neri (in campiture non di rado monocromatiche), che mai esclude però l’urgenza del segno. Il colore non basta a raccontare quei frammenti di paesaggio, di realtà naturale, di boschi e colline, che Ruggeri va a ricercare e a ritrovare scavando e graffiando i grumi della materia per tenerne viva la memoria e la suggestione. Ecco allora l’azione dirompente del disegno. Che libera il paesaggio dall’ossessione delle luci e delle ombre. Dei chiari e degli scuri. Nell’armonioso equilibrio de “Le seye”, o nel verde “Fogliame”, tecniche miste del 2007 e dell’87, così come in quel rosso acceso de “L’incendio”, tempera su carta del 2007, che mette i brividi in corpo. Dai “grovigli” e dai segni graffianti, nascono le figure e la visione di un universo naturale che Ruggeri ancor di più imparò forse ad amare e a sentire suo, quando nel ’71 da Torino si trasferì ai Battagliotti di Avigliana. Nei pressi di un bosco. Protagonista di molte sue opere. Da ricercare. Da scovare. Da liberare nell’intensità dei colori e dei profumi. In fondo aveva proprio ragione l’amico e compagno d’avventura artistica (almeno per un tratto di strada) Giacomo Soffiantino: “Volevamo identificarci – raccontava – tramite la materia con una forma che partiva dal vero ma che poi raggiungeva una sintesi che lambiva il mistero, per noi la vera opera d’arte in quanto andava oltre la rappresentazione”. E del suo essere, pur sempre, “pittore figurativo” ( o pittore alla ricerca di una chiara, per quanto possibile, figurazione) ragionava così anche lo stesso Ruggeri, quando affermava: “…in fondo anche De Stael e Gorky non hanno mai rinnegato di partire da un dato reale… Perché forse questo mio bianco non è quello delle betulle? Io sono venuto su dentro le ninfee di Monet, non posso negarlo, ma anche Monet disfaceva la materia sino all’informale, pur sempre delle ninfee erano. Io sono convinto che anche l’arte astratta sia figurativa, come potrei non pensarlo?”.

 

Gianni Milani

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“Ruggeri. Opere su carta (dal 1958 al 2008)”

Spazio Don Chisciotte, via della Rocca 37/b, Torino; tel. 011/1977.1755 o www.fondazionebottarilattes.it

Fino al 22 dicembre

Orari: mart. – sab. 10,30/12,30 e 15/19

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Nelle foto

– “Composizione”, tempera su carta, 1985
– “La collina n. 2”, tecnica mista su carta, 2006
– “Le seye”, tecnica mista su carta intelata, 2007
– “Interno in rosso”, tecnica mista su carta, 2003

Tocca Ferro!

Le storie spesso iniziano là dove la Storia finisce

Folletti e satanassi, gnomi e spiriti malvagi, fate e streghe, questi sono i protagonisti delle leggende del folcklore, personaggi grotteschi, nati per incutere paura e per far sorridere, sempre pronti ad impartire qualche lezione. Parlano una lingua tutta loro, il dialetto dei nonni e dei contadini, vivono in posti strani, dove è meglio non avventurarsi, tra bizzarri massi giganti, calderoni e boschi vastissimi. Mettono in atto magie, molestie, fastidi, sgambetti, ci nascondono le cose, sghignazzano alle nostre spalle, cambiano forma e non si fanno vedere, ma ogni tanto, se siamo buoni e risultiamo loro simpatici, ci portano anche dei regali. Gli articoli qui di seguito vogliono soffermarsi su una figura della tradizione popolare in particolare, le masche, le streghe del Piemonte, scontrose e dispettose, mai eccessivamente inique, donne magiche che si perdono nel tempo e nella memoria, di cui pochi ancora raccontano, ma se le loro peripezie paiono svanire nei meandri dei secoli passati, esse, le masche, non se ne andranno mai. Continueranno ad aggirarsi tra noi, non viste, facendoci i dispetti, mentre tutti fingiamo di non crederci, e continuiamo a “toccare ferro” affinchè la sfortuna e le masche, non ci sfiorino. (ac)

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9 Tocca Ferro!

Vi è mai capitato di essere sicuri di aver messo un oggetto in un certo posto e poi di non trovarlo più dove lo avevate lasciato? È perché “a j sun le masche”. E quando la macchina è in panne e vi lascia a piedi? Non si tratta di un guasto meccanico, né di sfortuna, è di nuovo colpa loro, delle mascheQueste donne indisponenti non si fanno notare tra la folla, ma ciò non vuol dire che non intervengano nella vita degli altri: fastidi, dispetti, disturbi, giusto qualche piccola modifica al corso comune degli eventi in modo da poter sogghignare, non viste, dietro qualche albero, o sottoforma di un gatto nero con enormi occhi gialli.  Quando si è di fretta e salta un bottone alla camicia, quando non si trova il portafoglio, quando ci si innervosisce di colpo, è perché ci sono le masche, magari non le abbiamo riconosciute, ma sono lì, non viste. Se siamo distratti, anche gli altri possono mostrarcele, per esempio quando sappiamo di dover affrontare situazioni di grande stress o ci ritroviamo di fronte a problematiche insormontabili, qualcuno ci ha fatto vedere le masche; e se per guardarci da qualche individuo furbo e doppiogiochista l’espressione che possiamo utilizzare è furb par d’na masca. Ma come ci si può proteggere da tali malefiche creature? Basta arroventare le catene della stalla e batterle una contro l’altra, la strega si infastidirà e volerà via indispettita, oppure si può circondare la casa con un filo di canapa tessuto da una fanciulla vergine, la serva del Maligno non riuscirà ad avvicinarsi in nessun modo alla dimora. Se vogliamo allontanare diavoli e spiritelli malefici, invece, sarà necessario disporre dei ramoscelli a forma di croce e posizionarli davanti alla porta d’ingresso.  Nel caso la masca vi avesse già adocchiato, potete distrarla mettendo al collo un sacchettino contenente del sale fino, la donna si metterà a contare i granelli e voi potrete sfuggire alla sua persecuzione. Nel caso il “gioiello” non rientri nel vostro look quotidiano, potete mettere delle pietre bianche sul tetto, e la strega volerà sopra altre teste. Potreste trovarvi nella situazione di dovervi disfare di una fattura, allora sarebbe il caso di cercare la vecchia del paese, o almeno del quartiere, e chiederle di pronunciare le giuste formule, e a voi il compito di far bollire per sette volte delle foglie di malva.
Nel caso la maledizione fosse più specifica e la masca avesse voluto gettare il malocchio sul burro, allora mentre cucinate il cibo in questione aggiungete un briciolo di sale, e fate attenzione che non sia né venerdì, né sabato, giorni in cui si tengono i Sabba e diventa difficile contrastare i poteri malefici di masche e satanassi. Tuttavia, la vostra persecutrice, non contenta del fatto di non essere riuscita ad intaccare il burro, potrebbe decidere di avvelenare l’acqua: in questo caso dovreste mettere nell’acqua tre foglie di ulivo pasquale e spruzzare qualche goccia di acqua santa.
Va da sé che nessuno crede più a certe cose, ma è comunque consigliabile non andare vestiti di viola a teatro, gli attori non lo apprezzerebbero. Per sapere se qualcuno ricambia i nostri sentimenti, possiamo sfruttare facebook per spiare i movimenti della persona dei nostri sogni, ma per ulteriore sicurezza si potrebbe prendere una margherita e staccarne i petali canticchiando “m’ama, non m’ama” ad ogni piccolo strappo. Per informazioni più approfondite si potrebbe ricorrere alla crommiomanzia: si intaglia il nome della persona amata su una cipolla, la si interra in un posto umido e, se germoglia, l’amore sarà ricambiato; tuttavia, a seconda della durata del procedimento di fioritura, il sentimento potrà durare in eterno oppure potrà rivelarsi una breve infatuazione. Se cercate lavoro e nessuno ha mai risposto ai numerosissimi curricula che avete inviato, è, forse, perché prima non avete pensato di ricorrere all’ovomanzia. Di sicuro non è vero, ma quando qualcuno passa la scopa, alzate sempre i piedi, altrimenti non vi sposerete più. Quando andate a fare la spesa, non mancate mai di comprare del pane, essenziale per fare la scarpetta nel piatto, ma anche per allontanare gli spiriti malvagi. Questo cibo è da sempre simbolo di vita e, per forza di cose, anche collegato alla morte: è un amuleto contro le disgrazie e gli spiriti, anche di notte deve essercene un pezzetto in giro per la casa, in modo da proteggere chi ci abita e nel caso ci fosse qualche vicino che necessiti di una estrema unzione. Sappiate, inoltre, che il pane non si butta, e che, in tavola, non va mai messo al rovescio, in quanto emblema di Gesù è come se metteste Lui sottosopra. La superstizione che ci fa sorridere nel quotidiano la ritroviamo anche nel mondo dello sport: per esempio nella Formula 1, il numero 13 non viene mai assegnato a nessuna postazione, molti piloti tengono con loro amuleti e porta fortuna, come Niki Lauda, che teneva nel guanto una monetina scaccia-iella. Nel calcio, invece, pensiamo alla leggendaria ala destra del Brasile di Pelè, Manuel Dos Santos, detto il Garrincha, che era solito mettere amuleti e feticci dietro la porta degli avversari, in modo che attirassero il pallone dentro la rete. Del resto, e sottolineiamo che nessuno lo fa perché ci crede, ma a Capodanno chi non indossa l’intimo rosso? Tale usanza affonda le radici nella lontana Cina, dove questo colore veniva utilizzato per tenere lontano lo spirito Niàn, che divorava gli uomini a centinaia; oggi nessuno oserebbe combattere un demone così temibile, ma ci si accontenta di tenere lontano il malocchio, di prevenire le disgrazie e di augurarci che l’anno nuovo possa portare buoni frutti e tanta, tanta fortuna. Rosso è sempre il “cornicello”, il cornetto tipico di Napoli, ma che ormai è diffuso in tutto il mondo. Si tratta di uno dei talismani più antichi ancora in circolazione; esso rappresenta un corno, simbolo collegato alla fortuna e alla fecondità, già i soldati romani erano soliti legarsene uno agli abiti quando andavano in battaglia. L’oggetto deve essere ” tuosto, stuorto e cu’ a punta“, (“rigido, storto, con la punta”), allontana le maldicenze e protegge dal malocchio, importantissimo per le donne incinte, le aiuta nella gravidanza e protegge il nascituro dalle malelingue. Certo è che bisogna essere proprio audaci per affrontare tutti i giorni maledizioni, invidie, masche e spiriti maligni, in aggiunta il traffico che ci fa arrivare tardi a lavoro, il colpo d’aria che ci fa ammalare proprio il giorno del colloquio più importante per l’avanzamento di carriera, il tacco del paio di scarpe preferite che si rompe, il cellulare che fa l’aggiornamento proprio mentre il navigatore ci deve dire se svoltare a destra o a sinistra… e allora viene proprio spontaneo gridare un “tocca ferro!

Alessia Cagnotto

 

Arrivare sulla luna per seppellire una disperazione

PIANETA CINEMA   a cura di Elio Rabbione

 

Un’altra occasione per lavorare insieme per Damien Chazelle (classe 1985) e Ryan Gosling (classe 1980), un’occasione per uscire – ma noi avremmo voluto che quel film non terminasse mai, sequenza dopo sequenza, brano dopo brano, sentimento dopo sentimento, sconfitta dopo sconfitta – dal successo di La La Land e intraprendere un’altra strada. Del tutto diversa. Lasciare una storia “facile” per addentrarsi dentro l’animo batostato dalla vita del primo uomo che pose piede sul suolo lunare. Ed è una scommessa vinta. A Chazelle (finalmente un grande regista dietro la macchina da presa) non interessa dar fiato alle trombe e peccare, fregandosene, di patriottismo, non interessa allunare per piantare la bandiera a stelle e strisce mentre su tutta la terra la sera del 20 luglio del ’69 seicento milioni di persone sono incollate ai televisori e guardano te, gente che sulla terra si sbraccia e gioisce e urla e festeggia: first man è salito sulla luna per ritrovare se stesso, per liberarsi della catastrofe della propria vita, per seppellire, (forse) in maniera definitiva, una figlia, una bambina che non c’è più, che è morta di cancro anni prima, per lasciar cadere in un buco nero di quel terreno un piccolo braccialetto, dove è scritto un nome, per cancellare un dolore che ha guidato e rovesciato un’intera esistenza.

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Sulla sceneggiatura di Josh Singer (The Spotlight e The Post) basata sull’autobiografia raccolta da James R. Hansen, First man di Chazelle racconta nove anni della vita di Neil Armstrong, il dolore e le grandi e tristi prove, gli esperimenti, le cigolanti strutture (qualcosa viene riparato all’ultimo momento anche con un piccolo coltellino svizzero: e tutto appare maledettamente claustrofobico, con i respiri, con i primi piani; come pure quella cucina di casa Armstrong, fotografata da Linus Sandgren come una scatola luminosa circondata dal buio appare come un atomo staccato dal mondo, chiuso in sé) e la morte dei compagni, le esplosioni e la sfida – Chazelle ha cambiato orizzonte, un musicista nel precedente film, oggi un cosmonauta – da superare e gli ordini dei superiori cui sempre obbedire per compiere alla fine quel “piccolo passo per un uomo, un grande balzo per l’umanità” che avrebbe cambiato la storia. Seguire le opere non facili come voleva Kennedy, ascoltare la voce astiosa dell’uomo di colore che racconta dell’uomo bianco che va sulla luna, costeggiando il Vietnam, tacendo dell’assassinio del presidente, cercare giorno dopo giorno di raggiungere lo scopo: mentre Janet Armstrong vede il suo uomo, scendere sempre di più nei suoi inferi, pronto a scappare di casa per raggiungere la notte che invade il giardino e guardare lassù in alto le stelle, chiuso nelle sue frasi rotte, nel vuoto dei sentimenti, mentre lo obbliga a parlare ai figli prima della partenza, tornerà? non tornerà? (pare di essere ad una conferenza stampa, con il padre che chiede agli increduli marmocchi: “Ci sono altre domande?”) e ai suoi occhi quel viaggio continua ad apparire come quello di una banda di ragazzini che giocano a scalare una montagna. Per gioco. Per fare un gestaccio a quei sovietici pure loro alla ricerca della stessa sfida.

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Sulle note della musica di Justin Hurwitz e dei valzer che ci riportano indietro a Kubrick, la sensibilità e lo sguardo antieroico dell’autore approdano ad un finale rappacificato, con se stessi, con la famiglia, con il mondo: chiuso in un laboratorio dalla quarantena che segue al ritorno a terra, la mano di Neil ora “tocca” attraverso il vetro che ancora li separa quella di Janet, un riavvicinarsi, una carezza contenuta. Un domani.

Ryan Gosling si chiude sempre più a riccio nei propri silenzi, nelle parole dette a fatica, nel suo sguardo spento, necessariamente sottrae spazio e voce al proprio Neil, ma così lo rende vivo, disperato e umano (“Non ti sentirai solo lassù?”, gli chiede il figlio prima di tornare a giocare), ce lo rende “nostro” nel chiuso dell’abitacolo, seguito quanto mai da vicino dalla macchina da presa, spiato in ogni emozione. Accanto, una splendida Claire Foy, percorsa dall’affetto di una moglie, ma anche dalla rabbia e da un’ansia che la incolla al divano di casa mentre una minuscola radio gracida il resoconto dell’avventura per interrompersi all’improvviso, oscurandole in una assai sbiadita tecnologia quell’uomo che ha tentato di salire tanto in alto. Ma Chazelle non si blocca sui contrastanti sentimenti di marito e moglie, segue in ogni commovente sfumatura i compagni di viaggio e d’avventura (Jason Clarke, Corey Stoll, Kyle Chandler, Collins ha le orecchie a sventola di Lucas Haas di Witness, con le paure, con le vomitate dopo le prove di volo, con la morte sempre ad un passo) e le mogli, colte mute di spalle ad aspettare a terra qualcuno che forse non ritornerà più.