CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 681

Seeyousound svela il volto eversivo della musica

Prosegue questa settimana al Cinema Massimo il giovanissimo festival che celebra il magico rapporto tra cinema e musica, il Seeyousound International Music Film Festival. Solo alla sua quarta edizione si è inaugurato in grande stile venerdì 26 gennaio con un’importante mostra che durerà un anno al Museo Nazionale del Cinema “Soundframes. Cinema e musica in mostra” e un film muto del realismo svedese, Ingeborg Holm di Victor Sjöström, accompagnato dal vivo dalla suggestiva musica di Corrado Nuccini, Iosonouncane e Enrico Gabrielli.

 

È un festival molto ricco che presenta un’ampia gamma di generi sia cinematografici sia musicali. Si passa dal biopic alla fiction, dal documentario al musical e non si fa distinzione tra musica classica, pop, jazz, folk o hip hop. In questo viaggio emozionante ci si riconcilia con la potenza eversiva e rivoluzionaria della musica, che può essere mezzo di riscatto, di salvezza, di lotta per i propri ideali, di punto di riferimento di una generazione. Per una manciata di ore ci si allontana così, nel buio della sala, dalla banalizzazione e appiattimento dei talent show, delle silent disco e delle piattaforme social che vorrebbero relegare la musica in una gabbia, quella del mero prodotto di consumo.

 

Nel weekend il numeroso pubblico ha potuto apprezzare tutti i film in concorso che sarà possibile rivedere ancora fino a domenica 4 febbraio. La qualità è molto alta perché i film provengono dai festival più importanti come Cannes, Amsterdam, Barcellona, Nyon. Nella sezione Long Play Feature i sei film in concorso sono un caleidoscopico viaggio attraverso la cultura, le tradizioni e le passioni di Argentina, India, Stati Uniti ed Europa. È presente anche il primo musical del festival, Stuck, interamente girato in un vagone della metropolitana di New York, dove troviamo un microcosmo dell’America contemporanea e dell’umanità tutta. Diversi gli attori noti in questo film a partire da Giancarlo Esposito nei panni di un senzatetto un po’ shakespeariano. A partire da questa edizione il premio Long Play Feature è intitolato alla memoria di Francesca Evangelisti, scomparsa recentemente, aveva regalato un prezioso contributo alla crescita del festival.

 

Ma le anteprime e le sorprese non mancano anche nelle altre sezioni. Fiore all’occhiello è la sezione Into the Groove, che racconta le storie delle icone che hanno segnato un’epoca e ispirato quelle successive. Nel film di Andreas Neumann e Josh Homme American Valhalla il racconto della genesi del diciassettesimo album di Iggy Pop “Post Pop Depression” diventa pretesto per parlare del rock di ieri e di oggi; nel film England is mine il regista Mark Gill ripercorre la vita di Morrissey, leader degli Smiths in una Manchester post industriale in cui il giovane Steven riesce comunque a trovare degli stimoli creativi; c’è posto anche per un omaggio alla cantante francese Barbara nel ventennale della sua scomparsa e ad un’altra icona femminile degli anni Settanta Betty Davis nel film They say I’m different di Phil Cox. Ciliegina sulla torta di questa sezione la prima “maratona-retrospettiva” della storia del festival dedicata a Tony Palmer, il più grande regista di film e documentari riguardanti la musica. Ha lavorato con attori del calibro di Laurence Olivier, Richard Burton, Vanessa Redgrave, Peter Sellers e immortalato le performance leggendarie dei Beatles, Frank Zappa, Pink Floyd, Maria Callas, Jimi Hendrix. Tre i titoli dedicati al grande regista che mercoledì 31 gennaio incontrerà il pubblico alle 21 al Massimo 3. Da non perdere Bird on a wire, un documento storico dell’arte di Leonard Cohen, riscoperto e ottimamente restaurato nel 2010 che mostra il talento di Palmer nel saper ritrarre i grandi della musica. Sempre in questa sezione ci sarà anche l’affascinante Isabelle Huppert questa volta nei panni di una cantante che sfida gli Abba in Souvenir.

Curiosa la rassegna Radioactivity che presenta cinque film incentrati sull’universo della radio. Gli appassionati di musica anni Ottanta non possono perdere Dare to be different, la storia di una piccola stazione radio di Long Island – NY che divenne trampolino di lancio del movimento musicale e culturale che va sotto il nome di new wave.

Quest’anno tanti sono gli eventi collaterali che fanno da cornice al festival che ha trovato una confortevole casa nel salotto prestigioso del Circolo dei lettori. Qui per tutta la durata della rassegna è possibile assistere a performance musicali e a incontri con esperti o protagonisti dei film in programmazione. In più ogni sera a partire dalle 23.30 il Circolo Amantes ospita l’After Festival con aperitivi e dj set e dove è possibile visitare la mostra “Kraftwerk – The man-machine experience” in onore del mitico gruppo tedesco passato lo scorso anno dalle Ogr e l’esposizione “Hip Hop Kemp Festival”. Il party conclusivo si terrà sabato 3 febbraio al Magazzino sul Po, ospite d’eccezione nelle vesti di dj Don Letts, musicista e regista inglese di origine giamaicana che venerdì 2 e domenica 4 febbraio presenterà il documentario di cui è regista “Two Sevens Clash” sull’intreccio di reggae e punk nella Londra del 1977.

Giuliana Prestipino

 

La balaustra reale torna all’antico splendore per turisti e torinesi

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I visitatori dei Musei Reali di Torino possono tornare ad ammirare la splendida balaustra che caratterizza la sala del trono di Palazzo Reale nella sua versione restaurata, grazie al sostegno del Consiglio regionale del Piemonte. L’intervento è frutto di un protocollo di intesa che prosegue nel tempo con progetti destinati alla valorizzazione di Palazzo Reale. L’opera è stata oggetto di un intervento condotto dalla ditta Doneux con la direzione di Franco Gualano, curatore delle collezioni d’arte della residenza. Gli strati di pulviscolo atmosferico accumulatosi negli anni, specie negli interstizi del raffinato intaglio difficilmente raggiungibili durante le normali attività manutentive, ne avevano infatti offuscato lo splendore. Oggi, grazie al lavoro di attenta pulitura, si può nuovamente ammirare la lucentezza della foglia d’oro che ne ricopre l’intera superficie. Situata al piano nobile del Palazzo, la sala del trono venne riplasmata per volontà di Carlo Alberto dal bolognese Pelagio Palagi nella prima metà del XIX secolo, precedentemente l’ambiente fu utilizzato come Camera da Parata, prima delle duchesse e poi delle regine. Palagi modificò gran parte delle decorazioni rendendole adatte al nuovo uso, inserendo anche capolavori già presenti nelle collezioni palatine. Fulcro dell’intervento fu l’ideazione di un nuovo trono, disegnato dall’artista bolognese e realizzato dall’ebanista Gabriele Capello. Sormontato da un ricco baldacchino, il trono fu cinto da un prezioso arredo già presente nelle collezioni reali: la balaustra in legno intagliato, scolpito e dorato realizzata da Francesco Bolgié per racchiudere il letto di Maria Teresa d’Asburgo Lorena-Este, giovane sposa del Duca d’Aosta. Infatti, in occasione del suo matrimonio con il futuro re Vittorio Emanuele I, nel 1789, si rimodernò l’Appartamento dei duchi al secondo piano di Palazzo Reale e la balaustra, ornata da putti, girali d’acanto, vasi, fiaccole e colombe, trovò collocazione. Il restauro si inserisce tra gli interventi sostenuti dal Consiglio regionale del Piemonte, primo tra tutti il recupero della Cappella privata di Carlo Alberto, nel 2016.

Le immagini accompagnano l’angoscia dei Sei personaggi

Da quella serata del 10 maggio del ’21, in cui l’autore sfuggì, imboccando una via laterale al romano teatro Valle, ad un pubblico inferocito che aveva preso a inseguirlo, troppo frastornato dall’eccessiva novità che aveva appena assaggiato, forse tutto è stato detto dei Sei personaggi in cerca d’autore, forse s’è inscenato in cento modi (anche in uno studio televisivo, come fece Buazzelli, come fecero De Lullo e Valli in un’edizione che rimane un esempio insostituibile), confermandosi – in casa nostra come all’estero – il campo adatto su cui possa giocare con intelligenza un attore di prima grandezza, dove si manifestino appieno la filosofia e la drammaturgia di Pirandello, dove si dispieghi inequivocabilmente il gioco (e il termine non vuol certo essere facile né riduttivo) del teatro nel teatro. Ognuno lo sa, mentre una compagnia d’attori sta provando Il gioco delle parti, un Padre, una Madre, la Figliastra, il Figlio, il Giovinetto e la Bambina irrompono come per magia sul palcoscenico, lamentando il rifiuto dell’autore che ha dato loro vita: sulla pagina, loro la pretendono sulla scena. Quindi voglia il Capocomico dare ascolto al loro dramma e rappresentarlo. Per curiosità e per sfida, il teatrante accetta e i personaggi raccontano la loro vicenda, fino al crudele epilogo.


Luca De Fusco, proponendo questa edizione coprodotta dagli Stabili di Napoli e Genova, in scena all’Astra fino a domenica per la stagione in abbonamento, innesta un ulteriore tassello. Dando forma e rappresentabilità a questi signori, tutti vestiti di nero, con il loro trucco pesante, balzati fuori da una realtà altra dalla nostra e assai più reale se confrontata con i tiepidi risultati di una compagnia che non comprende e che non può interpretare, immersa in una finzione che è ben lontana dalla verità, individua un legame che stringe teatro e cinema, li raddoppia sin dal loro ingresso in filmati (ad opera di Alessandro Papa) che scorrono sulla parete di fondo del palcoscenico vuoto, immagini nuove che guardano al cinema muto che in quegli anni andava imponendosi sempre più. Una vicenda, dice il regista, “che si presta a essere rappresentata più attraverso l’occhio visionario del cinema che tramite quello più concreto del teatro”. Il connubio è visivamente felice ma questa volta sull’immagine continua a prevalere l’apparizione fisica, il rivivere la scena nel salottino di Madama Pace (Angela Pagano, un’apparizione) con il tavolinetto e la busta cilestrina, il dolore di una madre, i ragionamenti di un padre, la dabbenaggine di un capocomico (Paolo Serra, efficacissimo) in cerca dell’effetto. Il pensiero e le parole di Pirandello, da sole, riempiono ancora una volta, con la loro forza che sta raggiungendo il secolo, il palcoscenico, punteggiato qua e là dai pochi arredi inventati da Marta Crisolini Malatesta (firma anche i costumi) e chiaroscurito dalle luci di Gigi Saccomandi. Eros Pagni ha tutta l’autorevolezza e l’angoscia che quel Padre si porta appresso, la conferma ancora una volta di un grande attore, con la sua voce inconfondibile trattenuta e spiegata, al servizio di una grande lezione di teatro; ben salda, al sua fianco, come Figliastra, Gaia Aprea, sfrontata e appassionata, pronta a ridere delle finzioni degli attori, quella che più reclama il diritto a rivivere una vita piena di dolore e di schifo. Grande successo, e convinto.

Elio Rabbione

 

Le foto dello spettacolo sono di Fabio Donato

L’equilibrio imprevisto. Parole, musica, memoria

Nella ricorrenza della Giornata della Memoria, la Fondazione Cosso accoglie, sabato 27 gennaio alle ore 16, nelle sale del Castello di Miradolo, le “Letture Itineranti” del Circolo Laav di Torre Pellice. A fare da cornice all’evento, sarà la mostra “Fausto Melotti. Quando la musica diventa scultura”, prorogata fino a domenica 25 febbraio. Fra le letture proposte, per aderire idealmente alla “Giornata” istituita a commemorazione delle vittime dell’Olocausto, compariranno alcuni significativi estratti de “Il sentiero dei nidi ragno” di Italo Calvino. Le letture animate, dal titolo “L’equilibrio imprevisto. Parole, musica, memoria”, sono riservate ai visitatori della mostra. La prenotazione non è necessaria. Con la compagnia dei volontari del Laav, i partecipanti attraverseranno le sale del Castello e la cappella ottocentesca, passeggiando fra preziose sculture, carte e ceramiche. L’Istituto Lidia Poet di Pinerolo proporrà inoltre un accompagnamento musicale a cura dei giovani allievi musicisti.

g.m.

 

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“L’equilibrio imprevisto. Parole, musica, memoria”

Fondazione Cosso – Castello di Miradolo, via Cardonata 2, San Secondo di Pinerolo (To), tel. 0121/376545 – www.fondazionecosso.com

Sabato 27 gennaio, ore 16

Oggi al cinema

LE TRAME DEI FILM NELLE SALE DI TORINO

A cura di Elio Rabbione

 

Assassinio sull’Oriente Express – Giallo. Regia di Kenneth Branagh, con Judi Dench, Michelle Pfeiffer, Johnny Depp, Penelope Cruz e Branagh nelle vesti di Hercule Poirot. Altra rivisitazione cinematografica del romanzo della Christie dopo l’edizione firmata da Sidney Lumet nel ’74, un grande Albert Finney come investigatore dalle fiammeggiati cellule grigie. Un titolo troppo grande per non conoscerlo: ma – crediamo, non foss’altro per il nuovo elenco di all star – resta intatto il piacere di rivederlo. Per districarci ancora una volta tra gli ospiti dell’elegante treno, tutti possibili assassini, una partenza da Istanbul, una vittima straodiata, una grande nevicata che obbliga ad una fermata fuori programma e Poirot a ragionare e a dedurre, sino a raggiungere un amaro finale, quello in cui la giustizia per una volta non vorrà seguire il proprio corso. Durata 114 minuti. (Nazionale sala 2)

 

Benedetta follia – Commedia. Regia di Carlo Verdone, con Carlo Verdone, Ilenia Pastorelli, Lucrezia Lante della Rovere e Paola Minaccioni. Guglielmo, in depressione stabile, è il proprietario di un negozio di arredi sacri e abbigliamento d’eccellenza, per il piacere e l’eleganza della moltitudine di porporati romani. Depresso anche per il fatto che la moglie lo ha appena abbandonato perché innamorata proprio della commessa del suo negozio: quando come un ciclone entra nella sua vita una ragazza di borgata. Opera con un buon inizio se poi non prendesse la strada delle vogliose signore che in un modo o nell’altro vogliono accaparrarsi il misero quanto problematico single. Con una comicità che fa acqua da ogni parte (in sala piena ho contato un paio di risate davvero convinte), non priva di momenti quantomai imbarazzanti (oltrepassando di gran lunga, all’italiana, lo spudorato ma tranquillo divertimento della scena clou di “Harry, ti presento Sally”, la signora che nasconde il cellulare “nel posto più bello del mondo” finisce per ritrovarsi in una storiellina soltanto fuori dei limiti; l’attore/regista che si mette a fare il cicerone all’interno di palazzo Altemps a Roma denuncia tutta la sua odierna mancanza d’idee, lontanissimo dalle cose migliori; e poi le pasticche, i balletti, le cianfrusaglie tra colori e suoni…). La gieffina Pastorelli rimane se stessa in ogni occasione, immutabile se non fosse per i cambi d’abito (sempre più ristretto), alla ricerca dei begli effetti che una Ramazzotti ci ha dato in altre occasioni. Godetevi la manciata di minuti della Minaccioni. Un toccasana. Durata 109 minuti. (Massaua, Due Giardini sala Nirvana, Ideal, Lux sala 1, Reposi, The Space, Uci)

Chiamami col tuo nome – Drammatico. Regia di Luca Guadagnino, con Timothée Chalamet, Armie Hammer e Amira Casar. Nei dintorni di Crema, il 1983: come ogni anno il padre del diciassettenne Elio, professore universitario, ospita nella propria casa un borsista per l’intera estate. L’arrivo del disinvolto Oliver non lascia insensibile il ragazzo, che scopre il sesso con una coetanea ma che poco a poco ricambiato approfondisce la propria relazione con l’ospite. Passeggiate e discussioni, ritrovamenti di statue in fondo al lago, nuotate e musica, intimità. L’ultima opera di un regista (“Io sono l’amore”, “A bigger splash”) che con la critica di casa nostra non ha mai avuto rapporti troppo cordiali, osannato all’estero, in corsa verso l’Oscar con quattro candidature. La sceneggiatura è firmata da James Ivory dal romanzo di André Aciman. Chissà come risponderà il pubblico italiano? Durata130 minuti. (Eliseo Grande, Massimo sala 2 (V.O.), Nazionale sala 1, The Space, Uci)

 

Coco – Animazione. Regia di Lee Unkrich e Adrian Molina. Fa parte di una famiglia che certo non stravede per la musica il piccolo Miguel e lui non ha altro sogno che diventare chitarrista. Questo il preambolo; e a dire quanto la Pixar guardi allo stesso tempo ad un pubblico di bambini (ma, per carità, senza nessun incubo) e di adulti, ecco che Miguel si ritrova catapultato nel Regno dei Morti a rendere omaggio ai tanti parenti che non sono più attorno a lui. Durata 125 minuti. (Massaua, Ideal, The Space, Uci)

 

Come un gatto in tangenziale – Commedia. Regia di Riccardo Milani, con Paola Cortellesi, Antonio Albanese, Claudio Amendola e Sonia Bergamasco. Quando gli opposti si attraggono. Ovvero l’incontro tra Giovanni, intellettuale di sinistra, abitazione nel centro di Roma, tutto quadri e libri, in riunione a Bruxelles a parlare di periferie e di quanto sia opportuna la contaminazione tra l’alto e il basso, e Monica, borgatara di una periferia stracolma di extracomunitari, piena di tatuaggi, dal più che dubbio gusto nel vestire, consorte in perenne debito con la giustizia: incontro che nasce quando i due ragazzini dell’una e dell’altra parte iniziano un filarino che punta deciso al futuro. E se l’incontro portasse l’intellettuale e la borgatara a rivedere le loro antiche posizioni? Durata 98 minuti. (Massaua, Reposi, Uci)

 

Corpo e anima – Drammatico. Regia di Ildiko Enyedi, con Alexandra Borbély e Géza Morcsànyi. Un film dove si mescolano realtà e sogno, immerso nella cruda realtà quotidiana (pur con qualche momento d’ironia) ancora più acida se si pensa all’ambientazione in un mattatoio. Una coppia “lontana”, lui direttore di quel luogo, lei addetta al controllo qualità, introversi entrambi, chiusa nelle proprie solitudini, scoprono di condividere ogni notte lo stesso sogno, essere una coppia di cervi in un bosco invernale. Orso d’oro all’ultima Berlinale, “Corpo e anima” è stato designato Film della Critica dal Sindacato Nazionale Critici Cinematografici Italiani: “Un film capace di tracciare il racconto della storia d’amore che unisce due solitudini, sospendendolo con lucidità visiva tra la materialità della vita reale e l’impalpabile spiritualità del sentimento”. Durata 116 minuti. (Classico)

 

Downsizing – Fantasy. Regia di Alexander Payne, con Matt Damon, Laura Dern, Christopher Waltz e Kristen Wiig. In un futuro più o meno prossimo, i debiti spingono una coppia, Paul e Audrey, ad

abbracciare l’esperimento di un gruppo di scienziati norvegesi: una miniaturizzazione, il passare da un’abituale statura ai soli 12 centimetri, avrebbe i suoi bei lati positivi, non ultimo la soluzione per una vita più ricca e agiata. Ma nella sua nuova comunità, “Leisureland” (dove è rimasto solo, visto che la moglie all’ultimo minuto ha pensato bene di svignarsela), incrocia uno strambo slavo e soprattutto una rifugiata vietnamita, passata attraverso infelici esperienze, che gli insegnano come anche lì il mondo è pieno di inganni e diviso in più o meno fortunati, in poveracci raccolti in quartieri poveri e malfamati. Durata 135 minuti. Massaua, Ideal, Reposi, Romano sala 1, The Space, Uci)

 

Ella & John – The Leisure Seeker – Drammatico. Regia di Paolo Virzì, con Donald Sutherland e Helen Mirren. Tratto dal romanzo americano di Michael Zadoorian, con alcune varianti apportate dalla sceneggiatura scritta dallo stesso regista in compagnia di Francesco Piccolo, Francesca Archibugi e Stephen Amidon (a lui già Virzì si rivolse per “Il capitale umano”), è la storia della coppia del titolo, svanito e smemorato ma forte John, fragile ma lucidissima Ella, è il racconto del loro viaggio, dai grattacieli di Boston ai climi di Key West, lungo la Old Route 1, anche per rivisitare con la (poca e povera) memoria il vecchio Hemingway – John è stato un professore di letteratura di successo che ha coltivato con passione lo scrittore del “Vecchio e il mare” -, un viaggio che ha la forma di una conclusiva ribellione ad una famiglia e soprattutto a un destino che ha riservato per lei il cancro all’ultimo stadio e a lui l’abisso dell’Alzheimer. Momenti di felicità e anche di paura in un’America che sembrano non riconoscere più, una storia attuale e un tuffo nella nostalgia (quella che guarda agli anni Settanta), a bordo del loro vecchio camper, mentre corpo e mente se ne vanno. Un’occasione, per ripercorrere una storia d’amore coniugale nutrita da passione e devozione ma anche da ossessioni segrete che riemergono brutalmente, regalando rivelazioni fino all’ultimo istante. Durata 112 minuti. (Ambrosio sala 2, Eliseo Blu, F.lli Marx sala Groucho, Romano sala 2, The Space, Uci)

 

Ferdinand – Animazione. Regia di Carlos Saldahna. Non ha mai avuto vita facile il libro dell’americano Munro Leaf da cui oggi nasce questo cartoon di Saldahna (già premiato autore di “Rio” e dell’”Era glaciale”), libro del ’36 su cui franchisti prima e nazisti poi non poco s’accanirono (era, inevitabilmente, nell’animo di Gandhi). La vicenda del toro decisamente pacifista diverte oggi bambini e anche adulti dal cuore pronto a rilassarsi, pronti a simpatizzare con un animale che è destinato a combattere nell’arena ma che al contrario preferisce circondarsi di fiori, fugge da chi gli impone quelle regole, stringe amicizia con una piccola animalista. Lieto fine che s’impone, al fianco del “pericolosissimo” toro altri simpatici personaggi, tra cui da non lasciarsi sfuggire la capra Lupe. Durata106 minuti. (Uci)

 

Insidious – L’ultima chiave – Horror. Regia di Adam Robitel, con Kirk Acevedo e Lin Shaye. Il regista continua il proprio viaggio nella paura, con porte cigolanti o che sbattono all’improvviso, occhi sgranati e biancastri, abiti che ballano, vocine tremolanti e piene di terrore, demoni terribili, legami indissolubili tra qui e l’Altrove. Elisa ha il potere di richiamare i morti, per questo viene convocata nel New Mexico da una famiglia che abita la casa che l’ha vista bambina. Reincontrerà tutti i fantasmi del suo passato e proverà a sconfiggerli. Durata 103 minuti. (Massaua, Ideal, The Space, Uci)

 

L’insulto – Drammatico. Regia di Ziad Doueiri, con Adel Karam e Kamel El Basha (Coppa Volpi a Venezia). A Beirut, un incidente tra due uomini, un operaio palestinese che è caposquadra di un cantiere con l’incarico di una ristrutturazione e un meccanico di religione cristiana. Quando costui, Toni, rifiuta di riparare una vecchia grondaia che ha bagnato la testa di Yasser, questi lo insulta, e gli insulti si accompagnano alle percosse, per cui l’incidente finirà in tribunale: situazione aggravata dal fatto che la moglie di Toni ha per lo spavento dato alla luce prematuramente una bambina che lotta tra la vita e la morte. Un caso particolare che adombra un conflitto molto più allargato e mai cessato: come ancora dimostra il processo, dove un padre e una figlia, difensori dell’una e dell’altra parte, esprimono due diverse generazioni e un giudizio diametralmente opposto. Durata 110 minuti. (Nazionale sala 2)

 

Gli invisibili – Drammatico. Regia di Claus Räfle, con Aaron Altaras, Alice Dwyer e Max Mauff. Il film segue il destino di quattro degli oltre 7000 ebrei che nel giugno 1943 “scomparvero” nella città di Berlino, nella speranza di sfuggire ai campi di concentramento nazisti. Quattro ragazzi, chi s’impegna politicamente, chi si rifugia in una sala cinematografica, chi fabbricherà passaporti utili a sé e agli altri, chi si nasconde con estremo coraggio e spregio nella casa di un alto ufficiale. Durata 110 minuti. (Centrale, Greenwich sala 3)

 

Jumanji – Benvenuti nella giungla – Avventura. Regia di Jake Kasdan, con Dwayne Johnson, Karen Gillan e Jack Black. Un fenomeno che ha più di vent’anni (eravamo nel 1996) e che ricordiamo ancora oggi per il personaggio, Alan Parrish, interpretato dal compianto Robin Williams, attore al culmine del successo dopo la prova in “Mrs. Doubtfire”. Hollywood non dimentica e rispolvera un passato di ottimi botteghini. Messi in punizione nella scuola che frequentano, quattro ragazzi scoprono un vecchio videogame. Una volta dato il via al gioco, essi vengono catapultati all’interno del sorprendente meccanismo, ognuno con il proprio avatar. Assumeranno altre sembianze, entreranno nell’età adulta: ma che succederebbe se la loro missione fallisse e la vita di ognuno finisse intrappolata nel videogame? Durata 119 minuti. (Massaua, Ideal, The Space, Uci)

 

Made in Italy – Commedia. Regia di Luciano Ligabue, con Stefano Accorsi, Kasia Smutniak e Filippo Dini. L’autore di “Radiofreccia” guarda al nostro paese tra malinconia rabbia e qualche speranza con il ritratto di Riko, fortunato per quel lavoro che possiede ma che gli consente con fatica di mantenere la propria famiglia. Una moglie e un figlio e un gruppo di amici che all’occorrenza lo aiutano: ma qualcosa s’inceppa e se Riko vorrà sottrarsi ad altre sconfitte dovrà necessariamente condurre la propria vita in maniera diversa. Durata 104 minuti. (Massaua, F.lli Marx sala Chico, Greenwich sala 2, Ideal, Reposi, The Space, Uci)

 

Morto Stalin se ne fa un altro – Commedia. Regia di Armando Iannucci, con Steve Buscemi, Micael Palin, Olga Kurylenko, Simon Russel Beale. Scozzese di nascita ma napoletanissimo per origini paterne, Iannucci ci ha dato una delle opere più godibili degli ultimi anni, ricca di effetti sulfurei, di una sceneggiatura che supera con facilità la risata fine a se stessa per immergersi nella satira più corrosiva, per graffiare e far sanguinare un mondo ben sistemato sugli altari. Il vecchio castiga ridendo mores, in folclore politico. Ovvero la morte del baffuto Stalin, che ha appena impartito l’ordine che gli sia recapitata la registrazione di un concerto che però registrato non lo è stato. Orchestra, pubblico e pianista dissidente, tutti di nuovo al loro posto. Ma le preoccupazioni sono e saranno ben altre: quella sera stessa, era il 28 febbraio 1953, il dittatore è colpito da un ictus e le varie epurazioni delle vette sanitarie in odore di tradimento fanno sì che le cure non possano arrivare che in ritardo e infruttuose. Cinque giorni dopo, passato lui a miglior vita, può così cominciare l’arrembaggio alla poltrona tanto ambita da quanti tra i collaboratori l’hanno vistosamente sostenuto o tacitamente avversato, a cominciare da un atterrito Malenkov chiamato da un ridicolo Consiglio a reggere le sorti dei popoli. Senza dimenticare, tra il tragico e il ridicolo, le mosse dei tanti Mikoyan, Zukov, Bulganin, Molotov e Berija in atteggiamenti da vero macellaio sino a Nikita Kruscev (un impareggiabile Steve Buscemi, ma ogni personaggio si ritaglia un momento di gloria), astutissimo nel saper raccogliere le tante intenzioni, lotte, sospetti, accuse, sparizioni dei propri colleghi, e capace di afferrare il primo posto. Tutto questo sullo schermo, applaudito al recente TFF, risate e sberleffi come non mai: apprezzato, ma allo stesso temo ti chiedi quanto sia stato giusto cancellare la vena tragica di quelle giornate. E del poi. Durata 106 minuti. (Centrale, anche in V.O.)

 

Napoli velata – Drammatico. Regia di Ferzan Ozpetek, con Giovanna Mezzogiorno, Alessandro Borghi, Beppe Barra, Luisa Ranieri, Anna Bonaiuto. In una Napoli piena di ambiguità e di misteri, in bilico tra magia e superstizione, tra follia e razionalità, Adriana, ogni giorno a contatto con il mondo dei non-vivi per la sua professione di anatomopatologa, conosce un uomo, Andrea, con cui trascorre una notte di profonda passione. Si sente finalmente viva ed è felice nel pensare ad un prossimo appuntamento. A cui tuttavia Andrea non verrà: è l’inizio di un’indagine poliziesca ed esistenziale che condurrà Adriana nel ventre della città e di un passato, dove cova un rimosso luttuoso. Durata 110 minuti. (Romano sala 3)

 

L’ora più buia – Drammatico. Regia di Joe Wright, con Gary Oldman, Kristin Scott Thomas, Lily James e Ben Mendelsohn. L’acclamato autore di “Espiazione “ e “Anna Karenina” guarda adesso al secondo conflitto mondiale, all’ora decisiva del primo anno di guerra, alla figura del primo ministro inglese Winston Churchill. Nel maggio del ’40, dimessosi Chamberlain e da poco eletto lui alla carica, inviso al partito opposto e neppure in grado di poter contare sui suoi colleghi di partito e sul re che lo tollera, mentre le truppe tedesche hanno iniziato a invadere i territori europei, Churchill combatte in una difficile quanto decisiva scelta, se concludere un armistizio con la Germania dopo la repentina caduta della Francia oppure avventurarsi nell’intervento di un conflitto armato. Mentre si prepara l’invasione della Gran Bretagna, si deve pensare alla salvezza del paese, grazie ad una pace anche temporanea, o l’affermazione con una strenua lotta degli ideali di libertà: una delle prime mosse fu il recupero dei soldati intrappolati sulle spiagge di Dunkerque (come già ad inizio stagione ci ha insegnato lo stupendo film di Christopher Nolan). Oldman s’è già visto per il ruolo assegnare un Globe, sta sopravanzando sugli altri papabili per quanto riguarda gli Oscar, un’interpretazione che colpisce per la concretezza, per gli scatti d’ira e per quel tanto di cocciutaggine e lungimiranza britannica che in quell’occasione s’impose. Uno sguardo al trucco dell’interprete: gorse un altro Oscar assicurato. Durata 125 minuti. (Due Giardini sala Ombrerosse, F.lli Marx sala Harpo anche V.O., Lux sala 2, Massimo sala 1, Reposi, The Space, Uci)

 

Poesia senza fine – Biografico. Regia di Alejandro Jodorowsky. A Santiago del Cile, all’inizio degli anni Cinquanta, l’autore della “Montagna incantata”, ventenne, coltiva il desiderio di diventare poeta in opposizione al padre che per lui sogna un futuro di medico. Fermo sulle proprie decisioni, abbandona la famiglia, si rifugia in una comune di improbabili artisti e inizia il viaggio della sua vita. Durata 100 minuti. (Classico)

 

La ruota delle meraviglie – Drammatico. Regia di Woody Allen, con Kate Winslet, Justin Timberlake, James Belushi e Juno Temple. Inizio anni ’50, pieni di colore nella fotografia di Vittorio Storaro o rivisti in quelli ramati di un tramonto, un affollato parco dei divertimenti a Coney Island, quattro destini che s’incrociano tra grandi sogni, molta noia, paure e piccole speranze senza sbocco. Ginny è una ex attrice che oggi serve ai tavoli, emotivamente instabile, madre di un ragazzino malato di piromania, frequentatore di assurde psicologhe; Humpty è il rozzo marito, giostraio e pescatore con un gruppo di amici, che ha bevuto e che ancora beve troppo, Carolina è la figlia di lui, rampolla di prime nozze, un rapporto interrotto da cinque anni, dopo la fuga di lei con un piccolo ma quantomai sbrigativo gangster che adesso ha mandato due scagnozzi a cercarla per farla stare zitta, ogni mezzo è buono. Rapporto interrotto ma la casa di papà è sempre quella più sicura. E poi c’è il giovane sognatore, Mickey, che arrotonda facendo il bagnino e segue un corso di drammaturgia, mentre stravede per O’Neill e Tennessee Williams, artefice di ogni situazione, pronto a distribuire le carte, facendo innamorare l’ultima Bovary di provincia e poi posando gli occhi sulla ragazza. Forse Allen costruisce ancora una volta e aggroviglia a piacere una storia che è il riverbero di ogni mélo degli autori anche a lui cari, impone una recitazione tutta sopra le righe, enfatizza e finge, pecca come troppe volte nel suo mestiere di regista, non incanta lo spettatore. La (sua) vittima maggiore, che più risente del debole successo è la Winslet di “Titanic”, che pur nella sua nevrotica bravura non riesce (o non può, obbediente alla strada tracciata dall’autore) a calarsi appieno nel personaggio, come in anni recenti aveva fatto la Blanchett in “Blue Jasmine”. Durata 101 minuti. (Ambrosio sala 3)

 

Tre manifesti a Ebbing, Missouri – Drammatico. Regia di Martin McDonagh, con Frances McDormand, Woody Harrelson, Sam Rockwell, Abbie Cornish e Lucas Hedges. Da sette mesi le ricerche e le indagini sulla morte della giovane Angela, violentata e ammazzata, non hanno dato sviluppi né certezze ed ecco che allora la madre Mildred compie una mossa coraggiosa, affitta sulla strada che porta a Ebbing, tre cartelloni pubblicitari con altrettanti messaggi di domanda accusatoria e di “incitamento” diretti a William Willoughby, il venerato capo della polizia, onesto e vulnerabile, malato di cancro. Coinvolgendo in seguito nella sua lotta anche il vicesceriffo Dixon, uomo immaturo dal comportamento violento e aggressivo, la donna finisce con l’essere un pericolo per l’intera comunità, mal sopportata, quella che da vittima si trasforma velocemente in minaccia: ogni cosa essendo immersa nella descrizione di una provincia americana che coltiva il razzismo, grumi di violenza e corruzione. Da parte di molti “Tre manifesti” è già stato giudicato come il miglior film dell’anno, i quattro recenti Golden Globe spianano la strada verso gli Oscar. Durata 132 minuti. (Ambrosio sala 1, Eliseo Rosso, Greenwich sala 1, Uci)

 

Un sacchetto di biglie – Drammatico. Regia di Christian Duguay, con Dorian Le Clech, Batyste Fleurial e Christian Clavier. Joseph e Maurice hanno rispettivamente dieci e dodici anni, la loro famiglia è ebrea, abitano a Parigi. Quando la pressione delle persecuzioni diventa insostenibile, i genitori decidono di mandarli al sud, nella Francia libera, perché raggiungano i fratelli. Non è soltanto un viaggio attraverso il paese occupato, è anche un percorso per una crescita interiore. Incontri, difficoltà di ogni genere, sorprese inaspettate, il quotidiano aiuto reciproco per sfuggire alle truppe di occupazione, l’ingegno e il coraggio per sfuggire al nemico e ricongiungersi con la famiglia. Durata 110 minuti. (Greenwich sala 3, The Space, Uci)

 

L’uomo sul treno – Azione. Regia di Jaume Collet-Serra, con Liam Neeson, Vera Farmiga e Dean-Charles Chapman. Sul treno di pendolari che prende regolarmente da dieci anni, l’assicuratore Mc Cauley è avvicinato da una bella donna, una psicologa, che gli promette una bella quantità di soldi se lui vorrà fare con lei un gioco: su quel treno viaggia un tale che non ha proprio le caratteristiche di un normale pendolare, a lui scoprire di chi si tratta. Come nelle storie del maestro Hitchcock, l’uomo entrerà negli ingranaggi di un gioco più grande di lui, se volesse sottrarsene ne andrebbe della sua famiglia. Durata 105 minuti. (Massaua, Lux sala 3, Reposi, The Space, Uci)

 

Il vegetale – Commedia. Regia di Gennaro Nunziante, con Fabio Rovazzi, Luca Zingaretti e Ninni Bruschetta. Fabio è laureato in scienze della comunicazione e all’improvviso si ritrova a gestire la società paterna, cresciuta a suon di malaffare. Lui è forte della propria onestà, lascia Milano e se ne va al sud, in cerca d’aria nuova: finirà a raccogliere frutta agli ordini di un caporale di colore, unico bianco in mezzo a cento immigrati. Dovrà tenere a bada una sorellina pestifera che per lui non ha nessuna considerazione, ma in compenso troverà anche una maestrina dal cuore tenero. Durata 90 minuti. (Massaua, Ideal, Lux sala 3, Reposi, The Space, Uci)

 

Wonder – Drammatico. Regia di Stephen Chbosky, con Julia Roberts, Owen Wilson e Jacob Tremblay. Auggie è un bambino di dieci anni, una malformazione cranio facciale ha fatto sì che non abbia mai frequentato la scuola. Quando i genitori prendono la decisione che è venuta davvero l’ora di affrontare il mondo degli altri, per il ragazzino non sarà facile. Al tavolo di Auggie, in refettorio, nessuno prende posto, un gruppetto di compagni continua a divertirsi a prendere in giro il suo aspetto. Poi qualcuno comunicherà ad apprezzarlo e ad avvicinarsi a lui. Durata 113 minuti. (Massaua, Reposi, The Space, Uci)

 

Uno sguardo su Cechov nostro contemporaneo

Simon Stone è un giovane regista trentatreenne, nato a Basilea e vissuto tra Cambridge e l’Australia, ha allestito l’ibseniano John Gabriel Borkman ricevendone onori ed è stato eletto miglior regista per il 2016 dalla rivista “Theater heute”, idolo ancora con Ibsen all’ultimo Avignone, oggi sta saggiando Strindberg, ieri ha intrapreso la strada del cinema e qualcuno sussurra di un film con Nicole Kidman ma nulla di certo. Credo che in questi giorni sul palcoscenico del Carignano ci stia regalando un capolavoro. Con Les trois soeurs, prodotto ammirevolmente dallo Stabile torinese e dal parigino Teatro Odéon (in lingua francese con soprattitoli), con l’universo cechoviano che si dilata sulle infelicità e sui sogni abbattuti di Irina, di Olga e di Macha, sui loro fallimenti e il desiderio di fuga (“La vita è altrove”, ha scritto Milan Kundera), una re-invenzione purissima, una re-scrittura nell’oggi che ti appassiona, che ti può inizialmente disturbare perché ti sei accomodato in poltrona nella piena fiducia del rispetto del testo originale ma che di lì ad una manciata di attimi ti cattura. E non può non essere così. “Tutte le sue opere si svolgono nel tempo presente: il presente non finisce mai. Se fosse vivo, sicuramente Cechov vorrebbe che i suoi drammi fossero ambientati nel presente”, ne è sicuro il regista. Quello che fino a ieri era classico, diventa umanamente nostro, attuale, ripensato nella nostra contemporaneità, lungo i nostri giorni. Dimenticate ogni precedente edizione, scordatevi l’obbligatoria atmosfera legata alla noia di vivere (o al mestiere) e ai silenzi e preparatevi a vedere altro. Eliminate quelle certezze che vi può suggerire quel “da Anton Cechov” posto in locandina, è un inganno. Il senso di Stone per l’autore sta in quell’ansia voyeuristica che condividerà con lo spettatore, con quello sguardo fissato dentro la casa vetrata delle tre ragazze, un luminoso parallelepipedo – pressoché perennemente e simbolicamente ruotante – a due piani fatto di cucina soggiorno bagno doccia camera pianoforte sedie tavoli libri letti (la scena è firmata da Lizzie Clachan, eccezionale), sta in quel desiderio di catturare temi, appunti, sprazzi esplicativi per virarli e immergerli nel nostro presente. Nel rincorrersi di arrivi e di presenze maschili e femminili, degli amici che ruotano attorno alle protagoniste, del fratello che vede morire un’unione e la certezza di paternità, degli amori sperati ma che non possono vedere un domani, dei compleanni che non sono più una festa e i fuochi d’artificio che si spengono subito, del sesso consumato in fretta o vagheggiato, dei legami etero e omo, delle troppe parole, delle chiacchiere e delle urla, delle confessioni e dei rimpianti, dei sogni concentrati sul futuro, si inseriscono Instagram e facebook, Donald Trump e i rifugiati, si parla di ex sessantottini e di progetti svaniti, di qualcuno che ha abbracciato la dieta vegana. Si mescolano grandi discorsi, tra filosofia e politica, in una stanza mentre in quella accanto si rovesciano banalità, si confondono droga e ricerca della felicità, non si sogna più di andare a Mosca, oggi la meta è New York, magari San Francisco, un tempo poteva andar bene Berlino, per un weekend, Irina quella scelta l’ha già abbandonata anni prima. Si beve birra insieme, qualcuno coca-cola, qualcuno esce in giardino a preparare il barbecue, tutti abbondano giustamente di parolacce e di situazioni esplicite. La disperazione da sempre non lascia spazio all’arrivo di un sorriso. Mentre i riti seguono ai riti, sotto una nevicata la casa è venduta, gli arredi vanno liberati, pezzo dopo pezzo, si ricrea fisicamente il vuoto di sempre, qualcuno nel disordine di abbandoni e di ultime parole si chiude in bagno e si spara un colpo in testa. Nella grande casa si spegne ogni luce. È il mondo fatto di nulla di Cechov, trasportato nel nostro mondo fatto di nulla. La vendita ti riporta al Giardino, qualcuno che rischia di esser dimenticato dentro al vecchio servo Firs, lo sparo a quello di Kostia nel Gabbiano. È sempre il mondo di Cechov. Cui undici interpreti da capogiro prestano incredibile adesione, per chi scrive solo dei nomi e me ne scuso (segnatevi per tutti Amira Casar, da oggi sugli schermi nel film di Luca Guadagnino), immedesimati come raramente capita di vedere e ascoltare su di un palcoscenico con i propri personaggi, in una recitazione che non è più tale ma diventa immediatamente vita. Lo spettacolo è ancora a Torino oggi (alle 19,30) e domani (alle 20,45): un consiglio per chi ama le imperdibili occasioni teatrali, cercatevi un biglietto e correte a vederlo. E davvero a caricarlo d’applausi, come ho sentito alla seconda replica. Interminabili.

 

Elio Rabbione

Il Salotto dell’Ottocento

Domenica 28 Gennaio 2018 ore 21.00 presso l’Anatra Zoppa, storico circolo di Torino sito in via Courmayeur 5, si potrà assistere al concerto“Il salotto dell’ottocento”. Il primo appuntamento della rassegna musicale ANTICAMERA, un progetto ideato e curato da Gianfranco Saponaro, prodotto da Anomalia Teatro

IL SALOTTO DELL’OTTOCENTO.Il salotto ottocentesco era il luogo in cui i giovani rampolli dell’aristocrazia e dell’alta borghesia imparavano a stare in società scambiandosi arguti pareri politici ed economici ma anche gossip e giovanili ardori. In questi pomeriggi il concerto musicale diventava un prezioso momento tra una discussione troppo accesa e uno sguardo troppo intenso. I brani dovevano stupire per il loro eccitante virtuosismo o scorrere senza complessità fra riccioli e merletti. Il Duo De Felice & Arata ripropone la stessa atmosfera cercando di conservarne il brio e la leggerezza, con l’intento di condividere col pubblico autori ricercati come Mauro Giuliani e Michel Henkel sottolineandone la scherzosa energia. Giulio De Felice suona il flauto ottocentesco, Cristiano Arata la chitarra romantica e la lira chitarra, entrambi utilizzano strumenti originali dell’epoca. Laureati al Conservatorio di Torino si sono esibiti in diverse regioni di Italia, suonando anche per la televisione nazionale. Dal mese di marzo a fine giungo hanno in programma una meravigliosa tournée in Asia e America.

ANTICAMERA.Ci si aspetterebbe una signora in abito lungo e orecchini d’oro, qualche poltrona incorniciata, quadri pesanti e molti sospiri. Ci si aspetterebbe una sala da concerto con poltrone di velluto e dei binocoli sorretti da mani guantate. Luoghi lontani e un po’ ingessati per ascoltare la migliore musica classica. Invece Anticamera la porta in un circolo Arci di Barriera, e nemmeno uno qualunque ma l’Anatra Zoppa, con la sua calda atmosfera di legno e biliardo. E prova a raccontarcela, a farcela toccare, a far sedere anche lei a uno dei nostri tavoli e ubriacarla di vino, le fa sganciare lo smoking e ce la rivela, rilassata e splendente. Anticamera è musica classica ma con arredi informali. Anticamera, alla sua seconda edizione, è una rassegna di sei concerti in cui si esibiscono alcuni tra i musicisti più interessanti della scena torinese. L’obiettivo è quello di offrire al pubblico serate in cui la musica più ricercata verrà proposta in un’atmosfera calda e accogliente. Il progetto è ideato da Gianfranco Saponaro ed è una produzione Anomalia Teatro, compagnia di artisti indipendenti che produce e distribuisce la propria arte, curandone personalmente tutti gli aspetti, dalla data sulla locandina ai ringraziamenti finito lo spettacolo.

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Anomalia Teatro.Anomalia Teatro nasce nel settembre 2016 con l’obiettivo di produrre e distribuire la propria arte in modo indipendente. Nel suo primo anno di attività ha portato in scena tre spettacoli, una rassegna di musica classica, attività formative e collaborazioni con enti ed associazioni torinesi. È un gruppo di giovani artisti che ama il teatro in ogni suo aspetto, dal monologo centrale di Amleto allo scotch dietro le cartoline, ed è proprio questa passione a portarli alla cura per ogni dettaglio e alla creazione di un’esperienza che abbia inizio con il nome sulla locandina e finisca con gli applausi del pubblico.

Tra commedia e tragedia, il teatro nel teatro non è solo pirandelliano

Dedicando ad una sconosciuta mademoiselle questa prima edizione de L’illusion comique rappresentata al parigino Théâtre du Marais tra il novembre 1635 e la Pasqua dell’anno successivo, Pierre Corneille riconosceva: “Ecco che vi dedico uno strano mostro. Il primo atto non è che un prologo, i tre successivi formano una commedia imperfetta, l’ultima è una tragedia, e il tutto cucito insieme forma una commedia”. Quanti generi teatrali, e forse non tutti elencati se nella grotta iniziale possiamo guardare al maraviglioso barocco o se senza temere smentite troviamo Matamoro spaccone e innamorato pazzo delle donne scendersene comodo comodo dalla Commedia dell’Arte. E poi, come vero capolavoro, attorno ad una spina dorsale che sono i rapporti infelici tra un padre e un figlio, Corneille sposta decisamente la barra e mescolando con fantasiosa sapienza realtà e finzione, quasi in un soffice e stralunato pirandellismo in anticipo di tre secoli, inserisce nell’opera un perfetto gioco di teatro nel teatro. È sufficiente che il mago Alcandro, con quei suoi occhialini scuri che lo pongono a mezza strada tra Tiresia e Beckett e con l’appoggio al suo bastone ricurvo e nodoso, compia un incantesimo perché il giovane Clindoro, trattato dal padre duramente e fuggito dieci anni prima di casa con ogni disonore, venga riscoperto – attraverso un susseguirsi di trasparenze e rideaux, pronti a ricoprirsi di luci azzurre o violacee, che sono la scena assai bella pur nella propria “povertà” inventata da Eleonora Rossi, suoi anche i costumi -: al servizio di Matamoro, il suo amore con Isabella cui già lo spaccone e lo spento Adraste aspirano, la macchinazione inventata dalla serva Lisa che mal sopporta la trasgressione alle leggi sociali e teatrali, dove sarà sempre rispettato l’allineamento delle classi, il tradimento e l’uccisione del rivale, il carcere e il pentimento di Lisa. Sino all’ultimo atto di questa opera irregolare, posto su di un piano ulteriore e diverso, dove i personaggi hanno assunto altre identità e vivono una improbabile vicenda che porta Clindoro, ormai nelle vesti di Teagene, a essere vittima di un tranello e a morirne. Il padre Pridamante è disperato a quella nuova visione, non capisce le parole del mago, che gli riferisce come il ragazzo sia interprete di una recita e quel denaro che il capocomico distribuisce a ognuno degli attori ne è la prova. È davvero tanta la materia che Fabrizio Falco aveva tra le mani ma è stato capace di padroneggiarla con decisione (forse badando con qualche leggerezza al ruolo di Clindoro che ha pure tenuto per sé), ha sparso divertimento e lacrime, certezze e sogni, irrealtà e concretezze, parole e immagini. Mettendo mano a questa costruzione teatrale, sotto differenti prospettive, non s’è risparmiato nelle illusioni e nell’ambiguità con il risultato di uno spettacolo quantomai solido per il pubblico del Gobetti (produzione Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale in collaborazione con il Centro Teatrale Santacristina, repliche sino al 4 febbraio), anche grazie all’uso appropriato delle pedane fatte avanzare sino al proscenio ha fatto interagire gli attori divisi dalla storia come pure ha creato con lo spettatore un legame assai più stretto. Giù giù sino all’epilogo, sino a quel gioco antico del teatro che si libera della scena e mette a nudo il palcoscenico spoglio. A commentare, a guidare poco a poco l’azione, nei ruoli di Pridamante e Alcandro, i perfetti Leonardo De Colle e Titino Carrara, Mariangela Granelli è una spigliatissima Lisa, come lei riempie la scena il prorompente Matthieu Pastore con il suo Matamoro. Massimo Odierna, Loris Fabiani, Elisabetta Misasi e Maurizio Spicuzza completano il cast davvero applaudito ad una delle repliche cui ho assistito.

 

Elio Rabbione

Foto di scena Marina Alessi

“La favola di Natale” nel Giorno della Memoria

La commovente favola di Guareschi. Un nuovo allestimento del Regio diretto da Claudio Fenoglio

 

Piccolo Regio Puccini, sabato 27 gennaio 2018, ore 20

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Il Teatro Regio, che da anni partecipa alle iniziative legate al Giorno della Memoria, propone La favola di Natale, un racconto di Giovannino Guareschi, con musica di Arturo Coppola, trascritta ed elaborata da Giorgio Colombo Taccani, ricerche e ricostruzione storica di Andrea CostamagnaClaudio Fenoglio dirige i Solisti e il Coro di voci bianche del Teatro Regio e del Conservatorio “G. Verdi”, e gli Allievi delle classi di strumento del Conservatorio “G. Verdi”, narratore Giancarlo Judica Cordiglia, regia e adattamento drammaturgico di Caterina Panti Liberovici, scene di Sergio Mariotti, costumi di Alessandra Garanzini e luci di Patrizio SerraLa favola di Natale è un racconto di Guareschi datato 1944, mentre era internato in un lager a Sandbostel, in Germania. Lo raccontò per la prima volta ai compagni di baracca, proprio la sera della vigilia di Natale dello stesso anno, nello Stalag XB, dove era recluso. Lo spettacolo è realizzato in collaborazione con il Conservatorio “G. Verdi” di Torino, con il sostegno degli Amici del Regio sotto il patrocinio della Comunità Ebraica di Torino e in occasione del 50° anniversario della morte di Giovannino Guareschi (1908-1968).

Fascia d’età consigliata: 13-18 anni.

Recite riservate alle scuole il 25 gennaio ore 10.30 e il 26 ore 10.30 e ore 15; recita aperta a tutti il 27 gennaio ore 20. Biglietti a € 10 (under 16: € 8) in vendita diretta alla Biglietteria del Teatro Regio (tel. 011.8815.241/242), presso Infopiemonte-Torinocultura e i punti vendita Vivaticket; on line su www.vivaticket.it; telefonicamente al numero 011.8815.270. 18app: biglietti a € 5, e con 1 euro in più si può acquistare un secondo biglietto. Info – Tel. 011.8815.577 e www.teatroregio.torino.it.

Le attività de La Scuola all’Opera sono realizzate in collaborazione con Amici del Regio e Fondazione Cosso.

Mario Soldati gourmet

Il Centro Pannunzio, nel sessantesimo anniversario dalla messa in onda della serie televisiva “Viaggio nella valle del Po alla ricerca dei cibi genuini” di e con Mario Soldati che fu suo presidente per vent’anni, promuove un incontro dal titolo “Mario Soldati, un viaggio lungo 60 anni: la valle del Po fra televisione, letteratura e cibo”. Interverranno Luca Bugnone, giornalista del Gambero Rosso; Elisabetta Cocito dell’Accademia Italiana della Cucina e Monica Mercedes Costa, studiosa di cultura materiale, dirigente del Centro “Pannunzio. “Seguirà un aperitivo in tema di cibo e vini del territorio (della valle del Po).Ingresso libero. Dichiara il Vice Presidente del Centro “Pannunzio prof. Pier Franco Quaglieni che fu amico assiduo di Soldati: “Renderemo omaggio all’unico, vero creatore della “cultura del cibo” in Italia ,tanto prima e con  tanta raffinata cultura in più  rispetto agli oggi  idolatrati Petrini e Farinetti.

E’ a Soldati che si devono le intuizioni che hanno saputo  far mescolare cibo, cultura, vino, arte. Soldati parlava della famosa salama da sugo di Ferrara perché voleva parlare dell’Ariosto ai suoi telespettatori. La valle del Po non era la rozza Padania, ma la culla di un civiltà italiana cresciuta lungo il fiume, una civiltà di  montanari, contadini, pescatori ma anche  fatta di grandi scrittori.

Torino era per Soldati la città del Risorgimento e del cioccolato, come Bardonecchia era la località di villeggiatura dove c’erano le trote di torrente, ma  dove aveva incontrato Benedetto Croce, innamorandosi di una sua figlia. Per Soldati, autorevole componente dell’ Accademia  italiana della cucina fondata nel 1952  dai suoi amici Orio Vergani e Dino Buzzati, la cultura del cibo e del vino diventava tout-court cultura.