CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 596

Caterincă, tanti significati o nessuno

Lunedì 1° ottobre, alle ore 21 allo Spazio FLIC, prende il via la nuova intensa stagione di spettacoli della FLIC Scuola di Circo di Torino con CATERINCĂ, creazione finale della scorsa stagione con gli allievi che stavano terminando il primo anno del biennio professionale e che sono adesso iscritti al secondo.

L’ingresso è gratuito ed aperto a tutti previa prenotazione all’email booking@flicsuolacirco.it

In dieci giorni di lavoro intensivo, il docente e regista Riccardo Massidda ha il compito di riprendere e riadattare, in base alle nuove competenze acquisite dagli allievi, questo spettacolo che riassume il primo step del percorso formativo svoltosi da ottobre 2017 a giugno 2018 in circa 1500 ore di lezione.Uno spettacolo che inaugura la nuova stagione di spettacoli 2018/2019 della FLIC e che è allo allo stesso tempo organizzato per dare il benvenuto ai nuovi allievi, che potranno vedere in scena i ragazzi che un anno fa si trovavano al loro posto ed avere così un’idea del livello che potranno raggiungere dopo 10 mesi di duro lavoro.Quest’anno sono 81 gli allievi provenienti da 21 diverse nazioni che frequenteranno uno dei migliori centri di formazione in Europa sul circo contemporaneo. Un ambiente professionale e stimolante che permette loro, in seguito a tanta dedizione e fatica, di formarsi con docenti di alto livello e con un programma di studi collaudato che consente di mettere continuamente in pratica le nozioni e le tecniche acquisite grazie alla creazione professionale di spettacoli durante tutto il corso dell’anno.

 

LO SPETTACOLO CATERINCĂ

Caterincă nel dizionario di lingua rumena può avere i seguenti significati: 1. ghironda 2. trappola, insidia. 3. rumore, casino. 4. scandalo; rissa. 5. discorso scherzoso in cui l’interlocutore è deriso senza che se ne renda conto

Il regista Riccardo Massidda spiega che “è stato scelto come titolo un vocabolo dai tanti significati, per creare uno spettacolo senza significato, o forse dagli infiniti significati. In questo nuovo processo di creazione i ragazzi affrontano un percorso di rappresentazione della frammentazione e del dualismo, si tolgono la maschera del perbenismo e si pongono davanti all’occhio osservatore del pubblico senza filtri e pudori. L’accettazione di sé è la luce in fondo al tunnel, ma il cammino è ancora nella sua fase iniziale”.

La musica di alcune scene viene eseguita dal vivo e le tecniche utilizzate sono: mano a mano, equilibrismo su corda molle, cerchio, trapezio, roue Cyr, palo cinese, verticalismo, acrobatica e manipolazione d’oggetti.

 

I 20 allievi del secondo anno del biennio professionale protagonisti dello spettacolo sono:

Everaert Jef dal Belgio, Hidalgo Witker Magdalena e Nazal Galanti Costanza dal Cile, Dubot Quentin, Guichard Camille, Mas Caroline e Moreno Nicolas Raphael dalla Francia, Brandstetter Lara e Stock Cecilia dalla Germania, Zelniker Stav da Israele, Kunsmanas Džiugas dalla Lituania, Matthey De L’Endroit Alain Joseph dalla Svizzera, Cardona Chiara, Molino Marianna, Monnicchi Martina, Pini Sandrelli Federica, Ramon Jessica, Travelli Alessandro, Tubertini Davide e Zuffi Alessandro da diverse regioni d’Italia.

 

IL REGISTA RICCARDO MASSIDDA

Riccardo Massidda, all’età di 23 anni, dopo un percorso di esplorazione tra teatro, performance e videomaking viene folgorato dal linguaggio del circo contemporaneo e nel 2010 si diploma alla FLIC. Da lì prosegue il suo percorso, vincendo il bando europeo Trans-mission con La Famiglia Circovskij. Desideroso di ampliare la sua visione sul circo decide di approfondire la conoscenza del circo tradizionale entrando a far parte della famiglia Bellucci Medini con la quale girerà Italia e Romania per 3 anni, trovandosi a dirigere lo spettacolo “Ciao Italia!” e il dinner show “Gran Varietè Bellucci”. Dopo questa esperienza torna a Torino dove diventa insegnante di palo cinese, movimento scenico e creazione collettiva alla FLIC. È tra i fondatori delle associazioni di circo contemporaneo Cordata F.O.R. e Fabbrica C con la quale ha debuttato nel settembre 2018 con lo spettacolo ‘I Minuetti’. Interpreta e co-dirige insieme a Stevie Boyd la produzione FLIC “Moonlight Swing” nel 2018. Collabora nella gestione e nella direzione artistica delle scuole di piccolo circo “Fuma che ‘Nduma” e del festival “Il Ruggito Delle Pulci”.

 

 

LO SPAZIO FLIC

Caterincă va in scena allo Spazio FLIC, nuovo centro della scuola di circo di Torino ricavato nel 2015 all’interno di un ex hangar industriale nel quartiere Barriera di Milano dove ha sede il progetto culturale Bunker, protagonista negli ultimi anni di un percorso di riqualificazione e ri-generazione urbana. Un open space di 700 mq che dal luglio 2016 la scuola ha ulteriormente trasformato facendolo diventare, oltre che una sala di formazione, anche una professionale sala di pubblico spettacolo. Un luogo che è allo stesso tempo formativo, creativo, performativo e divulgativo per una ricerca artistica sul nuovo circo più che mai viva.

 

 

La “natura delicata” di Enrico Reycend

FINO AL 20 GENNAIO 2019

Una mostra-omaggio, assolutamente “dovuta”. A trent’anni dall’ultima importante “rievocativa” allestita nell’estate del 1989 al Palazzo – Liceo Saracco di Acqui Terme e curata da Angelo Dragone, si torna finalmente ad omaggiare con un’altra importante retrospettiva la figura di Enrico Reycend (Torino, 1855 – Torino, 1928), fra i più sensibili ed originali interpreti del Figurativismo piemontese, a cavallo fra Otto e Novecento, e artista troppo a lungo dimenticato dalla critica e dalla storia dell’arte novecentesche. Il plauso va, ancora una volta, alla Fondazione Accorsi-Ometto che nell’omonimo Museo di Arte Decorative (in via Po 55, a Torino) prosegue nel suo lodevole intento di riscoperta dei pittori piemontesi dell’Ottocento, dedicando proprio a Reycend una significativa antologica, curata da Giuseppe Luigi Marini in collaborazione con lo Studio Berman di Giuliana Godio, e che con oltre settanta opere in esposizione traccia una panoramica decisamente esaustiva dell’attività del pittore, dagli esordi agli anni tardi della sua produzione. Torinese di nascita (ma la famiglia era originaria di Monestier de Briançon, nel Delfinato), Reycend fu allievo di Fontanesi e di Delleani all’Accademia Albertina, che lasciò nel 1872 senza diplomarsi. Primo esordio alla Promotrice con due paesaggi della periferia torinese: correva l’anno 1873. Dal 1874 al 1920 espose pure nelle sale del Circolo degli Artisti e in diverse città italiane, prendendo parte anche alle prime tre Biennali di Venezia e diventando un’alternativa, in chiave più intimistica e poetica (d’impronta fontanesiana quindi) al verismo di Delleani. Fondamentale fu nel 1878 la partecipazione all’Esposizione Universale di Parigi – dove anche in seguito compirà vari soggiorni – e l’incontro ravvicinato con la pittura di Jean-Baptiste Camille Corot, per lui, insieme a Fontanesi e ai paesisti di Rivara, la voce in allora più innovativa in campo pittorico. E su questa linea, Reycend manterrà nel tempo una propria originale cifra stilistica, con i suoi suggestivi scorci torinesi, i limpidi paesaggi canavesani, la lirica “pace montanina” e le assolate marine del Ponente ligure; fedele sempre ai richiami di una natura “delicata”, raccontata attraverso rapide essenziali impressioni di segno e colore, mai barattabili con le nuove (per lui incomprensibili) sperimentazioni avanguardistiche, diventate sirene ammalianti di molta arte del primo Novecento. Doti preziose di un pittore-galantuomo, ma pecche inaccettabili per la critica militante d’allora. Pecche che, oltre a provocarne il tracollo economico, crearono il vuoto intorno a lui e portarono all’oblio la sua pittura, “condannata, come in generale l’Ottocento italiano, a espressione di una cultura attardata e sostanzialmente provinciale”. Dalla sua morte, 21 febbraio 1928, trascorreranno più di vent’anni per arrivare alla “riscoperta” dell’artista e delle caratteristiche “uniche” del suo personalissimo linguaggio poetico. Solo nel 1952, infatti, in occasione della Biennale di Venezia, il grande storico dell’arte Roberto Longhi, occupandosi dei “paesisti piemontesi”, volle autorevolmente aggiungere alla triade Fontanesi – Avondo – Delleani il nome e le opere di Reycend. Non solo. Sulle pagine di “Paragone”, Longhi rivelò anche il proprio interesse di collezionista per le opere dell’artista torinese, riconoscendolo come “il più informato pittore del proprio tempo per l’originale linguaggio di tangenza impressionista”; al punto che lo stesso storico mise insieme una piccola ma selezionata collezione di sue opere che, sempre nel 1952, generosamente donò alla Galleria d’Arte Moderna di Torino. Un autentico imprimatur piovuto dal cielo, che servì a sdoganare presso la critica in generale e, in particolare, presso quella piemontese la figura di Enrico Reycend, che da allora venne ricordato in numerose rassegne e, nel 1955, con una grande retrospettiva di oltre cento dipinti organizzata alla subalpina Galleria “Fogliato”, con un ampio testo critico di Michele Biancale e un acuto saggio introduttivo di Marziano Bernardi. Tante e interessanti rassegne. Piccole luci. Fino all’antologica, di cui s’è inizialmente detto, realizzata nell’’89 ad Acqui Terme. E oggi, dopo trent’anni (trent’anni!), eccoci qui con la bella retrospettiva ospitata, fino al prossimo 20 gennaio, al Museo Accorsi– Ometto. Ohibò, non sarà mica il caso di aspettarne altri trenta, di anni, perché si torni a parlare di Reycend? Sotto la Mole. Ma anche altrove. Purché se ne parli. E in tempi ragionevoli.

Gianni Milani

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“La ‘natura delicata’ di Enrico Reycend”

Museo di Arti Decorative “Accorsi-Ometto”, via Po 55, Torino; tel. 011/837688-

www.fondazioneaccorsi-ometto.it

Fino al 20 gennaio 2019 –Orari: mart. – ven. 10/13 e 14/18; sab. dom. e festivi 10/13 e 14/19; lun. chiuso

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Foto

– “Dalle alture torinesi”, olio su tela, 1906
– “Cortile a Salassa”, olio su cartone, 1885-’86
– “L’ombrellino”, matita su carta, 1900
– “Meriggio al mare”, olio su cartone, Collezione Alessandro Fogliato-
– “Il porto di Genova”, olio su tela, 1886

Oggi al cinema

LE TRAME DEI FILM NELLE SALE DI TORINO

A cura di Elio Rabbione

 

Blakkklansman – Azione. Regia di Spike Lee, con John David Washington e Adam Driver. Gran Premio della Giuria a Cannes lo scorso maggio, una storia vera dal protagonista Ron Stallworth nel libro “Black Klansman”. Come costui, poliziotto afroamericano, all’inizio degli anni Settanta riuscì a stabilire un contatto con il Ku Klux Klan, mantenne i contatti con il gruppo telefonicamente e inviò un agente della narcotici, ebreo, a infiltrarsi tra le file degli incappucciati. Lee compone il film non rifacendosi soltanto alla realtà ma integra con filmati d’epoca veri o ricostruiti, chiama il vecchio Harry Belafonte a raccontare di violenze del passato, traccia parellelismi con il presente terminando con i fatti di Charlottesville dello scorso anno, ad un raduno di suprematisti bianchi, alle parole di Trump. Durata 128 minuti. (Ambrosio sala 1 e 2, Eliseo Grande, Massimo sala 1 V.O.,The Space, Uci anche V.O.)

 

La casa dei libri – Drammatico. Regia di Isabelle Coixet, con Emily Mortimer e Bill Nighy. Nella provincia inglese degli anni Cinquanta, una giovane vedova di guerra, Florence, decide di aprire una libreria (come la Binoche apriva la sua profumatissima pasticceria in “Chocolat”) ma qualcuno è contrario, per nulla desideroso di avere sotto casa chi voglia spingere alla lettura. Dovrà usare ogni mezzo per dare vita alla sua iniziativa. Durata 103 minuti. (Classico, Due Giardini sala Ombrerosse, GreenwichVillage V.O.)

 

Girl – Drammatico. Regia di Lukas Dhont, con Victor Polster. Opera prima premiata a Cannes, ispirato a una storia vera. Il quindicenne Victor sogna di entrare a far parte dell’accademia di danza di Anversa ma il suo desiderio più grande è quello di affermare fisicamente e non soltanto quella ragazza – Lara – che egli sente in se stesso. L’appoggio completo del padre, le cure ormonali, le prove alla sbarra, in sala, davanti allo specchio, che portano ad avanzare sulle altre, le sofferenze e la crescita del corpo che non ama, le ossessioni. Durata 105 minuti. (Nazionale 2)

 

Gotti – Il primo padrino – Drammatico. Regia di Kevin Connolly, con John Travolta e Stacy Keach. Presentato a Cannes fuori concorso, fortemente voluto da Travolta, occasione per Al Pacino e Joe Pesci per darsela a gambe a lavorazione iniziata, questo è il classico esempio di film schiacciato dalla critica, in special modo quella statunitense, che ha visto una buona dose di ambiguità in quell’alternarsi di scene pronte a tratteggiare con amore un buon padre come il benefattore per cui i questuanti della grande città stravedono e il lato buio delle sparatorie, delle successioni a sangue freddo, dei processi in tribunale. Vedere e ricalibrare. Come l’interpretazione del divo: applaudita per le tante sfaccettature del personaggio o accusata di portare per tutto il film la stessa maschera, immobile e incartapecorita. Durata 112 minuti. (Reposi, The Space, Uci)

 

Hotel Transilvania 3 – Animazione. Regia di Genndy Tartakovski. Terzo capitolo, doveroso considerando il successo dei due che lo hanno preceduto, per l’occasione il conte Dracula si regala un periodo di vacanza con i suoi fedelissimi. Durata 97 minuti. (Massaua, The Space, Uci)

 

Gli incredibili 2 – Animazione. Regia di Brad Bird. La famiglia di supereroi, accresciuta del piccolo Jack Jack, ha aspettato 14 anni per riapparire sugli schermi ma ha fatto letteralmente il botto se soltanto si pensa agli incassi da capogiro raccolti nei soli States. Sarà il disegno o la storia pronta a dare una bella spolverata agli ideali americani, sarà il mestiere collaudato del medesimo sceneggiatore/regista, la puntata numero 2 ha incrociato un largo pubblico e gli effetti benefici si dovrebbero risentire anche qui da noi. Questa volta è mamma Helen a salire in solitaria agli onori della cronaca, chiamata a imprese piuttosto ardue che dovrebbero rivalutare i veri valori dei supereroi caduti per qualche guaio commesso in disgrazia. Per cui papà Bob è obbligato a restarsene in casa, a badare ai primi batticuori dell’adolescente Violet, ai primi exploit di Jack Jack che subito rivela poteri inaspettati: ma il cattivo di turno ricomporrà la famiglia nuovamente pronta a nuove avventure. Durata 118 minuti. (Massaua, Ideal, Lux sala 2, Reposi, The Space, Uci)

 

Mamma mia! Ci risiamo – Commedia musicale. Regia di Ol Parker, con Amanda Seyfried, Meryl Streep, Colin Firth, Andy Garcia e Cher. La stessa isola greca, per fortuna ancora le musiche e le canzoni degli Abba, passato e presente si rincorrono intorno alla vita di Donna, Cher chiamata a travestirsi da nonna, qualche vistosa forzatura per ripetere il successo del precedente appuntamento. Durata 114 minuti. (Massaua, GreenwichVillage, Reposi, Uci)

 

Michelangelo – Infinito – Documentario. Regia di Emanuele Imbucci, Con Enrico Lo Verso e Ivano Marescotti. Un ritratto avvincente e di forte impatto emotivo e visivo dell’uomo e dell’artista, da un lato schivo e inquieto, capace di forti contrasti e passioni, ma anche di grande coraggio nel sostenere le proprie convinzioni e ideologie, di pari passo con il racconto cinematografico della sua vasta produzione artistica, tra scultura, pittura e disegni, con spettacolari riprese in ultra definizione e da punti vista indediti ed esclusivi, cui si aggiungono ricostruzioni sorprendenti attraverso evoluti e sofisticati effetti digitali. Durata 144 minuti. (Massaua, GreenwichVillage, Ideal, Reposi, Romano sala 1, The Space, Uci)

 

Mission Impossible – Fallout – Azione. Regia di Chrisopher McQuarrie, con Tom Cruise, Henry Cavill, Simon Pegg e Rebecca Fergusson. Si inizia a Belfast per il ritrovamento di una valigetta che contiene tre bombe al plutonio: ma ahimè soltanto una finirà nelle mani di Ethan Hunt e dei suoi amici eroi. Poi s’aggiunge al gruppo il personaggio ben solido che ha i tratti di Cavill (non per nulla Superman: qui da tenere parecchio d’occhio), un atterraggio sui tetti vetrati del Grand Palais parigino in notturna, la ricerca di John Lark colpevole d’aver rapito il barbuto scienziato terrorista Solomon Lane, già conoscenza nostra in Rogue Nation, una Vedova Bianca che pare Veronica Lake, epidemie scongiurate, voli in elicottero mozzafiato, lotte all’ultimo sangue sul ciglio del burrone, eccetera eccetera. Una gran bella materia, uscita dalla mente e dalla gran voglia di stupire del regista qui anche in scoppiettante veste di sceneggiatore, un’invenzione dall’inizio alla fine di trovate del tutto inattese, di sbandate intelligenti della storia, di personalità e facce che sono ben lontane dall’essere in realtà quelle che sino a quel momento abbiamo visto sullo schermo. In successone. In cui chiaramente si calano le acrobazie di Cruise che, non più verdissimo all’anagrafe, senza nessuna controfigura si lancia da altezze non indifferenti, guida mezzi nel cielo, corre a perdifiato tra i tetti londinesi sino a rimetterci una caviglia, si scazzotta in modo vertiginoso senza fare una grinza. Sempiterno. Da vedere per la gioia dei fan, per il ritmo che questa volta – più di ogni altro episodio – fa faville. Durata 147 minuti. (GreenwichVillage, The Space, Uci)

 

La profezia dell’armadillo – Drammatico. Regia di Emanuele Scaringi, con Simone Liberati, Valerio Aprea, Pietro Castellitto e Laura Morante. Zero è un disegnatore ma non avendo un lavoro fisso si arrabatta con ripetizioni di francese, cronometrando le file dei check-in all’aeroporto e creando illustrazioni per gruppi musicali punk indipendenti. La sua vita scorre sempre eguale, tra giornate spese a bordo dei mezzi pubblici attraversando mezza Roma per raggiungere i vari posti di lavoro: quando torna a casa, lo aspetta la sua coscienza critica, un Armadillo in carne e ossa, o meglio in placche tessuti molli, che con conversazioni al limite del paradossale lo aggiorna su cosa succede nel mondo. Alla notizia della morte di Camille, una compagnadi scuola e suo amore di adolescente mai dichiarato, lo costringe a fare i conti con la vita e ad affrontare, con il suo spirito dissacrante, l’incomunicabilità, i dubbi e la mancanza di certezze della sua generazione di “tagliati fuori”. Durata 99 minuti. (Massimo sala 1, Nazionale sala 2, Uci)

 

Ricchi di fantasia – Commedia. Regia di Francesco Miccichè, con Sergio Castellitto e Sabrina Ferilli. Sergio è un carpentiere romano, Sabrina una cantante dal passato glorioso, una coppia di amanti che non ce la fa a lasciare i rispettivi compagni. Lui è sempre stato prodigo di scherzi ai compagni di lavoro e quelli decidono un giorno di rendergli il favore: facendogli credere con l’inganno di aver vinto con un biglietto della lotteria un premio da 3 milioni di euro. Convinto della vincita, l’uomo decide di cambiare vita, portandosi pure dietro mamma, figli e parentela varia: fino a che non scopre dello scherzo. Si dirigeranno tutti verso i trulli della Puglia. Durata 102 minuti. (Massaua, Due Giardini sala Nirvana, Lux sala 1, Reposi, The Space, Uci)

 

Sulla mia pelle – Drammatico. Regia di Alessio Cremonini, con Alessandro Borghi, Jasmine Trinca, Max Tortora e Milvia Marigliano. Una tragedia dell’Italia recente, la tragedia della morte di Stefano Cucchi a soli 31 anni in un carcere italiano. L’arresto, il susseguirsi dei giorni di prigionia, il passato e il presente, il grande coinvolgimento della famiglia, soprattutto della sorella Ilaria. La prova di Borghi che si è ricreato appieno nel fisico (perdendo 18 chili) e nel calvario del ragazzo, come nella sua psicologia, la stagione dei premi cinematografici dovrà guardarlo con un occhio di riguardo. Da vedere per discutere. Durata 100 minuti. (Ambrosio sala 3)

 

The Equalizer 2 – Senza Perdono – Azione. Regia di Antoine Fuqua, con Denzel Washington e Melissa Leo. Agente della CIA ora in pensione, vive a Boston, porta avanti la sua vita in modo tranquillo dopo che s’è inventato un impiego di taxista, impensabile ma legge anche Proust, dà una mano ad un ragazzino che la solita giovane gang vorrebbe portare dalla sua. I guai ci sono, gli aleggiano attorno, ma cerca di restarne fuori. Ma se una vecchia amica viene uccisa tra le strade di Bruxelles, Robert sa che deve pareggiare il conto. Regista e interprete di Training day nuovamente insieme per il divertimento degli spettatori amanti degli eroi raddrizzatori di ogni torto. Durata 121 minuti. (Ideal, Reposi, The Space)

 

The Nun – Horror. Regia di Corin Hardy, con Demian Bichir e Taissa Farmiga. Altro successo inaspettato negli Stati Uniti questo film girato completamente in Romania, dove è ambientata la vicenda di un gruppo di suore, alla ricerca all’interno di un convento di una reliquia che dovrebbe portare serenità in un luogo dove sembrano al contrario governare forze malefiche. Dopo il suicidio di una monaca, il Vaticano invia là padre Burke e la novizia Irene. Dovranno combattere il Male con ogni loro forza. Durata 93 minuti. (Massaua, Ideal, Reposi, The Space, Uci)

 

Tutti in piedi – Commedia. Regia di Franck Dubosc, con Alexandra Lamy e Franck Dubosc. Jocelyn, uomo d’affari successo ma bugiardo e seduttore che vive sulle bugie, per un equivoco è creduto disabile dalla bionda Julie. Perché, per una immediata conquista, non procedere proprio in quell’equivoco? Le cose peggiorano quando Julie presenta a Jocelyn la sorella, costretta su di una sedia a rotelle in seguito a un incidente stradale. Durata 107 minuti. (F.lli Marx sala Chico, GreenwichVillage, Reposi)

 

Un affare di famiglia – Drammatico. Regia di Kore’eda Hirokazu. Palma d’oro a Cannes lo scorso maggio. Nella Tokio di oggi, una famiglia (ma la considereremo così fino alla fine?) sbarca il lunario facendo quotidiane visite ai supermercati: per rubare. Ruba il padre che si porta appresso il figlio (?), torna a casa da una moglie che ha accanto una ragazza che potrebbe essere la sorella minore e una vecchia dolcissima che tutti chiamano nonna. Sentimenti, aiuti reciproci, l’arte di arrangiarsi, il coraggio di tentare a vivere insieme. Finché un giorno il capofamiglia porta a casa togliendola al freddo e alla solitudine una ragazzina, abbandonata da una madre forse violenta che non si cura di lei. Il mattino si dovrebbe riconsegnarla, ma nessuno è d’accordo: la nuova presenza farà scattare nuovi meccanismi mentre un incidente imprevisto porta definitivamente alla luce segreti nascosti che mettono alla prova i legami che uniscono i vari componenti. Durata 121 minuti. (Eliseo Rosso, F.lli Marx sala Groucho, Nazionale sala 1)

 

Un figlio all’improvviso – Commedia. Regia di Vincent Lobelle e Sébastien Thiery, con Christian Clavier, Catherine Frot e Sebastien Thiery. Tornando a casa, i coniugi Prioux scoprono che un certo Patrick si è trasferito nella loro abitazione. Il ragazzo sostiene di essere loro figlio e di essere tornato per presentare la fidanzata: tutto bene se non per il fatto che i Prioux non hanno mai avuto figli. Allora chi è davvero Patrick? Un bugiardo? Un manipolatore? O forse i Prioux hanno dimenticato di avere un figlio? Durata85 minuti. (Romano sala 1, Uci)

 

L’uomo che uccise Don Chisciotte – Commedia. Regia di Terry Gilliam, con Jonathan Price e Adam Driver. C’era una volta un film… Gilliam ha lavorato per più di trent’anni sul progetto, Jean Rochefort e Johnny Depp come protagonisti, più scritture, intoppi, enormi guai con la produzione. Poi più nulla, mentre sempre qualcosa bolliva in pentola. Dalla lunga storia, è uscito fuori “questo” Don Chisciotte, dove Driver è un regista che ha strada nella pubblicità e si ritrova nei luoghi dove ha girato un vecchio film sul personaggio di Cervantes: scoprendo che chi un tempo ha ricoperto quel ruolo oggi si identifica con il personaggio. Durata 137 minuti. (F.lli Marx sala Harpo, Romano sala 2, The Space, Uci)

 

Una storia senza nome – Drammatico. Regia di Roberto Andò, con Micaela Ramazzotti, Alessandro Gassmann, Renato Carpentieri e Laura Morante. Valeria, giovane segretaria di un produttore cinematografico, scrive in incognito per uno sceneggiatore di successo. Un giorno la ragazza riceve da uno sconosciuto, un poliziotto in pensione, la storia di un probabile film. Ma quel plot è pericoloso, la “storia senza nome” racconta infatti il misterioso furto, avvenuto a Palermo nell’ottobre del 1969, di un celebre quadro di Caravaggio, “La natività”. Da quel momento, la sceneggiatrice si ritroverà immersa in un meccanismo implacabile e rocambolesco. Una storia che avesse al centro quel furto avrebbe dovuto avere un’impalcatura più legata all’inchiesta: al contrario ne è stata ricostruita una sceneggiatura che sa troppo “di cinema”, di volutamente aggrovigliata, di un inverosimile che a tratti, tanto per alleggerire, scivola tranquilla sul lato della commedia se non del ridicolo (certi momenti dovuti a Gassmann, certi dialoghi tra Morante e Ramazzotti), sino ai momenti finali che addirittura coinvolgono il film nel film. La macchia maggiore dell’impianto è la prova opaca della protagonista femminile, altre volte lodatissima, la non credibilità del viso e del corpo, la sua unica espressione con o senza rossetto, la sua paura che risulta fredda e non sinceramente dovuta alla spirale di inganni e di violenza che si chiude intorno a lei. Durata 110 minuti. (Ambrosio, Eliseo Blu, Romano sala 3, The Space, Uci)

Così si racconta della masca Paroda

Le storie spesso iniziano là dove la Storia finisce
Folletti e satanassi, gnomi e spiriti malvagi, fate e streghe, questi sono i protagonisti delle leggende del folcklore, personaggi grotteschi, nati per incutere paura e per far sorridere, sempre pronti ad impartire qualche lezione. Parlano una lingua tutta loro, il dialetto dei nonni e dei contadini, vivono in posti strani, dove è meglio non avventurarsi, tra bizzarri massi giganti, calderoni e boschi vastissimi. Mettono in atto magie, molestie, fastidi, sgambetti, ci nascondono le cose, sghignazzano alle nostre spalle, cambiano forma e non si fanno vedere, ma ogni tanto, se siamo buoni e risultiamo loro simpatici, ci portano anche dei regali. Gli articoli qui di seguito vogliono soffermarsi su una figura della tradizione popolare in particolare, le masche, le streghe del Piemonte, scontrose e dispettose, mai eccessivamente inique, donne magiche che si perdono nel tempo e nella memoria, di cui pochi ancora raccontano, ma se le loro peripezie paiono svanire nei meandri dei secoli passati, esse, le masche, non se ne andranno mai. Continueranno ad aggirarsi tra noi, non viste, facendoci i dispetti, mentre tutti fingiamo di non crederci, e continuiamo a “toccare ferro” affinchè la sfortuna e le masche, non ci sfiorino.
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Non è più tempo delle fiabe. La televisione, gli smartphone, la tecnologia tutta esige quotidianamente così tanta dedizione, che quando finalmente essa non ci serve più è già tempo di andare a riposarsi, per essere pronti ad affrontare un nuovo giorno isterico, fatto di corse, di clacson, di whatsapp e di e-mail. Le storie della buona notte, o quelle raccontate dai nonni mentre stavano seduti sulle poltrone infossate, o quelle attorno ai fuochi la sera, tra i boschi o in spiaggia, sono diventate leggende a loro volta. Tuttavia non tutto può essere conservato in un hard disk, ci sono vicende che si possono tramandare solo oralmente, passando di orecchio in orecchio, accresciute di fantasia in fantasia, di suspance in curiosità, avvolte nei giochi di immaginazione. La verità è che l’onniscienza di internet nulla può contro gli aneddoti narrati a voce, magari in dialetto, dalla nonna. E la nonna così inizierebbe un suo racconto… C’era una volta una donna, dall’aspetto comune, secondo alcuni molto bella, secondo altri brutta addirittura, che amava la natura e abitava in una piccola casa lontano dal paese. Si occupava del suo orto, in cui coltivava erbe, verdure e qualche frutto. Aveva caro il bosco, lo guardava cambiare colore a seconda delle stagioni, lo respirava in tutti i suoi profumi e si addormentava ascoltandone i magici suoni. La donna, di nome Paroda, passava molto tempo passeggiando tra gli alberi, osservando con attenzione il mondo che le stava attorno, e imparò così a conoscere le piante, per gioco le chiamava per nome e aspettava che esse le rispondessero. Ad ognuna di esse era affezionata come a delle persone vere, perché, come tra la gente, anche tra queste c’era quella che poteva aiutarla a star bene, quella che la pungeva per dispetto, quella incantevole ma priva di prerogative e quella che stava in sordina, nascosta nel sottobosco, gelosa delle proprie qualità curative infallibili. Paroda apprezzava il sole che la faceva sudare mentre zappava la terra, ma adorava anche la luna, che di notte era sua compagna di chiacchiere e pensieri; anche il vento le piaceva, così come la pioggia e come i fulmini e i tuoni. Non c’era nulla che la donna non ritenesse affascinante o quantomeno gradevole. Medesimo atteggiamento ella aveva per gli animali: non c’era creatura che lei reputasse non importante o non degna di rispetto, dal topo al cane, dal bruco al falco. Paroda era ben convinta che la Natura niente fa per caso o per distrazione, e tutto va compreso e capito e rispettato. Avvenne poi che una terribile epidemia si abbatté sul villaggio e su tutto il territorio circostante. La peste travolse gli abitanti come una tormenta inarrestabile, trascinando via le anime di moltissime persone, lasciando i pochi superstiti nel terrore e nella disgrazia. La malattia stagnò nella terra, faceva marcire le carni e il cibo, ma più di tutto attecchì sugli animi della gente, che, impazzita per il dolore, gridava al maleficio. Il castigo divino non poteva essere già arrivato, sicuramente tutto ciò era opera del Demonio e delle scellerate sue seguaci: le streghe! Ed ecco trovata la soluzione: per scacciare la terribile pestilenza era necessario liberarsi di chi la malattia l’aveva causata. Non ci volle molto tempo per individuare le colpevoli, tutte donne, tutte guardate con sospetto e ora con disprezzo, tutte che preferivano vivere lontano dal villaggio, vicino al bosco, dedite al loro piccolo, secco, orticello “malefico”.
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Vennero a prendere anche Paroda, in un giorno qualunque, con quella cattiveria che è tipica degli uomini, ed è estranea al mondo dei boschi e dei fiumi, quella stessa malvagità che Paroda non voleva conoscere e che aveva tentato fino a quel momento di fuggire. I soldati, si dice, sradicarono le piante, uccisero violentemente gli animali e misero a soqquadro la casa di Paroda. Del suo gatto dissero che era nero come il Demonio e per ciò gli tagliarono la testa, quando sgozzarono la capra si spiegarono a vicenda che anche quella era una bestia di Satana, e nel momento in cui scoprirono l’altare con una croce e un lumino si riconobbero tutti d’accordo nell’affermare che era ovvio che lì si svolgessero i Sabba più indecenti. Nell’orto trovarono lattuga malefica, patate del diavolo e cavoli demoniaci. Anche le margherite furono una prova schiacciante della colpevolezza di Paroda: essa le usava per staccare i petali, e ogni petalo caduto era un’anima che se ne andava; infine, non fossero bastati quei fiori bianchi e gialli, scorsero anche delle rose, le cui spine servivano di certo per puntellare i fantocci di coloro che la donna voleva far soffrire. Paroda venne portata in prigione e torturata per giorni, soffrì le pene più indicibili, nate dalle fantasie più torbide dei detentori. A volte la donna sveniva e quando rinveniva era il Diavolo ad averla fatta svegliare, e così le torture ricominciavano da capo, e quando invocava Dio per chiedere pietà era solo un altro trucco del Demonio, che ormai ghermiva la sua anima. Qualsiasi cosa farneticasse la sventurata era solo colpa di Belzebù, che proprio non voleva lasciarla andare. Il giorno del processo chi la stava giudicando le consigliò cosa dire, in modo che potesse essere finalmente salvata, e così alla donna esangue venne suggerito di confessare qualunque argomento le proponesse la giuria. Paroda fece in tal modo e finalmente si conquistò la tanto promessa salvezza, ma l’unica maniera con cui i torturatori potevano prometterle l’amore di Dio era attraverso il rogo, le fiamme avrebbero purificato l’anima dannata e finalmente le sue pene sarebbero terminate. La masca Paroda finì i suoi giorni in una gabbia, sporca e rasata, morì silenziosa e miseramente come tante altre sue pari, colpevoli di niente se non di non essersi volute conformare a come gli altri le volevano. La vicenda della masca Paroda si svolse intorno agli anni Trenta del 1600, a Sommariva Bosco. Poco più in là del demoniaco Roero, con le Rocche costruite dal diavolo e i precipizi che ancora rimbombano delle vicende della masca Micillina. Oggi, a Sommariva, si organizzano feste e cacce al tesoro, su internet si vendono i biglietti per parteciparvi. Andate e divertirvi, ma non dimenticate di chiedere a qualche anziana del paese della masca Paroda: essa vi racconterà una storia meno virtuale e più veritiera, magari in dialetto, usando i termini giusti, i soli che possono testimoniare per sempre le vicende che ormai non interessano a nessuno e che secondo alcuni possono anche essere dimenticate.
Alessia Cagnotto

“Vengo a vivere con te…”

“Vengo a vivere con te, lo sai mi sono innamorato e la vita è troppo corta e non possiamo perdere tempo” Nel 1987 Luca Carboni faceva, su note semplici, ricche di minori, una tra le piu’ belle dichiarazioni d’amoreMi viene in mente perchè tempo fa mi fu dedicata e poi scoprii che era il brano che dedicava a tutte le donne con le quali era stato (n.d.r.) come è buffo, quando credi di esser innamorato viene fuori tutta la vena poetica come fosse la prima volta, ma evidentemente, la prima volta non è…MAI. In ogni caso una favola questo brano, per quanto io no ami particolarmente la musicalità vocale di Luca Carboni che sulla musica di Nicola Lenzi, naviga in territori amorevoli cosi profondi con parole chiare, nude e crude :”sai quante cose potremmo fare tu potresti suonare il piano mentre io spalmo la maionese potrei spalmartene un po’ sul collo e leccandoti far tremare Bach” ma incantevoli, meravigliose che farebbero innamorare chiunque. Nel 2013 decide di impreziosire il brano, a mio avviso, con la partecipazione di Elisa, grande personalità musicale, per festeggiare i suoi 30 anni di carriera. Si sa poco di questo brano ma mi fa venire in mente dichiarazioni tipo “Come nelle favole” di Vasco Rossi, un desiderio spassionato di convincere l’altro a stare insieme, condividere le cose semplici di tutti i giorni…nel bene e nel male, anche a sfregio dell’abitudine che poi, si sa, corrode ogni rapporto. Ma ci si crede, quando lo si scrive, quando lo si canta, quando lo si suona e persino quando lo si dedica…più vole, a donne diverse. Mi fa sorridere. Amo l’amore, quello cantato, quello detto e taciuto, ancora di più quello urlato e palpabile. Fatevelo un tutto negli anni ’80 ed ascoltatela questa canzone, che vi riempia il cuore, almeno per un po’ perchè poi…tutto, ma proprio tutto, finisce.

Chiara De Carlo

https://www.youtube.com/watch?v=uFPTU2Hvpw8

Chiara vi segnala i prossimi eventi …mancare sarebbe un sacrilegio!Scrivete a musictales@libero.it se volete segnalare eventi o notizie musicali!

 
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GV pane e Caffe di via tiepolo 8/d

Il silenzio sulla tela

FINO AL 30 SETTEMBRE

Un omaggio alla Spagna. E a un genere figurativo, quello del bodegòn” (come l’arte iberica è solita definire, fin dagli inizi, la “natura morta” per la sua specifica caratteristica dell’ essere opera quasi sempre ambientata – con la frutta i fiori gli ortaggi i pesci e la selvaggina – in taverne, osterie o cucine popolari) che in Spagna vede le sue prime produzioni intorno alla fine del XVI secolo, sulle orme di un’ormai consolidata tradizione fiamminga e italiana ma con caratteristiche assolutamente originali e di grande fascino narrativo. Questo vuole essere in primo luogo la mostra ospitata, fino al 30 settembre, nelle “Sale Palatine” della torinese Galleria Sabauda, realizzata in collaborazione con Bozar – Palais des Beaux Arts di Bruxelles e con la partnership di Intesa Sanpaolo.

Significativamente titolata “Il silenzio sulla tela” e curata da Angel Aterido, professore all’Università Complutense di Madrid, la rassegna traccia, attraverso gli esempi più significativi di “bodegones” realizzati da maestri che hanno profondamente segnato l’arte spagnola – dal primo Barocco all’età delle Accademie – il percorso di sviluppo di questo genere artistico su due secoli abbondanti di produzione. Da Sànchez Cotàn, prolifico pittore religioso (che nel 1603, a 43 anni, decise addirittura di intraprendere la vita monastica come monaco certosino) e pioniere in Spagna del nuovo filone pittorico fino al grande Francisco Goya, la mostra subalpina si articola in sette sezioni – dalle origini ai primi anni dell’ ‘800 – e fa seguito ad altre prestigiose e similari esposizioni tenutesi alla “National Gallery” di Londra nel 1995, al “Museum of Fine Arts” di Bilbao nel 1999 e successivamente al “Bozar” di Bruxelles. Al suo interno raccoglie una quarantina di opere provenienti da prestigiosi musei pubblici (dal “Prado” al “Louvre” alle “Gallerie degli Uffizi” e all’ “Art Museum” di San Diego), così come da importanti collezioni private: per il visitatore sarà come intraprendere un affascinante viaggio a tema attraverso straordinarie tavole pittoriche, come il “Bodegòn de frutas, verduras y hortalizas” realizzato da Juan Sànchez Cotàn e proveniente dalla Collezione Abellò di Madrid, le “Mele in cestino di vimini” di Juan de Zurbaràn, le scene allegoriche della “Vanitas” e de “Il Sogno del Cavaliere” di Antonio de Pereda (fra i protagonisti assoluti del Barocco spagnolo), fino alla preziosa per rigore tecnico “Natura morta con quaglie, cipolle, aglio e recipienti” di Luis Melèndez, napoletano di nascita e morto a Madrid nel 1780, o all’impressionante “Natura morta con tacchino” di Francisco Goya, che al genere “si avvicinò – precisa Aterido – con l’assoluta libertà tipica della maturità” realizzando opere decisamente innovative “la cui importanza è stata riconosciuta molto dopo la sua scomparsa”. Opere, tutte, di mirabile puntigliosa definizione stilistica, perfette nel gioco compositivo di segni e colori, così come in quei sagaci virtuosismi chiaroscurali capaci di imprimere quasi un “tocco scultoreo” all’intera rappresentazione: in esse leggiamo certamente affinità di fondo, stilistiche e concettuali (e non potrebbe essere che così), con i più consolidati modelli fiamminghi e italiani, ma anche tipiche peculiarità che contraddistinguono gli spagnoli “bodegones” dalle soluzioni compositive adottate negli altri paesi europei. Prime fra tutte, una maggiore sobrietà di fondo e il carattere austero, unito a personalissime interpretazioni tematiche che gratificano gli artisti spagnoli, cui si deve l’evoluzione del “genere”, di uno specifico riconoscimento e che li pone a titolo pieno fra i vertici dell’arte occidentale. Come dimostra anche il voluto accostamento in mostra fra le opere spagnole e nove dipinti italiani e fiamminghi appartenenti alle collezioni della Galleria Sabauda, fra le quali la “Natura morta con frutta, dolci, crostacei, un bicchiere e un topo” del tedesco (operante agli inizi del Seicento) Peter Binoit e “La vanità della vita umana” del fiammingo Jan Bruegel il Giovane, opera di grandissima ricchezza iconografica probabilmente acquistata da Vittorio Amedeo I e giunta a Torino entro il 1635. Da segnalare anche la superba “Natura morta con pesci e molluschi” (1675-80) del napoletano, eccelso pittore di fauna ittica, Giuseppe Recco, data in prestito dalle Gallerie d’Italia – Intesa Sanpaolo.

Gianni Milani

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“Il silenzio sulla tela. Natura morta spagnola da Sànchez Cotàn a Goya”

Galleria Sabauda – Sale Palatine, Piazzetta Reale 1, Torino; tel. 011/5211106 – www.museireali.beniculturali.it Fino al 30 settembre

Orari: dal mart. alla dom. 8,30/19,30

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Nelle foto:

– Juan Sànchez Cotàn: “Bodegòn de frutas, verduras y hortalizas”, 1602
– Juan de Zurbaràn: “Mele in cestino di vimini”, 1643-49
– Peter Binoit: “Natura morta con frutta, dolci, crostacei, un bicchiere e un topo”, ca. 1620

 

 

100% Italia. Cent’anni di capolavori

FINO AL 10 FEBBRAIO 2019

E’ stato definito “un evento unico nel suo genere”. E mai definizione fu così veritiera, per l’imponenza quantitativa e la qualità del progetto. Che certamente avrà richiesto una montagna di coraggio oltreché impegno da vendere e una profonda competenza storico-scientifica da parte dell’intera organizzazione. Ideata e coordinata da Andrea Busto, direttore del MEF – Museo Ettore Fico di Torino e curata da un team di sette storici e critici dell’arte di comprovata levatura ( da Luca Beatrice a Lorenzo Canova a Claudio Cerritelli e a Marco Meneguzzo in buona compagnia con Elena Pontiggia, Luigi Sansone e Giorgio Verzotti), la rassegna “100% Italia. Cent’anni di capolavori” vuole raccontare – fino al 10 febbraio del prossimo anno – un secolo d’arte in Italia, il made in Italy assolutamente doc dell’arte novecentesca, dagli anni immediatamente precedenti al 1915, anno d’avvio per il nostro Paese della Grande Guerra fin quasi ai giorni nostri: in sostanza, da quando i Futuristi proclamavano a gran voce di voler “bruciare i musei e le biblioteche” per dare un calcio alla storia passata, fino a quel 25 febbraio 2015 quando i jiadisti tradussero tragicamente in fatti le altisonanti buriane di “Marinetti & co.”, bombardando Ninive e distruggendo i reperti archeologici del Museo di Mosul. Il viaggio, sia pur compiuto a volo d’arte, è imponente e quasi spaventa per la complessità e l’ampiezza del percorso. A voler “evidenziare il ruolo preminente dell’arte italiana, che ha saputo segnare profondamente – sottolineano gli organizzatori – la creatività europea e quella mondiale” lungo il corso del “secolo breve”, le opere esposte sono ben 630 (a firma di oltre 400 artisti, autentiche icone della storia dell’arte del secolo scorso), tre le città coinvolte – Torino, Vercelli e Biella – e sette le sedi espositive. In mostra, un patrimonio inestimabile, in molti casi inedito e che difficilmente potrà essere rivisto in un unico “blocco” dal momento che tutte le opere provengono da collezioni private, dagli archivi di musei e fondazioni, oltreché dall’Associazione Nazionale delle Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea, dall’Associazione Fondazioni e Casse di Risparmio, nonché dalle Gallerie d’Italia di Intesa San Paolo.

A TORINO

Sono quattro, nel capoluogo piemontese, i punti espostivi dedicati ad alcune fra le correnti artistiche più significati del nostro Novecento. Al MEF (via Cigna, 114 – tel. 011/853065) vanno di scena Novecento, Corrente, Astrazione e Informale, con un lungo elenco di artisti in parete che vanno, solo per citarne alcuni, da Felice Casorati ad Arturo Martini (con un bellissimo “Ritratto di ragazzo” in terracotta del ’21), passando per Sironi e Dudreville (suoi gli iperrealistici “Occhiali” datati ’25). E poi ancora i Sei di Torino, le “nature morte” di Carena e Guttuso, e i pittori dell’astrazione, da Spazzapan a Carol Rama a Giò Pomodoro, fino all’informale gestualità di Vedova o al “Sacco” di Burri e al “Concetto spaziale” di Fontana. A seguire (e consapevolmente tralasciandone altri), Pinot Gallizio, Fico, Cherchi con le sue sculture e Garelli e Cordero. Nelle sale del MEF Outside (via Juvarra, 13 – tel. 011/0343229) è invece la Pop Art a raccontarsi attraverso le opere dei nostri “grandi”, da Schifano ad Angeli a Gribaudo a Nespolo, mentre al Mastio della Cittadella (via Cernaia, 1- tel. 011/01134494) troviamo gli esponenti dell’Arte Povera (da Celant all’ “Illuminazione Zen” di Rotella) e alcuni fra i più emblematici rappresentanti dell’Optical, del Minimalismo e del Concettuale, fra i quali Pistoletto, Salvo, Paolini, Boetti, Mario e Marisa Merz con Gilardi, Penone e Anselmo. A chiudere a Torino, sono la Transavanguardia, Nuova Figurazione e International con opere esposte a Palazzo Barolo ( via Corte d’Appello 20/c – tel. 011/2636111) a firma di Nicola De Maria, Paladino, Chia, Mondino insieme a Cattelan, Mainolfi, Stoisa e altri.

A VERCELLI

Nella Città del Riso, la mostra trova ospitalità con tutte le suggestioni della Metafisica, del Realismo Magico e della Neometafisica, negli spazi del Polo Espositivo “L’Arca” (piazza San Marco, 1 – tel. 0161/596363). Siamo ovviamente nel regno incontrastato di Giorgio De Chirico (fra le opere esposte l’epica “Battaglia sul ponte”, realizzata dal “Pictor Optimus” nel ’69), ma anche di Morandi e di Savinio e dei “Fiori” di De Pisis, così come dell’incanto sospeso de “La famiglia. Dopo il temporale” firmata nel ’34 da Antonio Calderara.

A BIELLA

In Palazzo Gromo Losa (corso del Piazzo, 22-24 tel. 015/2520432 ), il Novecento dell’arte italiana ha le forme, i colori forti e l’irrequieto dinamismo del Futurismo di Filippo Tommaso Marinetti e di Umberto Boccioni ma anche di Soffici e Sant’Elia e Carrà su tutti; mentre al Museo del Territorio ( via Quintino Sella, 54/b – tel. 015/2529345) spiccano in parete i dipinti di Diulgheroff, Depero, Farfa e Mino Rosso. Sono le avanguardie del Secondo Futurismo: quello seguito alla morte di Boccioni nel 1916 e al contemporaneo avvicinamento di Severini e Carrà alla sintassi cubista.

Gianni Milani

 

Foto

– Giorgio De Chirico: “La battaglia sul ponte”, 1969
– Leonardo Dudreville: “Occhiali”, 1925
– Antonio Calderara: “La famiglia. Dopo il temporale”, 1934
– Michelangelo Pistoletto: “Suonatrice di liuto”, 1970, ph. beppe giardino
– Mimmo Rotella: “Qui etes vous Polly”, 1975 ph. beppe giardino
– Athos Casarini: “Dinamismo di metropoli”, 1912

Le luci di Iren per la Cappella della Sindone

Iren Energia, società del Gruppo Iren, in collaborazione con Performance In Lighting e con la consulenza di GMS Studio Associato di Milano, ha studiato e realizzato il progetto di illuminazione interna ed esterna della Cappella della Sindone del Guarini

Il progetto prevede che le fonti di luce artificiale rimangano completamente nascoste alla vista del visitatore, rendendo la luce e l’architettura le uniche protagoniste, dando vita ad un effetto luminoso che ricerca quella elevazione verso l’Altissimo, a cui tendeva lo stesso Guarini, quale principio fondativo e connotativo dell’intervento. L’illuminazione artificiale, come quella naturale, assume una funzione caratterizzante lo spazio e soprattutto contribuisce all’esaltazione dell’architettura guariniana. Per quanto riguarda gli spazi interni, si è provveduto all’installazione degli apparecchi in quattro distinte fasce e postazioni:

  • esterno degli “occhi”, a quota +20m;
  • piano di calpestio del loggiato, a quota +28m;
  • cornici di imposta delle arcate del loggiato, a quota +35m;
  • estradosso della “stella”, a quota +45m.

Per quanto riguarda gli esterni, sono state individuate le seguenti postazioni:

  • manto di copertura alla base della cupola, a quota +40m circa;
  • base della punta della lanterna, a quota +50m circa.

 

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Ogni postazione è connotata dalla presenza di apparecchi con caratteristiche fotometriche peculiari alla specifica funzione. In generale, salendo dal basso verso l’alto, i valori di illuminamento sulle superfici aumentano, evidenziando la percezione del percorso ascensionale dalle tenebre alla luce. L’illuminazione dagli “occhi” è funzionale per mettere in evidenza l’intradosso degli occhi e il bacino tronco. L’illuminazione artificiale “diffusa” proveniente dall’esterno vuole porsi in continuità con il linguaggio architettonico della cappella del Guarini. Sul piano di calpestio del loggiato, in corrispondenza dei finestroni del tamburo, sono installate due tipologie differenti di apparecchi di illuminazione, in base alle specifiche funzioni a cui sono destinati. La luce che proviene da questi apparecchi (completamente nascosti alla vista) si irradia sull’imbotte degli archi del loggiato e sulle superfici del tamburo cercando di proporre una continuità di linguaggio rispetto ai concetti espressi dai volumi architettonici Al di sopra delle cornici alla base delle arcate del loggiato sono stati installati gli apparecchi lineari che hanno la specifica funzione di illuminare a proiezione l’interno della cupola con l’intento di proporre la lettura dei giochi di volumi pensati dal Guarini. Sull’estradosso della “stella” sono installati gli apparecchi destinati a illuminare la parte sommitale interna della lanterna. In quest’area si hanno i valori di illuminamento più elevati, rendendola, di fatto, l’area più illuminata della cupola. Parallelamente, si è previsto l’uso di sorgenti luminose a LED con temperature di colore calde, pari a 3.000 K che differisce volutamente dalle sorgenti LED a 4.000 K utilizzate per tutti gli altri apparecchi. Anche questa differenza di temperatura di colore contribuisce alla percezione della parte sommitale interna della lanterna quale elemento generatore dell’illuminazione “divina”. Alla base della cupola, sopra il manto di copertura, sono stati installati gli apparecchi dedicati all’illuminazione della cupola stessa. Si prevedono due proiettori per ogni “spicchio” della cupola, di cui uno caratterizzato da fascio luminoso bianco caldo a 3.000 K mentre l’altro è dotato di tecnologia LED RGBW (Red Green Blue White) in grado di riprodurre una vastissima gamma di colori. La miscellanea degli apparecchi di illuminazione garantisce un sapiente gioco di luci e ombre in grado di rendere evidente la struttura ad archi che compone la cupola. L’illuminazione scenografica colorata potrà inoltre essere utilizzata per sottolineare eventi e/o ricorrenze particolari. Completano la proposta gli apparecchi posti a quota +50m circa. Tali apparecchi sono funzionali all’illuminazione della lanterna di cui ne evidenziano la struttura e gli elementi decorativi. Tutti gli apparecchi di illuminazione sono equipaggiati con alimentatori comandati da protocolli digitali specifici. Grazie all’uso di questi sistemi di controllo digitali, si determina l’estrema flessibilità dell’impianto di illuminazione nel ricreare diversificati aspetti luminosi scenografici e suggestivi. Tale soluzione diventa indispensabile per l’illuminazione della cappella, che di volta in volta potrà valorizzare i caratteri connotativi della propria immagine in relazione agli eventi che in essa si svolgeranno. In totale è prevista l’installazione di 66 corpi illuminanti, per un totale di 2,89 KW di potenza a pieno regime.

 

Jacques Brel, il talento “di invecchiare senza diventare adulti”

Il 9 ottobre di quarant’anni ci lasciava Jacques Brel, uno dei più grandi chansonnier del ‘900, autore di indimenticabili brani come Ne me quitte pas e La chanson des vieux amants. Un cancro se lo portò via a soli  49 anni. Belga di nascita ma francese d’adozione, iniziò a suonare senza grande successo nei cabaret  e nei bistrot di Parigi ma tra la fine degli anni ’50 e la metà degli anni ‘60 il pubblico riconobbe il suo talento. Brel pubblicò 13 album, l’ultimo nel 1977 ( Les Marquises, noto anche come Breldieci anni dopo la scelta di non cantare più un pubblico. I più grandi cantanti, come Juliette Gréco, hanno interpretato le sue canzoni e da grande artista qual’era venne apprezzato anche come attore e regista teatrale. I sentimenti, l’amore, un certo esistenzialismo umanistico, le idee libertarie, l’antimilitarismo non di maniera, gli sberleffi alla società dei benpensanti, il senso dell’amicizia: i testi di Jaques Brel hanno riassunto la vita sotto ogni punto di vista. Jacques Brel è sepolto nel cimitero del Calvario ad Atuona, la località principale dell’isola di Hiva Oa nella Polinesia francese dove si era trasferito negli ultimi anni della sua vita. Nello stesso luogo, posto su un’alta collina dalla quale si vede l’oceano, riposa il pittore Paul Gauguin. Come scrisse in uno dei suoi testi più belli e importanti “c’è voluto del talento per riuscire a invecchiare senza diventare adulti“. In anche in questi altri versi, da poeta inquieto e ribelle, vi si può leggere il suo messaggio rivolto ad ognuno di noi: “Vi auguro sogni a non finire,la voglia furiosa di realizzarne qualcuno;vi auguro di amare ciò che si deve amare e di dimenticare ciò che si deve dimenticare;vi auguro passioni,vi auguro silenzi;vi auguro il canto degli uccelli al risveglio e risate di bambini;vi auguro di resistere all’affondamento, all’indifferenza,alle virtù negative della nostra epoca.Vi auguro soprattutto di essere voi stessi”.

Marco Travaglini

Le nuove frontiere della fotografia nell’era digitale

Il Rotary Rivoli promuove lunedì 1 ottobre prossimo una serata conviviale dedicata alla fotografia con un ospite di eccezione, il fotografo torinese Paolo Ranzani, classe 1966, che parlerà sul tema della “Mutazione del linguaggio fotografico nell’era digitale”.Ranzani, che ha frequentato il Dipartimento di fotografia dell’Istituto Europeo di Design a Torino, specializzandosi nel genere people, è un fotografo a 360 gradi, sia attivo nel campo della moda, sia nei reportage sociali e nel glamour. La sua opera spazia dai ritratti agli scatti alle celebreties, al settore del beauty, advertising e fashion. Ha realizzato molti lavori per Fiat, Iveco, Lavazza, Oreal, oltre a curare l’immagine di vari personaggi noti del mondo dello spettacolo, fra cui Arturo Brachetti, Luciana Littizzetto, Fernanda Lessa, i Subsonica, Antonella Elia. Negli ultimi anni ha poi ampliato la sua indagine di ricerca al linguaggio del video ed ha pubblicato libri come “Ecce femina” nel 2000, “La soglia. Vita carcere e teatro” e Go 4 it/ Universiadi 2007. È referente artistico per il progetto Torino Mosaico e del collettivo artistico Dead Photo Working per il progetto di apertura di Luci di Artista.

Mara Martellotta