CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 581

L’omaggio a Bertolucci, i ragazzi e la solitudine, ancora la famiglia con i suoi problemi

Dal pomeriggio di lunedì, scorrono prima di ogni proiezione sugli schermi del TFF36 immagini dei film di Bernardo Bertolucci, tra il rosso di Novecento e il bianco e nero delle prime prove. Un montaggio preparato velocemente, un omaggio dovuto (che avrà la sua giornata domenica prossima, quando al Massimo 3 verranno proiettati Novecento, Il conformista e Io ballo da sola). Lui dice: “Come vorrei vedere oggi un film di Bergman in 3D, come vorrei vedere oggi un film di Fellini in 3D, come vorrei vedere il mio prossimo film in 3D. Credo che quella rivoluzione tecnologica che oggi vediamo operare nel cinema sia un tappeto volante su cui bisogna saltarci sopra”. Ha detto Emanuela Martini: “Un visionario, un intellettuale, soprattutto un sognatore. Bernardo Bertolucci, dopo la rivoluzione, ha fatto il cinema come non immaginavamo più di farlo: più grande della vita, e per questo capace di restituirci tutta la vita, e la Storia, e la memoria, e il futuro, nelle loro profondità”. E ogni volta scatta forte l’applauso. Ciao Bernardo.

 

 * * *

 

Intanto l’Ufficio Stampa del festival consegna le prime cifre, le prime affluenze. Nel primo weekend (venerdì 23 – domenica 25), oltre all’aumento degli accrediti rispetto allo scorso anno, si registra anche un aumento di biglietti venduti, passando dai 15.459 della passata edizione ai 16.174 di oggi. Una leggera flessione al contrario per gli abbonamenti, siamo passati ai 603 odierni contro i 667 del 2017, mentre gli incassi complessivi nei tre giorni ammontano a 164 mila euro a fronte dei duemila in più precedenti.

***

 

Forse il più bel film visto finora al festival è The guilty del regista danese Gustav Möller, 85’ serrati, di quelli che senti di dover ammirare fotogramma dopo fotogramma, non una sbavatura, una tensione fatta di voci concitate e di brevi silenzi, di domande e dell’attesa delle risposte che a volte non arrivano immediate

L’attore protagonista si chiama Jakob Cedergren, c’è da sperare che la giuria si ricordi sia di lui che del film. L’uomo è incollato ad un tavolo e ad uno schermo, auricolare e microfono sempre in funzione, telefonate in cerca di aiuto, anche stupide a tratti o di drogati colpevolizzati e mandati al diavolo. Confinato al pronto intervento telefonico, per un’indagine interna, si saprà, un collega coinvolto: riceve la chiamata di una donna che sostiene di essere stata rapita, che forse è sotto il terrore di un’arma, accusa il proprio compagno. Tutto accade in tempo reale, sotto le luci fredde di un’unica stanza, la macchina da presa fatta di primissimi piani che tirano fuori emozioni, rabbie, timori, solitudini, voglia di riscatto, in una dura descrizione come raramente ricordiamo di avere visto sullo schermo, in una lotta ad ogni secondo tra realtà e apparenza, in uno spasmo che corre diritto verso la sequenza finale. Un thriller ma certo non soltanto, una sequenza di immagini esatte, di emozioni autentiche, capaci di far provare allo spettatore una perfetta, lenta immedesimazione. Sul terreno della debolezza corre al contrario Angelo, produzione Austria/Lussemburgo firmata da Markus Schleinzer (alla sua opera seconda), che ha coinvolto pure la nostra Alba Rohrwacher, 111’ suddivisi in tre capitoli, tediose immagini a camera fissa e tediosa la vicenda di cui non sentivamo davvero la necessità. Che è quella di Angelo Soliman, personaggio del Settecento viennese, storicamente qui adattato alle leggi del cinema, strappato al continente africano all’età di sette anni, nato forse nel Camerun o forse in Nigeria, venduto a una duchessa, battezzato e istruito, paggio alla corte di principi, promosso al rango di “Moro principesco”, conoscitore di ben cinque lingue, viaggiatore, chiamato a far parte di delegazioni impegnate in diverse corti, amico di musicisti (Mozart che si ricordò di lui per uno dei personaggi del Flauto Magico e Haydn), iniziato alla Loggia massonica nella capitale austriaca. Un matrimonio segreto gli negò in seguito la protezione del suo principe e alla morte, nel 1796, l’imperatore Giuseppe II volle che il suo corpo venisse scuoiato e impagliato, posto in una teca e mostrato al pubblico, tra animali e oggetti del vecchio continente: sino al giorno (i moti del ’48) in cui la collezione imperiale sistemata nella biblioteca dell’Hofburg venne spazzata via da una granata e dall’incendio che ne seguì. Il film ci rende tutto questo in maniera sbiadita, in un anonimato che non fa altro che elencare dei fatti, senza alcuna emozione, poveramente, quadro dopo quadro, e non sono certo sufficienti l’ambientazione (dove concorrono peraltro incomprensibili apporti di oggi) e i costumi o le bellurie della fotografia a farcelo accettare a cuor leggero. Se il tema del lavoro ha trovato al festival il proprio giusto spazio, attualissimo, anche la famiglia con le disgregazioni che si formano all’interno, con l’assenza di questo o quel genitore, con i figli spinti a crescere troppo in fretta occupa più di un titolo. Tematiche più che simili le abbiamo già saggiate nei giorni scorsi, anche qui applausi e pollici versi si confondono, per qualche tentativo riuscito davvero malaccio ti chiedi che cosa abbia spinto i selezionatori a metterlo in concorso. Tra i cattivi, Nervous translation della giovane regista filippina Shireen Seno, storia di una bambina di otto anni, perennemente chiusa in casa, una madre impegnatissima con il lavoro e per nulla affettiva, un padre assente che comunica con la figlia attraverso nastri registrati che puntualmente le invia. La piccola, oltre a crescersene tutta sola, è obbligata a impiegare il proprio tempo: e la regista registra ogni dettaglio dei suoi giochi, della preparazione e della cottura di cibi in una piccola cucina in miniatura, per tanti interminabili minuti, sicura delle proprie scelte, dei tempi impiegati, del vuoto quotidiano di cui si vuole dare testimonianza ma che bisticcia tremendamente con le leggi della sintesi e del montaggio. Non si approda a nulla. Con buona fuga dello spettatore. Mentre una gran bella maturità si apprezza nell’adolescenziale All these small moments dell’americana Melissa Miller, dove l’impacciato Howie deve combattere contro le debolezze di due genitori che sono lì lì per dividersi, contro le ansie di un fratello minore che forse vorrebbe crescere più di lui, contro i primi desideri per una ragazza, pure lei affettivamente male in arnese più grande di lui e incontrata per caso una mattina in autobus, contro i sinceri sentimenti di una compagna di scuola, triste e bullizzata. Howie, sconquassato fuori e dentro di sé, tira dritto per la sua strada, vivendo giorno dopo giorno quanto più può, trincerandosi nella calma e mettendo ordine con il prevalere dei veri sentimenti. La regista, alla sua opera prima, quei piccoli momenti ce li lascia gustare tutti, con intelligenza, con un’osservazione intima e costante, con i tanti particolari colti al volo che costruiscono il film, con gusto e con ironia. Speciale il giovane protagonista Brendan Meyer, tutto vero, dalla testa alle scarpe.

 

Elio Rabbione

 

 

 

Nelle foto grandi: Jakob Cedergren è l’ottimo interprete di “The Guilty” del danese Gustav Möller; una scena del deludente “Angelo” dell’austriaco Markus Schleinzer; “All these small moments” dell’americana Melissa Miller, altro film applaudito in questi giorni al Torino Film Festival

Vincent, che disegnava le stelle

 

Nessuno aveva idea da dove venisse quell’uomo allampanato, magro come un chiodo. Il volto, incorniciato da una rada barba grigia, era illuminato da due vivaci occhi neri, che luccicavano al riparo dalle folte sopracciglia. Parlava poco ma in quel poco  dava prova di una grande padronanza della lingua che usava con una dizione praticamente perfetta, da accademico. Un fatto, questo, che rendeva ancor più stridente il contrasto con la sua figura dimessa, infagottata nella lunga e lisa marsina con le grandi tasche sformate dall’uso. A tracolla portava una piccola cassetta di legno con colori e pennelli e , sottobraccio, un seggiolino pieghevole e alcune tele. Sul lago apparve sul finire dell’estate che, come capitava spesso dalle nostre parti, tra un temporale e l’altro, aveva ceduto ben presto il passo ad un anticipato autunno. Nell’aria si avvertiva già quel sapore d’ottobre quando nelle ore del meriggio l’aria rinfrescava portando in giro quei profumi di terra bagnata, muschio e funghi che s’accompagnavano all’arcobaleno di  colori morbidi e caldi che si confondevano nel giallo e nell’arancio, nel marrone e nel rosso delle foglie.

barca pennelli

Vincent si soffermava a guardare la natura e i giochi di luce, sedendosi al margine di un bosco oppure su una panchina del lungolago, guardando le isole e oltre, dalla parte opposta dov’era la “sponda magra” del Maggiore. A Vincent piaceva quel lago dall’anima volubile, simile in tutto e per tutto a quella di una donna di carattere e spirito. Amava quei colori pastello  che salivano dalle morbide e azzurre onde al verdazzurro dei dorsi di monti alle spalle di Luino, Laveno e più in giù, tra l’’Eremo di Santa Caterina del Sasso Ballaro e  la rocca Borromea di Angera. Colori che, all’improvviso, potevano mutare in tinte scure e minacciose sotto i venti impetuosi, mugghianti delle tempeste. Era un mondo che lo incuriosiva, popolato da gente di frontiera, battelli che solcavano le acque  e orizzonti racchiusi tra le montagne. Era un solitario e apprezzava i silenzi e quella riservatezza fatta di sguardi complici e di parole annodate alle brezze della tramontana e dell’Inverna. Ma Vincent, più di ogni altra cosa, amava le stelle. Le dipingeva quando comparivano e prima che sparissero. Per ogni alba che schiariva il cielo, accompagnando gli ultimi astri al riposo o per ogni firmamento pieno di lucenti stelle, Vincent aveva occhio e cuore nel trasferirne l’emozione sulla tela, in colori e delicati colpi di pennello.

***

Il fornaio, Degrande, guardando i quadri, sospirava ogni volta, ripetendo : “Se esiste il pan di stelle, qualcuno l’ha sbriciolato in cielo. Guarda come pulsano vive, brillano luminose. Mamma mia, che belle!”. E assestava una manata di compiacimento sulle spalle di Vincent, lasciandogli la sua infarinata impronta sulla giacca.Prima di arrivar lì, in primavera si era fermato sulle colline del Monferrato per non perdere l’appuntamento con le Liridi che ogni anno, a metà aprile, sciamavano per il cielo con la loro cascata di stelle cadenti. “Quel nome strano”, diceva a chi lo ascoltava incuriosito,”lo prendono dalla costellazione della Lira, dove appaiono, tra Ercole e il Cigno. Uno spettacolo di piccoli frammenti luminosi che, entrando nell’ atmosfera, si disintegrano in spettacolari fiammate”. Poi, più per onorare  la tradizione che per altro, causa il brillare della luna piena,  il 10 agosto – la notte di San Lorenzo –  erano saliti fino all’alpeggio della Scèrea per osservare lo sciame meteorico delle Perseidi. Nonostante fossimo stati graziati dal tempo in quell’estate che pareva un autunno, il cielo era così luminoso da rendere quasi impossibile vedere qualche scia di stella cadente. Infatti, solo l’Audenzio Marchelli, ad un certo punto, gridò “Ne ho vista una! Un bolide! Grossa!”. Ma la vide solo lui e forse quel litro di Barbera che si era scolato da solo alla  Casa del Popolo aveva contribuito più del dovuto a far sì che vedesse ciò che non apparve agli sguardi degli altri. Ad ogni modo la traccia lasciata dalle Perseidi che attraversano i nostri cieli si poté vedere, in misura minore, fino a oltre la metà di agosto. Ma furono poche, isolate apparizioni. E siccome era noto che è meglio essere sdraiati piuttosto che seduti, armandosi di pazienza poiché gli occhi hanno bisogno di un po’ di tempo per adattarsi al buio e vedere meglio ciò che accade nell’oscurità del cielo, ai due fratelli Sgranocchi capitò di finire nel prato delle vacche del Carlin.

***

Lunghi e diritti, distesi in mezzo ai “boasc”, le “boasse”, le cacca delle mucche. E ci vollero un bel bagno nel Selvaspessa e un paio di “giri” nel mastello con la lisciva – loro e i loro vestiti – per togliersi di dosso quel “profumo” che non era certo di violetta. Intanto Vincent, notte dopo notte, dipingeva. E di giorno, s scriveva sul suo quaderno nero dalla copertina di cartone sottile, con l’etichetta appiccicata, bianca e rossa, dai bordi frastagliati come quelli delle fotografie di un tempo. Ci scriveva ogni cosa e serviva a tante cose. Lo usava come “segna conto”, dove il signor Lipelli riportava la spesa che avrebbe dovuto pagare alla fine della settimana o del mese; vi riportava le impressioni dei suoi viaggi e degli incontri che gli capitava di fare, fissandoli sui fogli per non disperderne la memoria. E, soprattutto, riportava alcune frasi che l’avevano colpito. Una più delle altre. Questa: “…guardare le stelle mi fa sempre sognare, così come lo fanno i puntini neri che rappresentano le città e i villaggi su una cartina. Perché, mi chiedo, i puntini luminosi del cielo non possono essere accessibili come quelli sulla cartina della Francia?”. Queste parole, scritte da Vincent Van Gogh in una delle famose lettere al fratello Theo, rappresentavano  un’ulteriore conferma del fascino che quei “puntini luminosi” esercitavano anche sul “nostro” Vincent.

barca pennelli2

Molti quadri di quell’artista straordinario e maledetto erano  costellati di quei  “puntini luminosi” sospesi nel blu e nel nero della notte che solo all’occhio inesperto potevano sembrare messi lì a caso dalla fantasia del pittore olandese  quando invece erano frutto di una scelta ben precisa. E qui Vincent s’infervorava, dimenticandosi d’essere taciturno. Raccontava ,ad esempio, com’era nato la Notte stellata sul Rodano, uno dei suoi quadri più celebri. Quando iniziò a lavorarci nel 1888, cioè prima di incontrare Paul Gauguin, Van Gogh si trovava già nella città di Arles, dove tra le sponde del fiume Rodano scoprì un punto adatto per rappresentare un soggetto che lo rende particolarmente felice. «Sto lavorando […] a uno studio del Rodano, della città illuminata dai lampioni a gas riflessi nel fiume blu. In alto il cielo stellato con il Gran Carro, un luccichio di rosa e verde sul campo blu cobalto del cielo stellato, laddove le luci della città e i suoi crudeli riflessi sono oro rosso e verde bronzeo…», scrisse infatti il pittore.

***

Ma c’era di più. “Un astronomo è persino riuscito a stimare l’esecuzione del quadro in una notte compresa tra il 20 e il 30 settembre 1888 alle ore 22;30 grazie a un a ricerca accurata della posizione dei “puntini luminosi“, disse Vincent. Incuriosendoci,aggiunse: “E notò persino un piccolo errore: la costellazione dell’Orsa Maggiore, rappresentata sopra le luci della città, appare infatti deformata, cosa che farebbe supporre una pausa di almeno quaranta minuti nell’esecuzione dell’opera, essendo il cielo notturno mutato col trascorrere del tempo. Forse il pittore si è dedicato ad altro, per poi riprendere il lavoro e fissare “erroneamente” le rimanenti stelle in una posizione diversa. Non è incredibile,eh?”.Scuotendo la testa, sedendosi su una vecchia pietra miliare, sospirò: “Non avremo mai certezze sulla ragione che spingeva Van Gogh a rappresentare su tela quei “puntini luminosi” incisi, appunto, come su di una cartina geografica in cielo, ma a giudicare dalla passione con cui noi artisti e pure gli scienziati scrutano il cielo potete almeno intuirlo anche voi”. Non lo disse ma s’intuì il suo pensiero su Van Gogh, alla ricerca di Dio nel cielo stellato, tormentato dal “male di vivere” tant’è che, in una lettera, scrisse “Se prendiamo il treno per andare a Rouen o a Tarascona, possiamo prendere la morte per andare in una stella”. Così, scacciati i pensieri,  ci siamo dati appuntamento per la notte del 14 dicembre, nella parte alta della “Tranquilla”, a nord di Oltrefiume, in vista della cava di granito. Lì, con gli sguardi rivolti al cielo, a rincorrere le traiettorie delle stelle cadenti d’inverno, le Geminidi. Si sarebbe potuti venire anche qualche giorno più avanti, aspettando il rientro di Paolo dal nord Africa dove si era recato ( mi pare in Algeria)  sei mesi prima per ragioni di lavoro, ma il rischio era alto. Lo sciame era visibile fino al 19 dicembre ma occorreva evitare che venisse penalizzato dalla Luna molto ingombrante. E già ad agosto eravamo rimasti con un palmo di naso, a guardar per aria quel cielo illuminato a giorno. ”Le Geminidi in genere non deludono mai, sono le stelle cadenti più belle dell’anno, più suggestive delle Perseidi di agosto per intensità, luminosità, colori”, diceva Vincent.

***

E lo spettacolo  fu davvero memorabile. Una straordinaria  cascata di stelle che disegnarono traiettorie da una parte all’altra del cielo. E andò avanti per tre notti, visibile anche in riva al lago, dove stavamo lì tutti: noi a guardare, Vincent a dipingere. Tutti infagottati per ripararci dal freddo pungente. Ogni tanto si “riparava” nel bar dell’Imbarcadero. Dalla radio accesa del bar udimmo una canzone “..l’estate prendeva una piega di nuove speranze.. cadevano stelle come fosse l’ultima notte felice del mondo.. l’ultima notte importante per dimenticare di essere soli..di essere soli da sempre”. Il titolo, che l’annunciatrice aveva quasi sospirato, era poesia pura: “Le stelle cadono nella notte dei desideri”.  Ci scoprimmo a farci delle strane domande. “Ma dove cadono, le stelle? E che rumore fanno? Forte? O solo un fiato di vento, leggero, leggero? Dove cadono le stelle?”. Franco Splolito, l’amico poeta, non perse l’occasione. Fece un lungo respiro. Socchiuse gli occhi e allungò il braccio destro, aprendo la mano.

notte rodano

E declamò. “ Cadono le stelle e non fanno rumore, affascinanti scie luminose che solcano il cielo, in attesa di essere raccolte per dar luce ai nostri desideri …Fiammelle tenuti  nella nera notte,illusioni fatue  per chi speranza più non ha e per chi alla speranza non rinuncia…Lucciole  che brillano, indistinto chiarore di un sogno cercato, voluto, sperato. Stelle luminose, che nell’universo sono le gioie più preziose..”. Alvaro, con le lacrime agli occhi per la commozione, applaudì. E anche Ugo, Filiberto e Giovanni batterono le mani. Jolanda, invece, nascondendo il volto in un fazzoletto, sospirò un appena percettibile “ grazie, Franco”. Lui, dopo un rapido inchino, guardò Vincent e disse: “Amici miei, è questo nostro artista che va ringraziato. E’ lui che, con pennelli e colori, da corpo ai nostri sogni”.  Qualche mese dopo, ai primi annunci di primavera, una mattina, passando davanti all’osteria del Gallo Nero, non lo vedemmo seduto sulla panchina dov’era solito riordinare la sua borsa degli attrezzi. Chiedemmo dove fosse, ma nessuno sapeva la risposta. Forse se n’è andato giù al lago a dipingere.. Forse è dall’Ugo, a scegliere dei colori.. O dalla Maria dell’Osteria dei Gabbiani, dai. Si è sempre saputo che per la Maria aveva un debole, no? .. Ma lui non era in nessuno di questi posti e nessuno l’aveva visto o incontrato. Solo il vecchio Samuele disse che gli era parso di vederlo andar via, a notte inoltrata, sulla strada verso Stresa. Ma lo sapevano tutti che a Samuele piaceva bere e che la sera era talmente “carburato” da scambiar lucciole per lanterne.. Fatto sta che passo l’intera giornata e verso sera di lui non s’era vista nemmeno l’ombra. Vincent non c’era più. Se n’era andato, In silenzio. così com’era arrivato quasi un anno prima. Erano solo rimaste, in cielo le stelle. Tante, belle ma meno luminose del solito. Quasi fossero tristi. Ma le stelle, possono essere tristi? Vincent avrebbe risposto che forse sì. O forse no. Alzando un poco le spalle, inarcando le sopracciglia, abbozzando un sorriso. Ma Vincent era ormai lontano.

 

Marco Travaglini

 

Cinque compagnie piemontesi in giro per il mondo

Move! è il nuovo fondo annuale ideato da Piemonte dal Vivo, per il sostegno alla mobilità internazionale degli artisti piemontesi o residenti in Piemonte, con l’obiettivo di creare nuovi legami ed opportunità oltre confine

 

Move! è un esempio concreto di come sia possibile per i nostri artisti creare nuovi legami ed opportunità oltre confine – dichiara Matteo Negrin, direttore di Piemonte dal Vivo –. Allo stesso tempo, sviluppare relazioni internazionali, in uno scambio virtuoso tra l’Italia e gli altri paesi, contribuisce a rafforzare l’immagine del nostro territorio e delle eccellenze che lo abitano.

Nella prima annualità di azione del bando sono state selezionate cinque realtà e altrettanti progetti: la Piccola Compagnia della Magnolia partecipa con una propria creazione all’ international Theatre Festival a Szczecin Polonia e allo SKUPI International Theatre festival a Skopje in Macedonia. L’Asia è invece meta dell’Associazione Didee arti e comunicazioni, ospitata nell’ambito dell’Indonesian Dance Festival con il progetto Le Foglie e il Vento. Sempre nell’ambito della Danza si sviluppa la proposta del BTT Balletto Teatro Torino che anche grazie al Sostegno di Move! Porta sul Palco del festival de Ballet Internacional Havana de Cuba/ fabrica de Arte la nuova creazione di Laura Domingo Agüero. Tornando in Europa la Cooperativa Italiana Artisti beneficerà di un contributo per un periodo di residenza in Belgio, mentre La Società Reale Ginnastica di Torino avrà l’opportunità di partecipare al Festival Arena di Praga. Per un settore naturalmente votato alla mobilità qual è quello dello spettacolo dal vivo, l’internazionalizzazione rappresenta un ambito strategico, necessario per garantirne la crescita e lo sviluppo – dichiara Antonella Parigi, assessore alla Cultura della Regione Piemonte – Non posso quindi che accogliere favorevolmente questa nuova misura di Piemonte dal Vivo, che potrà certamente essere implementata in futuro.

 

piemontedalvivo.it

TFF e Museo del Cinema ricordano Bertolucci

Il Museo Nazionale del Cinema e il Torino Film Festival esprimono il loro cordoglio per la scomparsa di Bernardo Bertolucci, grande amico e maestro del cinema internazionale. Con lui il mondo del cinema perde una delle sue voci più illustri, autore di film indimenticabili entrati nell’immaginario collettivo

Tra i registi più apprezzati a livello internazionale, ha diretto pellicole di successo, con le quali ha vinto i premi più importanti: l’Oscar per la Miglior regia e Miglior Sceneggiatura con L’Ultimo Imperatore nel 1988, il Leone d’Oro alla carriera nel 2007 e la Palma d’Oro onoraria a Cannes nel 2011.  “Bernardo Bertolucci, prima e oltre il suo grande contributo al cinema internazionale, è uno degli autori che sanno rinnovare il nostro cinema, creando una vera e propria nouvelle vague all’italiana, fino poi alla creazione di un’opera che – sapientemente preparata da un capolavoro giovanile come ‘La strategia del ragno’ – travalica gli stessi confini del cinema, per affermarsi come componente costitutiva della nostra identità nazionale: ‘Novecento’ ”. Afferma Sergio Toffetti, Presidente del Museo Nazionale del Cinema.”Un visionario, un intellettuale, soprattutto un sognatore. Bernardo Bertolucci, dopo la rivoluzione, ha fatto il cinema come non immaginavamo più di farlo: più grande della vita, e per questo capace di restituirci tutta la vita, e la Storia, e la memoria, e il futuro, nella loro profondità. Tragedie di ideali che si frantumano, di uomini e donne che si perdono in rapporti impossibili, affreschi magnifici del nostro passato recente e bruciante, di imperatori e Buddha e ragazzi e ragazze in cerca di identità. Ragazzi e ragazze che sognano, a Parigi come altrove, la loro vita, un’altra vita, migliore. Meno di venti film in quasi cinquant’anni di carriera sono troppo pochi per uno dei più grandi registi del mondo”. Dichiara Emanuela Martini, Direttore artistico del Torino Film Festival. Il TFF saluta Bernardo Bertolucci e lo ricorda con un breve montaggio che sarà proiettato prima dei film in programmazione e con una giornata dedicata a lui domenica 2 dicembre al Cinema Massimo 3.

Alla scoperta del mondo sommerso del garage rock americano anni ‘60

Buona cornice di pubblico lunedì 26 novembre presso la biblioteca civica musicale “A. Della Corte”, dove si è tenuto un incontro sul garage rock americano degli anni 1965-1970 intitolato “Il mondo sommerso del garage rock americano anni ‘60”. Il musicologo Giancarlo Marchisio (nella foto)  durante il suo intervento ha illustrato, con puntualità e con l’ausilio di ascolti musicali, il mondo delle bands “meteora” che hanno animato gli anni più intensi della fiammata del garage rock a stelle e strisce. Sono stati indicati la distribuzione geografica dei sottogeneri, i luoghi più usuali in cui si tenevano concerti e performances musicali (con riferimento anche alle “Battles of the bands”), le realtà home-made della produzione discografica e della gestione manageriale dei gruppi musicali, le fasi di affermazione del filone proto-punk e la sua precoce diffusione. Sono state sottolineate anche le problematiche di natura metodologica sul controllo delle fonti delle informazioni e sull’ancora scarna letteratura sul tema del garage rock in confronto ad altri generi e sottogeneri coevi.

 

Mattinate FAI d’Inverno

Visite esclusive per le scuole  a cura degli Apprendisti Ciceroni del FAI


IN PIEMONTE

 

Tornano per il settimo anno consecutivo le Mattinate FAI d’Inverno, il grande evento nazionale del FAI – Fondo Ambiente Italiano pensato per il mondo della scuola e in particolare dedicato alle classi iscritte al FAI, nel cui ambito gli studenti sono chiamati a mettersi in gioco in prima persona per scoprire le loro città da protagonistiDa lunedì 26 novembre a sabato 1 dicembre 2018 gli allievi delle scuole sono infatti invitati a conoscere il patrimonio storico e artistico del loro territorio accompagnati dagli Apprendisti Ciceroni, giovani studenti appositamente preparati dai volontari FAI che operano in un dialogo continuo con i loro docenti. Indossati i panni di narratori d’eccezione, gli Apprendisti Ciceroni racconteranno alle classi in visita il valore di questi beni e le storie che custodiscono. Grazie alle Delegazioni FAI attive su tutto il territorio nazionale saranno aperti più di 170 meravigliosi tesori poco conosciuti e spesso chiusi al pubblico in oltre 100 città d’Italia. Gli studenti avranno così l’occasione di partecipare a visite condotte da loro coetanei e di vivere un’insolita esperienza di “educazione tra pari”. Chiese, aree archeologiche, centri storici, palazzi cittadini e delle istituzioni, ville, raccolte museali, scuole storiche, biblioteche, castelli, monasteri, teatri, orti botanici accoglieranno gli studenti per avvicinarli alla storia e alla cultura del loro territorio e per coinvolgerli in un processo di assunzione di responsabilità nei confronti dei beni che esso custodisce. In particolare, poiché quest’anno il FAI dedica particolare attenzione al tema dell’acqua, con la campagna #salvalacqua, fanno parte dei beni visitabili anche terme romane, acquedotti, fontane, riserve naturali e itinerari che si sviluppano lungo incantevoli corsi d’acqua. L’evento, giunto alla sua settima edizione, è dedicato alle Classi Amiche FAI che, sottoscrivendo l’iscrizione, condividono gli obiettivi della Fondazione e contribuiscono alla tutela e alla valorizzazione del patrimonio di arte e natura del nostro Paese.

La nuova vita di un padre, tra il lavoro e i fragili rapporti della famiglia

Una regione e una città imprecisate della Francia, una casa assai semplice, un padre, Olivier, che riempie le giornate del proprio lavoro di capo reparto e di sindacalista in una fabbrica di stoccaggio, i problemi da affrontare di fronte ad un’inflessibile responsabile del personale, la necessità di “obbedire” ai piccoli riti familiari, i minuti rubati alle coccole verso i due figli piccoli

La moglie, Laura, affronta ogni giorno la vita da sola: e un giorno, inspiegabilmente, inaspettatamente, sparisce. Adesso tocca a Olivier occuparsi dei due ragazzini che male s’abituano a quella scomparsa, la più piccola si chiude in un serrato mutismo, a poco servono le presenze di una psicologa o di un amico poliziotto per le indagini, della nonna o della giovane zia che può essere una più facile sostituzione, arrivano ad andarsene di casa per andarla a cercare. Mentre Olivier deve continuare a combattere in fabbrica, dove chi per l’età non è ritenuto più in grado di mantenere i ritmi viene licenziato e si taglia i polsi, dove chi resta incinta non si vede rinnovato il contratto. E non si mandano via soltanto gli operai, anche in alto chi non segue appieno il corso dell’azienda deve scegliere altre strade. È un ritratto ben calato nell’oggi quello che Guillaume Senez (già al TFF nel 2015, vincitore con Keeper del Premio della Giuria) propone con Nos batailles, sua opera seconda. Il mondo del lavoro (nella Francia odierna dei fratelli Dardenne) ma soprattutto la lenta distruzione, di cui non ci si accorge, che i ritmi frenetici possono portare all’interno di un nucleo familiare (anche Wildlife di Paul Dano, visto nei giorni scorsi, analizza la tematica), il rubare spazio agli altri. Senez descrive con esattezza la vita di fabbrica, anche nella composizione delle immagini, ma soprattutto mette in campo con straordinaria naturalezza i fragili rapporti della famiglia e le ripercussioni di un abbandono, ricavando dal protagonista Romain Duris come dai bambini una verità quotidiana di azioni, di sentimenti, di parole. Tutto è credibile nella naturalezza di ogni scena. Raccontava, presentando il film, che all’origine delle sue storie vi è un preciso lavoro di scrittura ma che quella sceneggiatura così limata in ogni particolare venga scavalcata, lui non abbia l’abitudine di darla agli attori, prima si prova, ci si confronta, si costruiscono i dialoghi sul set, giorno per giorno; come raccontava quanto questa storia sia legata alla sua vita, al momento in cui la madre dei suoi figli abbia deciso di lasciarlo e lui sia stato costretto a inventarsi una nuova vita. Nos batailles uscirà sugli schermi italiani nell’aprile del prossimo anno, non perdetelo. Con The White Crow Ralph Fiennes (candidato all’Oscar nel ’94 per il suo Amon Goeth in Schindler’s list) passa ancora una volta dietro la macchina da presa. Con la sceneggiatura di David Hare, basata sulla biografia di Julie Kavanagh, in un lungo elenco di flashback perfettamente ad incastro (dovuti alla maestria del montatore Barney Pilling e sottolineati dal colore per gli anni Sessanta e da un gioco monocromatico ogniqualvolta la vicenda s’avvicina all’infanzia del protagonista), allinea fin dalla nascita – su un vagone della Transiberiana, nei pressi di Irkutsk, nel ’38, tra contadini e giocatori e ubriachi – la vita di Rudolf Nureyev, forse il più grande ballerino del Novecento, il suo desiderio di conoscenza (la musica, La zattera di Géricault al Louvre), il suo desiderio di affermazione, la sua arte, i suoi successi, gli eccessi e gli amori, la sessualità, focalizzando la tournée a Parigi nel 1961 quando, con l’aiuto di alcuni amici del mondo occidentale, riuscì a sfuggire alle autorità sovietiche e ad ottenere lo stato di rifugiato politico. Fiennes sa raccontare con estrema fluidità, tra passi di danza e serate al Crazy Horse, tra piccoli sentimenti ed erotismo, approfondisce l’uomo e l’artista, ne scava il carattere, ne mostra la grandezza e del tutto le asprezze: affidando il ruolo al ballerino Oleg Ivenko, nuovo per lo schermo. Che è il punto di debolezza del film, forse troppo lontano da quell’artista che le cronache ci avevano descritto, timidamente sprezzante, privo di quella sensualità che caratterizzava “il corvo bianco”, un viso piuttosto da ragazzo semplice della porta accanto (per noi insopportabile la somiglianza con il Gianni Morandi nazionale, cinematograficamente fuorviante) che volteggia da dio ma che nei tratti ha poco a che fare con la stella della danza.

 

Elio Rabbione

 

Due immagini di “Nos batailes” di Guillaume Senez, protagonista Romain Duris; Oleg Ivenko come Nureyev in “The white crow” di Ralph Fiennes.

Giovani attori dietro la macchina da presa, tra la tragedia della guerra e le disillusioni della vita

Sotto lo sguardo sorridente di Rita Heyworth, nella gran visibilità delle ciocche verdeblu da quest’anno sulla capigliatura rossoarancio della Emanuela Martini, con la benedizione della madrina Lucia Mascino, s’è inaugurata allora la 36ma edizione del Torino Film Festival

Le prime immagini sono quelle di The Front Runner di Jason Reitman, fluidamente ma altresì corposamente tratto dal libro All the Truth is out: the Week Politics Went Tabloid di Matt Bai, qui anche in veste di sceneggiatore, coadiuvato da Jay Carson. Non è soltanto il resoconto della parabola tutta in discesa di Gary Hart, senatore democratico dalle molte chances nella corsa alla Casa Bianca, alle Presidenziali dell’’88, ma pizzicato tra un discorso e l’altro in una relazione nata sul campo, fuori da un matrimonio costruito e lasciato intendere sui migliori principi, che gli avrebbe fatto perdere consensi e voti, riponendolo in un misero cono d’ombra da cui per anni non sarebbe riemerso: è soprattutto il ritratto, al di là della colpevolezza della scappatella, di certa carta stampata – per l’occasione, del Miami Herald che accese le micce -, di una informazione che dimentica tesi e propositi e volontà elettorali per scavare sempre più a fondo nella polvere del gossip, per farsi spettacolarizzazione, per assumere i contorni della più spoglia competizione sportiva. La storia si costruisce con dialoghi serrati, con le scene concitate che tendono alla distruzione dell’avversario, con le riunioni in redazione, con le tante piccole figure delineate con intelligenza e spirito, soprattutto il ritratto dolente e combattivo allo stesso tempo della signora Hart, interpretata da Vera Farmiga. In questo grande baraccone che sta dalla parte opposta del lavoro metodico di Tutti gli uomini del Presidente, notevole è la figura del candidato vista attraverso gli occhi di Hugh Jackman, estremamente solido, combattivo, consapevole.

Di tono minore, con una realizzazione e un tecnicismo che denunciano i difetti delle opere prime, il primo film passato in concorso, 53 Wars della polacca Ewa Bukowska, attrice di successo nel proprio paese per film e serie televisive, passata oggi dietro la macchina da presa. Basandosi su una storia vera, analizza la vicenda di una coppia, lei scrittrice a seguire dalle brevi, interrotte telefonate o dai reportage televisivi la vita di lui, cronista dai terreni di guerra, si chiamino Afganistan o Cecenia. Al centro una donna obbligata a morire giorno dopo giorno, nell’attesa di un ritorno o di quello squillo di telefono a comunicargli un decesso. È una morte temuta, forse a tratti immaginata, alla fine desiderata, sempre in un’attesa che giorno dopo giorno procura il vuoto intorno e quel vuoto inizia a inserirsi nel corpo, nei ricordi, nel cervello. In una pericolosa indecisione tra immaginazione e realtà. Nell’agguato continuo di quella sindrome post traumatica da stress che riempie le giornate di chi è tornato ma tortura altresì chi è rimasto a casa in attesa. Pur nella brevità della storia, la giovane regista fa compiere un percorso di dolore ad un intenso personaggio che ha i tratti sempre più sofferti e allucinati di Magdalena Poplawska, ma lo tratteggia al tempo stesso senza approfondire, per schegge e immagini a volte confuse, per inquadrature sghembe che reclamano l’affermazione dell’autrice ma che si risolvono soltanto per infastidire e creare anche il vuoto nell’ispirazione. I dialoghi centellinati, i visi e gli insiemi non a fuoco, il passato e il presente mescolati, il richiamo ad un’esplosione che coinvolge tutto e tutti, non aiutano affatto la linearità del racconto.

Al contrario, convince appieno Paul Dano, attore trentaquattrenne – lo abbiamo visto in Little Miss Sunshine, come figlio di Daniel Day-Lewis nel Petroliere, come attore deluso dalla professione e dal mondo hollywoodiano in Youth del nostro Sorrentino – con Wildlife, sua opera prima scritta con la collaborazione della compagna Zoe Kazan, nipote del mitico Elia. Il Montana dei primissimi anni Novanta, un piccolo paese tra mandrie e paesaggi sconfinati, una famiglia del più tranquillo ordinario, un padre (Jake Gyllenhaal) che lavora nel vicino circolo del golf, una madre casalinga (un’eccezionale Carey Mulligan) ed un ragazzo di quattordici anni, scuola pallone e partite con papà, i suoi occhi grandi a guardare il mondo che gli gira intorno. Una perfezione destinata a guastarsi. Lasciato a casa dal lavoro e troppo orgoglioso per riaccettarlo quando i responsabili ammettono l’errore di valutazione, il padre se ne va in montagna a spegnere i fuochi che sono divampati (Incendi è il titolo del romanzo di Richard Ford: e si capirà ben presto che quel fuoco che lambisce le foreste non è il solo a esplodere, quegli incendi colpiscono anche le persone e la vita), accettando anche la paga di un dollaro l’ora, mentre il ragazzo comincia a impegnarsi in uno studio fotografico e mamma a far da istruttrice in una piscina, entrambi a cercare di arrotondare con qualche quattrino in più. Mamma sogna una vita più felice e un vecchio signore con attività in proprio e casa quasi da sogno potrebbe fare al caso suo: ma il pompiere torna e prima o poi bisognerà fare i conti anche lui. È la summa delle disillusioni, la necessità di guardare al domani con occhio diverso, umanamente in via di distruzione: e quella fotografia entro cui il ragazzo tenta di ricompattare la propria famiglia, non lascia certo benevoli spiragli aperti, gli sguardi ormai spenti lasciano intendere quanto il disfacimento sia ormai totale. Lo stile di Dano affonda con piena maturità nel tranquillo andamento di un racconto che nasconde tragedie, lo sguardo che sorvola l’America rurale, affronta le ribellioni e il coraggio e distrugge il sogno americano. Ben raccontando, nell’interno del nido ormai definitivamente a pezzi come all’esterno, i suoi personaggi e le loro azioni, seguendoli da vicino, con la macchina da presa incollata addosso, a cominciare da Joe, il timido ragazzino, impersonato da Ed Oxenbould, muto testimone, un nome sui cui ci sarà da tenere gli occhi ben aperti.

Se vogliamo, in questo finale del primo sabato di festival, fare un salto nella sezione “Festa mobile”, diciamo di Pretenders di James Franco, che certo non può essere presente perché, ci avverte Emanuela Martini, “lavora molto”. E siamo felici per lui. Resta peraltro il fatto che tutto il divertimento, intelligente, causticamente ricostruttivo di un’operazione e di un’epoca, che ci aveva procurato lo scorso anno The disaster artist, ovvero la lavorazione del film che mai sia stato affatto ad opera di due amici e collaboratori (sullo schermo la coppia di fratelli Franco), con il film presentato quest’anno qui in prima mondiale se ne è andato un po’ in pappa. Lui lei e l’altro, un triangolo amoroso, da amour fou, tra uno scrittore/regista, un’attrice e un regista, un incontro all’insegna del cinema che dopo aver promesso citazioni per i cinefili si perde tra le lenzuola di questo o di quello, con un erotismo che per un attimo scombussola ma che poi rimette le cose a posto. Un incontro che si porta appresso amicizia e passioni, scambi repentini e scritture, fughe e inseguimenti, sentimenti e l’Aids che ti porta via (siamo a cavallo tra i Settanta e gli Ottanta), un incontro che batte le strade americane e vola in Europa per parlarci di Nouvelle Vague con Godard e Anna Karina, di Truffaut e di Jules et Jim, con lei che corre sul ponte abbigliata come Jeanne Moreau, di Dreamers e dell’Ultimo tango e della Schneider che non parlò più con Bertolucci. Poi la storia sceglie di “chiacchierare” dell’ambiente del cinema e lo fa in maniera confusa, con psicologie stagnanti e personaggi alla fine non ben scolpiti, ripetitivi.

 

Elio Rabbione

 

 

 

Nelle foto: “The Front Runner” di Jason Reitman che ha inaugurato il TFF; “53 Wars” di Ewa Bukowska (polonia); Carey Mulligan e Jake Gyllanhaal in “Wildlife” di Paul Dano; gli interpreti di “Pretenders” con la regia di James Franco.

 

La strada del Fiammingo

Crea, con il suo Sacro Monte ed il Santuario, da secoli è un punto di riferimento per le genti non solo della Valcerrina (alla quale appartiene) come pure del Monferrato ma anche di un’area geografica molto più vasta
Non va dimenticato, infatti, il ruolo che ebbero alcune municipalità in passato, come ad esempio quelle di Vercelli o di Alessandria per il finanziamento nella fase di edificazione delle cappelle. E tra coloro che contribuirono alla nascita del Sacro Monte ci furono due fratelli giunti, sia pure in momenti diversi, dalla Fiandra, Jean e Nicolas de Wespin, detti Tabaguet, italianizzati Tabacchetti. A loro è dedicato il libro ‘La strada del Fiammingo. Dal Brabante al Monferrato: i Tabacchetti di Fiandra’, edito dal Centro Studi Piemontesi, lavoro di Graziella Riviera. L’avventura ha una data ed un luogo di inizio: Dinant-sur-Meuse, 8 luglio 1587. Orfano e privo di mezzi, armato solo di talento e di tenacia, Jean de Wespin, detto Tabaguet lascia a vent’anni il Brabante per venire in Italia, attraverso le Alpi. Questo è l’inizio di una lunga avventura che lo porterà (realmente) dalla Mosa al Po, al Monferrato ed alla Valsesia, sino a Crea e Varallo. Più tardi lo raggiungerà il fratello minore Nicolas. E Jean si rivelerà come uno dei più significativi artisti piemontesi, dovendo però affrontare le insidie di un difficile passaggio tra la fine del Cinquecento e l’inizio del Seicento. I due fratelli protagonisti, conosciuti in Italia come Giovanni e Nicola Tabacchetti, attraversano le guerre di Fiandra e di Monferrato, vivono assedi, epidemie, conflitti religiosi. Nel loro percorso – a cavallo tra realtà ed immaginazione, descritte comunque sempre con dovizia di particolari e forte verosimiglianza storica – incontrato Margot, regina di Navarra, sfiorano la visita a Varallo di Carlo Emanuele I, duca di Savoia, con l’Infanta Catalina Micaela e il viaggio nuziale sul Po della loro figlia Margherita, sposa di Francesco Gonzaga di Mantova, matrimonio da cui deriveranno le mire e le aspirazioni dei Duchi sul Monferrato che coroneranno con la sua annessione un secolo dopo, nel 1708, dopo la morte di Ferdinando Carlo, ultimo Gonzaga, e l’ufficializzazione con il Trattato di Utrecht del 1713 che, ponendo fine alla guerra di successione al trono di Spagna, portò ai Savoia la corona regia.
I due Tabacchetti, poi, firmano contratti con Priori e Canonici, si immergono nella vita quotidiana di cantieri e mercati. In parallelo c’è una figura femminile, la piccola Theodora Caccia, figlia del pittore Guglielmo Caccia detto ‘Il Moncalvo’, futura monaca – pittrice lei stessa con il nome di Orsola e sensibile interprete della fede sul territorio. A lei tra l’altro, l’autrice ha dedicato un ampio ultimo capitolo del libro. Sullo sfondo ci sono i Sacri Monti, ma anche il Monferrato nel non facile periodo che attraversava con tanti riferimenti a Crea, Salabue, Moncalvo, Casale (diventato poi ‘quel maledetto Casale’ di manzoniana memoria nelle immortali pagine dei Promessi Sposi). Il testo è arricchito dalle tavole genealogiche dei Tabacchetti e dei Savoia, da una cronologia ragionata che compara le vicende storiche della famiglia Tabacchetti e del periodo storico e da una ricca bibliografica che è spunto per ulteriori approfondimenti.L’autrice, Graziella Riviera, torinese di origini monferrine, ha lavorato alla Rai come autrice e regista realizzando programmi televisivi e radiofonici, come i telefilm ‘Lunedì dell’Angelo’, ‘Un sogno a Colonia’, gli sceneggiati ‘Guido Gozzano’ e ‘La Signora dei Misteri’ su Carolina Invernizio ed il pluriennale programma in diretta ‘Colloqui’ per Radiodue.
MASSIMO IARETTI

 

Reflections & Distortions

Al Gaggenau Hub di Milano va in mostra il “caos postmoderno” dell’artista polacca Maria Wasilewska

Sculture ardimentose. E concettualmente pretenziose. In acciaio e legno. Alle spalle una grande artigianale manualità, “nobilitata” da un intuito artistico che segna la strada verso opere di indubbia armonia e calibrata creatività. Sono sei le sculture inedite site-specific portate in mostra da Maria Wasilewska, che vive a Cracovia ed é fra le artiste polacche più note sulla scena dell’arte contemporanea internazionale, al Gaggenau Hub di corso Magenta, a Milano. L’esposizione, organizzata in occasione del centenario dell’indipendenza della Polonia (1918-

20018), e che per questo gode del patrocinio e del supporto del Consolato generale della Repubblica Polacca, è curata da Sabino Maria Frassà e chiude (dopo le rassegne dedicate a Francesca Piovesan, a Franco Mazzucchelli e a Ivan Barlafante) il ciclo artistico “On Reflection”, promosso dal brand di design Gaggenau e dal progetto non profit Cramum, che dal 2012 sostiene eventi e iniziative artistico-culturali in Italia e all’estero, con particolare attenzione al lavoro e alla creatività degli artisti più giovani. Sotto il titolo di “Reflections & Distorsions” – titolo che la dice tutta sugli effetti compositivi e sul significato concettuale delle opere – la personale meneghina della Wasilewska completa un lungo e ambizioso progetto avviato proprio a Milano nel 2014 attraverso la mostra “Distortions” tenuta da “Amy D Arte Spazio”, galleria che rappresenta l’artista in Italia. Allora ed oggi, l’artista si “arrovella” e si cimenta con esiti estetici assolutamente avvincenti intorno al tema fil rouge della “distorsione nel riflesso”. Noi tutti “viviamo in un caos postmoderno”, sostiene Maria Wasilewska, e l’arte non può far altro che rappresentare “le ‘distorsioni’ e la deformità della realtà in cui viviamo e che si nasconde dietro un ordine di facciata”. “Maggiore è la presenza di ‘distorsioni’ mediante movimenti, riflessi e altre inferenze, maggiore – secondo l’artista – sarà la possibilità che ci distacchiamo dall’ossessione di interpretare e razionalizzare la realtà e tutto ciò che ci circonda”. Ecco allora i “mostri informi” che osserviamo nel riflesso delle sue sculture. In merito alle quali, scrive il curatore della mostra Frassà: “Le opere – apparentemente algide e perfette – ricercano la deformità nel riflesso come unico modo di rappresentare noi e la realtà. Lo spettatore si trova così di fronte all’opera perso, deforme e moltiplicato…uno, nessuno e centomila”. L’opera tramanda bellezza, perfezione creativa. Suggestioni poetiche. Senza mai regalare scontate risposte. Non può. E non è questo il suo compito. Ci ricorda solo, e ancora una volta, che “l’unica certezza che l’uomo contemporaneo può avere è il ‘so di non sapere’ o addirittura il ‘so di non poter sapere’”.

Gianni Milani

 

“Reflections & Distorsions”

Gaggenau DesignElementi Hub, corso Magenta 2, Milano, tel. 02/29015250

Dal 15 novembre 2018 al 13 gennaio 2019

Orari: solo su appuntamento, 10/18,30

***

Nelle foto:

– Sculture “Senza titolo” (dal ciclo “Reflections & Distortions”), legno e acciaio, 2018
– Maria Wasilewska al lavoro