CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 574

Tarantino ancora una volta si diverte a riscrivere la Storia

Nelle sale “C’era una volta… a Hollywood” con Di Caprio e Brad Pitt

 

Pianeta Cinema a cura di Elio Rabbione

A chi non ha mai avuto un debole per l’idolatria e s’è sempre rivelato un pallido tarantiniano, veder   usati all’indomani della proiezione a Cannes o oggi in occasione dell’uscita in casa nostra termini come “capolavoro” o espressioni come “colpo di fulmine” o ancora qua e là cascate di stelline e pallini neri, beh, tutto questo ben di dio a proposito di C’era una volta… a Hollywood risulta un po’ inspiegabile. Senza far sì che ti vengano a travolgere troppo facili entusiasmi, l’ultimo Tarantino è un divertente, irriverente quanto accattivante prodotto da seguire normalmente in sala con un buon carico di disponibilità da parte dello spettatore, ormai abituato alle gradassate del rampollo doré del cinema d’oltreoceano, ai suoi punti di riferimento irrinunciabili e ai suoi divertimenti fuori misura, alla sua convinzione in un cinema inteso come pillola miracolosa capace di stravolgere anche la storia, alla sua cinefilia che lo ha nutrito fin qui e che affonda le proprie radici più intime in un B-movie di stampo italiano da altri a lungo snobbato. Essendo qui palpabile in primo luogo che la scrittura dell’autore non ha l’invenzione, la finezza e l’irruenza che ad esempio ti faceva pochi anni fa maggiormente sospirare per Bastardi senza gloria.

Siamo nella Mecca del cinema, la grande macchina dell’industria cinematografica va a meraviglia, l’anno è il 1969, l’anno in cui Neil Armstrong posa il piede sulla luna ma anche della strage di Cielo Drive 10050 a Bel Air (era il 9 agosto), Sharon Stone e i suoi quattro ospiti trucidati dalla mano di Charlie Manson e dalle sue giovanissime adepte. Anche gli anni dove già s’intravede il tramonto degli studios e l’alba di un cinema americano che sarà diverso. È la storia di Sharon (Margot Robbie), stellina venuta da Dallas, giovane moglie di Roman Polanski, della sua allegria, della sua voglia di farsi conoscere e riconoscere, di andarsi a rivedere su di uno schermo (danno un film della serie “Matt Helm” con Dean Martin) e inorgoglirsi divertita alle risate del suo pubblico; è la storia di Rick Dalton (un Leonardo DiCaprio in gran vena, tra la presunzione e la frustrazione, alla ricerca della battuta dimenticata e della grande prova del riscatto), attore televisivo di seguitissime serie western, stella di successo ma ormai irrimediabilmente relegato in un secondo firmamento, che nel cinema vero e proprio non ha mai saputo sfondare, già consapevole (e frustrato: mai avrebbe attraversato il red carpet, mai “winner is…” lo avrebbe sentito in attesa del suo nome) di essersi incamminato sulla strada di un non lontano viale del tramonto (se uno straordinario manager Al Pacino non gli facesse sentire il profumo dei quattrini e della fama (oh quanto passeggera!, quattro film e a casa) nel cinema italiano di Sergio Corbucci e Anthony Dawson al secolo Antonio Margheriti. È la storia di Cliff Booth (Brad Pitt, che a tratti sembra prendere spazio al collega per diventare il vero eroe di tutta la storia), suo sincero amico, controfigura di sempre e a tempo libero autista e confidente e pronto anche alla riparazione dell’antenna di casa, allegro e disinvolto, qualche macchia alle spalle (un processo con il sospetto d’aver fatto fuori la moglie), pronto a dire pure pane al pane mentre si scazzotta con Bruce Lee. Mai vuote macchiette ma personaggi autentici come i tanti che hanno costruito una certa storia a Hollywood.

In una ricostruzione esatta e parcellizzata e simpaticamente vivificata che è il punto di forza e più convincente dell’intera operazione nostalgica di Tarantino – ci sono i vecchi villaggi western e le sparatorie, le roulotte scalcagnate, il bianco e nero quasi d’obbligo, le feste a bordo piscina tra le conigliette di Hugh Hefner con Steve McQueen a fare da guest star, ci sono i drive in e le grandi insegne luminose dei cinema a reclamizzare quei titoli che abbiamo visto e che oggi compiono cinquant’anni, ci sono i figli dei fiori e le audaci e spericolate ragazzine con le avances a portata di mano -, la storia di Rick e Cliff s’incrocia con quella di Sharon, con una ventata di buonvicinato che non può che aiutare, là dove (Hitler ha finito di sghignazzare mentre si guardava le immagini di Orgoglio della nazione nel cinema parigino in Bastardi senza gloria) ancora una volta Tarantino si diverte ancora una volta a dare un nuovo corso alla storia. È l’atto di ribellione di Rick Dalton che va inaspettatamente a segno, forse la sua consacrazione, il frustrato perdente che si appresta a diventare un astro. Forse. La potenza del cinema, la passione di Tarantino per il cinema, inarrivabile.

Valerio Liboni, esce “Questa è la mia vita”

Il leader torinese de I Nuovi Angeli dal 27 settembre in tutti i negozi di dischi con il nuovo album di inediti.

 

Esce il 27 settembre in tutti i negozi di dischi e negli stores digitali con un nuovo, intenso album di inediti Valerio Liboni, dal titolo “Questa è la mia vita” (Egea Music).

Il raffinato cantautore e music-maker torinese, già leader di storici gruppi della musica italiana quali I Nuovi Angeli, I Ragazzi del Sole e La Strana Società (con cui ha venduto oltre 10 milioni di copie con la hit internazionale ‘Pop Corn’), nonché autore degli inni ufficiali del ‘Torino Calcio’ (il suo ‘Ancora Toro’ ha superato abbondantemente il milione di views su YouTube) ha dato alle stampe una raccolta di ben 16 brani scritti e prodotti a sei mani con due prestigiosi musicisti: il polistrumentista Silvano Borgatta ( già al fianco, fra i tanti, di Renato Zero, Phil Collins, Lucio Dalla, Enzo Jannacci e gli Stadio) e Guido Guglielminetti (autore di grandi successi per Anna Oxa e Loredana Bertè, nonché produttore di Ivano Fossati e Francesco De Gregori).

Tra le canzoni più suggestive, oltre alla title-track, “Una lettera”, “Io sto bene con te”, e la struggente “Se questo non è amore”.

A quasi 70 anni avverto ancora forte l’entusiasmo degli esordi”, confida Valerio Liboni, già collaboratore, autore e produttore anche per illustri colleghi quali Dino, Mal, Little Tony, Gian Maria Testa, Fiorella Mannoia, New Trolls, Umberto Tozzi, Donatella Rettore, Wilma Goich e molti altri. “Ho scelto di fare un disco di musica viva, realmente suonata, lasciando spazio alla magia degli strumenti, degli arrangiamenti. Abbiamo bisogno di tornare a sentire il cuore pulsante delle note, anche per risvegliare ideali e valori, come la bellezza e la poesia sincera, che faticano a farsi strada in questi controversi tempi moderni”, conclude Liboni, fra l’altro già autore di storiche sigle radiofoniche e televisive per programmi di punta delle reti Rai quali il ‘Festival di Sanremo’, ‘La Domenica Sportiva’ e ‘Alto Gradimento’ per nomi quali Pippo Franco, Renzo Arbore e l’indimenticato Gianni Boncompagni.

L’artista presenterà il nuovo album dal vivo, in versione unplugged, il prossimo 1° Ottobre alle ore 21.00 a Torino nell’elegante cornice del ‘Circolo dei Lettori’, insieme ai giornalisti Maurizio Scandurra, Sabrina Gonzatto e al regista Rai e producer tv Giulio Graglia.

Gli scatti del fotoreporter Krzysztof Miller in mostra al Polo del ‘900

A trent’anni da quel 1989, le immagini come testimonianze

 

Aperta al pubblico dal 18 settembre al 1 ottobre

Via del Carmine, 14

Accesso gratuito

 

Ha aperto i battenti ieri al Polo del ‘900 (ore 18), la mostra “Krzysztof Miller. Anno 1989”, inserita tra le attività del progetto Berlino 89. Muri di ieri, muri di oggi coordinato dall’Istituto di studi storici Gaetano Salvemini. La mostra è aperta al pubblico, con accesso gratuito fino al primo ottobre.

 

Fotografie di vita quotidiana, ma anche protestescioperimanifestazioni e avvenimenti artistici presentano in modo completo ed esclusivo gli eventi del 1989: anno della caduta del muro di Berlino, dello smantellamento della cortina di ferro, del crollo dei regimi autoritari. Miller cattura tutto questo con la macchina fotografica, testimone dei primi incontri della Tavola Rotonda polacca, delle libere elezioni in Polonia, fino ai cambiamenti in altri paesi del blocco orientale. È a Praga durante la Rivoluzione di Velluto. Ha documentato la riconquista dell’indipendenza in Ungheria. Ha scattato immagini nelle strade di Bucarest, quando tra sangue e violenze precipitava il regime dei Ceauşescu. Accanto ad esse alcune immagini di Anna Biała, una collega reporter, che ha ripreso la caduta del Muro di Berlino.

 

Nel libro “Fotografie che non hanno cambiato il mondo”, pubblicato postumo nel 2017, Miller scrisse: “La storia della mia vita è la storia di una continua paura. Un fotoreporter è solo e può contare solamente su se stesso. Solo con la storia, solo con l’immagine vista dal suo occhio e solo con i suoi pensieri e con l’immagine che andrà a vedere. Deve tappare le orecchie altrimenti il rumore della guerra danneggia i timpani, deve ripararsi dalle schegge di metallo e dai pezzi di terra e dalle pietre che gli vengono addosso. Ma a dire la verità nella fotografia di reportage conta solamente ciò che succede davanti all’obiettivo. Noi fotografi combattiamo per la testimonianza”.

 

Miller combatte per anni contro il disturbo post traumatico, togliendosi la vita il 9 settembre 2016.

 

La mostra è curata da Tiziana Bonomo, con il sostegno del Consolato Generale della Repubblica di Polonia in Milano, in collaborazione con Fondazione Vera Nocentini, ArtPhotò, Casa di Storia di Varsavia, Agenzia Gazeta.

Visitabile in via del Carmine 14, da lunedì a sabato dalle 9.00 alle 21.00; domenica dalle 9.00 alle 20.00.

 

 

Krzysztof Miller

Fotoreporter polacco, è nato Varsavia a nel 1962 dove ha vissuto e studiato presso l’Università di Educazione fisica a Varsavia. Ha fotografato i negoziati della Tavola Rotonda nel 1989 e da quell’anno diventa fotoreporter di “Gazeta Wyborcza”. È stato autore di diversi fotoreportage dalla Rivoluzione di velluto cecoslovacca, alla rivoluzione in Romania, alle guerre nel mondo (inclusa la Bosnia e la Georgia ) e a una serie dal titolo Zaire. Per diversi anni ha lottato con il disturbo da stress post-traumatico. Si è suicidato il 9 settembre 2016. Suo il libro intitolato 13 Guerre più una. La vera storia di un corrispondente di guerra. Principali servizi fotografici dal 1989 al 2008: Cecoslovacchia, Romania, Balcani, Georgia, sul Nagorno Karabakh, Bosnia, Croazia, Tajikistan, Afghanistan, Cambogia, Turchia, Kurdistan, Albania, Cecenia, Ruanda, Burundi, Zaire, Kosovo, Cecenia, Kongo, Iraq, Uganda, Sudan del sud.

 

Oltre 600 volumi del “Premio Lattes Grinzane” donati al “Polo del ‘900”

A disposizione di tutti i lettori in Palazzo San Daniele a Torino. Da mercoledì 25 settembre


Si chiamerà “Scaffale Premio Lattes Grinzane” e verrà accolto nella Sala Lettura (sezione di Narrativa) del “Polo del ‘900 – Palazzo San Daniele”, in via del Carmine 14, a Torino. Accoglierà la bellezza di 670 opere donate dalla Fondazione Bottari Lattes (organizzatrice del Premio), che andranno ad arricchire le raccolte del patrimonio bibliotecario degli Istituti partner del Polo, con una significativa offerta di libri vincitori e finalisti del “Lattes Grinzane”, dal 2011 – anno della sua prima edizione – ad oggi, ma anche di Narrativa contemporanea più in generale. La cerimonia di donazione e di inaugurazione dello “Scaffale”, si terrà mercoledì 25 settembre in Palazzo San Daniele, alle ore 18,30. Vi parteciperanno: Caterina Bottari Lattes (presidente dell’omonima Fondazione ), Sergio Soave (Presidente della Fondazione Polo del ’900), Mario Guglielminetti (direttore marketing della Fondazione Bottari Lattes), Alessandro Bollo (direttore della Fondazione Polo del ’900), Giovanni Barberi Squarotti (coordinatore del Comitato scientifico della Fondazione Bottari Lattes) e la scrittrice Laura Pariani (attualmente in giuria al Premio Lattes Grinzane, e finalista nel 2011 con il romanzo “La valle delle donne lupo”, Editrice Einaudi). La donazione, che ha lo scopo di rendere disponibile gratuitamente a tutto il pubblico torinese e non solo la produzione editoriale legata al Premio dedicato alla memoria di Mario Lattes ( editore, pittore e scrittore scomparso nel 2001), rientra nelle azioni del Protocollo di Intesa sottoscritto dai due Enti per collaborare su iniziative di promozione culturale e verrà integrata ogni anno con i volumi delle nuove edizioni dell’evento. Tra i romanzi disponibili, si potranno ad esempio sfogliare e prendere in prestito quelli dei vincitori per la sezione “La Quercia”: António Lobo Antunes (2018; Feltrinelli), Ian McEwan (2017; Einaudi), Amos Oz (2016; Feltrinelli), Javier Marías (2015; Einaudi), Martin Amis (2014; Einaudi), Alberto Arbasino (2013; Adelphi), Patrick Modiano (2012; Einaudi e Guanda), Premio Nobel 2014, Enrique Vila-Matas (2011; Feltrinelli). E quelli dei vincitori della sezione “Il Germoglio”: Yu Hua (Feltrinelli) nel 2018; Laurent Mauvignier (Feltrinelli) nel 2017; Joachim Meyerhoff (Marsilio) nel 2016; Morten Brask (Iperborea) nel 2015; Andrew Sean Greer (Rizzoli) nel 2014; Melania Mazzucco (Einaudi) nel 2013; Romana Petri (Longanesi) nel 2012; Colum McCann (Rizzoli) nel 2011. Nello “Scaffale” saranno anche presenti romanzi non selezionati ma che hanno comunque partecipato al Premio e alcuni volumi del precedente “Premio Grinzane Cavour”.
Per info: Fondazione Bottari Lattes, via Marconi 16, Monforte d’Alba (Cuneo); tel. 0173/7892412 o www.fondazionebottarilattes.it / Polo del ‘900 – Palazzo San Daniele, via del Carmine 14, Torino; tel. 011/0883200 o www.polodel900.it

g. m.

 

Nelle foto
– Un particolare dello “Scaffale”
– Caterina Bottari Lattes in occasione di una premiazione del “Lattes Grinzane”

Le “fragili catene” di Valter Morando

A cura di A.L.E.R.A.M.O. Onlus, presidente Maria Rita Mottola, presentata da Giuliana Romano Bussola, si inaugura, su invito, venerdì 4 ottobre nel museo civico di Moncalvo la mostra ”Fragili catene” di Valter Morando, considerato il maggior artista italiano vivente che tratta il tema del porto.

Testimone e partecipe della grande stagione albisolese degli anni 50-60 accanto a Fontana, Capogrossi, Jorn, Milena Milani, Morando, scultore, pittore, incisore, ha maturato uno stile personalissimo unendo la figurazione ad avanguardie astratte, informali e concettuali.

Abilissimo nel carpire i segreti dell’opus alchemico ceramico trova ispirazione nei rottami abbandonati nel porto di Savona cui dà dignità facendo sì che catene, ganci, bitte, lamiere diventino occasione d’arte.

Raffigurati in sculture identiche agli originali, non in meccanica riproduzione bensì come ripresa creatrice, gli umili oggetti assumono valenze simboliche, aspetti sacrali che li riscattano dal folclore locale nell’incanto di un clima atemporale metafisico.

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Orari mostra “Fragili catene” di Walter Morando aperta al pubblico dal 5 ottobre al 15 dicembre  2019.

Sabato – domenica 10,00 – 18,30

Altri giorni settimana su prenotazione cell 3277841338

Museo Civico Moncalvo Via Caccia 5

 

 

 

Generosissimo Ottobre quando è tempo di cambiare

LA FONTANA DEI MESI

Eccoci arrivati alla quarta uscita della rubrica sulla Fontana dei Mesi di Torino, anche questa volta cerchiamo di tenere un occhio allo splendido complesso statuario, anima della fontana, e allo stesso tempo di introdurre una corrente artistica -o meglio, in questo caso- due correnti artistiche, cercando di capire se effettivamente una scivola nell’altra oppure se siamo di fronte a due movimenti a sé stanti dal principio. Accettata la sfida sia detto che non saranno date risposte per l’una o l’altra opinione, solo alcuni dignitosissimi spunti di riflessione, insomma ognuno resti pure della sua idea sempre che voglia averne una.

Dunque le due correnti in questione sono “il bizantino” e “lo stile italiano del secolo XIV”. Mentre invece sarà una delle dodici statue femminile quella con ai piedi la scritta Ottobre ad incuriosire maggiormente la nostra attenzione. La Fontana dei mesi al parco del Valentino di Torino è un complesso artistico-architettonico che si sviluppa su di una pendenza probabilmente presente prima della costruzione artistica. Penso che il modo migliore per descriverla sia considerare una forma ovale appoggiata su un piano inclinato. A questo punto vediamo una bella ringhiera bianca che scende a parapetto dal punto più alto senza interruzioni fino a basso.

La fontana è particolarmente affascinante per quella che potremmo chiamare la sua intrinseca reversibilità. I complessi statuari maggiori al vertice sono rivolti all’interno del nostro ovale dove si trovano sia il lago artificiale che gli spruzzi d’acqua, mentre le dodici statue disposte lungo le braccia dell’ovale sono rivolte all’esterno e accompagnano il cammino del visitatore. Caso a parte due dei quattro complessi statuari al vertice: mostrano scene di forza con tensioni contrastanti, quindi questi due gruppi non si possono ragionevolmente considerare rivolti da un lato o dall’altro, piuttosto sono ascrivibili a spirali neoclassiche. Per il fatto che le dodici statue sono rivolte all’esterno, non sembra inopportuno   considerare che il camminamento in cemento intorno alla struttura sia parte in realtà integrante della fontana. Così come non riusciamo a trovare una correlazione logica che comprenda tutta le statue che compongono la Fontana nel parco, riusciamo a vedere una correlazione tra lo stile bizantino e quello primo rinascimentale solo nell’uso del dorato e poco altro. Nel XIV secolo vediamo l’inizio della pittura rinascimentale in Italia in due scuole: una degli studenti di Giotto detta anche “fiorentina” e l’altra “senese” di Ambrogio e Pietro Lorenzetti e specialmente di Simone Martini. Distinguiamo le opere in due scuole separate anche se geograficamente una non sia molto lontana dall’altra. I senesi realizzano preferibilmente su tavola e le loro immagini ricercano la spigolosità, inoltre richiamano una realtà idealizzata, i fiorentini invece tendono alla rappresentazione di uno spazio reale e realizzano preferibilmente con l’affresco. I fiorentini sono storicamente predominanti perché se i senesi sono per lo più legati al territorio della città dalla terra rossa, i fiorentini raggiungono tutto il centro Italia, Giotto stesso dipinge a Padova e a Assisi oltreché naturalmente nella città de’ Medici. A quell’epoca quando gli allievi di Giotto continuano i progetti architettonici del maestro a Firenze, lasciati sfortunatamente incompiuti, lo stile bizantino è al suo apice e insieme al tramonto. Nei secoli ha trovato terreno fertile specialmente nella Serenissima e in tutti i luoghi dove il popolo bizantino è atterrato il che in realtà è un bel pezzo di mondo. Da una parte potrebbe sembrare assolutamente incomprensibile che le due scuole, la fiorentina e la senese, non attingano dal bizantino, dall’altra sembrerebbe evidente che la loro origine sia autonoma rispetto a quello stile. Come consiglio di ricerca, un buon modo per farsi una idea più precisa sarebbe quello di andare a cercare ancora più indietro nel tempo, nelle opere di Cimabue, il maestro di Giotto, oppure chissà dove nelle immagini che hanno ispirato il Martini e i fratelli Lorenzetti, lì infatti potremmo trovare la correlazione che cerchiamo o una disconferma altrettanto attesa.

Nella prossima uscita accenneremo alle   allegorie delle quattro statue interne, ma per ora, con l’avvicinarsi del mese di ottobre, il mese in cui prendiamo in mano le redini per l’ultimo trimestre dell’anno in corso, inoltrandoci nell’autunno, io personalmente cerco di ricordare quanto sia interessante affiancare alla fontana le correnti artistiche pittoriche, tuttavia alla fine di questo articolo prende la voglia di fare una passeggiata fino alla nostra fontana al parco del Valentino di Torino e godersi lì da quelle parti almeno per un po’.

         Ellie  

L’isola del libro

La rubrica settimanale delle novità librarie

A cura di Laura Goria

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Madeleine St John “Le signore in nero” -Garzanti –   euro 16.00

Ha un affascinante sapore vintage questo romanzo della scrittrice australiana Madeleine St John, nata a Sydney nel 1941 e morta a Londra nel 2006 a 64 anni. La prima autrice del suo paese

ad essere stata candidata al Man Booker Prize. E’ proprio con “Le signore in nero” che esordì nel 1993, seguito da altre opere che in Italia saranno tradotte e pubblicate da Garzanti.

Anni 50, a Sydney, sullo sfondo del più grande e lussuoso magazzino Goode’s, corrono da una cliente all’altra 4 donne che più diverse non potrebbero essere. Non importa che siano tutte in qualche modo uniformate dall’elegante e sobria divisa nera: ognuna ha una storia da raccontare e da vivere, caratteri e aspirazioni diverse, modi differenti di affrontare la vita con il suo bagaglio di gioie e dolori, problemi e possibili risoluzioni. Le protagoniste si muovono tra manichini, abiti all’ultima moda, modelli esclusivi e unici, sfiancanti saldi, acquirenti capricciose.

La giovane Lesley (che all’insaputa della madre si fa chiamare Lisa) ha appena finito la scuola (vedrete con che risultati) e sogna di andare all’università con una borsa di studio. Ma a frenare il suo volo verso l’emancipazione c’è il padre, convinto che per una femmina non sia necessario un ulteriore grado di istruzione. Lisa è una commessa scrupolosa ed efficiente che viene presa sotto l’ala protettrice di Magda, la responsabile dei modelli esclusivi da Goode’s. Raffinata e mondana, sposata con il mite Stefan, ha l’ambizione di aprire un giorno non lontano una boutique di lusso tutta sua. Sarà lei a sorvegliare, incoraggiare e spronare le sue commesse, incitarle a inseguire e realizzare i loro sogni oltre le vetrine del negozio. Insegna loro come vestirsi, truccarsi e valorizzarsi. Tra le sue pupille c’è anche Fay Baines, bella ragazza 28enne che adora i cosmetici, sola al mondo e preda di uomini sbagliati e storie infelici. Sogna il matrimonio ma viene spesso fraintesa….finché Magda non metterà sulla sua strada l’ambizioso Rudi.

Patty sul lavoro si realizza, ma ha il buco nero del marito Frank che non la considera e scompare spezzandole il cuore…e non finirà lì…Ci saranno evoluzioni nelle vite di queste indimenticabili protagoniste alla ricerca della loro collocazione nel mondo.

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Ottessa Moshfegh “Il mio anno di riposo” -Feltrinelli- euro 17.00

Quante volte, in periodi difficili, invochiamo sonno e oblio per traghettarci oltre le difficoltà? La protagonista del romanzo della giovane scrittrice americana, Ottessa Moshfegh, mette in atto proprio questo piano. Nel 2000, in una New York non ancora shoccata dall’attacco alle torri gemelle, il 9 settembre, l’anonima narratrice di 26 anni, inizia ad andare in “ibernazione”. Dopo essersi laureata alla Columbia e aver lavorato in una prestigiosa galleria d’arte, chiude il mondo fuori dalla porta di casa, si isola da tutto e tutti e inizia ad assumere farmaci a dismisura per dormire. Può permetterselo grazie a un fondo istituito dai genitori prima di morire che le consente l’apatico lusso. Poi abbindola una scriteriata psicologa per farsi prescrivere una monumentale dose di farmaci che le garantiscano un “anno di riposo e oblio”. E’ il suo stratagemma per mettersi al riparo dai sentimenti e dalla realtà. Le angosce che sembrano attanagliarla risalgono ai ricordi dell’infanzia, alle spire del pessimo matrimonio dei genitori, che non sembra aver amato molto, ma le cui morti in qualche modo l’hanno segnata. Durante il suo letargo nel lussuoso appartamento si verificano episodi di sonnambulismo e nei rari momenti di veglia scopre di aver chattato, mangiato, fatto shopping online, mandato sms e telefonato per farsi mandare del cibo da asporto. Il romanzo è la cronistoria di questa sorta di dolore patologico, della paralisi dello spirito e dei buchi nell’anima della protagonista. A tratti verrebbe voglia di scuoterla e prenderla a schiaffi per la sua personalità narcisista e la sua autocommiserazione che la Moshfegh narra benissimo. Ma cosa succederà quando, dopo 1 anno, la giovane inizia a rompere l’incantesimo del lungo sonno?

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Charles Simmons “Acqua di mare” -BigSur-   euro 15,00

Questo romanzo pubblicato nel 1998 -subito apprezzato come un piccolo capolavoro-

è l’ultimo dello scrittore americano Charles Simmons (1924-2017), vincitore del William Faulkner Foundation Award con la sua opera prima.

Siamo a Bone Point, dove il 15enne Michael sta trascorrendo le vacanze nell’affascinante casa di famiglia affacciata sulla spiaggia davanti all’oceano Atlantico. Le prime righe del romanzo sono agghiaccianti: “Nell’estate del 1963 mi innamorai e mio padre annegò”. Così sapete subito che è il racconto di un apprendistato affettivo adolescenziale, ma anche di una tragedia. In mezzo ci sono i turbamenti del giovane protagonista che   irrompono nel tranquillo menage della famiglia upper class. Il tempo trascorre tra pesca e lunghe nuotate, come racconta Charles: “Eravamo ottimi nuotatori entrambi. Papà nuotava a stile libero, di solito. Io preferivo il dorso, che sebbene più lento era meno stancante e mi concedeva il piacere di guardare il cielo mentre nuotavo. C’è qualcosa di meglio dello starsene col corpo in acqua e la mente in cielo?”

A smuovere le acque è la decisione dei genitori di affittare la dependance alla fascinosa e languida signora Mertz e a sua figlia Zina, appassionata fotografa 21enne. Lei e la madre sono bellissime e disinibite. Per Charles è un coup de foudre, fin dalla prima nuotata con la fanciulla.

Ma anche Peter, il padre di Charles, sembra stregato…cosa che non sfugge alla moglie; così come   l’innamoramento di Michael scatena la gelosia dell’amica Melissa, da sempre cotta di lui. Tra sabbia, flutti e cieli estivi si consuma questo nuovo menage che ferisce sentimenti e rompe equilibri preesistenti. Una storia intrigante che Simmons racconta affondando la penna negli stati d’animo dei protagonisti…fino al tragico epilogo.

Viaggio nei giardini d’Europa. Da Le Notre a Henry James

In mostra alla Reggia di Venaria, la straordinaria “avventura” dei giardini d’Europa dal Cinquecento all’Ottocento. Fino al 20 ottobre

Dalle perfette geometrie di quelli italiani alle fughe “all’infinito” di quelli francesi fino al “pittoresco” delle composizioni inglesi: autentiche mirabilia, paradisi terrestri dove occhi e anima smarriscono non di rado il senso e la concretezza della realtà terrena, ai più celebri giardini e parchi d’Europa realizzati fra   il Cinquecento e gli inizi del Novecento, la Reggia di Venaria dedica, nella Sala delle Arti, una suggestiva e originale rassegna condotta, per la prima volta, attraverso il fil rouge delle osservazioni, dei racconti e del materiale artistico prodotto da prestigiosi “viaggiatori” dell’epoca, assidui frequentatori delle rotte europee percorse in lungo e in largo visitando paesaggi, città e giardini da cui trarre ispirazioni, le più varie. Siano essi architetti, paesaggisti, principi, scrittori, intellettuali o uomini di cultura in genere, i loro appunti, i loro diari, le loro opere letterarie o pittoriche ci consentono non solo di ricostruirne gli itinerari e le impressioni raccolte, ma anche di viaggiare idealmente attraverso luoghi di grande bellezza, testimoni della storia e della cultura di un continente.

Ed è proprio lungo queste trame, segnate dal tema del “viaggio”, che si dipana la mostra, ripartita in dodici sezioni, che vedono assemblate circa 200 opere fra dipinti, disegni, arazzi, volumi, modelli e altri svariati manufatti. Curata da Vincenzo Cazzato (docente di “Storia dell’Architettura” presso l’Università del Salento), Paolo Cornaglia (suo collega al Politecnico di Torino), Maurizio Reggi (cui si deve l’allestimento) e Paolo Pejrone (oggi fra i più noti architetti del paesaggio a livello internazionale), l’esposizione prende avvio con le testimonianze del viaggio compiuto dal filosofo, scrittore e politico francese Michel de Montaigne che, nel suo “Journal du Voyage en Italie” (1580-1581), ci accompagna nei più famosi giardini italiani del Cinquecento, felicemente impressionato non solo dai perfetti terrazzamenti e dalle “rigorose architetture” vegetali, ma soprattutto dalla presenza di artifici quali grotte, automi, musiche e giochi d’acqua, mentre nel secolo successivo il viaggio di André Le Notre ( giardiniere e amico del Re Sole nonché creatore del “giardino alla francese”, artefice dell’ideazione dei Giardini di Versailles e, su incarico di Emanuele Filiberto di Savoia, del rifacimento del parco del Castello di Racconigi), permette di documentare la diffusione in Europa di “un nuovo modo di concepire complessi su grande scala, apprezzati da grandi e piccoli Re Sole”. Ma nel Settecento è soprattutto il “giardino all’inglese”, pittoresco e dalla natura più libera e selvaggia, a costituire un forte richiamo per architetti e giardinieri di fama internazionale come lo svedese Fredrik Magnus Piper e l’italiano Francesco Bettini o il parigino Louis de Carmontelle, che su un appezzamento di terreno nel villaggio di Monceau, acquisito dal Duca di Chartres nel 1769, organizza un “giardino di piacere” in stile anglo-cinese, in seguito definito la “Follia di Chartres”. Luoghi d’arte, perfetta o bislacca o visionaria o di opulenta magnificenza, raccontati nei viaggi di fine Settecento da artisti come Jan van Nickelen o George Lambert o dal veneziano Bernardo Bellotto ( imponente “vedutista” come il più famoso zio Antonio Canal – Il Canaletto), così come dagli aristocratici Conti del Nord (eredi al trono di Russia) o dal Principe di Ligne o, nella tappa obbligata del “Grand Tour” su e giù per l’Italia, da pittori come il francese Hubert Robert o Jean-Honoré Fragonard, fra i massimi esponenti del rococò. Pagine di grande portata storica, oltreché artistica, come quelle letterarie rappresentate dalle “Lettres historiques et critiques sur l’Italie” scritte, fra   il 1739 e il 1740, da Charles de Brosses o da due grandissimi scrittori appassionati d’Italia, come Stendhal e Goethe che, da nord a sud della penisola si spingono il primo fino a Napoli, il secondo fino in Sicilia. E la storia continua. Fra Otto e Novecento, con due viaggiatori americani d’eccezione, Henry James e Edith Wharton, l’Italia si conferma ancora terra di giardini, fonte esemplare di ispirazione per quelli d’Oltreoceano.

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A corollario della mostra, nel Parco Basso della Reggia si potrà anche ammirare la nuova installazione di Giuseppe Penone realizzata a completamento del suo “Giardino delle Sculture Fluide”: sette sculture in marmo dal titolo “Anafora” collocate quali tomi di libri nelle sette grotte del grande Muro Castellamontiano. Inoltre i Giardini della Venaria presentano anche la rassegna “Viaggio fotografico nei Giardini delle Residenze Reali d’Europa”: 120 scatti con scorci da brividi, a partire dalla Reggia di Caserta al Cremlino a Versailles fino agli Historic Royal Palaces inglesi.

Gianni   Milani

 

“Viaggio nei giardini d’Europa. Da Le Notre a Henry James”

Reggia di Venaria – Sala delle Arti, piazza della Repubblica 4, Venaria Reale (TO); tel. 011/4992333 o www.lavenaria.it

Fino al 20 ottobre

Orari: dal mart. al ven. 10/18, sab. dom. e festivi 10/19,30, lun. chiuso

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Nelle foto

– Jan van Nickelen: “Veduta del giardino di sotto del Karlsberg”, olio su tela, 1716-’21
– George Lambert: “Veduta della villa e del giardino di Chiswick”, olio su tela, 1742
– Bernardo Bellotto: “Veduta dei giardini a Wilanow Palace”, olio su tela, 1777
– Hubert Robert: “Il grande getto d’acqua della villa Conti (Torlonia) a Frascati”, olio su tela, 1761

 

In ricordo di Mafalda di Savoia

Lunedì 23 settembre alle ore 18 a Palazzo Cisterna (via Maria Vittoria, 12), il Centro “Pannunzio” e l’Associazione Internazionale “Regina Elena” organizzano un ricordo della Principessa Mafalda di Savoia, figlia del re Vittorio Emanuele III e della regina Elena, morta in prigionia nel campo di sterminio nazista di Buchenwald. Parteciperanno Pier Franco Quaglieni, Nino Boeti, Bruna Bertolo e Maura Aimar. Letture di Anna Abate. Verrà inoltre inaugurata nell’atrio di Palazzo Cisterna una Mostra su Mafalda di Savoia.

“Paolo Icaro. Antologia / Anthology 1964 – 2019”

In mostra alla GAM di Torino, il lungo viaggio fra spazio – forme – vita dello scultore torinese. Fino al primo dicembre


Un’antologica, nella sua (non sempre verso di lui attenta) Torino, come dovuto omaggio a una delle più importanti figure dell’arte italiana d’avanguardia degli ultimi decenni. Mostra esaustiva e intelligentemente e volutamente didattica, pur nell’obbligatorietà della selezione dei pezzi esposti; specchio importante della lunga esperienza operativa dell’artista, in cui sempre s’ha da fare i conti con la “diagonale del pazzo”, sempre lì che t’aspetta a sconvolgere l’ordine spaziale e mentale delle cose, delle forme, delle idee e dell’ambiente che il tutto contiene. Ad affermarlo, nella conferenza stampa di presentazione, è Bernard Blistène, direttore del parigino Centre Georges Pompidou, che continua sul tema: “Entrare nello spazio di Icaro è come giocare a scacchi”, dove sempre hai da aspettarti quella “trappola d’apertura” o “diagonale del pazzo” che inevitabilmente porta allo scacco matto più veloce impensabile e inatteso. E sì, perché nelle esili, essenziali, minimaliste sculture di Paolo Icaro Chissotti c’è sempre lo zampino della ricerca , dell’imprevista e immediata e assillante e del tutto singolare sperimentazione, in cui si mescolano senza mai profondamente attecchire i dogmi dell’Arte Povera o Concettuale o delle Avanguardie americane, ma che in sé accarezza anche i sogni e i gesti di memorie antiche (che partono dai segni michelangioleschi della “Pietà Rondanini”, bene in vista in un’amatissima riproduzione fotografica mai spostata dal suo tavolo di lavoro), insieme alla “spudorata eccezione del gioco” (Icaro dixit). Gioco come scarto bizzarro del fare che ti spariglia le carte, ma anche condizione di vita – e non semplice momento di dispersione superficiale – ad un tempo seria (con la vittoria) e drammatica (con la sconfitta). Gioco come vita. Come inizio e fine. Come nascita e morte. Come continuo divenire. Come distruzione e ricostruzione fra macerie dell’anima e macerie fisiche, simili a quelle delle case bombardate in tempo di guerra e che “da bambino- ricorda l’artista che nel ’43 abitava a Torino in piazza della Consolata – sono state la mia prima grande scuola di fantasia”. E questo è e vuole essere il pesante bagaglio, le grandi ingombranti valigie che Paolo Icaro si porta dietro in quel suo ormai lungo viaggio esistenziale rappresentato simbolicamente, in mostra, dal “Viaggio senza data”, scultura lineare site specific realizzata nel 2019 appositamente per la rassegna alla GAM, con filo di alluminio e un complesso ghirigori di curve, ripresa in video per essere proiettata sul fondale della stanza (in tutto sono nove a percorso circolare-cronologico) raddoppiandola. L’installazione si pone al termine di un percorso che, nel Museo di via Magenta, assembla una cinquantina di opere, raccontando 55 anni (dal 1964 al 2019) del lavoro dell’artista, nato a Torino nel ’36, allievo agli esordi di Umberto Mastroianni (fu lui ad affibbiargli il nome Icaro) e poi transfuga (volontario,vigile e curioso) a Roma, a Genova – dove partecipa alla mostra, basilare nell’Italia del ’67, “Arte Povera Im-Spazio” alla “Bertesca” – e altrove in patria e due volte negli States, a New York prima e poi, dal ’71 e per una decina d’anni, nel Connecticut. Oggi Icaro vive e lavora a Tavullia, nelle Marche.

 

“L’esposizione – scrive Elena Volpato, curatrice dell’antologica – propone una rilettura dell’opera di Icaro che intende mostrare la continuità e l’evoluzione del pensiero poetico dell’artista attraverso i decenni, la sua cifra più propria, la costante riflessione dell’artista che incessantemente rilegge lo spazio e la scultura alla luce di un principio trascendente per il quale la vita delle forme coincide con il senso del divenire”. Dal gesso, all’acciaio, al legno o al cemento, molteplici sono i materiali da lui impiegati e che in mostra vengono esaltati da opere come il “Nido di Torino”, anch’essa realizzata in occasione della mostra (dove lo spruzzo di rosa sulla grande parete bianca è segno di rinascita a dispetto dell’inospitale “boccone di gesso” privo dell’accogliente cavità propria del luogo-dimora) o la “Cornice” in gesso e pigmento, così come i “Lunatici” (secchi di acciaio zincato) o quell’improbabile “Cuborto” in acciaio del ’68, che a Blistène suggerisce addirittura un “rapporto d’instabilità quasi sismica”. Non nuovo alla GAM, lo scultore già cinquant’anni fa, nel 1967, entrò per la prima volta nelle sue Collezioni, con l’opera “Bicilindrica”, un cemento del ’65, acquisita con il nucleo di opere del Museo Sperimentale di Eugenio Battisti cui, nel Duemila, si sono aggiunte altre sei opere realizzate nella stagione dei primi anni Ottanta, grazie al sostegno della Città di Torino e della Fondazione per l’Arte Moderna e Contemporanea CRT.

Gianni Milani


“Paolo Icaro. Antologia /Anthology 1964 – 2019”
GAM – Galleria Civica d’Arte Moderna e Contemporanea, via Magenta 31, Torino; tel. 011/4429518 o www.gamtorino.it
Fino al primo dicembre
Orari: da mart. a dom. 10/18; lun. chiuso

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Photo: Michele Alberto Sereni

– “Viaggio senza data”, proiezione video, tondino di alluminio, 2019
– “Nido di Torino”, gesso – pigmento – vetro, 2019
– “Cornice”, gesso e pigmento, 1982
– “Cuborto”, acciaio ossidato e corda, 1968
– Particolare dell’esposizione