Un giovedì speciale a Moncalieri, interamente dedicato al sommo poeta a 700 anni dalla morte:
il 25 marzo l’appuntamento per tutti, dalle 9 in avanti, è sulla pagina facebook della biblioteca civica Arduino con una giornata intera di post, bibliografie animate di libri, audio di lettura di brani della Divina Commedia. In progamma anche, alle 16, un momento speciale che avrà come protagonista il quadro di Enrico Mazzone dedicato al V canto dell’Inferno e alla vicenda di Paolo e Francesca, appena donato alla biblioteca.
Infine domenica 28 marzo, alle 16, i versi di Dante saranno la chiave per intrattenere, sempre on line, i più piccoli, con il laboratorio per famiglie dedicato a costruire la barchetta di Caronte.
“E questo è solo l’inizio – dichiara soddisfatta l’assessore alla Cultura Laura Pompeo – In questo anno dantesco saremo spesso in prima linea con le nostre proposte di contenuti dedicati al più grande dei poeti. Alcuni di essi ruoteranno intorno al quadro del bravissimo Mazzone, che ci è stato donato recentemente e che cionoriamo di poter esporre in Sala Ragazzi”.
L’autrice, nata a Gavi nel 1949 e laureatasi in lettere al Magistero di Genova nel 1971 con una tesi sull’attività del cartografo Matteo Vinzoni, ha preferito dedicarsi tutta la vita all’insegnamento piuttosto che al lavoro di ricerca negli archivi. Ha sempre scritto testi autobiografici e fiabe, inventandosi anche lo pseudonimo di Titolina (e Il segreto di Titolina, fiaba a otto mani scritta con i figli Nicola e Francesca e il marito Bruno, è l’appendice del volume). Il luogo dell’anima di Clara Cipollina si trova a Gavi, nel cuore della valle del Lemme “dove la campagna è ancora capace del silenzio dominato dai filari e da quell’impercettibile presenza del mare che il vento porta con sé e le colline accolgono con tutti i suoi benefici influssi”. E’ in quello spazio di tempo e memoria che si snoda il suo lungo dialogo con il padre che rappresenta l’ossatura del racconto. I ricordi, i valori di una civiltà contadina fatta di poche e povere cose materiali e di insegnamenti profondi che restano per sempre, che in tempo non può usurare. I ricordi della sua infanzia vengono rievocati tra la cascina del Merlo, dove è nata, e l’altra cascina, la Zerba di Alice, una delle frazioni di Gavi. E’ in quel contesto che si snodano e riannodano i ricordi, le immagini di un mondo semplice e povero nella sua materialità ed al tempo stesso ricco di valori e insegnamenti. Ricordi che dall’infanzia agli anni della maturità di donna sembrano “accompagnati dai movimenti lenti delle mani del padre di Clara. Lenti e profondi come quelli di chi ha imparato a rispettare quella terra , dura e gonfia di fatica, che gli ha dato da vivere”. “La mani e la terra non è una saga familiare”, ha scritto nella sua introduzione Nadia Gallarotti, l’amica più cara di Clara, prematuramente scomparsa. “Non è solo un pezzo di quel mondo dei vinti che si racconta attraverso le vicissitudini di chi scelse di compiere tremendi sacrifici per far studiare la figlia brava, per riscattare attraverso di lei tutta una vita di lavoro tanto dignitoso quanto amaro. E’ il ritratto, la foto virata in seppia di una storia come tante e proprio per questo speciale, preziosa. E’ la storia di Clara, dei valori che ha avuto in eredità e che hanno orientato – come una bussola – la sua vita. Una storia troppo preziosa perché – una volta scritta, quasi graffiata con l’inchiostro sui fogli – finisse dimenticata in un cassetto”. Per fortuna quella storia non è finita in un cassetto, trasformandosi in un libro che trasmette sensazioni importanti. Clara Cipollina ha raccontato i pomeriggi passati a Gavi, nella casa dei sui genitori, negli anni che vanno dal 1997 al 2004. Vi arrivava nel fine settimana da Novara, dove vive tutt’ora, e registrava i racconti di suo padre: i conflitti, la vita nei campi, l’incontro con la madre di Clara, i ricordi della giovinezza. Così è andata “a ritroso nel tempo”, riportando alla luce narrazioni di fatti accaduti a cavallo tra le due guerre. Dopo la morte del padre quei ricordi sono riaffiorati e, riordinando il suo passato, Clara Cipollina ha ritrovato le persone che più mi hanno amata e ha ridato voce a Mario, suo padre. Tra le pagine ci sono i paesaggi dei vigneti di Gavi, il “terrazzino sul Lemme” tra quelle colline dove, come canta Ivano Fossati in una sua celebre canzone, “si sente il mare”. Ma anche i luoghi come Omegna, sul lago d’Orta, dove è stata giovane insegnante, sposa e madre; e Novara, terra di nebbie e risaie, dove risiede con la sua famiglia. La lettura di Le mani e la terra riporta alla mente le parole di Ermanno Olmi quando sosteneva caparbiamente che “la civiltà contadina è l’unica civiltà che ho conosciuto” .Era un mondo in cui fra marito e moglie ci si dava del voi; un mondo dove i valori erano imposti da una vita dura, faticosa. Dove il riscatto sociale era il desiderio di molti padri per i figli. Una dimensione dove i ritmi erano dettati dalle stagioni, dalle lune e dalla terra. Una civiltà in gran parte scomparsa, divorata dai tempi dove si vive sottomessi allo scandire dell’orologio, dove si è convinti di possedere il proprio tempo quando in realtà è il tempo che possiede noi. Il libro di Clara Cipollina si apprezza come una boccata d’aria fresca e pulita. E’ come il vento a primavera che porta con se i primi profumi del risveglio della natura dopo l’inverno. E in tempi come quelli in cui viviamo c’è bisogno di quest’aria.
Caratteristica considerata – insieme alle altre – un’aggravante in più e, all’epoca, non da poco per famiglie e società. Da nascondere ben bene e senza pietà fra le agghiaccianti mura di un manicomio. Sono loro le protagoniste, quasi mai nominate fatte salve alcune debite eccezioni, del nuovo libro-ricerca “Donne e follia in Piemonte” (232 pagine, pubblicata da “Susalibri Editore”) di Bruna Bertolo, già autrice di numerosi saggi di argomento storico, tra cui “Maestre d’Italia” e “Donne nella Resistenza in Piemonte”. Alla stesura del libro (ricco di documenti originali, con fotografie di Renzo Miglio e Sergio Sut, un capitolo finale scritto dallo psichiatra Pier Maria Furlan e una premessa di Alberto Sinigaglia, presidente dell’Ordine dei Giornalisti del Piemonte), la scrittrice rivolese è arrivata seguendo un meticoloso “lavoro di ricerca – è lei a raccontarlo – attraverso le cartelle cliniche, per circa un secolo di storia”. Dalla seconda metà dell’800 fino agli anni che precedono l’entrata in vigore della “Legge Basaglia”, Legge 180 del 1978, che restituì dignità alla malattia mentale, non più considerando il paziente come “oggetto” da aggiustare, ma come “persona” da accogliere, ascoltare, comprendere ed aiutare. Altra cosa dalle storie vissute nei manicomi-prigione di cui racconta la Bertolo.“Sorie dimenticate, ignorate. Donne scomode internate in manicomio. Un’umanità femminile dolente…Tante storie. Uscivo dall’Archivio dell’ex manicomio di Collegno veramente spossata”. Addosso e dentro, l’amaro groviglio di emozioni, rabbie, compassione per vite tormentate, crudelmente torturate, vite nascoste alla vita. Raramente la Bertolo riporta i nomi. Tranne poche eccezioni. Come per Lucia Saltarin, ricoverata per molti anni al manicomio di Collegno e che “scriveva belle poesie ed era bravissima nel dipingere, ma affetta da deliri di tipo mistico”. Di lei “faccio il nome – precisa la scrittrice – perché lo stesso Guido Ceronetti, nella sua rubrica di prima pagina su ‘La Stampa’, aveva pubblicato la sua poesia ‘Madonna d’Egitto’”. Accanto alla Saltarin, si citano anche Anna Sworova la “smemorata di via Giulio”, Fiorella la “ribelle” di Racconigi, le alienate e le “pellagrose”, le “corrigende” e le “maddalene” del Buon Pastore fino a Ida (Aida) Peruzzi Salgari, moglie del celebre scrittore veronese che da lei ebbe quattro figli in vent’anni di matrimonio. Fino a quando l’estenuante condivisione dei quotidiani problemi legati alla frenetica estenuante attività del celebre marito, portarono la donna – in gioventù promettente attrice nei teatri veronesi – ad una tale difficoltà di vivere da necessitare di un ricovero in manicomio a Torino, dove i Salgari si erano trasferiti nel 1900. Fu “reclusa” nel reparto dei “relitti sociali”. Era mercoledì 19 aprile 1911. Pochi giorni dopo, il 25 aprile, il marito scrittore si tolse la vita nal parco di Villa Rey, sulla collina poco sopra corso Casale, dove al civico 205 una targa commemorativa ricorda ancora oggi la permanenza dei Salgari nel capoluogo piemontese. Lei lo amò fino alla pazzia e lui fino alla morte, scrisse Giovanni Arpino. Storie, quella di Ida Peruzzi e di tante altre sventurate, che scivolano con amara tristezza nelle pagine della Bertolo che ricorda ancora: “L’Archivio di quello che fu una delle realtà manicomiali più importanti del Piemonte, Collegno, permette di raccogliere frammenti di vita, di dolore, di alienazione, spesso di morte, che rappresentano uno squarcio di umanità dolente”. Perché davvero “il manicomio è una grande cassa/ di risonanza/ e il delirio diventa eco/ l’anonimità misura, il manicomio è il Monte Sinai/ maledetto, su cui tu ricevi/ le tavole di una legge/ agli uomini sconosciuta”. Versi della grande Alda Merini. Un’esperienza decennale in tre diversi manicomi. Una grande donna che, attraverso l’arte e la scrittura, ha saputo trasformare nel tempo la tragedia di veri e propri lager manicomiali in sublime poesia.
Tre parole e il disegno di un triangolo simbolico al cui interno un grande occhio scruta e avverte minaccioso i passanti. Tre parole che danno anche il titolo all’ultimo libro (224 pagine, pubblicate da “Neos edizioni”) del torinese Riccardo Marchina, giornalista e scrittore, che già per “Neos” aveva scritto nel 2011 “L’agenzia dei segreti precari” e nel 2018 “Lo squalo delle rotaie”. E proprio quelle parole affiorano alla mente di Pietro, il protagonista del romanzo, allorché pensa o si trova davanti all’imbarazzante bellezza di Mascia che “aveva grandi cosce, appiccicate a un corpo magro” e sulla schiena “aveva tatuato un sole stilizzato, all’interno del quale c’era un triangolo” e ancora “al suo interno c’era un occhio. Era una sorta di ‘Zeus ti vede’”. Siamo a Torino all’interno del vecchio Borgo Campidoglio, quartiere operaio sorto a fine ‘800, caratteristica isola di case basse (oggi museo a cielo aperto d’arte urbana – il MAU – per le circa 200 opere pittoriche di street – art dipinte sui muri esterni), di botteghe che sono memoria fascinosa di antichi mestieri artigianali, enoteche e caratteristiche piole dai prodotti tipici e dai semplici ma robusti e sinceri vini locali: “periferia ovest della città, dove corso Regina Margherita si perdeva nel parco della Pellerina, prima di diventare una cosa unica con la tangenziale”. E proprio qui si snoda gran parte della storia di Pietro. Quattro figli avuti da due (ex) compagne diverse, quindi due famiglie da mantenere, l’uomo lavora in un’impresa di torrefazione di Torino, fino a quando una multinazionale olandese acquisisce l’azienda e la sua vita comincia a rotolare all’ingiù. Licenziato e addirittura sospettato dell’omicidio della responsabile del personale, con la quale aveva una relazione, Pietro è condannato a giornate scandite da frustranti colloqui di lavoro e convocazioni in commissariato. Sullo sfondo la Torino ch’era un tempo città dell’auto, del caffè, della cioccolata, della birra, della penna a sfera, dell’informatica… e ora é “città sempre più fluida, inafferrabile e infida”. A sostenerlo nei vorticosi tentativi di riprendere in mano la propria vita, c’è però Mascia, giovane e provocante cameriera di una scalcinata ma accogliente trattoria di Borgo Campidoglio. “Giallo” urbano, si diceva. Ma non solo. Con questo romanzo, infatti, Riccardo Marchina intende superare la quotidiana, intricata e avvincente realtà degli eventi, sfruttati a base solida da cui partire per proporci una “riflessione sul mondo del lavoro fatto di acquisizioni aziendali e società di outplacement, di globalizzazione spinta e difesa del made in Italy, di esuberi e bandiere sindacali affisse ai cancelli delle fabbrichette, di responsabili del personale imbevuti di tecniche e filosofie aziendali e start-up come rimedio estremo all’impossibilità di ricollocarsi”. In tal senso, le parole dello scrittore (che per “Neos” cura anche la serie antologica “Spirito d’estate”) ci portano dentro, e fino al fondo di una realtà contemporanea assurda, frenetica e imprendibile, dalla quale non resta che fuggire. “Verso un posto dove Zeus non possa più vederci”.