Sino a domenica 20, “David Copperfield”, nella sala di corso Brescia
Berrettino scuro in testa, maglietta azzurra e tuta blu, sulla pettorina ci sta scritto “Marcido at work”. Sette attori per un lavoro di preparazione lungo tre mesi, forse ancora in divenire, instancabile, duro, faticoso, a riempire il minuscolo palcoscenico e la sala da 50 posti di questa loro scatola teatrale che è il Marcidofilm! di corso Brescia. Il work per questa occasione ha il lungo titolo di “David Copperfield sketch comedy, un carosello dickensiano” (repliche sino a domenica 20, già gli esauriti, una immancabile lista d’attesa, una bella immagine di festa del teatro), all’origine un romanzo di crescita molto “larmoyant”, da tutti conosciuto e frequentato, dell’Inghilterra del XIX secolo, di lavoro e di trame più o meno nell’ombra, di sentimenti grandiosi e di soprusi, di affetti e di intrighi, di lotta eterna tra Bene e Male, una “giostra sentimentale” che ha tutti gli ingredienti per poter anche essere tolta dal proprio perno. Un romanzo, “anzi un romanzone”, che sta nella memoria delle pagine scritte e nello sceneggiato di Anton Giulio Majano, metà dei Sessanta, coppia giovanil/cresciuta divisa tra Chevalier e Giannini. Ovvero la domenica sera si preparavano i fazzoletti. Oggi, a distanza di sessant’anni più o meno, va messo nelle mani giuste a rivoltare il guanto di velluto come più si conviene. Oggi, quell’affondo di grottesco sembra essere quasi d’obbligo.

Un titolo che ribolliva nella mente di vulcano dell’Isi – al secolo Marco Isidori, colonna e anima instancabile della compagnia. Poi si sa, il lockdown, la pandemia con i suoi rimandi, l’impegno non indifferente, si è arrivati ad oggi, per una “riscrittura e adattamento drammaturgico”. Dell’Isi, appunto. Che con aria di sberleffo ti squinterna le pagine, che prende a smontare e rimontare con tutto il divertimento e l’ironia che gli sono possibili, e da gran tempo riconosciuti, la vicenda cardine e le tante sottovicende, dando nello stesso tempo gran spessore – e compiutezza – a quelli che vengono qui definiti sketch e che darebbero l’idea di uno svolgimento e di una vita fine a se stessi, ma che al contrario, come in una interminabile catena, si susseguono e si vitalizzano l’uno con l’altro, in maniera dinamica, schietta, vorticosa, sempre tremendamente graffiante sulla famiglia, sulla società, sull’epoca. Della parte sonora della compagnia ormai si conoscono tutti i pregi, le voci degli attori si alzano, si curvano, si flettono, si frammentano, s’allungano sempre con grande padronanza, in un concerto ben orchestrato. Quel che più colpisce nel corso della serata è il meccanismo dell’intero spettacolo, il suo perfetto amalgamarsi tra racconto e messa in scena, è lo stretto avvicendarsi di episodio su episodio, costruendo una comicità che senza freni e senza fatica prende il posto della drammaticità che conoscevamo. Tutti e sette gli attori danno vita a un carosello vivace e multiforme, entrando e uscendo non soltanto dalle situazioni ma da un personaggio per entrare in un altro – tutto incalza, tutto preme, tutto reclama esistenza e spazio -, con quei salti mortali che raramente si vedono in palcoscenico, in tempi tanto stretti da togliere il respiro.

Paolo Oricco è il protagonista ma è pure capace un istante dopo a calarsi nelle untuosità e nelle ipocrisie di Uriah Heep, grifagno, mellifluo quanto “scarafaggio immondo”, ma pure in tanto altro, Maria Luisa Abate è zie è governanti è madre di Heep con tanto di birignao che non guasta, Isidori amabilmente tromboneggia come mister Spenlow e come il perenne indebitato che è Micawber, i più giovani Valentina Battistone, Ottavia Della Porta, Alessio Arbustini e Vincenzo Quarta si dividono gli altri molti personaggi della storia. Nota non certo ultima dell’immancabile successo del lavoro comune dei Marcido Marcidoris è la scenografia per molti versi “circense” e le sagome inventate da Daniela Dal Cin, novantadue per l’esattezza, prove tratti schizzi colori facce espressioni particolari abiti a rendere appieno l’affresco creato da Dickens, visi e quant’altro posti su supporti verticali ai lati dello spazio scenico, afferrati di volta in volta secondo schemi ben precisi, in un unico vorticare, fatti entrare all’interno quasi come creature vive che reclamano tutta la loro giusta importanza. Sino al finale, dove c’è l’ultimo “divertissement” di far esplodere Aznavour con il suo “Istrione”.
Elio Rabbione
Nelle immagini dello spettacolo, Paolo Oricco; Valentina Battistone e Paolo Oricco; Valentina Battistone, Alessio Arbustini e Paolo Oricco

Il momento conclusivo del grande percorso di lettura di “Sostiene Pereira”sarà sabato 20 maggio 2023, alla “XXXV Edizione del Salone del Libro”, con un appuntamento corale aperto a tutte le ragazze e i ragazzi coinvolti nel progetto, in cui saranno chiamati a parlare ospiti da sempre legati alle opere di Antonio Tabucchi.
È qualche anno che abito fuori Torino e l’andare in centro non rientra più tra quelle che posso definire “abitudini”. Il lato positivo è che, quando ci vado, apprezzo maggiormente lo spettacolo che la città mi offre: la folla che si muove disordinata, qualcuno, più frettoloso degli altri, che attraversa correndo la strada anche se c’è il semaforo rosso, i tram che partono scampanellando sui binari, il sali-scendi delle persone dai pullman, qualche cestino troppo pieno e i portici che rimbombano del brusio dei passanti. Piazza Castello è una delle piazze principali dell’antica Augusta Taurinorum, è di forma quadrata e su di essa si affacciano Palazzo Madama e Palazzo Reale, mentre il profilato perimetro è delineato da portici eleganti ed importanti edifici, quali l’Armeria Reale, il Teatro Regio, il Palazzo della Regione Piemonte, la Galleria Subalpina, la Torre Littoria e la piccola Chiesa di San Lorenzo, che si erge all’angolo con via Palazzo di Città, mentre l’affollata via Garibaldi sfocia nella stessa piazza come un fiume nel mare. Poco più oltre s’innesta la Piazzetta Reale, costeggiata da Palazzo Chiablese, dove si trova l’ingresso per i Musei Reali e si accede al passaggio pedonale che porta a Piazzetta San Giovanni. Quando inizia a fare bel tempo si accendono le fontane, ricordo che quando finiva la scuola, noi studenti del Liceo Classico “Gioberti”, come molti altri ragazzi degli istituti vicini, andavamo a buttarci sotto l’acqua fredda per festeggiare l’arrivo dell’estate.
Forse non si sa, o quantomeno non si dice abbastanza, ma nel capoluogo piemontese, proprio nella Galleria Sabauda, sono conservati grandi nomi della storia dell’arte, quali Botticelli, di cui è visibile la così detta “Venere Gualino”, dal nome del suo acquirente, Riccardo Gualino, che la comprò nel 1920 per poi cederla dieci anni dopo alla Galleria. Davanti al quadro è impossibile non pensare alla ben più nota Venere degli Uffizi. L’opera venne probabilmente realizzata nel momento di massima attività della bottega del maestro fiorentino. La fanciulla si presenta nuda al visitatore, leggera e pallida, alle sue spalle una nicchia dal fondo scuro; poggia i piedi su un gradino di marmo chiaro, che le vicende conservative del dipinto hanno reso leggermente sghembo. Cerca, con pudore, di coprirsi con le mani e con i lunghi capelli biondi ramati. Oggi si tende a vedere nella “Venere Gualino” un’opera indipendente, anche tenendo conto di una menzione di Giorgio Vasari, che ricorda come in varie case fiorentine si trovassero raffigurazioni simili, prodotte nella bottega di Botticelli: una scultura della tipologia della “Venus Pudica” dovette essere il modello in comune tra queste opere e la tela degli Uffizi. Altri nomi in cui ci si imbatte con timoroso rispetto sono Filippino Lippi, Andrea Mantegna, Beato Angelico, Veronese, Tiepolo, Orazio Gentileschi, Vanvitelli, Canaletto e altri, autori che ha più senso vi inviti ad andare a visionare piuttosto che elencarli freddamente.





