All’Astra, sino a domenica 22 gennaio, Dostoevskij e Orsini
Credo sia lo spettacolo più emozionante della stagione, significando emozione quel raccoglitore che accoglie la bellezza di un testo e la grandezza di un attore, i grandi temi del sentire umano come il pensiero e la sua libertà e il magma della coscienza, la a tratti geniale ri-costruzione – ancora una volta – della complessità di un personaggio tra i più intriganti e controversi della letteratura, il piacere dell’ascolto laddove il recitato e la voce, accompagnati dalla proprietà della scrittura e da un linguaggio davvero “penetrante”, vengono scanditi in ogni momento della serata, laddove ogni sillaba se ne sta splendidamente al posto suo e non incespica, l’una sull’altra, come troppo spesso accade sui palcoscenici di oggi, con gli effetti dell’oscuro o del nebbioso, le pause che si perdono nei ricordi (anche quelle non previste, causate da uno stupido cellulare a distruggere una intera sospesa atmosfera, sono un’opera d’arte), il culto della perfetta rifinitura senza sbavatura alcuna.

Per la terza volta, nella sua carriera di poliedrico attore, affronta l’Ivan Karamazov dostoevskijano, lontano ormai quello di una televisione in bianco e nero nello sceneggiato di Sandro Bolchi (era il 1969), di circa dieci anni fa al centro della “Leggenda del grande inquisitore”, quasi un alter ego lungo il percorso di una vita completa, un confronto incessante. In “Le memorie di Ivan Karamazov”, nella drammaturgia di Orsini e Luca Micheletti, per la regia di quest’ultimo (all’Astra, nella stagione del TPE, sino a domenica prossima), si affronta la maturità, si processa ancora una volta un personaggio che, al di là di un processo e di una spinta al parricidio, lui istigatore consapevole, l’autore privò di un finale. Ivan, personaggio non-finito, deve spiegare, deve caparbiamente chiarire, sembra accompagnarsi a quei personaggi pirandelliani che attendono dagli attori, su un autentico palcoscenico, quella compiutezza e quella vita che non hanno prima mai incontrato. “La vera vita degli uomini e delle cose comincia soltanto dopo la loro scomparsa”, suona una frase di Nathalie Serraute che Orsini autore ha inserito nello spettacolo.
Va ben oltre Luca Micheletti, omaggiando il suo collega: “Il nostro Ivan è anche un personaggio-ossessione, che accompagna cinquant’anni di carriera di un mirabile “capitano Achab” della nostra scena, un attore che insegue la sua balena enorme e veloce, la arpiona e si lascia trascinare…” Una lunga strada che si ricollega al nostro oggi, un continuum che ci lascia riascoltare, uscendo da un mostruoso aggeggio uscito da qualche vecchio film di fantascienza, la voce di un Orsini trentacinquenne, dalle immagini dello sceneggiato, quando “l’ho costruito giorno dopo giorno quell’Ivan, gli ho dato un aspetto severo, l’ho fatto diventare biondissimo, quasi albino, gli ho messo un paio di occhialini tondi e dei colletti inamidati di fresco, l’ho difeso da una sceneggiatura che lo banalizzava, battendomi per dare lo spazio adeguato all’importanza del suo “Grande Inquisitore”, inizialmente dato per troppo cerebrale e dunque probabilmente indigesto al grande pubblico.” All’interno di un polveroso tribunale, nei nostri giorni, all’ombra di un alto scranno che potrebbe anche essere il pulpito di una nuova religione, Ivan rivendica i propri pensieri e la propria natura – “sono un uomo cattivo come cattivi sono tutti gli uomini” -, teorizza l’amoralità del mondo, il nulla che circonda gli umani, il libero arbitrio e la costruzione di un Dio per comoda necessità, la sofferenza degli innocenti che meriterebbe la morte, la schiavitù del tempo, rivendica in ogni sua parola la logicità del proprio ragionare, lo strapotere intellettuale, i confini con il superuomo. Gli vengono incontro persone e accadimenti, la bontà di Alëša e la personalità confusa dell’illegittimo Smerdjakov, la lotta tra il padre dissoluto e Dmitrij per la Grušenka e i tre mila rubli, l’uccisione, il processo.
Al termine dei 70’, Umberto Orsini, nel suo vecchio pastrano scuro, a tratti coperto da quella neve che è caduta dall’alto su questo suo Ivan, come i ricordi, una mano sul cuore, assapora gli applausi, un velo di commozione come è quello che riempie gli occhi di parecchi spettatori, uniti in piedi ad applaudire, dalle poltrone della sala che trabocca, a testimoniargli ancora una volta il rispetto e la passione verso una lunga straordinaria carriera.
Elio Rabbione

La mostra inaugura il 2023 della “Fondazione Chierese per il Tessile e per il Museo del Tessile” di Chieri (Torino) e rappresenta una ghiotta occasione per ammirare, negli spazi della “Porta del Tessile” (via Santa Chiara 10/A), immagini fotografiche e film d’autore del fiorentino Rossano B. Maniscalchi, pluripremiato fotografo e film maker di fama internazionale, senatore accademico onorario della “Medici International Academy” di Firenze e autore di celeberrimi “ritratti” scattati, fra gli altri, ai più importanti “Premi Nobel” internazionali, da Rita Levi Montalcini a Dario Fo, da Rigoberta Menchù al 14° Dalai Lama. In rassegna, fino a sabato 28 gennaio, ad accogliere i visitatori sono diversi filmati proiettati in loop che fanno da contrappunto a 15 scatti fotografici di Maniscalchi generosamente prestati alla “Fondazione” dalla storica azienda tessile chierese “Angelo Vasino S.p.a.” e realizzati nella stessa azienda di corso Torino 62, con l’eccezionale bravura dell’artista che sa, attraverso la concreta ricezione delle cose, leggere le infinite possibilità di trasformarle in sogni, in memorie, in mondi “altri” in cui lasciarsi guidare senza richiesta alcuna di suggerimenti e appigli esterni. Liberi nella più totale fascinosa e provocatoria immaginazione. “Attraverso l’obiettivo– si legge in una nota stampa – una ‘allure’ particolare si sprigiona dalle rocche colorate che alimentano un orditoio, fili che avvolgono un subbio o scorrono fra i licci di telai oggidiani, dove mani giovani e meno giovani di operatori esperti infondono nuova linfa vitale a un’arte antica, ma nel presente”. In mostra anche telai, orditoi di ultima generazione, immortalati nello stabilimento chierese, fondato nel 1955 da Angelo Vasino con il cognato (“Vasino & Ciaudano”) e oggi guidato dai figli Giuseppe e Renato Vasino, ormai affiancati dalla terza generazione di famiglia, con Giovanni, Valentina e Stefano. Che continueranno a far loro le parole dello scrittore (e politico) di Prato, Edoardo Nesi, fino al 2004 ai vertici dell’azienda tessile di famiglia: “Il rumore di una tessitura ti fa socchiudere gli occhi e sorridere, come quando si corre mentre nevica. Il rumore di una tessitura è continuo e inumano, fatto di mille suoni
metallici sovrapposti, eppure a volte sembra una risata”. Parole in cui c’è tutta la filosofia (azienda non solo business) della “Vasino S.p.a.”. Insieme a quella particolare angolatura poetica, fuori dal tempo e dal mondo, degli scatti grandiosi di Rossano B. Maniscalchi, cui la Città di Chieri, “culla del tessile” dal Medioevo, ha conferito – in occasione della mostra e in memoria proprio di Angelo Vasino – il Premio “Navetta Arcobaleno”, riservato ad artisti distintisi nel coniugare linguaggi multimediali con le arti tessili. “Con questo evento di inizio anno, all’insegna dell’eccellenza – commenta Melanie Zefferino, presidente della ‘Fondazione Chierese per il Tessile e per il Museo del Tessile’ – la ‘Fondazione’ rinsalda il legame con i propri Soci Fondatori e la comunità del territorio di riferimento facendo luce, attraverso l’arte, sulla produzione tessile contemporanea in una delle sue migliori declinazioni”.

Già nel titolo, la rassegna esprime appieno la personalità e lo spirito del grande “Immaginifico” o “poeta – soldato” o “poeta – vate” (allo stesso modo di Giosué Carducci) cui la mostra si ispira. Ospitata in “Palazzo Giusiana” (ex sede del Tribunale) ad Ivrea, da sabato 21 gennaio a domenica 12 marzo, “Vate, Vanitas, Vittoria” è stata ideata per inaugurare la seconda parte dell’anno da “Capitale italiana del libro 2022” di Ivrea – terza capitale dopo Vibo Valentia nel 2021 e Chiari (Brescia) nel 2020 – e per ricordare il centenario della donazione, il 22 dicembre 1923, da parte di Gabriele D’Annunzio (Pescara, 1863 – Gardone Riviera, 1938), della sua casa-museo (“città nella città”, eretta, a memoria delle imprese dei soldati italiani durante la Prima Guerra Mondiale, sulle rive del Lago di Garda con l’aiuto dell’architetto Gian Carlo Maroni) allo Stato Italiano. Curata da Costanza Casali, assessore alla Cultura della Città di Ivrea, la mostra presenta opere di Nicola Bolla e Andrea Chisesi e sarà introdotta, sempre sabato 21 gennaio, alle ore 17, al “Teatro Giacosa” (piazza Teatro, 1), da una lectio magistralis di Giordano Bruno Guerri, storico e presidente dal 2008 della Fondazione “Il Vittoriale degli Italiani”, affiancato da Angelo Piero Cappello, studioso del “Vate” abruzzese e direttore del “Cepell – Centro per il libro e la lettura del Ministero della Cultura”.
Artista di fama internazionale, anche il secondo ospite di “Palazzo Giusiana”, Nicola Bolla, nativo di Saluzzo (Cuneo), ma residente a Torino, dove alterna l’attività creativa al lavoro di medico-oculista. Bolla è, per tutti, l’ “artista degli Swarovski”, il particolare pregiatissimo cristallo ideato nel 1862 dal tagliatore boemo Daniel Swarovski, attraverso il quale l’artista saluzzese raggiunge la notorietà negli ultimi anni grazie ad una serie di “installazioni iconiche” – “Vanitas” – fondate su opere scultoree che, attraverso l’utilizzo esclusivo di un materiale riflettente (come, appunto, il cristallo Swarovski) “rileggono la storia della scultura invertendo i fattori costitutivi della stessa, da sempre fondata su materiali pesanti, duri, poco propensi alla riflessione della luce”. Ottima la scelta dei due artisti e delle loro creazioni ispirate alla figura del Grande “Immaginifico”, interpretata in maniera non didascalica, traendo ispirazione da tre termini a lui fortemente legati e ben ricordati nel titolo della mostra a tre “V”: “Le opere di Andrea Chisesi e Nicola Bolla – sottolinea in proposito, Costanza Casali – si discostano dalle tecniche tradizionali, e offrono un punto di vista diverso su D’Annunzio: se Chisesi utilizza la ‘fusione’ intervenendo con la fotografia dopo aver dipinto la tela, Bolla utilizza materiali inusuali per la scultura come cristalli e carte da gioco, che esprimono pienamente l’effimero. Le opere di Chisesi dedicate al ‘Vate’ rivelano fotogrammi di vita di D’Annunzio. Le ‘Vanitas’ di Bolla sono un ‘memento mori’ e la ‘Vittoria’ è rappresentata dalla ‘Nike di Samotracia’ reinterpretata da Chisesi e da ‘bandiere ammainate’ in cristallo create da Bolla, che sono il simbolo di una vittoria effimera che rappresenta soltanto un momento e un passaggio che domani potrebbe tramutarsi in disfatta”.

Chiara De Carlo