CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 301

Ferrini inciampa in Otello, forse il vero protagonista è Iago

Al Gobetti, repliche sino al 5 febbraio

Un lungo mese di repliche – sino al 5 febbraio, sul palcoscenico del Gobetti – per questo “Otello” shakespeariano, nella traduzione di Emilio Cecchi e Giovanna Cecchi, produzione Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale e Progetto Urt, un unico blocco di 140’ senza intervallo, a cui Jurij Ferrini sembra aver dato anima e corpo. Una tragedia di incondizionato amore e di terribile, cieco odio, ogni cosa nel cuore di un eroe, di un ufficiale di colore, ma anche una tragedia di sospetti, di quelle parole portate a poco a poco alle labbra nella prospettiva di una vendetta e nella distruzione di un altro, nell’occasione di una donna, di una quasi bambina innamorata del proprio sposo, della figlia di un notabile di una qualche potenza occidentale, sperduta nelle acque del Mediterraneo tra i rumori e le ansie della guerra, spinta giorno dopo giorno sempre più a fondo da un meccanismo perverso e subdolo che un diavolo le ha costruito intorno. L’occasione di un avvicinamento a quella “nostra coscienza occidentale” che senza mezzi termini, di gran fretta, è definita “falsa”. “Quando leggo un testo, soprattutto un grande classico – tiene a motivare Ferrini nelle note di regia – non posso fare a meno di chiedermi che cosa possa significare per il pubblico di oggi.” Ieri e oggi, le radici e i rimandi, gli sguardi paralleli, un incrociarsi di ponti gettati sulle intenzioni e sui sentimenti, sulla malvagità e sulla menzogna del nostro quotidiano.

Nessuno lo vieta ad un regista che si fa quasi coautore, appunto per il suo sguardo nuovo, una esperienza apprezzabile quando anche sia l’occasione “per un lucido e appassionante esame del viaggio a ritroso da un infinito oceano d’Amore fino alle fonti dell’Odio più puro”, il Bene e il Male a fronteggiarsi da sempre. Tuttavia, su quelle pedane inventate (abbastanza poveramente) da Jacopo Valsania (a lui si devono anche le luci, con Gian Andrea Francescutti), contro un fondale di soli e di lune, dentro un orizzonte di alberi e scure montagne, poca colpa se lo spettacolo tarda a prendere corpo: quel che non convince è quell’oggi, tanto sbandierato, che sino al termine della serata continua a parere del tutto posticcio. Non spaventano più gli abiti moderni, non siamo più alla metà degli anni Sessanta quando con innegabile shock del pubblico Luigi Squarzina per “Troilo e Cressida” rivestiva gli attori dello Stabile genovese delle divise del ventesimo secolo, seguito poi da Lavia e da Ronconi e certo da altri: qui sono un posticcio perché nulla aggiungono all’azione, al racconto naturalissimo che Ferrini rivendica di aver visto “nella mia immaginazione”. Poi c’è il pericolo del medioriente, c’è la sopraffazione maschile, c’è l’ombra del razzismo che circola tra le truppe e va oltre, c’è la lettura del gran personaggio di Iago, la fiducia riposta in lui e il tradimento, il marcio della coscienza e la distruzione di sé e degli altri portata sino in fondo.

Scrive poi qui uno che continua a dubitare fortemente dell’uso dei microfoni in scena, per dire, per scandire, per ritagliare che?, microfoni di cui si fa un gran uso e microfoni che per altri versi li diresti benedetti dal momento che l’attore, nel momento in cui deve pronunciare la propria battuta dal fondo del palcoscenico, non è più nettamente udibile: quello stesso Ferrini che, accennando appena nel trucco la propria “negritudine” con dei tatuaggi tribali che lo rendono più un Maori che un “moro”, da sempre erroneamente definito “negro”, sembra essere incerto sulla strada da percorrere sino in fondo senza ripensamenti. L’“Otello” di Ferrini, il triangolo Moro/Desdemona/Iago, tutto rimane un fatto privato, a dispetto di certe intenzioni di voler ampliare il campo alla “tragedia della violenza umana” e di volerlo immergere nell’”ultimo straordinario movimento culturale e rivoluzionario del mondo moderno”, il ’68, fatto di opposizione alla guerra in Vietnam, di battaglie per i diritti civili, di libertà sessuale, di rifiuto di ogni autorità.

Di Ferrini interprete non arriva in platea la costruzione di un personaggio, al di là di un gran muoversi e di un imperioso quanto furioso vociare. Troppo resta nelle intenzioni e non trova sbocco autentico e tangibile. La parte maschile dei suoi compagni, per differenti gradi, non possiede – o il regista non ha saputo tirar fuori dai giovani attori quel tanto di sentimenti e di consapevolezza dell’accaduto che è nei personaggi più o meno minori – una già affermata robustezza. Sul versante femminile, oltre la Bianca di Sonia Guarino, lascia un segno nel finale la ribellione della Emilia di Maria Rita Lo Destro e mostra con una eccellente sfaccettatura di toni una Desdemona fatta di giovinezza, fragilità e acre stupore Agnese Mercati; mentre un lungo discorso a parte meriterebbe la prova eccellente di Rebecca Rossetti, uno Iago che non avevamo mai visto (questa sì felicissima intuizione di Ferini), una sorta di Linda Hamilton di “Terminator”, anfibi, calzonacci militari, attillata nera canottiera con spalline, capelli corti impomatati all’indietro. Le si poteva aggiungere un lanciafiamme, non avrebbe stonato, già la pistola con cui fa fuori la povera concorrente che sta per spifferare ogni cosa fa legittimamente al caso suo. Uno Iago che rischia di essere il vero protagonista della tragedia. Si può allora dire che Rossetti sappia quel che vuol dire la costruzione di un personaggio, una sorta di simbolo del Male a tutto tondo, del male gratuito gestito per scommessa, nella voce e nella postura mai in eccesso, nel rivelarsi e nel nascondersi, nella strada che semina di sospetti e di indizi detti a fior di labbra e no, anche usando in maniera assai propria tutta l’ironia verso la mal riposta scalata al successo. Pubblico pressoché osannante alla prima, mentre a me rimanevano tutti i dubbi della realizzazione.

Elio Rabbione

Le foto di scena sono di Luigi De Palma

Arte contemporanea, ciclo di lezioni al Pannunzio

 A CURA DI ETTORE GHINASSI. TERZO INCONTRO : “LA REAZIONE ALLE AVANGUARDIE: IL RITORNO ALL’ORDINE. L’ARTE DEL FASCISMO”.
MERCOLEDÌ 18 GENNAIO alle ore 17.30 presso la sede del Centro Pannunzio (via Maria Vittoria 35h, Torino), il terzo incontro del ciclo sul tema “LA REAZIONE ALLE AVANGUARDIE: IL RITORNO ALL’ORDINE. L’ARTE DEL FASCISMO”.
Ingresso Libero.
ETTORE GHINASSI
Il Prof. Ettore Ghinassi è uno studioso di fama internazionale che è stato in passato autore di cicli di lezioni entusiasmanti e indimenticabili al Centro “Pannunzio”, di cui fu uno degli animatori culturalmente più autorevoli. La collaborazione, interrotta a causa di impegni internazionali, è ripresa da poche settimane con il ciclo di incontri indicato nel comunicato.

“Queste persone parlano, non dicono nulla…”

Music Tales, la rubrica musicale 

Queste strade non portano a nulla

Queste persone parlano, non dicono nulla

Gli attori non hanno una parte

le persone di cuore senza cuore

troverò una nuova folla, farò un nuovo inizio”

Questo canta in “so long” Lisa Marie Presley.

Non riesco ad identificarne il significato se non in un disagio nel vivere in una città, in una situazione a lei poco consona, anzi molto scomoda.

Quasi a voler dire (farò un nuovo inizio n.d.r.) che avrebbe trovato pace solo allora.

Ed oggi siamo a pochi giorni dalla sua “pace”.

Riposa per sempre una artista, figlia d’arte (e che arte) che, come il padre, è diventata una cantante, guadagnandosi il titolo di Principessa del Rock and Roll.

Lisa Marie è nata il 1 febbraio 1968 a Memphis, nel Tennessee e secondo il libro di memorie “Priscilla, Elvis & Me”, ha avuto un’infanzia davvero privilegiata. Per il suo quinto compleanno suo padre le ha regalò una slot machine e per il suo ottavo compleanno ha ricevuto una pelliccia di visone e un anello di diamanti.

Ha vissuto durante i suoi primi anni nella famosa Memphis Mansion che apparteneva a Elvis, ma la lasciò all’età di quattro anni dopo che i suoi genitori si lasciarono. Nonostante questo fu un’ospite regolare quando faceva visita al genitore, fino alla morte della star.

Presley è stata sposata quattro volte.

Dal 1994 al 1996, la cantante è stata sposata con Michael Jackson, ma si erano conosciuti 20 anni prima, nel 1974 a Las Vegas. Dopo anni senza vedersi e senza che nessuno se lo aspettasse, nel 1994 annunciarono in un comunicato di essersi sposati nella Repubblica Dominicana con una cerimonia molto intima. Si diceva che fosse un finto matrimonio e che stessero insieme per interesse. Da allora sono diventati la coppia più bizzarra, affascinante e mediatica del momento. La loro prima apparizione pubblica è stata agli MTV Awards, dove il cantante baciò sua moglie davanti a tutti.

Lisa Marie una volta ha parlato dei rapporti intimi che ha avuto con il Re del Pop, dicendo che erano “selvaggi e intensi”. “Era straordinario a letto”, affermò. E a quanto pare Michael aveva rapporti sempre vestito. Lisa Marie disse di non averlo mai visto come mamma l’ha fatto. Durante loro prima notte insieme, lui le chiese di essere in camera da letto al buio e quando finirono lei corse in bagno per uscirne 20 minuti dopo truccata, in pigiama e vestaglia. Lisa disse anche che lui le chiese di indossare gioielli costosi e di fare giochini particolari. Tuttavia alcuni dipendenti di Neverland affermarono che i due non ebbero mai veramente alcun rapporto intimo.

Insieme al suo primo marito Danny Keough, Lisa divenne un membro di spicco di Scientology. I due festeggiarono su uno degli yacht dell’organizzazione la luna di miele e crebbero i due figli nelle loro convinzioni. Si dice che la star della musica fu influenzata da John Travolta. Nel 2012 Lisa annunciò però che non ne faceva più parte.

Per Lisa, la morte di suo figlio Benjamin fu insuperabile. Il giovane tolse la vita all’età di 27 anni. Il suo corpo fu ritrovato nel luglio 2020 nella villa di famiglia a Calabasas (California). I tabloid statunitensi hanno descritto la morte come “scioccante ma allo stesso tempo non scioccante”. Il giovane aveva infatti una lunga storia di dipendenze.

Dipendente anche lei dagli antidolorifici, come ha raccontato la star stessa nella prefazione al libro ‘The United States of Opioids’: “Mi è bastata una breve prescrizione di antidolorifici in ospedale per sentire il bisogno di continuare a prenderli”. Dieci anni dopo il suo ultimo matrimonio si è ritrovata dipendente da questi antidolorifici e totalmente al verde.

Tutto nasce sempre da un eccesso: la grande arte è nata da grandi terrori, grandi solitudini, grandi inibizioni, instabilità, e ogni volta le ha sapute equilibrare.”

Non ho mai amato la sua discografia quindi ho faticato a trovare un brano che mi fosse almeno un po’ simpatico alle orecchie.

A voi “so long”

So Long – YouTube

 
 

Chiara De Carlo

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Sulla cresta dell’onda con Giorgio Rava

Onde, Ondine, Onde anomale segna il ritorno di Giorgio Rava alle sillogi poetiche.

L’agile libretto edito dalla novarese Segni e Parole propone trentasei composizioni di questo poeta, pittore, scultore, gastronomo e designer nato a Omegna, sulla punta settentrionale del lago d’Orta. Una miscela di sensazioni, ricordi, visioni che si inseguono secondo un ordine alfabetico che non offusca l’anarchica originalità, la fantasiosa irriverenza o la malinconia struggente, spaziando dai luoghi in cui è nato a lidi più lontani  anche se ,come una falena attratta dalla luce, ritorna sempre a specchiarsi nelle acque del lago d’Orta, rese cangianti dai riverberi delle luci delle albe, dei tramonti e delle notti di luna. Ci accompagna sul sentiero delle carline all’alpe Devero per poi scendere verso la sua casa di Crusinallo dove, nella notte di San Lorenzo, scruta il cielo alla ricerca delle stelle cadenti “dove la grande mano dell’universo sparge negli occhi di sognatori bambini illusioni di caramello”. Omaggia la memoria di Alda Merini che aveva un rapporto molto stretto e personale con Omegna (“Quando i poeti se ne vanno è come l’esaurirsi di una sorgente..”) e non manca di elogiare con i suoi versi in rigoroso dialetto la mitica moka, eccellente caffettiera nata nella città dove vide la luce anche Gianni Rodari, fedele compagna che elargisce il primo caffè del mattino (..”gh’è mia un ‘auta machineta…gnanca cula dal George Clooney c’la batt cula dal Bialett”). In Ode del suicidio lacustre riecheggia la stessa intensità dei versi cari del poeta ortese Augusto Mazzetti (“Oh, lago, lago, lago! Sciogliermi infine con te, per essere un giorno pescato come un antico luccio”) e il legame indissolubile con le acque del Cusio quando scrive “ come piatto ciottolo, esaurita l’energia del braccio, scenderò dondolando dolcemente nella profondità”. Cita sovente le onde, il profumo di quella terra tra lago e montagne, il fiato grigio delle brume che se ne stanno sospese a fior d’acqua in certe stagioni. Sotto l’antico tiglio ricorda riti antichi, musiche e baldorie popolari, scampoli d’infanzia mentre le primule, declinate anch’esse in dialetto omegnese, fanno ripensare al giallo del risotto alla milanese rievocandone profumo e sapore. Ogni poesia nasconde frammenti di storie, memorie vicine o lontane, narrate con parole essenziali e asciutte. Una poesia  ci ricorda che ci stiamo affacciando sulla soglia dell’inverno e s’intitola Al buio nell’aria della notte. Eccola: “Ho sentito il profumo della neve. Che non è il profumo del pane appena sfornato, delle rose di maggio, della pelle di una donna, del fieno appena tagliato, dell’uva della toppia, del mio lago, del calicantus d’inverno, dell’olea fragrans d’autunno, dei narcisi di primavera, della sigaretta e del caffè del mattino, del profumo del pelo delle mie cagne bagnato, della stufa che va a legna. E’ il profumo dell’innocenza”. In poche righe svela le sue radici. Ci sono tratti della personalità di questo artista eclettico, figlio di una tradizione popolare e dei  “poeti maledetti” del lago d’Orta, Ernesto Ragazzoni e Augusto Mazzetti. Onde, Ondine, Onde anomale regalano, centellinandolo come il buon vino, l’incanto delle  parole, il gusto dei versi. Privarsene equivarrebbe a commettere un imperdonabile errore.

Marco Travaglini

Il nuovo romanzo di Gabriella Carmagnola “Non lo dire a nessuno”

TORINO, AL CIRCOLO DEI LETTORI

Un noir provocatorio e toccante sulle cicatrici infantili che ci cambiano la vita

Ne parla Vittorio Bo con l’autrice

 

E’ stato presentato per la prima volta da Giovanni Floris a Dimartedi’, su LA7, il nuovo romanzo di Gabriella Carmagnola “Non lo dire a nessuno”, poi a Roma alla Casa del Cinema, a Milano al Teatro Franco Parenti con le letture di Angela Finocchiaro, riscuotendo il favore del pubblico e della critica. E’ quindi arrivato il momento per Gabriella Carmagnola di fare tappa a Torino, città in cui è nata. “Non lo dire a nessuno” verrà presentato al Circolo dei Lettori, dove Vittorio Bo ne parlerà con l’autrice. Insieme dialogheranno con il pubblico e scopriranno aspetti inediti e nuove chiavi di lettura di questo sorprendente romanzo. L’appuntamento è martedì 17 gennaio al Circolo dei Lettori, Sala della Musica, alle ore 18, via Bogino 9.

Quali tracce lasciano i traumi di quando eravamo bambini, di cui abbiamo perso la memoria? Quanto pesano sulle persone che diventiamo e sul nostro futuro? Lo racconta senza filtri Lucia, la protagonista di “Non lo dire a nessuno”.

Lucia è nata negli anni ’60 da una famiglia dell’alta borghesia industriale lombarda. Nella sua primissima infanzia è vittima di una violenza di cui le restano flash precisi nella memoria.  “Non lo dire a nessuno” è la storia, in presa diretta, a tratti cruda, di un segreto inconfessabile e delle sue conseguenze. Ma è anche un percorso di formazione, in cui una bambina, che negli anni diventa donna, racconta il suo dolore e cosa comporta: dal desiderio di dimenticare e cancellare, alla volontà sempre più forte di rivalsa.

Il romanzo attraversa quarant’anni di vita e di storia italiana catturando come in una fotografia eventi decisivi per il nostro Paese: dal boom economico, ai fermenti studenteschi, agli anni di piombo, alle passerelle della moda made in Italy, fino all’irrompere delle inchieste della magistratura sulla scena politica.  Un’Italia in profonda trasformazione, in cui si stanno affermando temi oggi centrali: la parità di genere sul lavoro, la difesa dell’ambiente, la tutela dell’infanzia.

Gabriella Carmagnola tesse in questo nuovo romanzo una trama avvincente, toccante, a tratti provocatoria, che inchioderà il lettore fino all’ultima pagina. L’autrice attraverso le vicende personali di Lucia offre lo spunto a diversi piani di lettura: un racconto noir, che si svolge tra il lago di Como, le comunità monastiche, la Milano da bere, il jet set di New York e Londra; uno sguardo lucido e ancora attuale sulla condizione della donna anche in contesti sociali agiati; un atto di accusa contro l’omertà che circonda i crimini contro l’infanzia; una lotta incessante per uscire da un trauma attingendo alle proprie risorse interiori. Una lotta incessante che dura una vita.

 

“Non lo dire a nessuno” è acquistabile in tutte le librerie e sulle principali piattaforme online.

GABRIELLA CARMAGNOLA

Gabriella Carmagnola, nata a Torino, città in cui ha vissuto la prima parte della sua vita, è scrittrice, giornalista ed esperta di comunicazione. Si è laureata in Filosofia Teoretica con Gianni Vattimo, con una tesi sulla concezione della verità nella filosofia contemporanea. Ha poi sviluppato la sua esperienza professionale nelle importanti società americane Du Pont de Nemours Italiana e Dow Chemical Italia e, per più di vent’anni, è stata manager di spicco del settore assicurativo, come capo della comunicazione di ANIA, Associazione Nazionale fra le Imprese Assicuratrici. Ha pubblicato in precedenza il romanzo “L’Inganno” (1999). Tiene una rubrica di invito alla lettura dei classici su TiscaliNews. Ha collaborato nelle pagine di cultura di vari giornali.

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L’isola del libro

Rubrica settimanale a cura di Laura Goria

Cristina Comencini   “Flashback”      Feltrinelli    euro  18,00

Questo libro della regista, sceneggiatrice, drammaturga e scrittrice Cristina Comencini, è diviso in 4 parti strettamente collegate tra loro. In ognuna c’è un flasback, un breve lampo del passato che, attraverso un’amnesia globale transitoria, trascina la protagonista nei panni di 4 donne del passato, appartenenti a precisi momenti rivoluzionari.

Si tratta di episodi che le sono capitati davvero; brevi interruzionidella coscienza, in cui ci si stacca dal proprio io, e dalle quali si torna indietro senza gravi conseguenze.

E’ la sua opera più personale perché interseca la vita del padre –il regista Luigi Comencini- della madre e delle sorelle. Quasi un’autobiografia narrata attraverso 4 voci di altre epoche.

Ci ha lavorato a lungo, 4 anni, perché per ogni personaggio ha dovuto condurre un’approfondita ricerca storica cercando di ricostruire dettagli della vita quotidiana di allora.

Le 4 donne sono vissute in momenti diversi, caratterizzati tutti daprofondi cambiamenti. Eloisa, cocotte ai tempi della Comune di Parigi del 1871; Sofia che vorrebbe fare l’attrice, ma per amore invece lega il suo destino alla  Rivoluzione Russa di ottobre; Elda, giovane operaia realmente vissuta e coinvolta  nella Resistenza del  Friuli tra 1944 e 45; infine Sheila, la fidanzata 17enne di un musicista ai tempi della Swinging London degli anni Settanta che ha rivoluzionato usi e costumi.

Nei vari flasback che corrispondono a un momento difficile della vita della scrittrice, le storie delle 4 donne si intrecciano alla sua. Ai suoi ricordi –dal padre grande cineasta alla villeggiatura ad Ischia con la famiglia alla maternità precoce del suo primogenito, il politico Carlo Calenda, dall’educazione ricevuta alle idee politiche.  E le storie interagiscono con la vita dell’autrice contribuendo a cambiare anche il suo vissuto presente, nel senso che addentrandosi nella vita dei personaggi, con queste incursioni in anime e tempi passati, qualcosa si è modificato anche in lei.

 

Pierre Lemaitre  “Il gran mondo”    -Mondadori-  euro  23,00

E’ il primo di 4 romanzi che lo scrittore francese vincitore del Premio Goncourt (nel 2013 con “Ci rivediamo lassù”) dedica ai “Trente Glorieuses” anni del boom economico e sociale del suo paese, dal 1945 al 1975.

Fa parte del progetto complessivo di 10 romanzi storici in cui Lemaitre vuole ripercorrere il XX secolo. Piano ambizioso iniziato con la trilogia  dei “Figli del disastro”, (dal primo dopoguerra al 1948), prosegue ora  con “Il gran mondo” (primo di 4), mentre gli ultimi 3 dovrebbero abbracciare l’arco di tempo  che va dalla crisi petrolifera alla caduta del muro di Berlino.

“Il gran mondo” racconta le vicissitudini della famiglia Pelletiertra Beirut, Parigi e Saigon. L’inizio è a Beirut nel 1948, dove il capostipite, Louis, da anni emigrato in Libano, è riuscito a trasformare negli Anni Venti, un modesto saponificio in una fiorente industria; fiore all’occhiello  dell’economia del paese e della quale va giustamente orgoglioso.  Ha 4 figli i cui piani di vita però vanno in direzioni diverse dall’azienda di famiglia.

Louis punta soprattutto sul primogenito Jean, al quale vorrebbe lasciare le redini degli affari; ma il figlio, soprannominato Bouboule per la tendenza a rimpinguarsi, è un uomo emotivo, irrisolto e debole. Sposato con l’insopportabile e prepotente Geneviève, arrivista e traditrice che sperava in una vita facile, ne è totalmente succube. Jean si rivela inadatto a proseguire il lavoro paterno, e finisce per  trasferirsi a Parigi, dove continuerà a nascondere un segreto che sarà uno dei temi portanti del romanzo.

Nella capitale francese plana anche  il secondogenito dei Pellettier, François, che ai genitori ha detto di volersi iscrivere all’Accademia di Belle Arti, mentre in realtà sogna  di diventare giornalista. Assunto come cronista da “Journal du soir” indagherà su un brutale omicidio.

Il terzogenito, Etienne, il più sensibile dei 4, raggiunge Saigon  per stare accanto all’uomo che ama. E’ Raymond, legionario belga che sta combattendo nella guerra di Indocina (dove l’esercito francese è impegnato contro la ferocia dei viet-minh),scomparso durante una pericolosa missione.

Infine la più piccola, Hélène, 18 anni e un’anima ribelle, il cuidestino si compie tra le braccia di amanti e droghe.

Una saga familiare che Lemaitre racconta partendo da elementi storici che fanno da sfondo ai personaggi, ma senza prevaricare le loro storie. Un romanzo elegante ed affascinante, un puzzle in cui si incastrano: disavventure, imbrogli, omicidi, derive della guerra coloniale e contraddizioni del secondo dopoguerra, scandali finanziari e tribolazioni varie.

Il romanzo lascia molti destini in sospeso e l’appuntamento è con il seguito.

Irene Némirovsky   “Tempesta in giugno”  -Adelphi-   euro  20,00

Questa è la seconda versione di “Suite francese”, più asciutta e in presa diretta, dattiloscritta dal  marito, corretta a mano dalla Nemirovsky, con capitoli nuovi e altri rimaneggiati. E’ rimasta incompiuta perché la scrittrice venne arrestata nel 1942 e deportata ad Auschwitz da cui non farà più ritorno. Morirà di tifo nel lager. Queste pagine sono rimaste protette in una valigia che le figlie bambine si sono trascinate appresso nella loro fuga attraverso la Francia occupata.

La nuova versione apre la “Suite” con 4 capitoli inediti in cui riviviamo tutto l’orrore di quel momento storico drammatico. E’ il racconto della fuga da Parigi nel giugno 1940 quando i tedeschi sono alle porte della capitale e non resta che abbandonare tutto per cercare di mettersi in salvo.

In queste pagine c’è tutta l’angoscia caotica che travolge le vite dei vari personaggi che la Nemirovsky mette a nudo. Un gruppo eterogeneo di persone che va da una famiglia della borghesia arricchita a uno scrittore egocentrico e la sua amante, da un collezionista a una coppia di funzionari modesti e di grande cuore,…per citarne almeno alcuni.  Destini tragici e in fuga che impattano contro tutto l’orrore nazista, e che la scrittrice ci narra con la sua scrittura meravigliosa, piena di ironia, sensibilità e intensissima.

Pagine messe  in salvo dalle figlie e alle quali molti anni dopo si dedicò una delle due, Denise, decifrandole con infinito rispetto. Grazie a lei ora possiamo scoprire un ulteriore capolavoro.

 

 

Arthur Phillips   “Il re ai confini del mondo”   –Fazi Editore-   euro  18,50

Questo romanzo storico prende il via quando la grande sovrana inglese Elisabetta I è anziana e ad  un passo dalla morte, nel 1601. La regina vergine, che ha sempre rifiutato le offerte di matrimonio dei potenti dell’epoca, non ha avuto figli ed ora si apre una sorta di baratro per quanto riguarda la successione.

Dopo decenni di feroci lotte tra protestanti e cattolici, in linea teorica il trono spetterebbe a Giacomo VI di Scozia, figlio della regina cattolica Maria Stuarda che Elisabetta aveva mandato al patibolo. Ma corrono voci incerte sulla fede più profonda di Giacomo e si teme un ritorno al passato, alla lotte tra le due fedi e a nuove sanguinose guerre intestine.

Occorre dunque scoprire quale sia il vero credo religioso del sovrano  scozzese, e della missione viene incaricato Geoffrey Belloc, uno dei collaboratori più fidati della Corona inglese, che a sua volta si servirà dell’abilità di Mahmoud Ezzedine, medico musulmano rimasto in Inghilterra dopo l’ultima visita della delegazione diplomatica dell’Impero Ottomano.

 

Rock Jazz e dintorni a Torino. Il duo De Gregori Venditti e Ornella Vanoni

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GLI APPUNTAMENTI MUSICALI DELLA SETTIMANA 

Lunedì. Elisa come Claudio Baglioni, recuperano i concerti rinviati nei mesi scorsi rispettivamente all’auditorium del Lingotto e al teatro Regio per 2 sere consecutive.

Martedì. Al teatro Alfieri arriva Ornella Vanoni. Al teatro Colosseo primo di 2 concerti consecutivi per il duo Francesco De Gregori e Antonello Venditti.

Mercoledì. Al Jazz Club si esibisce la vocalist Liliana Di Marco. Al Maffei è di scena il trio Mopcut. Al Concordia di Venaria si esibiscono i Santi Francesi.

Giovedì. Al teatro Alfieri suona la “cover orchestra” Queen At The Opera. Al Jazz Club si esibisce l’armonicista Eros Fineharp. Al Blah Blah è di scena Deniz Tek. Al Magazzino di Gilgamesh debutta il festival blues con la cantante Lakeetra Knowles. Al Dash suona The Blues Against Youth. All’Hiroshima Mon Amour è di scena Galeffi.

Venerdì. Allo Ziggy punk con Kelvins e Lem. Allo Spazio 211 il batterista dei Jamiroquai si esibisce con i Fun-Konnection  mentre BlackRockstar è di scena al Jazz Club. Al Folk Club suona il quartetto jazz composto da Ares Tavolazzi, Enzo Zirilli, Flavio Boltro e Sergio De Gennaro. All’Hiroshima si esibisce Ginevra. Al Blah Blah suona il duo Winter Severity Index.

Sabato. Al Conservatorio “Una Vita per il Jazz” in ricordo di Sergio Ramella, appassionato organizzatore di concerti, colui che ha portato il jazz a Torino per oltre 30 anni. Dall’Eurojazz Festival di Ivrea ai Punti Verdi alla Pellerina e  al Torino JVC Newport Jazz dei Giardini  Reali. Un concerto in sua memoria a 10 anni dalla scomparsa,organizzato dall’AICS Torino con tanti musicisti per ricordarlo tra cui: Emanuele Cisi, Enzo Zirilli, Flavio Boltro, Diego Borotti, Furio Di Castri, Luigi Tessarollo e tanti altri. Al teatro Colosseo si esibisce Nek. Allo Spazio 211 suonano i Tamburi Neri. Al Cap 10100 arriva Morgan con il produttore Megahertz.

Domenica. Al Jazz Club suona il trio blues Rubin Red.

Pier Luigi Fuggetta

Una gelida Hedda Gabler verso il colpo di pistola finale

Il nuovo, intelligente sguardo di Kristza Székely sul testo di Henrik Ibsen

Kristza Székely è nata a Budapest e ha quest’anno superato energicamente i quarant’anni, nei suoi ricordi c’è un diploma come ballerina classica, oggi continua a dimostrarsi uno dei nomi di punta della drammaturgia europea, celebra le proprie incursioni nel mondo della prosa (Fassbinder, Ibsen, Brecht) e della lirica (Saint-Saëns, Offenbach), le vengono riconosciuti premi importanti, è stata eletta Presidente dell’Associazione dei registi ungheresi. Lo Stabile torinese, all’insegna di una ventata europea che richiama l’applauso, l’ha eletta “artista associata”, l’abbiamo tre anni fa vista all’opera con uno “Zio Vania” e l’attendiamo (al Carignano dal 7 marzo) con lo shakespeariano “Riccardo III”.

Smonta e ricompone (dramaturg è Ármin Szabó-Székely), in chiave contemporanea certi titoloni, certe pietre angolari della classicità, inerpicandosi su per sentieri che metterebbero i brividi a qualunque collega. “Ardita”, l’avevo definita all’indomani del precedente spettacolo. E ardita è rimasta. Un salire verso l’alto che in altra occasione non mi era parso convincente, su quello “Zio Vania”, snaturato nella sua originale scrittura, nelle intromissioni e nelle esasperazioni costruite strada facendo, nella perdita di quel male di vivere che faceva posto a temi troppo legati all’oggi come il riscaldamento globale e il depauperamento delle coste, avevo espresso tutti i miei dubbi. Voleva dire andare troppo al di là delle intenzioni dell’autore per costruire pressoché appieno una visione tutta propria, voleva dire sgomitare per dare spazio al più che superfluo.

Prendendo tra le mani oggi un testo come “Hedda Gabler”, che Ibsen scrisse nel 1890 e che lo Stabile Torinese coproduce con il Katona Jòzsef Szìnhàz, l’acutezza dello sguardo della regista gettato sulla società che circonda i personaggi, in special modo quelli femminili, chiusi e stretti entro le convenzioni più soffocanti, porta ad un raggiungimento “civile” della sua messinscena, analizza, coinvolge nell’attualizzazione, sa vanificare sicurezza e arrivismo.

Soprattutto non sposta di un millimetro la Hedda che Ibsen ha costruito, il gelo che la attraversa, la noia quotidiana verso un matrimonio male sopportato, la freddezza dei rapporti con amici e famigliari, la difesa di uno status che la pubblicazione del libro del consorte Jörgen, devoto ma mediocre, e del suo incarico universitario confermerebbero, il campo di annientamento e di autodistruzione che invade la protagonista, l’intelligenza fredda e calcolatrice che la accompagna sino a quel colpo di pistola finale. Non è più un mescolare le carte, l’oggi viene visto e accettato per una giusta ragione d’essere. Un modo di essere che s’è spostato in linea retta da un panorama di cento e trent’anni fa. Non importa assolutamente nulla se gli eleganti salotti dell’epoca vengono sostituiti da un grigio divano usato e abusato e le azioni degli attori sono inquadrate in anonime pareti di legno, non importa se le lampade a petrolio lasciano il posto ad applique di poco prezzo, se le toilette ricercate e ostentate sono cambiate con gonne da casa e semplici sottovesti, se la stufa in ceramica che inghiotte e distrugge il manoscritto dell’antico amore Løvborg oggi ha il pregio assai inferiore di un onesto trita carta. Non più il “tranquillo” castello di menzogne e confessioni e rigidità di alcune vecchie edizioni, ma qui tutto è frenesia, chiacchiere e chiacchiericcio velocissimi, ardui sfrigolii come quelli che suddividono l’adattamento del testo in vari capitoli, a distruzione della partitura musicale senza inciampi che tutti vorremmo, tutto assume quasi un taglio cinematografico, in precise sequenze, in scatti nervosi, in balletti tarantolati, in frasi rotte dentro un microfono, in un assurdo che è lo specchio preciso del nostro quotidiano.

Le intenzioni e il disegno di Székely sono questa volta esatti, suggestivi, fisicamente accettati, solidi, viscerali, nettissimi. Senza sbavature, vanno dritti a quel colpo di pistola con cui la protagonista rinuncia ad una vita senza futuro. Una Hedda che è una splendida (e per noi, ahimè, sconosciuta e vorremmo rivedere in altre prove) Adél Jordan, secca, vibrante, ai limiti sempre del rovescio isterico e immediatamente pronta a rimettersi in linea con quelli che la circondano; accanto a lei un autorevole, perfetto Béla Mészàros che è Løvborg e gli altri compagni che hanno definito il grande, più che tangibile (il pubblico che al termine non si stancava d’applaudire) successo della serata. Ultime repliche – la lingua cecoslovacca non spaventi, dei precisi soprattitoli tranquillizzano lo spettatore – sabato 14 alle ore 19,30 e domenica 15 alle ore 15,30. Uno spettacolo intelligente da non perdere.

Elio Rabbione

Le immagini dello spettacolo sono di Judit Horvath

Assemblea Teatro ricorda Pitigrilli, padre del professor Furlan

Terzo appuntamento:  “Leggere è una cura” 

 

Assemblea Teatro presso la Biblioteca Pubblica San Luigi a Orbassano, nel complesso dell’Ospedale San Luigi Gonzaga, promuoverà giovedì 19 gennaio prossimo alle 16 il terzo appuntamento di “Leggere è una cura”, in occasione del primo anniversario della scomparsa del Professor Pier Maria Furlan. Si tratta di un omaggio attraverso le parole complesse di un personaggio impegnativo quale Pitigrilli, controverso e discusso autore torinese.

Per non dimenticare, anzi per celebrare questa ricorrenza, è nata la scelta di leggere pagine tratte dall’autore “Pitigrilli”, pseudonimo di Dino Segre, enfant terrible della letteratura italiana, dietro il quale si nascondeva il padre di Pier Maria Furlan.

Pitigrilli conobbe una notevole notorietà e successo nel Ventennio, piombando poi, con la caduta del fascismo, in cattività, per il sospetto di aver collaborato con l’Ovra, la polizia politica fascista.

Non trovando più editori disposti a pubblicarlo, avrebbe lasciato l’Italia per la Francia e poi per Buenos Aires. Convertitosi al cattolicesimo, ripudiò e impedì lui stesso la pubblicazione dei suoi primi cinque romanzi ritenuti immorali. Sarà Umberto Eco, anni dopo, pur non volendo scagionare Pitigrilli dalle accuse mossegli, ma in un’ottica di critica libera dalle sue presunte collusioni col Fascismo a riattribuire il giusto valore artistico alle sue opere, rivelando in lui uno scrittore gradevole, sapido, fulminante e, contro il giudizio corrente, anche “casto”.

Il Professor Furlan, nelle interviste rilasciate sull’argomento, ha sempre difeso l’opera, nella dignità del padre, e in questo appuntamento, Assemblea Teatro, sgombra da pregiudizi, si è avventurata nella lettura delle sue pagine. Le letture di Alberto Barbi avranno inizio alle ore 16:00, ingresso gratuito, fino ad esaurimento posti.

Mara Martellotta

 

Per prenotazioni: bibliosanluigi@gmail.com

Tel: 0119026212

Domenica all’Agnelli va in scena “La gabbianella e il gatto”

Riprende l’iniziativa Domenicamattinateatro, a cura di Assemblea Teatro, con un testo di eccezione di Luis Sepulveda

 

Domenica 15 gennaio prossimo alle ore 11, nel teatro di via Paolo Sarpi 111, verrà messa in scena “La gabbianella e il gatto”, testo scritto da Luis Sepulveda, nella traduzione di Ilide Carmignani, per la riduzione teatrale di Renzo Sicco e Gisella Bein. In scena Cristiana Voglino, Paolo Sicco, Monica Calvi. Le musiche sono composte e eseguite da Matteo Curallo e la regia curata da Renzo Sicco.

Kengah, una gabbiana avvelenata da una macchia di petrolio, in un gesto estremo, affida il suo uovo ad un gatto grande e grosso di nome Zorba, strappandogli tre promesse, di non mangiarlo, di averne cura finché non si schiuderà e di insegnare a volare al nascituro.

Luis Sepulveda, attraverso una storia metafora, racconta con la semplicità dell’uomo contemporaneo che, arrecando del male alla natura, si finisce per fare del male a se stessi. Un gatto d’onore inizia un’avventura lunga quanto un libro insieme ai compagni coraggiosi come gli scimpanzé nevrotici e a una impaurita gabbianella. L’autore, con la dolcezza di una favola, parla direttamente all’uomo, grande o piccolo che sia, rammentandogli i doveri verso la natura e anche quelli verso se stesso. In scena si fondono immagini e parole, disegni e voci, musiche con il racconto, capace di proporre un gioco in cui i diversi personaggi prendono vita attraverso un’esilarante Cristiana Voglino. Ora segretario, ora Zorba, ora piccola gabbianella, a ogni personaggio vengono attribuiti un accento e un carattere particolare, che conducono dritti tra gli sviluppi del racconto. Dietro la personalità teatrale di Cristiana Voglino, i disegni di Monica Calvi danno forma alle parole e le animano rendendole concrete. Il designer Francesco Iannello ha creato il tavolo “uovo” attraverso il quale si muovono i gatti che invitano a tuffarsi in una storia tonda, capace di catturare grandi e piccini attraverso il divertimento e l’emozione sincera. La musica è composta appositamente da Matteo Curallo erappresenta un ponte che unisce tanti ingredienti capaci di trascinare lo spettatore in un viaggio magico. A lui non resta che partecipare al gioco, lasciandosi trascinare da gatti giocherelloni, fino a provare a volare.

Età  consigliata dai 4 anni.

MARA  MARTELLOTTA