Sugli schermi dei cinema torinesi
PIANETA CINEMA a cura di Elio Rabbione
Si apre e si chiude, in un cerchio perfetto di arte e d’amore, di realtà e di sospiri che si sono poco a poco spenti, di malinconia, di una alta sensibilità e di una cruda solitudine, la mattina del 16 settembre 1977, nell’appartamento parigino al 36 di avenue George Mandel – una curiosità che tutti conoscono, abitava al piano di sopra il nostro Mastroianni con la figlia Chiara che di tanto in tanto orecchiava quella splendida voce -, la vita di madame Callas, all’età di 53 anni, una vita ormai ripudiata, e non sarà neppur bello chiedersi ancora se si sia trattato di suicidio, subito allora smentito, o di un infarto risultato inevitabile dello sfinimento e di tante concause, non ultima l’abuso di quel Mandrax che si procurava illegalmente e che con parecchio altro nascondeva per la casa, nei cassetti e nelle tasche degli abiti: il corpo disteso sul pavimento, i due domestici affranti, le sporte della spesa lasciate cadere e una sola telefonata, il medico tante volte allontanato, due poliziotti e due barellieri, la macchina da presa che osserva ogni cosa di lontano, quando ormai ha esposto ogni cosa e non ha più nulla da raccontare. L’inizio e la fine di “Maria”, dentro cui Pablo Larraìn, altalenante regista cileno che ha raggiunto ormai la cinquantina giungendo al suo undicesimo titolo – lo avevamo entusiasticamente conosciuto al Torino Film Festival nel 2008 con “Tony Manero” -, ha raccolto e raccontato con appassionata vicinanza l’ultima settimana di vita della Callas, affidando la propria “inchiesta” alla presenza di un giovane giornalista, attento a non turbare ma altresì capace ad azzardare ricordi e un passato che possono far riaffiorare dolori antichi (“La posso chiamare Maria o la Callas?”, ottenendo una opposta risposta secondo l’umore e i desideri della giornata; e ancora lei: “Voi non sapete quanto è difficile far passare la musica dalla pancia in platea!”), attraverso la sceneggiatura dovuta a Steven Knight e chiudendo (ma siamo davvero sicuri che in prossime prove non scoprirà altri ritratti a cui dare vita?) quella trilogia (al) femminile che era iniziata con “Jackie” (la vedova Kennedy) e “Spencer” (Lady Diana): con la soddisfazione che il terzo tassello risulti assai migliore dei precedenti, concreto, significativo, emozionante, di una scrittura che agisce in profondità e con estrema intelligenza.

Dentro un film sulla Callas non possono mancare i brani famosi e Larraìn li sparge attraverso quella settimana e in un passato che ha visto la cantante nascere a New York e crescere ad Atene, dove la madre in periodo bellico esponeva lei e la sorella Yakinthī (Valeria Golino, in un fugacissimo incontro) ai militari tedeschi, offrendone voce e movimenti di ballo, l’incontro a Venezia nel ’47 con Meneghini che non avrebbe mai amato e con il brutto Aristotele che sarebbe stato il grande amore di una vita, predatore capace di spostarsi con grande libertà tra nuovi passioni e camere da letto e appuntamenti galanti, pronto a spodestarla chiamando sul podio Jacqueline Bouvier (ad Ari la coppia Knight/Larraìn affida una delle battute più succose, e sono tante, del film: “Ci si sposa perché un giorno non si ha niente da fare”): da “Gianni Schicchi” ai “Puritanti”, da “Tosca” all’”Ave Maria” dall’”Otello, da “Anna Bolena” alla “Traviata”, con un piccolo capolavoro tecnico laddove alle registrazioni originali s’è unita la voce di Angelina Jolie, accanita studiosa e fervida reinterpretatrice. Sino a che tutto esplode nel “Vissi d’arte” in quel mattino di morte, con il pubblico sotto le finestre dell’appartamento, attonito e in adorazione come lo fu quello della Scala e dei tanti altri teatri, lei lassù tra accanimento e spasimi. Tutto si è concluso, il pubblico e il privato, Maria ha finito di aggirarsi tra le stanze della casa, anche lì come una diva, di giocare a carte (paiono le atmosfere dello “Scopone scientifico” di Comencini) con i suoi fedeli angeli custodi, Marta – una Alba Rohrwacher ingrigita e indaffarata a prepararle le omelette che tanto le piacevano – e Ferruccio – Pierfrancesco Favino, più convincente in quel muoversi colpito dai dolori alla schiena, “Fatti vedere dal medico che sei tutto storto”, nel muovere e rimuovere il pianoforte di casa, nell’inchinarsi, nel pronunciare “madame” e nel disporre rose nei grandi vasi.

Si è concluso il privato della sofferenza, del bruciare i vecchi abiti di scena (“Non c’è vita fuori del palco”), delle ultime fiammate (“Decido io cosa è reale e cosa no”), delle ultime prove con il pianista a saggiare una voce che non è più la stessa (“Scusami, sono in ritardo”, “Non sei mai in ritardo, sono gli altri ad essere sempre in anticipo”), del trovare rifugio nel caffè davanti a un alcolico ordinando di zittire quel disco che ancora una volta le riporta una voce perfetta e sublime. Immagini in bianco e nero si alternano al colore, sui titoli di coda altre che sono autentici documenti, diversità di formati dal quadrato al grandangolo che abbraccia panorami e platee e i viali ingialliti di Parigi (la eccellente fotografia è di Edward Lachman), tutto ruota attorno alla Maria che Angelina Jolie ha saputo costruire. Forse gioca anche lei sul suo privato e pubblico di grande diva e offre una performance del tutto convincente, recita e soprattutto vive in maniera autentica con gli occhi al riparo degli inconfondibili occhiali, con le mani che hanno un qualcosa di scheletrico, con il corpo che si muove in tutta la propria fragilità, con il passo maestoso o stanco, con l’autorità o la remissione: ogni gesto in previsione – forse? – di quell’Oscar che qualcuno ha già detto essere suo di diritto.
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“Le cose della vita” le avrebbe chiamate Claude Sautet, grande indagatore di sentimenti, pur con quei racconti intimi che paiono sparati con il cannone avrebbe sottolineato il tutto Lelouch con lo sguardo fissato su un uomo e una donna. Stéphane Brizé, conoscitore attendo del mondo del lavoro (“La legge del mercato”, “In guerra”) sposta adesso la macchina da presa sulla coppia, spiata tra le case sbarrate di un inverno nella penisola di Quiberon, nel nord della Francia – “Hors saison” suona il titolo originale del suo ultimo “Le occasioni dell’amore”. Mathieu, attore di cinema che gode di un buon successo e di un buon pubblico, fugge a gambe levate dalla sua prima esperienza teatrale ritenendosi del tutto inadeguato, a quattro settimane dal debutto, lasciando compagni e regista a leccarsi le ferite chissà come. Lui lo fa rifugiandosi in un elegante centro di talassoterapia, non avendo fatto i conti che a due passi ci abita, stancamente coniugata e con una figlia, una vecchia che non rispolvera da una quindicina d’anni. Tutto pare previsto. Riassunto dei rispettivi passati, un po’ di colpa a me e un po’ a te, passeggiate davanti alle onde alte del mare, silenzi e sguardi, transitamento per la camera da letto di lui, qualche spiegazione, lasciamoci così senza rancor. Tutto elegante, tutto sussurrato, tutto incredibilmente déjà vu, tutto condito di tempi lunghi e di momenti altrui che hanno proprio la sembianza di dover riempire e slungare una storiella a tutti i costi, con il vuoto della anemica vicenda che si fa sempre più vuoto e con i dialoghi messi sulla pagina dal regista che li sparpaglia qua e là al colmo dell’avarizia.

Senza partecipazione, troppo in punta di piedi, a un risparmio che non costruisce, che non s’insinua, che non spiega mai. E tutto resta asfittamente in superficie, con una disarmante inutilità. Se Guillaume Canet tenta di variare tra pianto e sorrisi il suo Mathieu, Alba Rohrwacher mantiene su suolo d’oltralpe quella eterna sbiaditezza che le conosciamo da noi, la debolezza e il passo indietro nel porsi di fronte ai suoi personaggi, prevedibile di voce e di gesti, di quegli sguardi che rimangono eguali e bloccati davanti a un panorama che dovrebbe suggerirle un pensiero e un ricordo, davanti a un uomo che dovrebbe ispirarle un sentimento.
RUBRICA SETTIMANALE A CURA DI LAURA GORIA
Dopo generazioni che hanno sudato fatica e duro lavoro, la famiglia Cook è riuscita nell’ardua impresa di trasformare una terra inospitale in una delle tenute più floride della contea di Zebulon, nell’Iowa.
Siamo padroni del nostro destino? Quello che siamo, pensiamo, scegliamo, il nostro carattere, affondano radici profonde nella famiglia e alla latitudine del globo in cui nasciamo?
A 13 anni dalla scomparsa (nel 2012) della brillante scrittrice e sceneggiatrice newyorkese Nora Ephron, stroncata da leucemia fulminante, questo libro è la prima biografia italiana che ne ripercorre la vita in modo anomalo, ovvero attraverso un ricettario. Scritta dalla responsabile editoriale di Cook, Angela Frenda, ci racconta l’esistenza, i tormenti e le delusioni, ma anche i piatti tanto apprezzati dalla scrittrice.
Non avremmo mai pensato che un testo come questo fosse nelle corde della scrittrice da 12 milioni di copie vendute, Sveva Casati Modignani; nom de plume di Bice Cairati, classe 1938 e da sempre in vetta alle classifiche con la sua narrativa spesso snobbata dalla critica.







Codice risente di un protagonismo legislativo fuori luogo, ad esempio, in materia di etilometro. E’ giusto combattere gli abusi, appare sacrosanto garantire al massimo una guida sicura a tutela di sé stessi e degli altri utenti della strada, ma il controllo dei cellulari come lei indica mi sembra una violazione della privacy evidente. Il testo di un messaggio è ad ogni effetto una forma di comunicazione epistolare tutelata dall’ articolo 15 della Costituzione che parla di inviolabilità che può essere limitata solo da un provvedimento motivato dell’ Autorità giudiziaria. Ancora una volta l’abc del liberalismo appare del tutto sconosciuto. I messaggi non servono solo a scambiarsi auguri ed amenità varie. Sono un mezzo di comunicazione che a volte sostituisce il telefono.
Credo che si possa e si debba ricordare la prof. Maria Grazia Sestero che ha saputo mantenere una coerenza assoluta fino alla fine. Comunista era e comunista è rimasta. L’ho conosciuta in più occasioni e quasi mai ho potuto consentire con lei. A chi muore va sempre portato il massimo rispetto, anche se sinceramente non credo molto alla statura politica di chi non ha voluto comprendere che il comunismo è stato una delle più grandi tragedie dell’umanità. Posso giustificare un operaio poco scolarizzato, ma non chi ha diretto anche un liceo. Maurizio Ferrara, direttore de “L’ Unità” vissuto anche a Mosca disse che non leggeva certi libri perché altrimenti avrebbe dovuto cambiare la sua vita. L’assessore e anche parlamentare Sestero non credo che si sia posta questi problemi perché le sue convinzioni erano talmente radicate da non avere mai un dubbio ideologico. Tanti che oggi dimenticano il loro granitico passato comunista dovrebbero imparare dalla sua onestà.

