CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 143

Rock Jazz e dintorni a Torino: Depeche Mode e Roberto Vecchioni

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GLI APPUNTAMENTI MUSICALI DELLA SETTIMANA 

Lunedì. All’Imbarchino il duo di elettronica Crystal Pussy. La PFM torna all’Alfieri nel tributo  a Fabrizio De Andrè.

Martedì. All’Alfieri la cover band Big One reinterpreta le musiche dei Pink Floyd. All’Osteria Rabezzana si esibiscono Tiziana Cappellino e Alberto Marsico. Al Colosseo canta Loredana Bertè. Al Fortino “Canti resistenti” con Mattia Martinengo e Anna Spray.

Mercoledì. Al Lambic si esibiscono i Tribot. All’Alfieri per 2 sere consecutive è di scena Levante. Al Colosseo Belinda Davids reinterpreta le canzoni di Whitney Houston. Al Blah Blah suonano i Black Violence.

Giovedì. L’Istituto Musicale di Rivoli presenta Tomasz Ignalski con Giulia Bi. All’Hiroshima Mon Amour si esibisce Piotta. All’Hilton del Lingotto suona il quintetto del sassofonista Bobby Watson. Al Colosseo arriva Roberto Vecchioni. Al Blah Blah si esibisce King Salami & The Cumberland Three. Allo Spazio 211 è di scena Hannah Jadagu.

Venerdì. All’Audiodrome di Moncalieri si esibisce Fatboy Slim. Al Folk Club canta Norma Winston in quartetto. Al Concordia di Venaria per 2 giorni consecutivi si esibisce Giò Evan. Allo Ziggy suonano gli HypNOgeO e Blue Lies. Al Colosseo si esibiscono I Musici di Francesco Guccini. Allo Spazio 211 è di scena Jozef van Wissem. All’Hiroshima arriva Giancane. Al Blah Blah suona la chitarrista Sara Ardizzoni.

Sabato. Allo Ziggy sono di scena i Guineapig. All’Inalpi Arena sold out per i Depeche Mode. Al Bunker tecno con Skee Mask e Zenker Brothers. Al Magazzino di Gilgamesh si esibisce la vocalist JJ Thames. Al Magazzino sul Po suona il trio Lalalar.

Domenica. Al Blah Blah si esibiscono i Pom.

Pier Luigi Fuggetta

Il cav. Carlo Antonio Napione (Torino, 1756 – Rio de Janeiro, 1814) presupposti e pretesti per una postilla

La Storia ha il delicato compito di far conoscere la verità di quelli che non ci sono più. Talora allo storico è permesso di formulare delle ipotesi, che altri potranno, nel tempo, verificare e anche smontare, ma tutti dovremo sempre rispettare scrupolosamente la verità …

Carlo Antonio Napione a Rio abitava non lontano da dove, prima di rientrare a Torino nel 1985, ho vissuto i miei ultimi anni in Brasile. Ai suoi tempi si parlava di “Morro do Castello” (cioè Collina del Castello) mentre, negli anni Ottanta, là non rimaneva più traccia di una zona alta e il nome designava appena una regione al Centro della città, vicina all’Aeroporto Santos Dumont. Quella zona era nata nel 1922 a seguito dello spianamento della collina omonima, ma, con lo spostamento di terra e altri materiali di sgombero, si alterò irreversibilmente la morfologia del territorio, non solo eliminando ogni traccia dell’altura, ma addirittura ricolmando alcune insenature della costa. Per documentare visivamente l’ambiente, ricorro qui a un delicato acquarello del 1809, mentre più avanti darò testimonianza dei funerali di Napione al convento di Sant’Antonio a Rio con l’immagine dello stesso luogo con un corteo funebre (la litografia è tratta dal libro «Voyage pittoresque et historique au Brésil» che il parigino Jean Baptiste Debret pubblicò a Parigi da Firmin Didot et frères tra 1834 e 1839, dopo aver vissuto a Rio per quindici anni, a partire dal 1816).

Nell’ambito del Castello, Napione era proprio di casa, e tra noi, torinesi, sebbene distanti nel tempo, si venne a creare una buona sintonia intanto che, per conoscerlo, indagavo su di lui e lo studiavo. – Ai miei tempi, quando si facevano questi studi dal Sud America, si partiva un po’ svantaggiati, perché, non essendoci ancora internet, i contatti si svolgevano esclusivamente per posta, e questo costringeva a lunghi periodi di attesa tra la richiesta e l’arrivo delle informazioni (che spesso non arrivavano neppure) …

Personalmente, non mi lamento affatto di aver utilizzato ancora i mezzi di comunicazione più tradizionali. Infatti, così facendo, ho meglio apprezzato in un lettera di Napione per il fratello, quando scriveva di doversi affrettare per chiudere la pagina poiché la candela stava consumandosi ma, col moccolo ancora acceso, avrebbe ancora dovuto sciogliere la ceralacca per sigillarla, prima di consegnarla al postiglione che era pronto a partire… perché sono quelle delle considerazioni di grande vivacità. Su quei fogli però, le annotazioni di chi aveva ricevuto le lettere, non sono meno significative perché ci permettono di dire come non fosse poi così lento il servizio postale internazionale tra Sette e Ottocento! Soprattutto, tornando alle considerazioni sulle nostre corrispondenze però, dirò che quelle lettere mi hanno permesso di stabilire buoni contatti con studiosi di tutto il mondo (dei quali conservo gli autografi), in particolare voglio ricordare che, dall’Italia, Luigi Bulferetti mi rispose subito (chiamandomi “collega”, titolo che, subito, mi premurai di rettificare) e poi mantenne con me un’amicizia che sarebbe durata fino alla sua morte (per questo mi domando perché mai, a richiesta di un innominato e innominabile referee, io dovrei raccontare di un mio alunnato presso di lui, se mai ci fu?). Nella Rio de Janeiro, di quei miei anni, incontrai anche il generale di divisione Francisco de Paula e Azevedo Pondé, storico militare di fama mondiale (il cui nome Luciano Tamburini pretendeva che io rettificassi per adeguarlo alla forma errata riportata da un repertorio statunitense)! Ma, lasciamo da parte quelle assurde pretese, posso ricordare che, in entrambi i Paesi, i due studiosi furono i primi che, negli anni Sessanta, si occuparono di Napione. (Io, che sono intervenuto collegando le indagini e gli studi fatti in Europa con quelli brasiliani, sono stato il primo a fare questa sintesi, rimediando alla dicotomia che è nelle biografie di tanti i personaggi le cui vite si sono svolte su continenti diversi.

Ho dedicato una ventina d’anni ai miei approfondimenti, e li ho conclusi pubblicando gli esiti dei miei studi in due corposi volumi (le cui copertine riprendo qui sopra), (che, prima che fossero stampati, un’operatrice culturale, che a Torino ha voce in capitolo, con tutta la delicatezza dell’elefante nel negozio di porcellane, definì un “mastodonte”). Ora per allora le ribatto che per un personaggio come Napione, la cui vita fu ricca di attività e di viaggi, non bastava un profilo minimo ma, poiché su di lui si era detto poco o nulla, era necessario ricostruirne la storia e, siccome i documenti che lo riguardano erano tantissimi e per lo più inediti, bisognava raccoglierli, studiarli, renderli pubblici un po’ come si fa nelle cause di canonizzazione dei santi.

Non si trattava neppure di un lavoro semplice perché si doveva ricollegare il periodo piemontese (e europeo) della sua vita a quello portoghese (e brasiliano), quindi, una volta raccolti i documenti in giro per il mondo, era necessario trascriverli (ed erano tanti) e poiché, tra quelli, molti erano in Portoghese, Svedese e Tedesco, bisognava tradurli, mentre si poteva credere che, trascritti, bastasse solo pubblicare quelli in Italiano e Francese (però, se si pensa al riferimento a Lagrangia nelle carte di Papacino D’Antoni che vi ho già segnalato, si può pensare che serva a poco pubblicare i documenti dopo averli recuperati, e questo anche se li abbiamo anche trascritti e annotati)!

Napione fu un artigliere, un chimico, un mineralogista e un metallurgo notevole, e in vita aveva avuto onori (come le nomine a Cavaliere dell’Ordine dei Santi Maurizio e Lazzaro, di Torre e Espada, Grande de Portugal) e riconoscenze [quali la chiamata alle: Reale Accademia delle Scienze di Torino, Societät Der Bergbaukunde (Società Montanistica di Germania), Kungl. Vetenskapsakademie (Accademia delle Scienze di Stoccolma), Jenaische Mineralogische Societät (Società Mineralogica di Jena), Academia Real de Sciencias e Sociedade Real, Maritima, Militar, e Geografica di Lisbona], nel tempo aveva poi anche assunto (come specificherò più avanti) diversi incarichi di responsabilità, ma la sua vita, un po’ come quella della più parte di noi, non fu mai distinta per degli atti eroici, ché, come, da giovane, ebbe a scrivere al fratello, nello scendere e salire per le miniere dell’Alta Europa, si trovava soddisfatto anche se era stanco come un mulo e sporco come un maiale!

Mi domando allora a chi giovi sapere che nella biografia sintetica, che di lui pubblicò il Dizionario Biografico degli Italiani, citando i miei studi, qua e là, quasi di proposito, abbia disseminato notizie fake che non si potranno mai confermare. Io lo segnalo domandandomi che senso ha per la Storia dire che un simile racconto è ispirato ai miei studi? Infatti quelle affermazioni mi denigrano, accusandomi indirettamente di falsità, e screditano il mio onesto e scrupolosissimo lavoro … – allora ribatto, ricordando che i pezzenti “più fortunati” vivono nella Capitale, perché sanno che, se allungano la mano sulle cose degli altri, ci sarà sempre un’indulgenza plenaria che concederà loro l’assoluzione piena della colpa e, senza che sia loro richiesto di restituire il mal tolto e senza che debbano nemmeno scusarsi, non saranno mai tenuti a pentirsi di nulla? – Ben altra cosa sono il senso di dignità e l’orgoglio per un “bel lavoro” fatto che i nostri vecchi, geograficamente più vicini a Cornelis Jansen e a Jehan Cauvin (vulgo: Giansenio e Calvino), ci hanno trasmesso col ricordo della loro sana e serissima operosità!

Ma torniamo alla fine del nostro Napione che, per essere avvenuta nella “cidade maravilhosa”, fu davvero tutta tinta di colori foschi, non già da quelli vivaci di un carnevale carioca (dove con l’aggettivo intendo, come si deve, la città di Rio e non “tutto ciò che è brasiliano”, come erroneamente riferiscono tanti comunicatori disinformati). Su di essa domina il grigio con cui terminano tanti sogni e si sviluppano, per l’intera durata, gli incubi … per questo ora ritornerò meglio sull’ultimo periodo della sua vita, perché devo definire alcuni aspetti che avevo lasciato appena accennati. Nella fattispecie, nel capitolo 16° del mio Napione, accenno a una Donna Gertrude Maria Pereira Caldas, la quale, dopo aver assunto, per il nostro, un ruolo di governante, nel testamento, fu da designata sua erede universale. Dopo la pubblicazione del mio saggio, sono ritornato su quel personaggio femminile… in nessuno degli Almanacchi storici (quello di Lisbona per il 1807, ripubblicato integralmente nella «Revista do Instituto Histórico e Geográfico Brasileiro» Apêndice ao vol. 290 – 1971, e quello di Rio per il 1811, ripubblicato integralmente nel vol. 282 – 1969 della stessa rivista) non c’è traccia di lei… Questo potrebbe significare che fosse ancora troppo giovane, poiché i nostri documenti sono tutti di un intorno di tempo prossimo al 1814! Però tanto giovane io predo che non lo fosse, all’assumere la gestione e la custodia dell’abitazione del nostro cinquantaseienne.

Il Torinese abitava nel così detto “Calabouço” (nome che significa letteralmente “dungeon” e indica una “prigione”, una “segreta” o un “sotterraneo”, ma che, analogamente all’italiano “dongione”, può anche essere usato per la torre interna di un castello) su quei locali io già scrissi che erano accolti in una struttura, decentrata rispetto al vero e proprio castello, nei quali aveva funzionato una prigione e che erano stati scelti perché, in essi, Napione avrebbe installato anche il suo laboratorio chimico. Non dimentichiamo che si occupava di esplosivi (motivo per cui il laboratorio doveva presentare caratteristiche particolari e, nel caso, i muri rinforzati di una prigione potevano andare bene anche per quest’altro uso) e, poi, che, tra gli elementi che, normalmente, maneggiava, c’erano l’arsenico e il mercurio, solo per ricordarne due tra i più velenosi (ma di questo, se mai se ne occuperà chi vorrà approfondire il suo decesso) … Certamente poi, quella casa era frequentata dai militari subalterni suoi collaboratori. Ora, se ricordiamo che egli era Direttore della Fabbrica della Polvere e del Real Orto Botanico della Laguna Rodrigo de Freitas, Is­pettore Generale di Artiglieria, Consigliere di Guerra del Consiglio Supremo Militare, Is­pettore della Real Giunta degli Arsenali, Fabbriche e Fonderie, e che per quegli incarichi lui, che era straniero era apprezzato a corte e pagato bene, si può immaginare che questo causasse qualche gelosia, se non anche invidia tra alcuni esponenti dell’ambiente militare portoghese; e poiché si sa che, alla corte portoghese di Rio, erano abbastanza comuni i complotti e le congiure… così … dobbiamo ipotizzare che succedesse proprio contro di lui che, da qualche anno, essendo venuto meno il Conte di Linhares, aveva perso il protettore ufficiale, che non solo era ministro della guerra, ma un suo personale amico da lunga data, profondamente legato all’ambiente torinese dove aveva vissuto parecchi anni e aveva sposato un’Asinari di San Marzano!

Ma torniamo al Brasile! Casualmente, nella História Geral do Brasil di Francisco Adolfo de Varnhagen (vol. 3, t. V), ho ritrovato per ben due volte il nome di un portoghese, proprietario in Olinda, provincia di Pernambuco: Manuel José Pereira Caldas. La prima volta il 6 marzo, e l’altra, durante il governo repubblicano provvisorio di quelle terre, il 18 maggio 1817. Il nome, alla data del 9 maggio 1817, è accompagnato dall’epiteto di Robespierre della rivoluzione di Pernambuco e, nello stesso anno, un’efemeride ne chiarisce bene il perché, infatti riferisce che: «Il governo repubblicano di Pernambuco manda a fucilare un uomo impiegato al servizio del mare, per mantenere comunicazioni con il blocco del porto. Per questo e altri eccessi di potere contro gli europei, Manuel José Pereira Caldas meritò il soprannome di Robespierre». (Ephemerides nacionaes colligidas pelo Dr. J. A. Teixeira de Mello e publicadas na Gazeta de Noticias – tomo 1° – Rio de Janeiro, 1881, p. 295). Altri scritti più recenti poi, come la tesi di dottorato di Breno Gontijo Andrade (A Guerra das Palavras: cultura oral e escrita na Revolução de 1817, discussa a Belo Horizonte nel 2012), permettono di connotare meglio il personaggio. Così sappiamo che era portoghese di nascita, “doutor” (dottore, laureato in diritto), che iniziò la sua carriera in Brasile, nell’allora provincia della Paraiba, dove fu “ouvidor” (cioè: difensore civico), e che si dedicava anche all’amministrazione di uno zuccherificio di sua proprietà. In ultimo si ricorderà che, all’inizio del 1817, passava già i sessant’anni di età, quindi, citando lo storico Oliveira Lima, sapremo, ed è ciò che più importa, che era “dedicadíssimo à República e foi sanguinario nos seus ditos e pareceres, o que se confirma na documentação” e che, per quei suoi “pregi”, fu incaricato di scrivere la costituzione repubblicana di Pernambuco.

Uniti dallo stesso cognome (il quale è comune nella città portoghese di Braga), non sappiamo se e in che grado fosse parente della Gertrude, governante del generale, ma ci sono buoni presupposti per pensarlo e, quindi, per immaginarli coinvolti in un complotto ordito contro Carlo Antonio Napione, per questo ipotizzo che la morte del Cavaliere avvenisse per un omicidio deciso da un complotto ordito da un gruppo di rivoluzionari (vicini a quei repubblicani di Pernambuco che si sarebbero messi in luce per i fatti successivi) infatti, alla corte di Rio, essi contavano sull’appoggio di chi, appartenendo alla loro stessa organizzazione segreta, li avrebbe coperti e protetti… L’ipotesi non è così stravagante: nell’America Latina del tempo dominata dall’emblematica e sanguinaria figura di Simón Bolívar. Per questi motivi crediamo che la nostra non sia un’ipotesi del terzo tipo…

Carlo Alfonso Maria Burdet

(Dedico queste pagine alla memoria di Andrée MansuyDiniz Silva, Luigi Bulferetti e Raimondo Luraghi, storici di fama mondiale che, nel corso degli anni, seppero esprimermi la loro amicizia insieme alla stima per i miei studi).

“Time Square”, a Torino, è in Borgo Crimea a “Flashback Habitat”

Blasonate “opere d’arte” si specchiano in consumistiche “insegne pubblicitarie” …  e il match è davvero curioso. Senza vincitori né vinti!

Fino al 31 marzo 2024

Corso Giovanni Lanza 75, Torino. Siamo in Borgo Crimea. Qui ha sede da un anno, “Flashback Habitat. Ecosistema per le Culture Contemporanee”, la “casa della cultura condivisa, dove arte e vita sono strette in un binomio indissolubile”. E qui, fino al 31 marzo del prossimo anno, 16 “Stanze” racconteranno di “una metaforica piazza dove convivono a tu per tu” un’insegna pubblicitaria e un’opera d’arte, più o meno datata più o meno (ma prevale il “più”) blasonata. Siamo in “Time Square”, non nella celebre, turbolenta “Times Square” di Manhattan-New York, ma in “Time Square” (al singolare) dove  le parole “tempo” e “piazza” si “scontrano e ricompongono in nuovi significati”. Da questa sensazione nasce l’idea di Alessandro Bulgini, direttore artistico di “Flashback Habitat”, di realizzare la “strana” ma perfino “geniale” (e in ogni stranezza c’è sempre un po’ di genialità) mostra “Time Square. L’arte in piazza trascende il tempo”, che intende “indagare – spiega Bulgini – le connessioni tra arte e vita, esplorando frizioni e convergenze, nello specifico tra insegne pubblicitarie e opere d’arte come accade nelle piazze contemporanee. Un dialogo o, meglio, un match, sviluppato in sedici stanze rappresentative di sedici ipotetiche piazze”“La mostra – continua Bulgini che ne è anche curatore – è stata realizzata con lo stesso fare poetico che caratterizza la nostra idea di ‘Habitat’ dove le eccellenze si confrontano e si potenziano nel loro stratificarsi ed é stata resa possibile grazie all’amicizia con Paolo Genta, geniale architetto e paesaggista e Roberto Spiccia, eccellente artigiano. Entrambi hanno messo a disposizione la loro sensibilità e il loro sapere per rendere completa l’opera”. Per un attimo si possono chiudere gli occhi e riaprendoli non è poi così bizzarra la sensazione di trovarci in una “piazza” dei nostri giorni, stratificazione di tempi, di mode, di paesaggi che hanno mille volte cambiato faccia e mille volte architetture case palazzi. Piazze dove convivono gente e forme e strutture le più diverse, “che da entità geografiche si trasformano in entità socioculturali”. Mai come oggi ci appare accettabile e chiara la risposta del genio, unica e inimitabile icona della Pop Art, Andy Warhol a chi gli chiedeva cosa più gli fosse piaciuto di Firenze. Molto semplice la sua risposta: “La cosa più bella di Firenze è McDonald’s”. Parole da non intendersi come irriverenti nei confronti di una città che, ben si sa, è scrigno di arte superba, ma in cui Warhol ben riassumeva l’idea di luogo dai mille riflessi e dalle mille facce tutte compatibili e condivisibili fra loro. Pur nelle loro più stupefacenti diversità. E allora eccoci alle nostre 16 “piazze” realizzate in “Flashback Habitat”. “Per ogni piazza, su di un lato un’insegna spenta sul bianco algido e minimale della parete a rappresentazione della modernità, sull’altro un’opera su una parete dipinta con colori che hanno riferimenti alla storia dell’arte”. Sedici opere che convivono con sedici insegne pubblicitarie. E anche bene, sotto l’aspetto della mis-en-place. Nulla da dire. E voilà. Si inizia con l’enorme simbolo giallo-rosso a forma di conchiglia di capasanta della “Shell” messo a confronto con la scultura quattrocentesca in legno del viandante “San Rocco” di Giovan Angelo Del Maino, per incontrare (Stanza 2) la “Signorina Grandifirme” realizzata per “Essevi Ceramica Lenci” nel ’37 dal cuneese di Carrù Sandro Vacchetti messa a dialogare con l’insegna della “Peugeot”,  mentre la metafisica “Piazza d’Italia – Malinconia” di De Chirico (1949), viene risvegliata dai suoi onirici voli attraverso il duro confronto con l’insegna di “McDonald’s”. Il rarissimo capolavoro tipografico “Theatrum Sabaudiae” (1697), monumentale opera descrittiva di tutti i domini del duca di Savoia, un vero e proprio mix di finzione e realtà, fronteggia il simbolo della “Lancia”, uno scudo blu con lancia dal sapore araldico; altrove la “Vergine Addolorata” (XVII secolo) di Giuseppe Antonio Petrini si raffronta con l’insegna (bella in grande, come l’Azienda almeno tempo fa) della “Fiat”. Altra “Stanza”: l’opera del fotografo Gabriele Basilico “Beirut” (1991) documenta lo stato di devastazione della capitale del Libano dopo quindici anni di guerra civile, di fronte all’insegna della “Tamoil” che ci racconta lo stesso Libano negli anni 80. E l’iter prosegue, come “match fatti talvolta di coincidenze, altre volte di prolungamenti di storie, di combinazioni fortuite, tutti incontri che stimolano la nostra abilità di elaborare i dati e il nostro immaginario”.

Gianni Milani

“Time Square. L’arte in piazza trascende il tempo”

Flashback Habitat, corso Giovanni Lanza 75, Torino; tel.393/6455301 o www.flashback.to.it

Fino al 31 marzo 2024

Orari: ven. sab. dom. 11/19

Nelle foto: Giovan Angelo del Maino “San Rocco”, scultura lignea, 1490-’95 con “Shell”; Giuseppe Antonio Petrini “Vergine addolorata”, olio su tela, XVII secolo con “Fiat”; Giorgio De Chirico “Piazza dìItalia – Malinconia”, olio su tela, 1949 con “McDonald’s”; Gabriele Basilico “Beirut”, fotografia stampa ai sali d’argento del 2002 con “Tamoil” di Antonio Jordan

La rubrica della domenica di Pier Franco Quaglieni

SOMMARIO: Basaglia o Tobino? – La Pro Cultura Femminile – Lettere

Basaglia o Tobino?
Il centenario della nascita dello psichiatra Franco Basaglia che volle la chiusura dei manicomi, ma non capì che non bastava chiuderli perché i malati di mente potessero guarire, suscita ancora oggi costanti polemiche su un tema delicato e angoscioso per migliaia e migliaia di famiglie che hanno avuto o hanno un malato psichico che la chiusura dei nosocomi  abbandonò a sé stessi.
La legge 180  del 1978, scritta male ed applicata peggio, resta una legge non adeguata ,anche se la colpa fu dei basagliani perché il maestro morì nel 1980, appena due anni dopo. Tanto più lucida fu la posizione di Mario Tobino che si oppose alla utopia  buonista di Basaglia, vedendo nella riforma dei luoghi di cura il modo di curare con umanità quelli che venivano definiti  senza pietà matti. Tobino, invitato da me a Torino, fu contestato e non gli venne consentito di parlare. La vera colpa di tutto è dei piccoli seguaci di Basaglia che non ebbero il suo coraggio, la sua intelligenza  e la sua cultura, pur ritenendosi degli eroi come tanti medici torinesi di cui oggi nessuno parla , ma che si ritennero dei rivoluzionari ovviamente comunisti. Per pietà non ne faccio i nomi. Si cercarono, sgomitando, notorietà  effimera e immeritata, speculando con l’aiuto di giornalisti codardi, sulla chiusura di Collegno.  Anche un avvocato ultracentenario morto di recente fu della partita: non si sa  davvero con quale competenza , ma volle esserci anche lui. Già il solo termine “Psichiatria democratica” avrebbe dovuto far inorridire ed oggi dovrebbe  suscitare un riso di scherno per le vere follie demagogiche nate dall’eterno ‘68.
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La Pro Cultura Femminile
Sono stato a parlare di Bobbio alla Pro Cultura Femminile, nata a Torino nel 1911 che neppure il fascismo osò chiudere. E’ la più antica associazione culturale torinese e insieme all’Aci di Irma Antonetto è  stata la protagonista assoluta della cultura torinese, molto meglio del celebrato Antonicelli che aveva dietro di se’ il Pci, per non parlare di certi club femminili e femministi odierni fatti da madamazze, come le definiva Montanelli, più casalinghe frustrate che donne colte.
Ricordo la presidente Augusta Guidetti Grosso, anglista di fama, con cui trattenni un ottimo rapporto per tanti anni. Ho cercato di imparare ad organizzare un po’ di cultura, guardando all’esempio suo e di Irma Antonetto. La prof. Grosso, pur essendo moglie del sindaco di Torino e famosissimo giurista, era una donna totalmente libera da obbedienze di partito come dimostrò di essere anche il marito. La Grosso invitò a parlare nel 1966 il deputato missino Tripodi su Gozzano e i Crepuscolari. La conferenza non suscitò scandalo ed io studente di liceo andai ad ascoltarla perché già amavo Gozzano prendendo preziosi appunti che mi servirono per la Maturità. Con la prof. Grosso si stabilì un rapporto nel tentativo vano di mettere d’accordo l’associazionismo culturale torinese che in tempi successivi venne manu militari conquistato e piallato dal circolo dei lettori e dal Polo del 900. Ambedue però sbagliarono nella loro operazione di pulizia etnica e di egemonizzazione perché la Procultura e il centro che presiedo non si piegarono. Anche la prof. Grosso non avrebbe mai accettato di ammainare la bandiera gloriosa di oltre 100 anni di cultura libera.
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LETTERE scrivere a quaglieni@gmail.com
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Le Regionali di giugno
quaglieni penna scritturaDa quanto vedo, i candidati alle Regionali non sono dei migliori soprattutto nel centro – destra, mentre il centro – sinistra è ancora in affanno su un presidente che non avrà successo dalle urne, anche se si alleasse con Appendino in persona e trovasse l’appoggio del quasi novantenne Salza. Mi sorprende che i moderati di Portas si nascondano nella lista civica senza far dimettere il  loro assessore nella Giunta Lo Russo, tenendo il piede in due scarpe. L’assessore moderato in Giunta deve dimettersi! E che dire dell’”assenteista cronico” in Comune dove voleva fare il sindaco, il rag. Damilano, che candida un suo socio o dipendente nell’ industria delle acque, senza considerare il lampante conflitto di interesse con la Regione in tema di acque minerali, bene pubblico e non privato della famiglia Damilano?  Già la lista civica di un vicesegretario di Fi appare ridicola.  Mi sembra che si parta molto male. Negli altri partiti sempre gli stessi nomi senza ricambi. Nessun nome che riguardi la cultura, articolo ormai fuori moda. Posso dirlo? Mi appare un casino.  Vito Lo Cascio
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Sono totalmente fuori dalla mischia e non intendo esprimere giudizi specifici su operazioni che dimostrano ancora una volta la povertà della politica di oggi, a destra e a sinistra. Ambedue mancano di una classe dirigente locale e nazionale. Ma il peggio è in Calenda e in Renzi che ormai dovrebbero limitarsi a passare le proprie ore ai giardinetti . “Torino bellissima” appare politicamente ormai morta, pur avendo avuto ed avendo molti consiglieri comunali in carica. Un bel progetto che non è stato coltivato. Adesso anche “Torino bellissima” si rifugia sotto l’ombrello protettivo di Cirio. La lista civica dovrebbe portare voti, qui sembra invece che tutti si attacchino a Cirio per sperare in un seggio sicuro. Molti si illudono perché i seggi sicuri sono solo quelli del listino di cui non si sa nulla.
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Matteotti
Il centenario del delitto Matteotti moltiplica i libri sul tema, da parte di ex comunisti che hanno sempre disprezzato il socialista Matteotti. Libri stantii, ripubblicati con lievi correzioni che negano o svalutano il valore socialista di Matteotti per ripetere la solita vulgata antifascista. In testa a tutti si distingue il Polo del ‘900 e l’istituto Salvemini, come sempre allineato e coperto sull’estrema sinistra dopo la morte di Valerio Castronovo, uno storico vero.  Gino Lugli
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Sono anch’io impegnato con un piccolo libro per ricordare Matteotti e quindi mi astengo dal dare giudizi. Certo la storia è molto distante da certi autori che sono dei politicanti di lungo corso o dei semplici giornalisti che non sanno la storia.

Raffini: ritratti di artisti, galleristi e critici

Un lavoro fotografico di Mauro Raffini nato da un’idea di Gerry Di Fonzo nel 2012, oggi esposto in una rinnovata veste nello studio fotografico di Gianni e Edoardo Oliva, sede del Museo Eikòn. La mostra a cura di Sandra Raffini propone ritratti di galleristi, curatori, critici e storici dell’arte… Uno sguardo curioso sulla scena dell’arte e i suoi protagonisti, artefici di una nuova stagione artistica a Torino e dintorni.
Eikòn dialoga con i fotografi italiani e stranieri, organizza mostre e oltre ad esporre la propria collezione e i prestiti è museo virtuale (sul web) e itinerante. Affianca i giovani fotografi, progettando mostre collettive e collabora con le scuole di fotografia presenti sul territorio interagendo con studenti ed insegnanti.

Occhio al giaguaro

CALEIDOSCOPIO ROCK USA ANNI 60

Uno dei maggiori problemi che da sempre affligge la storia del rock a livello internazionale e in tutte le epoche è la fitta rete di omonimie tra etichette; la questione è sempre risultata estremamente complessa ed articolata, in molti casi di difficilissima definizione, specialmente quando uno stesso nome andava ad interessare localizzazioni territoriali omogenee o, ancor peggio, allorquando ad un’omonimia perfetta si sovrapponeva anche una quasi identica estensione temporale. Esistono infatti casi a volte inestricabili in cui il lasso temporale di vita di un’etichetta andava a complicare (anziché semplificare) il dilemma, conducendo molto spesso a clamorosi “vicoli ciechi” in cui risultava impossibile scindere l’identificazione di un’etichetta rispetto ad un’altra sostanzialmente e inconsapevolmente “gemella”.

Un esempio di nome assai diffuso tra i “labels” discografici in tutto il pianeta è “Jaguar Records”, che letteralmente compare in ogni continente (anche qui in Italia) e in ogni epoca, coprendo i più diversi generi musicali e i più differenziati stili. Inutile dire che nei soli Stati Uniti si sono registrate omonimie multiple a decine e decine, rese ancor più spinose (specialmente nei decenni 60 e 70) da etichette davvero scarne e scheletriche nelle indicazioni di sedi, produttori e distributori, prive perfino di minimi accenni perlomeno ad indirizzi cittadini di qualche luogo di incisione. Va da sé che quando ci si trova di fronte a “tabulae rasae” ed omonimie… ci sono ben poche vie d’uscita se non i numeri di matrice. Tanto peggio era nel fitto ginepraio delle etichette medio-piccole (di cui era inoltre impossibile stabilire se fossero entità autonome o sottoetichette secondarie per generi specifici).

Tra queste, tuttavia, mi piace puntare i fari su una “Jaguar Records” di Little Rock (Arkansas, probabilmente con sede in 1804 Johnson Street), nota agli appassionati di psych garage per un interessante 45 giri dei “Blues Foundation” che è quintessenza del genere garage “tardo”, in anni in cui al “fuzz” crudo e puro erano ormai subentrati suoni già evoluti e mutati. Questa etichetta si distingueva per il logo con cucciolo di giaguaro in riposo, scritta rossa in corsivo, fondo giallo senape (ma talvolta anche blu con scritta argento) e soprattutto per il fiero logo che recitava “Jaguar Records means GOOD sound”.

Come in molti altri casi di quel periodo (ricco di evoluzioni a volte fulminee) la vita dell’etichetta fu caratterizzata da incisioni sporadiche e fu alquanto limitata, se si pensa che restò operativa nel solo triennio 1967-1969; ciononostante è potuta entrare in alcune “compilations” recenti proprio grazie alle due incisioni che nella lista qui di seguito verranno puntualmente messe in risalto:

– The Federal Union “Can’t Stop, Can’t Go / A Day Without Time” [Acetato] [c.1967];

– THE ROUSTABOUTS “Just You And Me / Lonely Blues” (102) [1968];

– BLUES FOUNDATION “It’s Called Love / Summer Will Soon Be Gone” (81040) [1968];

– The Sound Investment “Ask The Lonely / Happy Song” (90344) [1969];

– Harold Troxler with The Singles “Old Antioch / Steal Away” (90466) [1969].

Gian Marchisio

Il Museo Egizio festeggia il suo bicentenario a Lisbona con Christian Greco

Il 14 marzo un pubblico vario e qualificato è confluito a Lisbona in occasione della conferenza “Il Museo Egizio e le sfide del futuro: Ricerca, inclusione e transizione digitale“, tenuta dal suo direttore Christian Greco. L’evento, organizzato dall’Istituto Italiano di Cultura di Lisbona, si è distinto come contributo significativo alla celebrazione del bicentenario della fondazione del museo, consentendo di tracciare nuovi orizzonti per il museo del futuro e di anticipare gli ambiziosi progetti di questa centrale istituzione torinese, all’insegna dell’apertura, dell’inclusione e del coraggio.

Presso la splendida cornice dell’auditorium del Museo della Farmacia di Lisbona tra il numeroso pubblico presente sono intervenute diverse personalità del mondo accademico locale. Oltre al direttore del Museo della Farmacia e presidente dell’Associação Portuguesa de Museologia, João Neto, erano presenti in sala António Carvalho, Direttore del Museu Nacional de Arqueologia (MNA) e gli archeologi intervenuti nel convegno “The Khedives’ Gift”, parimenti organizzato dall’Istituto: Alessia Amenta, curatrice del Reparto Antichità Egizie e del Vicino Oriente dei Musei Vaticani, Paola Buscaglia, restauratrice e coordinatrice del Laboratorio di Scultura Lignea della Fondazione Centro Conservazione e Restauro “La Venaria Reale”, Patricia Rigault-Deon del Museo del Louvre, Anne Haslund del Museo nazionale danese, Daniel Soliman del Museo nazionale delle antichità di Leida, Jaume Vilaró Fabregat e Agnese Iob.

L’incontro, moderato dal direttore dell’Istituto Stefano Scaramuzzino, è stato incentrato sul rinnovamento permanente del concetto di museo, aperto verso la città e il mondo e incardinato sull’asse della ricerca, visitabile secondo paradigmi mutevoli. Un luogo in cui la collaborazione e la scoperta accademica, con l’ausilio delle nuove tecnologie, diviene base per la partecipazione delle comunità.

Come riferito dallo stesso Greco l’anno del bicentenario sarà attraversato da profonde trasformazioni sia dal punto di vista architettonico, sia con riallestimenti innestati sugli ultimi risultati della ricerca internazionale. Il museo si rinnova in un’ottica di apertura metaforica e fisica verso la città, attraverso la rifunzionalizzazione dei suoi spazi. Il pubblico ha così potuto sia assistere ad esempi di integrazione delle nuove tecnologie all’interno degli spazi attuali, sia interrogarsi sulle tematiche che il mondo museale deve affrontare per guidare il dibattito delle società e restare al passo con i nuovi valori emergenti: rimozione degli ostacoli materiali e normativi all’accesso al sapere, dialogo con le sensibilità delle culture dei luoghi di rinvenimento delle opere, trattamento dei resti umani.

Particolare emozione hanno suscitato l’annuncio del film documentario “Uomini e Dei – Le Meraviglie del Museo Egizio” (2023) e l’illustrazione delle coraggiose riformulazioni dell’iconica galleria e del cortile del palazzo barocco dell’Accademia delle Scienze, sede del Museo, che diverrà uno spazio coperto, accessibile liberamente e profondamente connesso con l’interno del Museo.

La presentazione del volume “Alla Ricerca di Tutankhamon“, pubblicato nel 2023 in occasione del centenario della storica scoperta di Howard Carter e ristampato nel 2024 in seconda edizione, è stata fortemente intrecciata alle tematiche presentate, consentendo di aprire un dibattito con il pubblico sugli interrogativi che l’archeologo e i musei si pongono nel rapporto col passato, e sulla consapevolezza della centralità del metodo e delle forme espositive, tanto negli allestimenti quanto nelle pubblicazioni. Nella sessione di autografi che ha seguito la conferenza il volume ha registrato il tutto esaurito.

Ivan Cotroneo per la prima volta autore e regista di teatro: ed è un successo

Sino a domenica repliche all’Alfieri di “Amanti”

Lui è Giulio, signore tranquillo che ha superato la quarantina, una moglie e tre figli che gli ricordano più una baby gang piuttosto che un’adorata discendenza. È lì nell’androne di un palazzo, sta salendo con l’ascensore al quarto piano dello stabile per l’appuntamento che ha settimanalmente, del tutto tranquillo davanti al proprio avvenire. Lei è Claudia, caotica, femminilmente pasticciona, a casa un marito più giovane che la ama, l’assenza e il desiderio di un figlio che scopriremo è la sua spina nel cuore. Lei da quel quarto piano è appena scesa, terminato l’appuntamento che pure lei ha settimanalmente. Le presentazioni, una stretta di mano. Poi, nella scena successiva – dopo che su di un trasparente, come in un film che si srotola sul grande schermo, sono apparsi titolo, attori, “sceneggiatore” e regista e produzione -, Giulio e Claudia sono a letto, a far l’amore in una stanza d’albergo che diverrà la loro seconda casa, un altro mondo, quella dell’amore e del sesso, delle confessioni e dei sorrisi, dell’allegria e dei sensi di colpa, dei loro sette mesi che fanno non una storia ma una relazione, di quelle che, tra alti e bassi, tra ferree decisioni e languidi tentennamenti, ti sconvolgono l’esistenza. Due clandestini, due persone che hanno bisogno d’amore, due persone che a poco a poco scivolano verso la sincerità e la necessità di un amore che non può essere abbandonata. Non cancellando quell’appuntamento settimanale – svolto da soli o con i rispettivi coniugi, una terapia di coppia che dovrebbe sistemare parecchie cose – che è stato la miccia che ha deflagrato ogni attimo, le sedute da parte di ambedue sul lettino dell’analista Gilda Cioffi, un’ora tu e un’ora io, uno all’insaputa dell’altro, finché il gioco regge e il meccanismo non s’inceppa, tra piccole e grandi menzogne, tra imbrogli e momenti sbagliati, tra equivoci e sfiducia, tra bugie da manovrare e appuntamenti da inventare, mentre tutto si appiana e tutto s’incasina.

Quale sia lo sbocco finale di una felicissima commedia è meglio tacerlo al pubblico che vorrà divertirsi nella sala dell’Alfieri sino a domenica. “Amanti” la si deve alla raffinata scrittura, sempre leggera e mai volgare, alla piacevolezza, al grande mestiere del napoletano Ivan Cotroneo (classe 1968), prolifico autore cinematografico (per tutti, “Io sono l’amore” di Guadagnino, “Mine vaganti” di Ozpeteck, “La kriptonite nella borsa” da lui stesso diretto) e televisivo (per tutti, “Tutti pazzi per amore” di Riccardo Milani, “Sirene” di Davide Marengo, “La Compagnia del Cigno”, ancora lui alla regia), qui per la prima volta pronto a cimentarsi con un’opera teatrale. “I temi di ‘Amanti’ – spiega Cotroneo – mi appartengono da sempre. Nei miei romanzi, nei film, nelle serie televisive che ho scritto e diretto, il confronto tra il maschile e il femminile, tra rottura degli stereotipi di genere, la prepotente forza del sesso e quella ancora più devastante dell’amore, hanno sempre avuto grande spazio, nel tentativo continuo di raccontare l’evoluzione della società e del costume attraverso le relazioni amorose”. Questo e l’intero racconto della vicenda gli è venuto benissimo, una serie di spaccati gustosi, un autentico addentrarsi nelle differenti psicologie, nell’approfondimento di tutti i caratteri, nei sentimenti che prendono corpo giorno dopo giorno, nei bisticci e nelle rappacificazioni, una scrittura fluida e appassionata, divertente e precisa: unico appunto, Cotroneo invece di chiudersi nel recinto della lingua partenopea e nella napoletaneità avrebbe dovuto di tanto in tanto italianizzare e allargare i confini, con buona soddisfazione delle altre piazze dello stivale.

Godibilissimo Massimiliano Gallo, mattatore della serata, un panorama di allegria e di battute (ripeto, per chi scrive alcune infelicemente perdute) e di monologhi in cui l’attore – grande Malinconico o signor Tataranni o capo drappello di Pizzofalcone – si fa maschera, sempre più erede di Troisi e del grande Eduardo. Basta guardarlo mentre come il primo lavora con le mani accanto al viso o come il secondo s’arrotola frase dopo frase, parola dopo parola, pausa dopo pausa, silenzio dopo silenzio. Grandioso. Fabrizia Sacchi è una Claudia giusta e animata in questa sua richiesta d’amore, nella ricerca dei momenti di felicità e nella costruzione del suo covo segreto, nella sua oasi in mezzo al deserto, serena e contraddittoria, tutta tesa alla serenità finale, che non è certo fuori dalle lacrime. Anche per Orsetta De Rossi, analista dispensatrice di consigli e di kleenes, non esente suo malgrado dagli scatti d’ira, applausi a scena aperta, meritatissimi. Con loro i più che apprezzabili Eleonora Russo e Diego D’Elia. Successone e pubblico alle stelle: non guastava neppure la colonna sonora (da Tenco a Vanoni, da Endrigo a Paoli, giù giù verso i Sessanta/Settanta) che non faceva che ribadire l’amore di Cotroneo per la canzone – gli intermezzi canterini degli attori già apprezzati in certi sceneggiati televisivi – e per queste sospensioni, con evidenti coretti in sala.

Elio Rabbione

Nelle immagini, gli interpreti principali Massimiliano Gallo e Fabrizia Sacchi, il gruppo al completo del cast con pure, al centro, l’autore e regista di “Amanti” Ivan Cotroneo.

Per la pittrice Elsa Martinetti una triplice mostra in Valle

Una mostra postuma per Elsa Martinetti? No, tre!

E la fama, che l’artista aveva in vita, la sua aura di eccezionalità, si protrae con le iniziative promosse in Vallée d’Aoste tra la fine di questo inverno e la metà di aprile. Così, grazie alla disponibilità e alla collaborazione dei suoi nipoti, Emanuela e Stefano Barreri, alcuni suoi lavori potranno essere (ri)visti in esposizione.

Della sua arte già ho scritto in altre occasioni, per cui è bello poter leggere quanto scrisse la bella penna di Albino Galvano, artista e critico che la pittrice di Verres frequentò ed anche apprezzò, così come a noi piace, disporre di altre foto dei suoi quadri per offrirvele in questa sede, mentre al suo ricordo ritorno ad offrireuna mia composizione di 22 anni fa.

Serviranno da anticipo della sua arte, ché le opere sue che vedrete esposte, soddisferanno quella necessità di tornare con lei… una volta dato per certo, che lei continua comunque a rimanere nella Vallée che tanto ha amato!

                     

Carlo Alfonso Maria Burdet