CULTURA E SPETTACOLI- Pagina 142

Stati d’animo e brama di evasione negli “Incubi” di Andrea Donna

Andrea Donna, giornalista pubblicista, molto impegnato sul territorio torinese, ha pubblicato recentemente per Aristodemica l’opera dal titolo “Incubi”, una raccolta di poesie e una riscrittura dei “Fungi from Yuggoth “ di Howard Phillips Lovecraft, scritto tra il 27 dicembre 1929 e il 3 gennaio 1930, durante il periodo natalizio. Una raccolta che fornisce l’impressione che l’autore ci trasporti in mondi antichi, più che primitivi, precedenti al Diluvio, incidentalmente sopravvissuti al loro sgretolarsi. Immagini che ben rappresentano il mondo onirico, composto da istinti e fasi inconsce, quindi assenti di razionalità. D’altra parte uno dei ruoli fondamentali della poesia è quello di trasportare nella nostra quotidianità un intimo molto lontano persino da noi stessi e dalle nostre percezioni.

 

Partiamo dal titolo della raccolta poetica ‘Incubi’ in cui si avverte l’influenza di Lovecraft e di Edgard Allan Poe. Qual è l’intenzione primaria di questo titolo?

La parola che dà il titolo alla raccolta stessa va intesa in senso stretto, didascalico. Gran parte dei sonetti non sono che la trascrizione in versi, spesso fedele, di incubi da me realmente sognati. Un sogno particolarmente vivido trasposto in forma poetica assume, credo di poter dire, una potenza simbolica nuova, universale, in grado di comprendere grandi, se pur vaghi, significati, e di far vibrare qualche corda nell’intelletto e nell’animo del lettore”

Il richiamo ad alcuni arcaismi e alla forma del sonetto elisabettiano è correlato alla Sua traduzione dei Fungi di Lovecraft, contenuti all’interno del libro, oppure si tratta di una Sua esecuzione letteraria basata su quello che è il Suo pensiero riguardo alla poesia e al modo migliore di porgerle ai lettori?

Gli “Incubi” sono stati composti dopo la riscrittura dei “Funghi di Yuggoth”, ne ricalcano programmaticamente vocabolario, registro, atmosfera, prosodia. Ecco dunque una forma vetusta, quella del sonetto elisabettiano, e una lingua dichiaratamente arcaica e polverosa, scelta perché congrua rispetto alla materia trattata e cantata e, giacché questa poesia non è solo lirica, ma narrativa, raccontata”.

A che pubblico si rivolge questa raccolta poetica ?

Ho iniziato a tradurre il primo sonetto dei “Fungi” quasi vent’anni fa, nella primavera del 2004. Tradotto il trentaseiesimo, ho provato quel senso di perdita che, talvolta, provano i lettori di un romanzo particolarmente coinvolgente arrivati all’ultima pagina. È stato dunque naturale per me, che avevo ancora nella mente il ritmo, la prosodia e il linguaggio dei “Funghi di Yuggoth” proseguire con un nuovo sonetto, questa volta di materia completamente originale. Il primo sonetto degli “Incubi” (mi pare sia “La Prigione” il primo a essere stato composto) può dunque intendersi come il trentasettesimo dei “Funghi”. Ne è poi seguito un trentottesimo, un trentanovesimo e così via, fino al raggiungimento del numero 36, per me importante per una questione meramente estetica e formale di simmetria dei due canzonieri. La lettura dei “Funghi di Yuggoth” e degli “Incubi” presuppone una certa concentrazione, vista la scelta linguistica che predilige un vocabolario arcaico, desueto, ostico: ma in realtà la scrittura dei due canzonieri mima i modi della composizione popolare, ingenua e scevra da sovrastrutture accademiche. Diversi lettori potranno trovare in questo libro un livello di lettura – ce ne sono diversi – a sé congeniale”.

Un tema che sento ricorrente all’interno di queste raccolte è quello della caduta, rappresentata da poesie come ‘Il pozzo’ e ‘La caduta’. Quest’ultima, in particolare, è vicina a uno stato di coscienza. Si tratta di una descrizione molto simile a uno stato ansioso. Vi è in queste due liriche legate agli Incubi qualche aspetto di lei che da inconscio diventa conscio?

Credo sia probabile, dal momento che la materia di molti dei componimenti è materia onirica in senso stretto, sono eventi che ho sognato davvero. La claustrofobia la caduta, l’angoscia, il terrore sono stati d’animo ricorrenti, come anche la brama di evasione, di riposo e di elevazione dell’Io lirico, che, per definizione, non coincide con l’Io biografico dell’autore, come la nostalgia e la malinconia”.

Si tratta di un’opera che senti conclusa o pensi di darle un seguito ?

Non credo ci sarà un seguito, sto concludendo un’altra doppia raccolta in tema e stile molto diversi: cento haiku e cento haisan.

MARA MARTELLOTTA

L’isola del libro

RUBRICA SETTIMANALE A CURA DI LAURA GORIA

 

Tessa Hadley “Free love” -Bompiani- euro 19,00

La scrittrice inglese Tessa Hadley ambienta questo romanzo nei turbolenti anni 60; quelli ribelli della Swinging London, in cui il vecchio mondo con le sue tradizioni e certezze viene messo in discussione all’insegna di una nuova libertà. Gli inebrianti anni dei Beatles e delle minigonne di Mary Quant.

Protagonista è la 40enne Phyllis Fischer, affascinante e perfettina signora, appagata nella sua villetta Art and Craft in un elegante e ordinato sobborgo borghese di Londra. E’ lì che vive con il marito Roger, alto funzionario del Foreign Office, e i loro due figli: l’intelligente e studiosa Colette, alla soglie dell’adolescenza, e il piccolo Hugh di 8 anni, coccolato e viziato.

In questo sereno e collaudato mondo sta per arrivare a cena, una sera del 1967, il figlio di un’amica di Roger, il 20enne Nicholas Knight: arruffato, bello e trasandato, ribelle con velleità da scrittore, giornalista per riviste off. Si presenta svogliato e in ritardo, sprezzante nei confronti di quella famiglia che considera un residuato fascista, ormai obsoleto.

Poi in un attimo tutto cambia con un bacio imprevisto e furtivo nell’oscurità del giardino tra Nichy e Phyllis. E’ l’inizio della valanga che travolgerà le certezze della donna, la quale inizia a riconsiderare i parametri della sua vita e del formalismo che la permea.

Quella che in un primo tempo sembrava una relazione furtiva diventa dirompente. Phyllis abbandona marito (mai tradito prima) e figli e, senza un’oncia di rimpianto, va a vivere con il ragazzo (quasi coetaneo di sua figlia) immergendosi totalmente nel suo mondo. Si ritrova a vivere nella squallida stanzetta di Nichy, in una casa fatiscente occupata da artisti e membri della working class, intenti a voler cambiare il mondo.

Tessa Hadley non emette giudizi, si limita -con la sua sottile bravura- a raccontare una storia in cui la ricerca di libertà della protagonista lascia dietro di sé macerie, soprattutto negli animi dei figli, che reagiscono ognuno a modo suo.

Colette fa uno scatto di maturità, accudisce padre e fratello come una donna adulta e responsabile; ma inizia anche a scoprire nuovi lati di se stessa e a trarre ispirazione dalla ricerca di emancipazione della madre.

Hugh invece dice a tutti che la madre è morta.

Resta da scoprire… e lo farete leggendo.. come andrà a finire la liaison dangereuse di Phyllis e Nicky e le conseguenze.

 

Caroline Laurent “Le rive della collera” -edizioni e/o- euro 20,00

Caroline Laurent è una scrittrice franco – mauriziana, nata nel 1988, editrice e professoressa associata di Letteratura Moderna alla Sorbona; questo è il suo secondo romanzo ispirato alla storia della sua famiglia e ad una pagina di storia coloniale.

Ambientato nell’Oceano Indiano, narra un dramma del quale poco si è detto: la deportazione degli abitanti di un’isola dell’arcipelago delle Chagos, Diego Garcia, data in affitto dalla Gran Bretagna agli Stati Uniti per trasformarla in base militare. Una terribile pagina della dominazione britannica nelle isole (arcipelago annesso a Mauritius), da cui proviene la famiglia materna della scrittrice.

Dopo 158 anni di giogo coloniale le isole diventano indipendenti; ma gli abitanti di Diego Garcias -un puntino nel cuore dell’Oceano- vengono deportati per fare posto agli interessi americani. Nel 1991 infatti fu data in concessione dai britannici per fare da base dei bombardieri americani in volo verso l’Iraq, durante la Guerra del Golfo, senza nessuna considerazione per quel popolo che viene condannato a un destino da esule.

La tragedia le fu raccontata dalla madre che negli anni 60 viveva sull’isola, una sorta di paradiso terrestre dove si andava a piedi scalzi e in libertà. Poi la rabbia di fronte all’ingiustizia dettata da motivi politici e strategici

Nel 1967 sulla paradisiaca isola vive la 21enne Marie Pierre Ladouceur che ha una figlia di 4 anni, Suzanne. Un’esistenza semplice, umile e tranquilla. E’ lì che fa scalo l’elegante 18enne Gabriel Neymorin, arrivato per coadiuvare l’amministratore coloniale. Un giovane uomo di città, colto, raffinato ed elegante. Ed ecco una bella storia d’amore sullo sfondo traballante di un destino incerto: quella tra Marie e Gabriel, che si trovano nell’occhio del ciclone scatenato dalla decisione inglese che sradicherà gli isolani.

La narrazione alterna due voci: quella in prima persona del figlio di quell’amore, Joséphin, e lo sguardo in terza persona sui due protagonisti di quella passione, alle prese con stravolgimenti storici, ambientali (un terribile ciclone) e la tragedia dell’esilio. L’Eden finisce improvvisamente quando gli abitanti dell’isola vengono radunati sulla spiaggia dai soldati che intimano loro di abbandonare l’isola, le case, gli animali. Le loro radici vengono divelte brutalmente.

 

Katie Williams “Il mio omicidio” -Bollati Boringhieri- euro 18,00

E’ decisamente fervida la fantasia della scrittrice 45enne americana Katie Williams che ci regala un intrigante thriller fantascientifico, distopico; ma anche profondamente introspettivo perché parla di identità, famiglia, amicizia femminile, depressione post partum e maternità.

Protagonista è Lou, morta per mano di un serial killer; ma anche viva, perché è stata clonata secondo le direttive di una speciale commissione Governativa.

Si… avete letto giusto!

E’ stata duplicata ed è tornata in famiglia dal marito amorevole e dalla figlioletta di pochi mesi.

Di prima della morte ha lo stesso corpo, viso, cervello, carattere e ricordi; eccetto quelli relativi agli ultimi giorni prima di venire assassinata, e pure del suo omicidio non ha memoria.

E’ stata la quinta e ultima vittima di un serial killer, il reo confesso Edward Early, che si dilettava ad ammazzare donne e lasciare i loro corpi senza vita in bella mostra con accurate scenografie di contorno. Ora si trova dietro le sbarre: lui, i suoi demoni, il suo passato difficile e la confessione che lo farà condannare all’ergastolo.

Angela, Fern, Jasmine e Lacey sono le altre 4 vittime, anche loro sono state clonate, ed ora si conoscono e riuniscono insieme nel gruppo di sostegno “Le sopravvissute”. A piccoli e lenti passi, Lou cerca di riappropriarsi della sua vita.

Ma le difficoltà sono parecchie: a partire dalla figlioletta che non la riconosce e lei non riesce a gestire, poi la depressione post partum che l’aveva assediata prima di venire uccisa e la disattenzione del marito Silas fagocitato dal lavoro.

Le tematiche in campo sono molteplici. A partire dalla realtà straniante in cui Lou stenta a ritrovare la se stessa di prima; ha bisogno di riposizionarsi e soprattutto di trovare una spiegazione e un senso a ciò che le è accaduto. Una necessità alla quale sembra sordo il marito che non vuole più parlare del fattaccio.

Nel rivangare il suo passato, Lou ha la sensazione che ci sia un impercettibile scarto tra quello che era prima e quello che è ora, clone di se stessa in cui fatica a incasellarsi. Poi altri quesiti entrano nella narrazione, a partire dalla convinzione che il serial killer non sia il suo assassino. Ma allora chi l’ha uccisa e perché?

 

Stefania Crepaldi “Morire ti fa bella” -Salani- euro 16,90

Già solo il nome della giovane protagonista è tutto un programma; Fortunata Tiozzo Pizzegamorti, erede di una ditta di onoranze funebri portata avanti dal padre Emilio che conta sull’aiuto della figlia, eccellente tanatoesteta. E’ lei che fa letteralmente miracoli nella preparazione delle salme dei cari estinti: li pettina, trucca e dispone come se fossero più vivi che morti.

Nel suo delicato lavoro è la migliore, per tecnica infallibile e sensibilità preziosissima in un lavoro delicato come quello che ti pone davanti alla morte in tutte le sue più disparate e tragiche fogge. Un business che non conosce crisi, ma si trova a dover fare i conti con la concorrenza di altri becchini che cercano di accaparrarsi il morto di turno.

Peccato lei ambisca a tutt’altro futuro decisamente meno agro; sogna di diventare una rinomata pasticcera e allietare i suoi giorni tra torte, pasticcini e zucchero a velo. Ma Fortunata è responsabile e amorevole, per cui divide il suo tempo tra la pasticceria che adora e la preparazione dei morti, su cui conta il padre per essere competitivo sul mercato delle Pompe funebri.

Il romanzo è divertente, ironico, leggero, sebbene tratti di un argomento pesante come un macigno; ed è anche un sofisticato giallo in cui la protagonista si trova alle prese con una tragedia dai risvolti oscuri.

Lo zio, colonnello della guardia di finanza, Dante Braghin, si trova al cospetto di un apparente suicidio su cui nutre dei dubbi. E chiede a Fortunata di darli una mano. A morire è stato il giovane Gregorio, rampollo di una ricca e rinomata famiglia di gioiellieri, i Chiodoro, precipitato da un palazzo.

Fortunata entra nella famiglia in lutto, incontra i genitori che le raccontano della grave depressione che da sempre attanagliava il figlio unico e tanto amato, e annusa l’ambiente in cui il giovane era nato e cresciuto. Soprattutto è lei a recuperare insieme al padre la salma dall’obitorio e a notare particolari che non combaciano con un suicidio.

Tra kit di sutura, ceroni, confezioni di stucco per rimodellare un cranio sfracellato e strane macchie ipostatiche post mortem, Fortunata si destreggia abilmente, affannandosi per presentare al meglio la salma, conservarla perfettamente tra esposizioni al cordoglio e incidenti vari di percorso. Niente però di macabro, piuttosto una chiave di lettura ironica, divertente e parecchio intrigante.

Manca un’anima allo Scorsese di oggi e “Killers” s’inaridisce e si ripete

Sugli schermi “Killers of the flower moon” con DiCaprio e De Niro

PIANETA CINEMA a cura di Elio Rabbione

Arrivato al suo ventiseiesimo titolo in veste di regista – per tacere dei documentari e dei cortometraggi, degli abiti di produttore e delle sceneggiature scritte per sé e per altri, della sua faccia di italoamericano prestata agli amici (c’è di tutto, da Kurosawa ad Arbore) – Scorsese ha deluso. Certo anche prima, tra il 1967 e il 2019, ci sono stati titoli capolavoro (uno per tutti, “Quei bravi ragazzi”), titoli che ti sono rimasti fissati nella memoria e altri che di anno in anno sono scivolati via (uno per tutti, “Al di là della vita”, la presenza di Nicolas Cage non è mai una garanzia), titoli che forse non hanno aggiunto granché ad un ricordo o ad una convinzione. Adesso sforna sugli schermi “Killers of the flower moon”, un “filmone”, spettacolare, derivato dal romanzo/inchiesta di David Grann “Gli assassini della terra rossa”, pubblicato sei anni fa e ispirato a fatti realmente accaduti negli anni Venti americani, quelli che hanno definitivamente messo da parte “l’età dell’innocenza”), 206’ implacabili che dovrebbero tenere lo spettatore appiccicato alla poltrona del cinema. Per carità, Scorsese è e rimane sempre Scorsese, ma conduce le vicende non tanto con il piacere quanto con la caparbietà ossessiva del racconto, sì certo, illumina alcuni squarci che ne rimettono in gioco la vibrante personalità, affida con risultati discutibili ai suoi due attori monstre, De Niro e DiCaprio, la malvagità conclamata, rivestita di un bene chiamato a fare da paravento, e quella sottotono, impacciata, strisciante, debole, che intacca le fondamenta di un rapporto familiare giorno dopo giorno, senza via di fuga. E nella parte centrale del film, ampissima oltre ragionevolezza, l’attenzione langue, fino a rasentare la noia. È la sceneggiatura, scritta da Eric Roth oltre che dal regista, ad essere sbagliata, debordante, incredibilmente ripetitiva, incapace di tagliare gran parte di quelle piccole vicende di secondo piano che disturbano e ostacolano una narrazione che avrebbe la necessità di correre sulla limpidezza, quelle tante parole e dialoghi che ascolti in più occasioni in tutta la loro similarità, quei personaggi minori che non hanno uno sviluppo e ti cascano lì, senza preparazione, con il solo fine di non riuscire a memorizzarne contenuti e finalità.

Poi, nel finale che sa di cinema nel cinema, ma qui il cinema si chiama radio – magistrale a confronto di un sottofinale che sono le poche scene del processo, impoverite e senza spazio -, grandioso colpo d’ala, ti riappacifichi con l’autore, nella ricostruzione radiofonica di quanto ci è stato dato vedere nelle ore precedenti, tra stacchetti musicali, utilizzo di voci e finestre che si chiudono e sfrigolii e rumori di stoviglie rotte e bottiglie e tappi che saltano. La parola e il gesto più forti della immagine? Un mondo totalmente diverso (in cui fa capolino anche il regista) da quello violento che lo ha preceduto, una parte dedicata allo stermino e un’altra all’arrivo (finalmente) dell’FBI di Hoover di fresca nomina a cercare di far luce sulle tante uccisioni, le ultime scene per mostrare un’invenzione, un carattere antico, il solido svolgersi di certe leggi visive.

E allora che cosa, prima? La descrizione dello sterminio di un popolo, quello degli indiani Osage, nativi del Kansas e da lì trasferiti nelle terre dell’Oklahoma, una quarantina d’anni prima dei fatti narrati, cui la natura ha regalato i giacimenti dell’oro nero, di quel petrolio che li rende da un attimo all’altro tra le persone più ricche d’America. E allora ecco che sono case signorili, begli abiti e cappellini piumati, signore che scendono da eleganti auto aiutate da autisti bianchi che mal sopportano con il sorriso sulle labbra. Il malvagio William Hale, per tutti “the king”, proprietà al centro della pianura, intenzionato oltre misura ad accrescere il proprio patrimonio, che tende a fare il bello e il cattivo tempo nell’intero territorio, mal sopporta e all’arrivo nella natìa Fairfax del nipote Ernest, dal conflitto mondiale dove ha combattuto, inizia a tessere alla grande la sua tela, buttandolo alla scoperta di Mollie, indiana Osage, e della sua ricca famiglia: matrimoni e ammazzamenti, ereditiere e mariti bianchi pronti a ereditare, all’ombra d’un gufo che si mostra ad annunciare prossime morti. Gli omicidi diventano banalità quotidiana. Matrimonio e prole non tardano ad arrivare ma il cattivo non sta certo con le mani in mano: intesse agguati e omicidi, esplosioni, assoldando, o meglio facendo assoldare nell’intento di non sporcarsi in prima persona le mani, brutti ceffi che compiono appieno il lavoro di pulizia. Mentre lo Stato debolmente promette, prima del definitivo arrivo dei nostri, come nel vecchio West, il nipotino s’incanala nei disegni dello zio, cercando di accelerare l’agonia della moglie già sofferente di diabete. È in quella carneficina (che non tralascia neppure cervelli spappolati e mani ritrovate nell’incendio: certi particolari da horror film Scorsese li avrebbe messi in qualche suo passato gangster movie?) che il regista mostra le proprie maggiori debolezze, nel ripetersi senza alcun guizzo di uccisioni, di coltellate e di pistolettate sparate a bruciapelo, in un imbarazzante copiaincolla, in una faticosa sequenza di immagini che lasciano trasparire apertamente il loro esatto doppio poco oltre. E una cosa che, di conseguenza, Scorsese dimentica è quell’appropriarsi, da parte di un’autentica ”anima”, delle tante e differenti storie, da parte dell’anima del regista, di una concreta partecipazione, che altrove – nelle carneficine di “Goodfellas” e di “Gangs of New York”, nel ghigno del Nicholson di “Departed”, nei pugni di “Toro scatenato”, nella grandezza malefica di “Casinò” – ha avuto maggior peso. Pur nella descrizione di quello stesso male.

Pur nelle zone d’ombra, si respirano attimi di “Nascita di una nazione” o dei “Cancelli del cielo”, spruzzate del cinema di Sergio Leone e del “Petroliere” e del “Gigante”, tutti quanti a mostrarci crudeltà, arrivismo, avidità da sempre al centro dell’eterno “atomo opaco”. In questa sorta di traballamento generale e di scossoni positivi che non risolvono, De Niro è malvagissimo quando deve fare il malvagio, e soprattutto sa farlo, Di Caprio si stampa in viso la maschera dell’imbelle e non la lascia più, incarognendola ancor più con quel trucco alla “Padrino” di Marlon Brando, cotone tra gengive e guance e bocca che guarda in giù. Non aiuta certo la Mollie di Lily Gladstone, anima del Bene, ma troppo sottotono per reggere il peso della bontà e della vittoria.

Rock Jazz e dintorni a Torino. I Negrita e Marcus Miller

/

GLI APPUNTAMENTI MUSICALI DELLA SETTIMANA 

Martedì. Al Jazz Club serata blues con il Fretstrings Duo.

Mercoledì. All’Hiroshima Mon Amour si esibisce Bombino.

Giovedì. Al Peocio di Trofarello è di scena Gus. G. Al Cafè Neruda  suona il sassofonista Luca Biggio con l’M.K . Project.All’Hiroshima si esibisce il rapper Johnny Marsiglia. Allo Spazio 211 suona la band di Atlanta Algiers.

Venerdì. Allo Ziggy è di scena Klasse Kriminale e Il Complesso. Al Concordia di Venaria suonano i Negrita. All’Imbarchino si esibisce Vera Di Lecce. Al Circolo della Musica di Rivoli è di scena Giulia Bi. Al Blah Blah suonano i Peter Kernel. Al Folk Club si esibisce Paolo Capodacqua. Al Circolo Sud suona il trio “Manouche” di Elias Prinz. Al Bunker è di scena il duo Walker- Violot. All’Hiroshima si esibisce Giorgio Canali con i Rossofuoco. Al Magazzino sul Po sono di scena gli Iside.

Sabato. Al Supermarket suonano gli Impaled Nazarene. Si inaugura “Moncalieri Jazz” con la “Notte nera” in varie sedi del centro con : il sestetto “Nica” Fabbrini, il quintetto di Camilla Rolando, il quartetto di Carmen Ferrante, la violinista Anais Drago con gli Accordi Disaccordi, il trio di Eleonora Strino. Sempre a Moncalieri è di scena la portoghese Biia.

Domenica. Al Blah Blah suonano i Raein. Al teatro Colosseo si esibisce il bassista “fusion” Marcus Miller.

Pier Luigi Fuggetta

Femminismi tra Italia e Francia

“Voce alle donne” è  il programma di incontri italo-francesi proposto dall’ Ambassade de France en Italie e dell’ Institut français Italia , dedicato ai diritti delle donne, ai femminismi e pari opportunità. Appuntamento a Torino con Femminismi tra Italia e Francia: una storia incrociata mercoledì 25 ottobre 2023 alle ore 18.00 Circolo dei lettori via Bogino 9 a Torino
Con Daniela Adorni | Maëlle Caugant | Beatrice Manetti | Michelle Zancarini-Fournel | Chiara Stagno
Come si strutturano e si studiano i femminismi tra Italia e Francia? Dalla Rivoluzione francese alla generazione #MeToo attraverso i movimenti post 1968 quali sono i loro modelli tra policentrismo, storia nazionale, locale, ideologie.e organizzazione?

Scopri di più https://www.alliancefrto.it/evenement/voce-alle-donne/

#femminismo #donne #italia #Farncia #femme #donne

Peter Pan, ovvero l’isola dei bambini sperduti

Teatro Concordia, corso Puccini, Venaria Reale (TO) Domenica 22 ottobre, ore 16

 

Un viaggio nell’immaginazione con Peter, Capitan Uncino, Wendy e la colonna sonora con brani originali di Paolo Silvestri per Favole a Merenda

 

 

“Peter Pan” è un classico perché affronta aspetti della condizione umana che non conoscono età e periodi storici e suggerisce ancora oggi nuove riflessioni. La capacità di immaginare, che ha il suo picco proprio nell’infanzia, è fondamentale per l’essere umano: in un mondo bombardato da immagini, paradossalmente diventa sempre più difficile sviluppare questa attitudine. Peter Pan, spiega Giorgio Scaramuzzino: «ci è sembrato un ottimo pretesto per ribadire il fatto che il sogno e l’immaginario infantile non devono mai spegnersi, anche quando inevitabilmente il nostro corpo affronta l’età adulta. “Essere un bambino” non per rifiutare responsabilità e voltare le spalle alla realtà, ma per affrontare il quotidiano con più leggerezza e originalità».

In scena gli attori Alessandro Pisci, Pasquale Buonarota e Celeste Gugliandolo si calano rispettivamente nei ruoli di Peter, Capitan Uncino e Wendy. Le gradinate che compongono la scenografia si trasformano alternativamente nella barca dei pirati o nell’Isola che non c’è. Non mancherà l’interazione con i piccoli spettatori che in alcuni momenti sono parte integrante dello spettacolo. Fondamentale nella messa in scena la colonna sonora composta da Paolo Silvestri: parte della narrazione è infatti affidata ai brani originali che vengono cantati dagli attori e che accompagnano il pubblico in un viaggio nell’immaginazione.

 

Domenica 22 ottobre, ore 16

Peter Pan, ovvero l’isola dei bambini perduti

Favole a merenda

Drammaturgia Giorgio Scaramuzzino, Pasquale Buonarota, Alessandro Pisci

Regia Giorgio Scaramuzzino

Con Pasquale Buonarota, Alessandro Pisci, Celeste Gugliandolo

Musiche Paolo Silvestri

Scene e costumi Lorenza Gioberti

Luci Aldo Mantovani

Coproduzione Teatro Nazionale di Genova e Fondazione Teatro Ragazzi e Giovani Onlus

Biglietti: adulto 10 euro – bambino 7 euro

“Addio al 900” in omaggio a Picasso e a Peverelli

A Mondovì, concerto delle “Officine Schwartz” , in occasione della mostra al “Museo della Ceramica”

Domenica 22 ottobre, ore 18

Mondovì (Cuneo)

L’accostamento è particolarmente suggestivo e in linea con l’arte espressa da entrambe le parti. Arte capace di affondare nelle radici di antiche scuole per prendere il volo verso spazi espressivi e immaginativi appartenenti al futuro più remoto. Musica alta e alta Ceramica. L’appuntamento è per domenica 22 ottobreore 18, presso la “Sala Ghislieri” dell’ex “Oratorio di Santa Croce” (via Francesco Gallo 3, Mondovì), con il concerto “Addio al 900” organizzato dalla “Fondazione CRC” e tenuto dalle “Officine Shwartz”, gruppo musicale “industrial – folk” (nato a Bergamo nel 1983 ad opera di Osvaldo Airoldi) autore di ritmiche assolutamente singolari spesso generate da strumenti metallici autocostruiti e dalle straordinarie sonorità, come il “tubicordo” e la “bisciarpa”. L’evento vuole rappresentare un omaggio a Pablo Picasso (1881-1973) e a Cesare Peverelli (1922-2000), artista-artigiano come i componenti delle “Officine Schwartz” e cultore di musica sperimentale, in occasione della mostra a loro dedicata “Cesare Peverelli. Ceramiche a Vallauris. Avec Pablo Picasso” ( di cui già s’è scritto), aperta presso il “Museo della Ceramica” di Mondovì ( in “Palazzo Fauzone di Germagnano”) fino al 5 novembre prossimo. L’ingresso al concerto è libero e gratuito, con registrazione consigliata sulla piattaforma “eventbrite”. Spiega Enzo Biffi Gentili, curatore della mostra al “Museo della Ceramica”: “Per celebrare il cinquantenario picassiano e l’artista Cesare Peverelli, si è scelto di invitare in concerto le ‘Officine Scwartz’, al di là del loro storico valore, per una doverosa esigenza di coerenza con il contesto urbano ed espositivo. Le ‘Officine Scwartz” sono infatti alte esponenti dell’‘Industrial Music’, che sovente si sono esibite in industrie esauste e aree dismesse: con la scomparsa di tutta la sua grande industria ceramica anche Mondovì è passata da una drammatica esperienza di questo tipo. Il concerto è intitolato ‘Addio al 900’, sia per la crisi dell’industria ‘pesante’, sia perché la mostra su Peverelli e Picasso, ed il suo catalogo, si concludono registrando proprio l’indebolimento o la caduta di alcuni miti ideologici e culturali del 900, dall’impegno filocomunista al picassismo”.

Le “Officine Shwartz” proporranno un secolo (il 900) di “sonorità acustiche”, elettroniche e “rumoristiche”, di stili colti, popolari e sperimentali. I loro strumenti vanno dal pianoforte a coda a strumenti autocostruiti a corde e a percussione, a metalli vari, campanine di vetro, drum e synth analogici anni ’70, per chiudere con una chitarra elettrica dagli effetti “inconsueti”. I “quadri sonori”, in buona parte inediti, andranno velocemente su e giù lungo il secolo, in Europa e oltre, soffermandosi su alcuni momenti della storia, della cultura e della quotidianità.

Ricordiamo ancora che la mostra “Cesare Peverelli. Ceramiche a Vallauris. Avec Pablo Picasso” nasce per valorizzare la collezione di 50 ceramiche inedite del milanese Peverelli, realizzate a Vallauris, località situata fra Cannes ed Antibes, e donate alla “Fondazione CRC” nell’ambito del progetto “Donare. Rilanciare la cultura del dono in provincia di Cuneo”, dall’imprenditore provenzal-piemontese Michel Ribero. Cogliendo poi l’occasione della ricorrenza del Cinquantenario dalla morte di Picasso, il curatore Enzo Biffi Gentili ha inteso proporre in mostra un accostamento fra le ceramiche di Peverelli ed una serie di litografie del “padre del cubismo”, anch’essere realizzate a Vallauris.

Per info: tel. 0174/330358 o iatmondovi@visitcuneese.it

g.m.

Nelle foto:

–       Dettaglio della “bisciarpa” delle “Officine Schwartz”

–       Osvaldo Airoldi, leader delle “Officine Shwartz”

–       Ezio Raviola, vicepresidente della “Fondazione CRC” ed Enzo Biffi Gentili all’inaugurazione della mostra “Cesare Peverelli. Ceramiche a Vallauris. Avec Pablo Picasso”. Ph. Luca Privitera

Album fai da te… o quasi

CALEIDOSCOPIO ROCK USA ANNI 60

Potrò sembrare ripetitivo, ma non si insiste mai abbastanza su due fattori sostanzialmente ricorrenti, quasi un “leitmotiv”, nella realtà delle bands di teenager del garage rock americano anni ‘60: il “management” autogestito e la precarietà delle condizioni di registrazione ed incisione per 45 giri ed album “in economia”. In particolare per la prima questione era fondamentale la capacità di individuare immediatamente uno stile musicale preciso, che mirasse a gusti specifici di un certo uditorio o di una certa fascia di età, soprattutto se si trattava di “teen clubs” o piuttosto palestre di “high school”. La band di cui trattiamo in questo articolo dovette subito individuare il “target” di pubblico da affrontare nei “gigs” e nelle esibizioni, anche in caso di “opening” per altri gruppi. L’ambito operativo erano le feste di “high school” dell’area di Chicago, il “management” era (manco a dirlo) autogestito e il “budget” a disposizione ridotto e calcolato con grande realismo. Il gruppo si chiamava “The Bachs”, si definì stabilmente tra primavera ed autunno 1965 e comprendeva: John Peterman (V, chit), Blake Allison (V, b), John Harrison (chit), Mike DeHaven (chit), John Babicz (batt). L’area di attività più intensa era a nord-ovest di Chicago, tra Crystal Lake, Barrington, Mundelein, Lake Forest, Northbrook, Des Plaines e la band seppe crearsi una vivace rete tra le feste di liceo, i “teen clubs” e le feste private, limitando al massimo spese e dispersione di denaro in “personale extra” di dubbia affidabilità; in particolare i “teen nightclubs” (specialmente Pink Panther e Midnight Hour) garantivano le entrate economiche migliori ed il repertorio era molto funzionale all’uditorio, con gran numero di cover di Beatles, Rolling Stones e Kinks. Tra 1967 e 1968 gli impegni non mancavano e i “gigs” avevano cadenza settimanale fissa il venerdì e sabato notte e non di rado “The Bachs” (sebbene mediamente nemmeno diciassettenni) erano “opening band” di The Amboy Dukes di Ted Nugent. A differenza di altri gruppi, “The Bachs” non erano particolarmente attratti dalle “Battles of the Bands” e preferivano mantenere il “giro” ben sedimentato nelle fasce d’età “teens”, dove erano considerati compagine di ottimo livello. Nel 1968 giunsero occasioni di incisioni in sala di registrazione, ma non ne scaturì il solito 45 giri isolato, bensì un intero album, sebbene condizionato dal difficile ambiente di presa di suono e dal “budget” ridotto: “Out of The Bachs” (Roto Recordings PR-1044). Si può davvero definire un “album fai da te”, per stessa ammissione dei musicisti, che successivamente lamentarono l’impossibilità di prendere “takes” successivi al primo e l’approssimativa esperienza dei tecnici del suono coinvolti (“crappy production”, sezione ritmica mal bilanciata). Ne scaturirono circa 150 copie (da distribuire tra amici e parenti e nella cerchia vicina…) e si può ben intuire come l’album sia ora diventato merce rarissima e trattato a peso d’oro tra gli appassionati di oggi. Gli stessi componenti della band ricordavano quell’album con una vena di malinconia, definendolo una sorta di “farewell to The Bachs” (addio ai The Bachs), in quanto già scorgevano chiaramente il destino della band, con l’incombere dell’entrata nei college, della chiamata in esercito e della necessità di lavori stabili per condizioni economiche familiari non felici; con l’estate del 1968 erano ormai maturi i tempi dello scioglimento, che si definì entro agosto.

Gian Marchisio

Cesare Gianotti, la musica nel sangue

E’ morto nei giorni scorsi il musicista Cesare Gianotti, leader del gruppo musicale degli anni Settanta, La Strana Società, celeberrimo il brano Pop Corn. Ecco un ricordo scritto da Pier Franco Quaglieni
Cesare Gianotti , compositore e musicista, anima del gruppo “La strana società“, era il figlio di un noto farmacista di Moncalieri appassionato di musica fin dagli anni del liceo. Fu mio compagno di scuola. Ha girato il mondo suonando. Era tornato in Italia dopo molti anni e ci ritrovammo piacevolmente su Facebook . Era un uomo che amava la gioia di vivere. Apprendendo la notizia della sua scomparsa  ieri, sono rimasto colpito e addolorato. Lui che mi segui’ nelle mie avventure politiche giovanili ed era vissuto all’estero, mi chiamò “onorevole“. Quando gli dissi che non ero mai stato deputato, mi disse  con generosità che la mia vita era comunque molto onorevole. Credo che la sua vita, dedicata alla musica, limitandosi al conseguimento della maturità classica, sia stata molto limpida e coerente. Cesare era un idealista e un uomo molto appassionato che merita di essere ricordato. (nella foto, Gianotti è il primo a sinistra)
Pier Franco Quaglieni

Il borgo di Avigliana, una tappa imperdibile della Via Francigena

A cura di piemonteitalia.eu 

ESPERIENZE

Avigliana, situata in un punto di transito tra Italia e Francia, nell’anfiteatro morenico compreso tra il Monte Pirchiriano, sul quale sorge la Sacra di San Michele, e la collina di Rivoli, in passato godette di molto prestigio…

Leggi l’articolo ↘️
https://www.piemonteitalia.eu/it/esperienze/il-borgo-di-avigliana-una-tappa-imperdibile-della-francigena