redazione il torinese

“Domingo il favoloso” e la Torino fantastica di Giovanni Arpino

“In quanto narratore di storie, sento di appartenere a una razza in via di estinzione, poiché la civiltà delle immagini ci sommergerà e i lettori saranno sempre più capaci a leggere, ma sempre meno come numero”.

Così scriveva Giovanni Arpino nel 1982, riflettendo sul mondo che cambiava con grande rapidità. E, parlando dei personaggi dei suoi libri, aggiungeva: “Tutti i miei personaggi, se ci ripenso un attimo – giovani o vecchi, uomini e donne, operai contestatori e randagi – sono degli emarginati, che vengono a precipitare, pur essendo normali, in una situazione abnorme”. Arpino, nato a Pola nel 1927 da genitori piemontesi, durante la giovinezza  visse a Bra  per poi trasferirsi definitivamente a Torino, dove rimase fino alla sua morte prematura,  il 10 dicembre del 1987.Grande scrittore, “bracconiere di tipi e personaggi, cacciatore d’anime”, come si autodefiniva, si è distintoper lo stile asciutto e ironico e per la capacità di fissare storie di vita, esperienze e fotografie della realtà con straordinaria nettezza e precisione. Incredibilmente, nonostante i suoi sedici romanzi e i quasi duecento racconti, da anni sembra scomparso dal panorama culturale italiano. Tra i suoi libri c’è anche un bellissimo romanzo-favola, ispirato al genere del feuilleton, “Domingo il favoloso”, pubblicato da Einaudi nel 1975. Il racconto uscì , prima ancora di diventare un libro, in tredici puntate sulla Domenica del Corriere , tra il dicembre 1973 e il marzo 1974, illustrato dagli acquerelli originali di Italo Cremona, con il titolo “Correva l’anno felice”. Domingo, il protagonista, è una sorta di picaro, un po’ furfante, esperto in truffe e trucchi di vario genere, maestro nel poker e nel biliardo. Ha una “eterna fidanzata“, Angela, che lavora dietro un banco di torrone, e s’innamora di una zingarella affetta da un male incurabile, Arianna, che gli fa scoprire i sentieri del cuore. “Domingo il favoloso è il secondo volume della trilogia fantastica di Arpino, iniziata con “Randagio è l’eroe (1972) e conclusa con “Il primo quarto di luna (1976). Già l’incipit della storia promette ritmo e mistero: “Gli restava mezz’ora di tempo. In piedi alla finestra, indifferente alla frescura primaverile, Domingo guardava il corso livido, vuoto. Un vecchio ubriaco apparve all’improvviso tra le silenziose strutture delle giostre, di capanni e logori camioncini che ingombravano da alcuni giorni quell’angolo di città. Il vecchio faticava nel sospingere la sua ombra demente. Domingo lo seguì fin dove la sagoma rimase un attimo ferma nel tremolio luminoso che incorniciava la baracca del tirassegno. Lo vide sparire sotto le cupole buie degli ippocastani”. Un romanzo assolutamente originale, ambientato nella Torino degli anni settanta, descritta  con immagini forti. Una città notturna, con i suoi “corsi lividi”, il vento improvviso che induce “tutti i colombi di Torino a cercar scampo tra grondaie, abbaini e comignoli”, dove le ombre s’inseguono nel “cinereo budello dei portici”. La Torino di Domingo è sulfurea, diabolica. Una città dove si diceva che l’occulto fatturasse più della Fiat. E lui,  persona che disdegna qualunque attività regolare e non accetta di inserirsi nel contesto civile, s’inventa mille volte la vita. Fino al punto di svolta, quando incontra il mondo superstizioso degli zingari: da quel momento la sua vita cambia fino al punto che tutto ciò in cui credeva, ogni sua certezza, finisce in frantumi. Quella di “Domingo” è una grande storia, narrata da uno scrittore di gran classe che seppe esprimersi con garbo, forza e lucidità fino all’ultimo respiro. Sconfitto dalla lunga lotta contro un carcinoma, a soli sessant’anni,  Giovanni Arpino non sprecò nemmeno una lacrima perché rischiava “di annacquare l’inchiostro”.

 Marco Travaglini

Il genio alato e i titani di piazza Statuto

Alla scoperta dei monumenti di Torino / La piramide di massi frana sotto i piedi di un Genio alato, simbolo della scienza trionfante, trascinando nella sua caduta sette titani, rappresentanti la forza bruta della natura

 

Ed eccoci nuovamente pronti alla scoperta delle meraviglie di Torino, con la nostra ormai consueta e spero piacevole, passeggiata “con il naso all’insù”. Questa volta, miei cari amici lettori, vorrei parlarvi di una delle opere tra le più “chiacchierate” della città, forse anche grazie all’alone di mistero che da sempre la circonda: sto parlando del monumento Al Traforo del Cenisio-Frejus. Collocata in testa a Piazza Statuto, sul lato ovest aperto verso l’imbocco di Corso Francia, l’opera si erge imponente, rappresentando la superiorità della scienza e della tecnologia contro la forza bruta della natura. Conosciuto più comunemente come “Monumento ai caduti del Frejus”, l’opera, pietrosa e frastagliata, si erge al centro di una vasca circolare che raccoglie l’acqua che zampilla tra i massi, simulando torrenti alpini che si aprono la via sul dorso di una montagna.

La piramide di massi frana sotto i piedi di un Genio alato, simbolo della scienza trionfante, trascinando nella sua caduta sette titani, rappresentanti la forza bruta della natura.  Il Genio si erge come la punta di un faro, dove converge lo sguardo di chi percorre via Garibaldi in direzione della piazza. Egli compare con una penna in mano, nell’atto di incidere sulla pietra, ad intramontabile memoria, i nomi dei tre ingegneri che resero possibile l’opera del Traforo. L’idea del monumento nacque nel settembre del 1871, precisamente all’indomani dei festeggiamenti per l’apertura della ferrovia che collegava (e collega ancora oggi) Italia e Francia attraverso il Traforo del Frejus; fu un opera di ingegneria compiuta in un brevissimo lasso di tempo e che sembrò realizzare i sogni di progresso e di comunione dei popoli. Grazie infatti al talento e alla collaborazione tra gli Ingegneri Sommelier, Grandis e Grattoni, il progetto della costruzione del traforo si avvalse dell’uso di perforatrici ad aria compressa, che ridussero le vittime e resero possibile la via di comunicazione transalpina nel giro di quattro anni.

L’entusiasmo per il successo tecnologico e per l’apertura di nuove e più veloci vie di comunicazione, spinse il conte Marcello Panissera da Veglio a proporre l’erezione di un monumento commemorativo. Quindi, su precise indicazioni riguardo al tema e alla metafora che il monumento doveva simboleggiare, venne indetto un concorso presso la Regia Accademia delle Belle Arti, che fu vinto da un giovane allievo dell’Accademia stessa, Luigi Belli. Il monumento (formato inizialmente da otto titani che poi si ridussero a sette e dal Genio alato che all’inizio doveva essere in marmo di Carrara e poi venne realizzato in bronzo), doveva rappresentare la Scienza (e quindi il progresso) vincitrice assoluta sulla natura. Associazioni operaie fecero immediatamente propria l’idea, interpretando l’intenzione del monumento, più che un elogio alla tecnologia, come un ricordo dei tanti lavoratori che parteciparono all’impresa della ferrovia e raccolsero (di loro iniziativa) fondi cospicui che fecero partire il progetto. (E’ interessante precisare come ancora oggi l’interpretazione “operaistica” sia condivisa da molti torinesi che cadendo nello stesso fraintendimento, definiscono il monumento un omaggio ai lavoratori caduti nell’edificazione della galleria del Frejus).

La sottoscrizione avviata dalle società Operaie trovò una controparte nell’analoga iniziativa capitanata dal commendatore Laclaire, che riunì la borghesia cittadina inquietata al pensiero di rimanere a guardare; infine anche la Città stanziò un fondo per la realizzazione dell’opera. I lavori cominciarono però solo nel 1874, coinvolgendo anche altri studenti dell’Accademia per l’esecuzione delle figure dei titani: sei allievi a titolo ufficialmente gratuito, prestarono la loro opera sotto la direzione dello scultore Odoardo Tabacchi e del professor Ardy, incaricati di occuparsi della statua del Genio e del concetto d’insieme dell’intero monumento. In seguito Luigi Belli, discordante con gli altri, verrà estromesso dalla realizzazione, tanto che disconoscerà l’opera giudicandola non fedele all’idea che l’aveva plasmata. Successivamente altri imprevisti e ad alcuni problemi di natura tecnica (nel 1877 ad esempio i lavori rimasero fermi per molto tempo a causa della costruzione del condotto idrico che collegava il monumento ai serbatoi del mattatoio comunale) ritardarono maggiormente l’esposizione dell’opera. Finalmente il 26 ottobre 1879, alla presenza di S.M. Re Umberto, di numerose delegazioni comunali italiane, di corpi dell’esercito, di alcune associazioni operaie e di una gran folla di privati cittadini, venne svelato il monumento, al grido magniloquente di “Volere è potere”.

L’accoglienza dell’opinione pubblica sembrò positiva, ma sui giornali dilagò immediatamente la polemica: il monumento venne giudicato sgraziato, ridicolo, pesante e grottesco. In suo soccorso subentrò però Carlo Felice Biscarra, della Regia Accademia Albertina di Belle Arti, che lo difese come opera innovativa e diversa, necessaria a svecchiare il paludato mondo cimiteriale della statuaria cittadina. L’opera è sicuramente una singolarità all’interno della città: non esiste altro monumento a Torino così mosso, così ricco e dall’apparenza così poco rifinita; se anche la piramide di sassi si distanzia molto dalle sembianze di una montagna vera, i titani esprimono con verosimiglianza la fatica e l’estromissione date da una forza più grande che è giunta a scalzarli. Anzi sono forse loro i veri protagonisti dell’intero monumento tanto che si può comprendere l’identificazione popolare tra questi titani abbattuti e gli operai schiacciati dal lavoro, sentite come vittime e a cui va l’empatia dell’osservatore. Per quanto il Genio alato sia di ottima fattura e rifinito nei minimi particolari (da notare accorgimento dei drappi che si gonfiano alle sue spalle e celano i rinforzi metallici che lo sostengono) il suo ruolo risulta piuttosto di finitura: è situato troppo in alto per poter essere ammirato per le sue qualità artistiche.

Parlando di questo monumento non si può non parlare dell’alone di mistero che da sempre lo circonda, dato dall’immaginario esoterico della Torino Magica che vede Piazza Statuto ed il monumento come deputati al male e alla confluenza di energie nefaste. La piazza, costruita sui resti della “valle occisorum” (vale a dire una necropoli romana), orientata verso occidente dove tramonta il sole ed essendo vicina al celebre rondò d’la furca (o rondò della forca), luogo un tempo predisposto per le condanne a morte, è ritenuta un punto di energie negative. In questo contesto, secondo gli esoteristi, il luogo di massima negatività sarebbe proprio il “Monumento ai caduti del Frejus” che rappresenterebbe proprio la porta dell’Inferno mentre il Genio alato non simboleggerebbe la scienza trionfante, bensì Lucifero, l’angelo ribelle, con la stella ad attestarne l’origine sovrannaturale e con lo sguardo rivolto a controllare Piazza Castello, punto di energia positiva.

Allontanandoci da questa suggestiva visione per così dire “magica” dell’opera, è interessante segnalare una piccola variazione avvenuta al monumento nel 1971 proprio in occasione del centenario dell’ideazione della ferrovia. In quell’occasione si è provveduto a far aggiungere una targa che rendesse il merito dovuto a Giuseppe Francesco Medail, l’imprenditore nativo di Bardonecchia che per primo sostenne la causa del Traforo e che morì senza veder realizzato il suo sogno. Così, se pur con clamoroso ritardo, si diede voce all’accorata protesta della sua vedova, che già all’indomani dell’inaugurazione, nel marzo del 1880, rimproverò l’amministrazione cittadina di non aver associato al monumento il nome del marito.

(Foto: il Torinese)

Simona Pili Stella

Petto di pollo al limone: semplice e gustoso

Una ricetta appetitosa, sorprendentemente profumata che vi stupirà per la sua leggerezza, morbidezza e bontà

 

La carne di pollo apprezzata per le sue propreita’ nutritive e’ adatta a tutta la famiglia. Pochi semplici ingredienti per una ricetta appetitosa, sorprendentemente gustosa e profumata che vi stupira’ per la sua leggerezza, morbidezza e bonta’.

 

Ingredienti:

1 Petto di pollo intero

1 bicchiere di vino bianco secco

1 limone non trattato

1 spicchio di aglio

Olio,sale,pepe, rosmarino q.b.

 

In una pentola scaldare l’olio con l’aglio e il rametto di rosmarino. Rosolare a fuoco vivace il petto di pollo, salare, pepare e sfumare con il vino bianco, abbassare la fiamma, lasciare insaporire e cuocere coperto per circa un quarto d’ora. Lavare il limone e con un rigalimoni o un coltellino affilato, prelevare striscioline di scorza sottilissime da aggiungere al pollo poi, aggiungere tutto il succo filtrato del limone. Lasciar cuocere lentamente per circa mezz’ora aggiungendo, se necessario, un mestolino di acqua calda. Lasciar consumare la salsa, affettare la carne e servire caldo.

Paperita Patty

Il Magnanimo si affaccia sulla “sua” piazza

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Alla scoperta dei monumenti di Torino / L’idea di erigere un monumento in onore di Carlo Alberto risale al 1847 sull’onda dell’entusiasmo suscitato dalle riforme politiche che trovarono una formulazione costituzionale nello Statuto che porta il suo nome

Nel centro della piazza e rivolto verso Palazzo Carignano, il monumento si presenta su tre livelli. Sul più alto posa la statua equestre in bronzo del Re con la spada sguainata in atteggiamento da fiero condottiero. Al livello del piedistallo, che sorregge il ritratto equestre, sono collocate (all’interno di nicchie) le statue in bronzo in posizione seduta raffiguranti le allegorie del Martirio, della Libertà, dell’Eguaglianza Civile e dello Statuto. Al livello centrale sono collocati quattro bassorilievi che ricordano due episodi delle battaglie di Goito e di Santa Luciarisalenti alla Prima Guerra di Indipendenza, mentre gli altri due, rappresentano l’abdicazione e la morte ad Oporto di Carlo Alberto. Agli angoli del piano inferiore, infine, sono poste quattro statue in posizione eretta, raffiguranti corpi dell’Esercito Sardo, quali l’Artiglieria, la Cavalleria, i Granatieri e i Bersaglieri.

 

L’idea di erigere un monumento in onore di Carlo Alberto, detto il Magnanimo, risale al 1847 sull’onda dell’entusiasmo suscitato dalle riforme politiche che trovarono una formulazione costituzionale nello Statuto che porta il suo nome. Fu un comitato promotore, composto da illustri uomini politici e del mondo della cultura guidato da Luigi Scolari, seguito a ruota dal Municipio di Torino, ad ideare il programma di una pubblica sottoscrizione da sottoporre all’allora ministro dell’Interno Des Ambrois. Seguì un lungo e appassionato dibattito parlamentare volto anche alla individuazione del luogo più adatto ad accogliere il monumento, interrotto brevemente in seguito ai Moti del 1848. L’andamento del dibattito subì una repentina svolta con la morte in esilio di Carlo Alberto nel luglio 1849: da quel momento la commissione istituita per la realizzazione del monumento attribuì all’iniziativa “il valore assoluto di precetto morale e insegnamento perenne”.

Nell’agosto del 1849 l’iniziativa venne ufficializzata da un progetto di legge, uno stanziamento di 300.000 lire e l’apertura di un concorso pubblico. Con una legge del 31 dicembre 1850 la gestione del progetto e le decisioni relative al monumento passarono al Governo e venne infatti nominata, in seguito, una commissione presieduta dal Ministro dei Lavori Pubblici Pietro Paleocapa. Si dovette però attendere fino al 20 maggio del 1856 per ottenere, dalla Camera e dal Senato, il voto che sancì la convenzione con Carlo Marocchetti, lo scultore scelto dal Ministero dei Lavori Pubblici per la realizzazione dell’opera, e lo stanziamento dei fondi necessari per la sua esecuzione (675.000 lire). A Marocchetti, il Ministero riconobbe “la piena e libera facoltà di modificare d’accordo con il Ministero […] il disegno in tutti i particolari limitandosi però sempre all’ammontare della spesa”.

In seguito, fu sotto suggerimento di Edoardo Pecco (l’ingegnere capo del Municipio che seguiva la realizzazione di tutti i lavori di sistemazione della nuova piazza Carlo Alberto) che la statua venne orientata in asse con palazzo Carignano, in modo da poterla cogliere anche dalla piazza omonima attraverso il cortile aperto al passaggio pubblico.L’inaugurazione avvenne il 21 luglio del 1861, cioè pochi mesi dopo l’unificazione d’Italia, con cerimonia solenne, nella quale il capo del governo Ricasoli tratteggiò la figura di un re che aveva configurato e preparato i destini di una nuova Italia.  Per quest’opera a Marocchetti venne riconosciuta la Gran Croce dell’Ordine di San Maurizio.

In tempi recenti, la piazza ha attraversato fasi di vita e utilizzo comuni ad altre piazze storiche del centro cittadino. E’ stata percorsa dalle auto e poi successivamente resa pedonale. E’ una delle piazze più vissute dagli studenti, al punto da essere anche soprannominata “la piazzetta”. Ridisegnata con spazi verdi e raccordata con le vie Cesare Battisti e Lagrange, anch’esse pedonali, tutte insieme creano un perfetto ed elegante percorso tra i musei. Infatti sulla piazza Carlo Alberto si affacciano il Museo Nazionale del Risorgimento nel Palazzo Carignano (sede del primo Parlamento italiano) e la Biblioteca Nazionale, mentre in via Lagrange è situato il Museo Egizio.

Simona Pili Stella

I Templari in Val di Susa

 Andare in montagna significa anche scoprire la storia delle nostre vallate, dei nostri borghi, della gente che ci abita, di tradizioni e costumi che sembravano perduti ma che in realtà sono ancora vivi e presenti e ci raccontano storie che neanche conoscevamo.

Recarsi per esempio in Val di Susa, così vicina a Torino e così ricca di memorie storiche, significa ripercorrere fatti ed eventi che affondano le radici ben prima dell’era cristiana. Da Annibale che con 30.000 uomini e 37 elefanti da battaglia valicò nel 218 a.C. il Moncenisio o forse il Monginevro, ma non si escludono altri passaggi come sul Piccolo San Bernardo o addirittura sul Monviso, ad Augusto che a Susa, 2000 anni fa, di ritorno dalla Gallia, si fermò a Segusium (Susa romana) per fare la pace con le bellicose tribù delle Alpi Cozie. Da Costantino il Grande che nel 312, proveniente dalla Britannia e diretto a Roma, scese a Susa per sbaragliare le truppe dell’usurpatore Massenzio fino a Carlo Magno che alle Chiuse di Susa (le rovine delle fortificazioni sono ancora parzialmente visibili) sconfisse nel 773 i Longobardi di Desiderio che il torinese Massimo d’Azeglio ha illustrato in un prezioso bozzetto. Grande storia, grandi eventi hanno segnato la Val di Susa ma ci sono anche storie minori o anche solo oggetti e simboli che ci ricordano il passaggio da queste parti di personaggi altrettanto importanti. Come i Templari che spuntano ovunque, come i funghi in Val Sangone, e spesso vengono visti in luoghi dove in realtà non sono mai stati. E proprio una leggenda valsusina narra che i Templari sarebbero saliti alla Sacra di San Michele arrampicandosi, a piedi e a cavallo, sul monte Pirchiriano ottocento anni fa. I Cavalieri del Tempio si sarebbero ritrovati nell’antica abbazia per trattare il passaggio di alcuni monaci alla Confraternita esoterica e religiosa dei Rosacroce. Tre croci incise nella pietra accanto alla porta dell’Abbazia, la Porta di Ferro, dimostrerebbero l’attendibilità dell’incontro. È probabilmente solo un racconto popolare ma tra il Piemonte e i Templari, ordine religioso-militare fondato nel 1119, poco dopo la prima Crociata, c’è sempre stato un forte legame storico. Si sa infatti con certezza che i Templari furono presenti in molte città e paesi del Piemonte, tra cui, Cuneo, Alba, Ivrea, Moncalieri, Torino, Chieri, Casale, Vercelli e Novara. Anche in Val di Susa è stato registrato un certo via vai di templari. Da fonti storiche risulta che il più antico insediamento templare, risalente al 1170, fu presumibilmente quello di Susa e presenze templari sono state individuate nella vicina San Giorio, a Villar Focchiardo e a Chiomonte. Sorprendente e imprevisto è stato il ritrovamento negli anni Novanta, da parte di alcuni esperti guidati dalla studiosa Bianca Capone Ferrari, di alcune croci templari nel piccolo comune di San Giorio, alle porte di Susa. Una croce è murata nella facciata della canonica che in tempi antichi era quasi certamente una fortezza da cui si controllavano i movimenti nella valle attaversata dalla Dora Riparia mentre sull’arco del portale laterale di una cappella del XIII secolo, che si trova nei pressi della chiesa parrocchiale, risplende un’altra croce templare. Si ritiene pertanto probabile che a San Giorio fosse presente un presidio militare dei Cavalieri rosso-crociati a difesa della valle e del ponte sulla Dora. È stato finora impossibile accertare il luogo esatto dell’insediamento templare a Susa (forse si tratta della chiesa di Santa Maria della Pace sulla Dora), tuttavia esistono documenti che confermano la presenza in città di una “domus templi”, come dimostra la magnifica croce a otto punte scolpita in un fianco della cattedrale di San Giusto.

Filippo Re

(foto LIGUORI)

Spaghettata tricolore: semplice ma buona!

Basilico, aglio e pomodoro sono sani e gustosi

Verde. Basilico: la pianta aromatica piu’ conosciuta e profumata dona freschezza e colore, indispensabile ingrediente. Bianco. Aglio: gusto deciso, intenso e aromatico, rigorosamente crudo. Rosso. Pomodoro cuore di bue: il re degli orti, saporito, costoluto a forma irregolare, polpa compatta e consistente povera di semi e di succo, aromatico e carnoso. La semplicita’ e’ in tavola.

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Ingredienti per 4 persone:

 

350gr. di spaghetti

3 grossi pomodori cuore di bue sodi ma ben maturi

1 spicchio di aglio crudo

10 foglie di basilico fresco

Abbondante parmigiano grattugiato

Olio evo, sale.

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Pelare i pomodori, tagliarli a spicchi eliminando i pochi semi e lasciarli scolare per circa un’ora in uno scolapasta. Portare a bollore l’acqua salata e cuocere gli spaghetti. In una grande terrina mettere i pomodori strizzati e tagliati a dadini, il sale e l’aglio tritato finemente; versare gli spaghetti ben scolati, condire con abbondante olio evo, parmigiano grattugiato e le foglie sminuzzate di basilico, mescolare e servire subito.

Paperita Patty

 

Gli occhiali per leggere

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Albertino era venuto al mondo quando ormai Maddalena e Giovanni non ci speravano più. E così, passando gli anni in un rincorrersi di stagioni che rendevano sempre più duro e faticoso il lavoro nei campi, venne il giorno del ventunesimo compleanno per l’erede di casa Carabelli-Astuti.

E con la maggiore età  arrivò, puntuale come le tasse, anche la chiamata obbligatoria alla leva militare. Albertino salutò gli anziani genitori con un lungo abbraccio e partì, arruolato negli alpini. Un mese dopo, alla porta della casa colonica di Giovanni Carabelli, alle porte di San Maurizio d’Opaglio, dove la vista si apriva sul lago, bussò il postino. Non una e nemmeno due volte ma a lungo poiché Giovanni era fuori nel campo e Maddalena, un po’ sorda, teneva la radio accesa con il volume piuttosto alto. La lettera, annunciò il portalettere, era stata spedita dal loro figliolo. Non sapendo leggere e scrivere, come pure il marito, Maddalena si recò in sacrestia dal parroco. Don Ovidio Fedeli era abituato all’incombenza, dato che tra i suoi parrocchiani erano in molti a non aver mai varcato il portone della scuola e nemmeno preso in mano un libro. Chiesti alla perpetua gli occhiali, lesse il contenuto alla trepidante madre. E così, più o meno ogni mese, dalla primavera all’autunno, la scena si ripetette. Maddalena arrivata concitata con la lettera in mano, sventagliandola. E il prete, ben sapendo di che si trattasse, diceva calmo: “ E’ del suo figliolo? Dai, che leggiamo. Margherita, per favore, gli occhiali..”. E leggeva.  Poi, arrivò l’inverno con la neve e il freddo che gelava la terra e metteva i brividi in corpo. Il giorno di dicembre che il postino Rotella gli porse la lettera del figlio, decise che non si poteva andar avanti così. E rivolgendosi al marito con ben impressa nella mente la scena che ogni volta precedeva la lettura da parte del parroco, disse al povero uomo, puntando i pugni sui fianchi: “ Senti un po’, Gìuanin. Non è giunta l’ora di comprarti anche te un paio d’occhiali così le leggi tu le lettere e  mi eviti di far tutta la strada da casa alla parrocchia che fa un freddo del boia? “.

Marco Travaglini

 

 

Luisa Levi: la signora medico

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Torino e le sue donne
Le storie spesso iniziano là dove la Storia finisce
Con la locuzione “sesso debole” si indica il genere femminile.Una differenza di genere quella insita nell’espressione “sesso debole” che presuppone la condizione subalterna della donna bisognosa della protezione del cosiddetto “sesso forte”, uno stereotipo che ne ha sancito l’esclusione sociale e culturale per secoli. Ma le donne hanno saputo via via conquistare importanti diritti, e farsi spazio in una società da sempre prepotentemente maschilista. A questa “categoria” appartengono  figure di rilievo come Giovanna D’arco, Elisabetta I d’Inghilterra, EmmelinePankhurst, colei  che ha combattuto la battaglia più dura in occidente per i diritti delle donne, Amelia Earhart, pioniera del volo e Valentina Tereskova, prima donna a viaggiare nello spazio. Anche Marie Curie, vincitrice del premio Nobel nel 1911 oltre che prima donna a insegnare alla Sorbona a Parigi, cade sotto tale definizione, così come Rita Levi Montalcini o Margherita Hack. Rientrano nell’elenco anche Coco Chanel, l’orfana rivoluzionaria che ha stravolto il concetto di stile ed eleganza e Rosa Parks, figura-simbolo del movimento per i diritti civili, o ancora Patty Smith, indimenticabile cantante rock. Il repertorio è decisamente lungo e fitto di nomi di quel “sesso debole” che “non si è addomesticato”, per dirla alla Alda Merini. Donne che non si sono mai arrese, proprio come hanno fatto alcune iconiche figure cinematografiche quali Sarah Connor o Ellen Ripley o, se pensiamo alle più piccole, Mulan.  Coloro i quali sono soliti utilizzare tale perifrasi per intendere il “gentil sesso” sono invitati a cercare nel dizionario l’etimologia della parola “donna”: “domna”, forma sincopata dal latino “domina” = signora, padrona. Non c’è altro da aggiungere.

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7 Luisa Levi: la signora medico

Agli albori del mondo, le donne ricoprivano ruoli di guaritrici, curavano i mali dell’anima e del corpo al pari degli uomini, come testimoniano vari reperti delle popolazioni euroasiatiche, africane o azteche. Il brusco cambiamento arriva con l’Inquisizione, che trasforma le conoscenze curative femminili in osceni patti con il maligno e le donne guaritrici in temibili streghe. Da questo momento in poi, per molto tempo, solo gli uomini potevano frequentare le Università e solo i dottori in medicina potevano praticare le arti guaritorie. Unica eccezione fu la scuola di Salerno, all’interno della quale, nell’XI secolo, lavorava Trotula, “sapiens matrona” (“donna sapiente e saggia”), abilissima levatrice proveniente dalla ricca e nobile famiglia de Ruggiero di origine Longobarda. Le donne dovranno aspettare  secoli perché le porte delle Università vengano aperte anche a loro, il che accadrà soltanto tra la metà dell’Ottocento e gli inizi del Novecento. Se le Istituzioni aprono le porte, l’opinione comune resta serrata e le donne medico devono combattere più degli uomini per veder realizzati i propri obiettivi. Tra le tante “combattenti” ricordiamo Mary Putnam Jacobi: diplomatasi nel 1863 in Farmacia a New York, poco dopo ottiene la Laurea in Medicina al Woman’s Medical College della Pennsylvania; porta avanti la convinzione che per diventare validi medici sia fondamentale avere non solo una buona preparazione scientifica, ma anche una grande compassione per chi soffre. Diventerà portavoce del Movimento Medico Femminile a capo della Working Women’sSociety e dell’associazione per l’Advancement of the MedicalEducation for Women.  In Italia, troviamo Maria Dalle Donne, prima docente di Ostetricia nella Regia Università di Bologna, laureatasi in Filosofia e Medicina nel 1799, e dirigente, nel 1804, presso la Scuola delle Levatrici, e Maria Montessori, nata ad Ancona nel 1870: è lei la prima donna italiana a conseguire la Laurea in Medicina e Pedagogia (ma anche in Scienze Naturali e Filosofia). La nostra storia di oggi ha come protagonista una delle tante donne caparbie e preparate che non si è mai arresa di fronte agli ostacoli frapposti dalle ferree regole della  società: Luisa Levi.  Luisa Levi nasce a Torino il 4 gennaio 1898, diviene medico neuropsichiatra infantile, attenta studiosa di problemi riguardanti la sessualità dell’infanzia. E’ ricordata principalmente poiché è la prima donna medico italiana a pubblicare un lavoro sull’educazione sessuale, intitolato “L’educazione sessuale: orientamento per i genitori”. Scopo del libro è aiutare i genitori a dare un sano indirizzo alla vita sessuale dei loro figli, evitando errori comuni dovuti a pregiudizi. Luisa Levi è figlia di Ercole Raffaele e Annetta Treves, entrambi di religione ebraica. E’ lo zio materno Marco Treves, psichiatra e fratello del noto Claudio Treves, a suscitare in lei il desiderio di diventare medico. Luisa frequenta a Torino il liceo Vittorio Alfieri e in seguito si iscrive, nel 1914, alla tanto desiderata Facoltà di Medicina presso l’Università degli Studi di Torino. Nel suo primo anno di corso stringe amicizia con Maria Coda, l’unica altra donna frequentante. Luisa segue nel corso degli studi il laboratorio di Anatomia e Istologia Normale e quello di Clinica Medic
a, rispettivamente p
resso gli studi di Romeo Fusari e di Camillo Bozzolo e Ferdinando Micheli. La giovane donna riuscirà ad ottenere i premi “Pacchiotti” e “Sperino” per le massime votazioni conseguite negli esami speciali e nella discussione della tesi: “Sopra un caso di endocardite lenta”, con cui si laurea l’8 luglio 1920, conseguendo il massimo dei voti e la lode. Luisa è donna non solo di alta cultura ma anche molto coraggiosa: durante la prima guerra mondiale è infermiera volontaria presso l’ospedale territoriale della Croce Rossa Italiana di Torino, in cui presta servizio come aspirante ufficiale medico nel laboratorio psico-fisiologico dell’Aviazione, diretto da Amedeo Herlitzka. Dopo alcuni anni in qualità di assistente presso diverse cliniche, nel 1928 lavora con il titolo di medico per le malattie nervose dei bambini presso l’ospedale pediatrico Koelliker di Torino, dando così inizio alla sua carriera di neuropsichiatra infantile. Nel 1927 si reca a Parigi per perfezionarsi in malattie mentali e malattie nervose. Sebbene la sua formazione sia ricca di riconoscimenti e nonostante l’ottima preparazione, Luisa incontra non poche difficoltà ad essere assunta nelle diverse cliniche psichiatriche, dove, in caso di pari merito, le vengono preferiti i suoi colleghi maschi. La dottoressa non si arrende e nel 1928 vince un posto, dedicato a sole donne, bandito dai manicomi centrali veneti per la colonia medico-pedagogica di Marocco di Mogliano, fondata da Corrado Tummiati. Negli anni successivi pubblica diversi articoli sulla mente dei bambini e sulla loro rieducazione. Le peripezie di Luisa, però, non sono finite e dopo un anno dall’assunzione il direttore amministrativo la induce a dare le dimissioni. Nel 1932 viene accettata nella Casa di Grugliasco, dove rimane fino all’emanazione delle leggi razziali. Durante la seconda guerra mondiale, privata del lavoro, si ritira nella campagna di Alassio, di proprietà dei genitori, e qui si dedica a lavori agricoli. Dopo l’8 settembre 1943 si rifugia con la madre a Torrazzo Biellese, dove vive sotto falso nome. Qui, grazie al Comitato Femminile di Ivrea, collabora attivamente come medico della settatantaseiesima Brigata Garibaldi. Nel secondo dopoguerra, determinata a portare avanti il suo impegno scientifico e politico, Luisa Levi entra in Unità Popolare e fa parte della sezione PSI “Matteotti” di Torino;  diventa poi membro attivo dell’UDI (Unione Donne Italiane) e si iscrive alla Camera Confederale del Lavoro della città subalpina. Continua a dedicarsi alla neuropsichiatria infantile dopo aver conseguito la libera docenza con la tesi su “Infanzia anormale” nel 1955. Dopo una vita passata a lottare, trova finalmente riposo proprio nella città da cui era partita: si spegne, infatti, a Torino nel dicembre del 1983.

 

Alessia Cagnotto

“Crossa a sinistra, boia di un mondo…”

Sullo spelacchiato rettangolo  del campo sportivo di Torre Beretti, come ogni inizio d’estate, andava in scena la sfida calcistica tra le formazioni delle sezioni comuniste della Lomellina. Carletto Ramenghini, titolare di una ditta impegnata nell’ecologia  ( “un compagno che si era fatto un nome con il sudore della fronte”), era il principale sponsor della competizione sportiva. Aggiudicarsi il trofeo “Carletto Spurghi”, era l’ ambito obiettivo  di ogni squadra che, per essere più competitiva, cercava di rafforzare la propria “rosa” con i migliori calciatori in circolazione.

 

Se la Dinamo Gambolò e il Rapid Mortara si potevano avvalere dell’apporto del miglior portiere l’una ( Duilio Saracineschi che, sin da piccolo e già dal nome, era un predestinato)  e del più prolifico attaccante l’altra ( l’Azeglio Fromboli, detto anche “Kalashnikov”, ormai quasi quarantenne segretario della locale sezione ma con l’esperienza calcistica di un decennio tra i semiprofessionisti lombardi), la Torpedo di Robbio puntava tutto sui giovani e il “Grido del Popolo” di Vigevano sui fratelli Taccoletti, ex giocatori del Pavia in serie C. Il Sartirana e lo Scaldasole faticarono a mettere in campo due formazioni e non sfuggirono ad un certo anonimato. Le altre due squadre  erano l’Idraulica Bodoni ( Vladimiro “Lenin” Bodoni  era di Groppello Cairoli) nella quale militava Evaristo Trepassi, vecchia gloria del Brescia, e i padroni di casa del Torre Beretti , allenati da Liborio Venticelli, indimenticata mezz’alta del Monza negli anni sessanta che, avendo sposato la signora Clelia Fortini, zia del sindaco comunista, era imparentato con la massima autorità locale. Il Torre Beretti, con la tradizionale divisa giallo-blu, aveva i suoi punti di forza in “mastino” De Rulli, delegato della CGIL, di mestiere carpentiere e mediano di vocazione come del resto l’altro pilastro del centrocampo, Tommaso Sgnaffoli, detto “cagnaccio” per la tenacia e il mordente con cui affrontava gli avversari. Gli altri due degni di nota erano Vincenzo Gasparotti,  terzino in campo e falegname fuori, ribattezzato dal pubblico “il piallatore” poiché tendeva ad applicare al diretto avversario la stessa tecnica riservata nel trattamento del legname, e Leolpoldo Leopoldini ( per tutti Poldo), che di soprannomi ne vantava ben due. La scelta era indotta dalla necessità. essendo difficile riassumere doti e caratteristiche in un solo soprannome: “poiana”, in quanto predatore d’area, e “fondoschiena” per l’incredibile fortuna che accompagnava il più delle volte  le sue prestazioni. Poi, ovviamente, c’era lui, il centrattacco di sfondamento, l’uomo-goal del Torre Beretti, Palmiro Taglietti. Soprannominato dai critici “Il vitellone”, si era fatto ricamare sulla maglia, all’altezza del cuore, un umile e modesto “il Migliore”. Il torneo, ad eliminazione diretta, dimezzati dopo il primo turno i contendenti ( il Torre Beretti “regolò” lo Scaldasole per tre a zero, con una doppietta del “poiana” e un contestatissimo goal del Taglietti che, imitando Maradona contro l’Inghilterra, infilò la sfera alle spalle dell’allibito estremo difensore avversario colpendola con il pugno chiuso), stabilì le semifinaliste. La Dinamo Gambolò travolse sei a zero l’inconsistente Sartirana mentre i padroni di casa faticarono sette camicie per aver ragione con il minimo scarto dei bianco-viola groppellesi dell’Idraulica Bodoni. La sera della finalissima si scatenò il putiferio. Già nel pomeriggio la pioggia, caduta copiosamente, aveva trasformato il campo in un acquitrino. Il pallone rimbalzava a malapena e, di tanto in tanto, incontrando una pozzanghera, s’impantanava tristemente. Il temporale, con uno sfolgorio di saette e grancassa di tuoni, non scoraggiò le due tifoserie che gremirono gli spalti, incuranti della pioggia, in un tripudio di bandiere rosse e slogan. Su quel terreno pesante la tecnica del centrocampo del Gambolò risultava evidentemente penalizzata , lasciando spazio alla foga muscolare di Taglietti e dei suoi. Liborio Venticelli, il trainer del Torre Beretti che non avevano mai vinto il torneo in precedenza, era stato chiaro: “Questa volta non si va in bianco, eh ragazzi?! Bisogna portare palla senza buttarla via, tenere la testa a posto, non far passare la metà campo a quelli là e cercare Palmiro per lo sfondamento. Ci siamo capiti? E tu, cagnaccio,ricordati: crossa a sinistra, boia di un mondo!”. Dopo i primi quarantacinque minuti i quattordici giocatori ( sette per parte) erano delle maschere di fango dopo essersele date di santa ragione, correndo a perdifiato su e giù per le fasce, randellandosi in epici scontri a centrocampo senza quasi mai affacciarsi nelle due aree piccole. Il risultato vedeva in vantaggio il Gambolò di una segnatura, frutto di un missile calciato da venticinque metri dall’ala sinistra dei gambolesi, tal Martinelli Eugenio, detto “Molotov”. La ripresa vide però la riscossa del Torre Beretti con uno scatenato Taglietti che urlava, sotto la pioggia battente, “Compagni, che lotta. Esaltiamoci, attacchiamoli, schiantiamoli. Facciamo venir fuori gli spiriti animali. Siamo come la Guardia Rossa che marcia alla riscossa!!”. Ululava il centrattacco, sbracciandosi per dare la carica. Il pubblico locale sosteneva la sua compagine cantando a squarciagola l’Internazionale..”compagni, avanti il gran partito…”, inanellando una rima dietro l’altra. Quando un lungo lancio del “piallatore” scodellò la sfera sul sinistro del centravanti,Palmiro  fulminò Saracineschi. Sull’uno pari la battaglia in campo divenne durissima e, grazie a un fallo un po’ dubbio in area, i padroni di casa si trovarono tra i piedi un bel rigore per passare in vantaggio. Taglietti ululò che, essendo “il Migliore”, toccava a lui tirare il penalty ma l’allenatore non volle sentir ragioni  e, nonostante la cascata d’insulti che lo investì, ordinò a “poiana” Leopoldini di battere dal dischetto. Detto e fatto, il Torre Beretti rovesciò il risultato e resistette fino allo scadere, non senza fatica , agli assalti all’arma bianca dei furibondi gambolesi. Nel tripudio generale, placati gli animi e accettato da tutti il risultato che assegnava il trofeo “Carletto Spurghi” ai locali, l’unico che brontolava era proprio Palmiro Taglietti: “’Va là che dovevo tirarlo io il rigore. Se segnavo, boia cane, impazzivano tutti per me e potevo fare un po’ il gallo in giro. Ma andate tutti a …..!”. Nessuno si fece intimorire, ovviamente. E nemmeno se la presero più di tanto. In fondo, quello che contava, era vincere il torneo e vedere la notizia pubblicata sulle pagine lombarde de L’Unità. Per tutta onestà, però, va precisata una cosa, a difesa della scelta, rivelatasi comunque vincente, di Liborio Venticelli: nei precedenti tornei, per dieci volte dieci, il Taglietti aveva “ciccato” altrettanti rigori, dimostrando che la sua mira dai sedici metri era oltremodo sciagurata. Tant’è che “cagnaccio”, arrabbiandosi, gli aveva gridato più di una volta: “ Di un po’, Migliore delle balle. Non pensi che sia ora di raddrizzare quelle piantane che hai al posto dei piedi?”.

Marco Travaglini

Croccante focaccia simil-Recco

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Croccante al punto giusto, ha un gusto delicato. Che dirvi di piu’…. vi chiederanno il bis!

Certo, la focaccia di Recco e’ tutta un’altra storia… sono d’accordo con voi, questa e’ senza pretese ma vi piacera’, e’ croccante al punto giusto, ha un gusto delicato…che dirvi di piu’…. vi chiederanno il bis!

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Dose per 2 teglie rettangolari:

500gr.di farina 00

2 cucchiaini di zucchero

1 cucchiaino di sale

1 bustina di lievito secco

5 cucchiai di olio evo

275ml di acqua tiepida

500gr. di stracchino/crescenza

sale q.b

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Mettere la farina, lo zucchero, il sale nel mixer e miscelare, aggiungere poi la bustina di lievito e sempre miscelando l’olio. Aggiungere poco alla volta l’acqua e lasciar impastare per qualche minuto. Versare l’impasto sul piano del tavolo infarinato e iniziare ad impastare con energia sbattendo la pasta sul tavolo ripetutamente. Mettere l’impasto in una capiente ciotola, coprire con un tovagliolo e lasciar lievitare in luogo tiepido per 4 ore.

L’impasto raddoppiera’ di volume. A questo punto, stendere la pasta con il mattarello e sistemarla nella teglia rivestita di carta forno. Ungere leggermente l’impasto con olio miscelato a qualche goccia di acqua e coprire con pezzi di stracchino, salare, condire con un filo di olio e infornare a 250* per 15 minuti o fino a quando il formaggio inizia a dorare .

Servire subito aggiungendo, a piacere, rucola fresca. Se non avete tempo, o voglia, acquistare la pasta per pizza dal fornaio.

Buon appetito.

 

Paperita Patty