Gli Oscar? Una grande frammentazione, così quasi da non voler scontentare nessuno, un pulviscolo cinematografico come le cinquanta star che si sono avvicendate sul palcoscenico del Dolby Theatre a distribuire premi e a legare numeri e dichiarazioni, al posto del vecchio maestro di cerimonie, più o meno spiritoso,più o meno allentatore di tensioni, che raccoglieva intorno a sé l’intera serata. Certo non è più l’epoca dei titoli che si portavano appresso carrettate di statuette, ma anche tutto quel frazionare non è per molti versi un convincente segnale. Tra dimenticanze ed errori (considerati al gusto personale), tra supremazie inesistenti, tra scelte che badano assai più al politicamente corretto che al squisitamente cinematografico. Se ne torna a casa a mani pressoché vuote Vice – L’uomo nell’ombra, che ha portato a casa soltanto il premio per il trucco, se ne torna a casa Glenn Close, arrivata alla sua settima nomination senza poter mai assaporare che cosa realmente significhi “quel” premio, immeritatamente sconfitta da una pur straordinaria Olivia Colman, chapeau!, esuberante quanto altalenante d’umori e sofferente regina Anna della Favorita (un ex aequo, proprio no?), unico zio Oscar per un titolo che aveva ben dieci nomination al proprio arco, e che rischiava di rimanere a secco, qualcuna davvero dritta al centro (perché si è preferita Regina King del melenso Se la strada potesse parlare alla prova straordinaria di Rachel Weisz del film di Yorgos Lanthimos quale migliore attrice non protagonista? perché non si sono considerate appieno quei costumi, quelle scenografie e la “nuovissima” fotografia di Robbie Ryan?), se ne torna con la statuetta tra le mani Mahershala Ali per il film di Peter Farrelly (qui nelle vesti del pianista Don Shirley, già pochissimo convincente due anni con il gonfiatissimo Moonlight) come miglior attore non protagonista. E questo davvero ti spinge a dover guardare amaramente “oltre” il cinema.
Green Book, di un autore come Farrelly che sembra aver cambiato la sua strada abituale, vince il titolo di miglior film dell’annata (gli appartiene anche il premio per la migliore sceneggiatura originale, dove ha collaborato Nick Villalonga, prole del vecchio Villalonga che nel film uno straordinario quanto dimenticato Viggo Mortensen, gradasso e poco affine alla gente di colore, tratteggia a piccolo capolavoro), lontano da parecchie convinzioni e capace di far arrabbiare il coloratissimo Spike Lee che aveva sperato fino all’ultimo nel suo BlacKkKlansman e che invece s’è dovuto accontentare della statuetta alla migliore sceneggiatura non originale. Nel giro di pochissimi anni, in buona compagnia dei suoi amici Inàrritu e Guillermo del Toro, Alfonso Cuaròn porta con la targhetta miglior regia un ulteriore premio in terra messicana, esempio di passione e di autentica maestria, di un universalismo culturale che nulla hanno a che fare con i muri da erigere o no.
Roma – che è l’esempio migliore dell’abbraccio di Hollywood a Netflix (altro punto da non sottovalutare di questa 69ma edizione degli Oscar) e che incamera anche i premi per la migliore fotografia ed il miglior film straniero – resta una delle più convincenti e commoventi opere dell’annata, già Leone d’Oro a Venezia (un’altra dose di buon fiuto per Alberto Barbera), un’autobiografia raccontata teneramente, punteggiata da alcuni momenti davvero alti che si fanno sempre più rari nel cinema della nostra epoca. Ha vinto Black Panther, primo fumettone ad arrivare al maggior traguardo, per i costumi, la scenografia e la colonna sonora, un giocattolo che ha raggranellato dollari al botteghino e andava premiato. Quegli stessi botteghini che stanno omaggiando, dopo un percorso partito con leggera incertezza, anche Green Book e che hanno già fatto fare un gran bel pezzo di strada a Bohemian Rapsody, da cui esce il miglior attore dell’anno, Rami Malek (con i migliori suono e montaggio sonoro), lontanissimo dalle apparizioni di Una notte al museo, che nel discorso di premiazione ha ricordato con orgoglio le proprie radici egiziane. La nota più bella della serata, con buona pace delle mire registiche di Bradley Cooper, che certo parecchio di più in questi mesi ha sperato per la sua opera prima (otto nomination iniziali), è stata la voce di Lady Gaga (con quella di Bradley al seguito, certo) che ha riproposto Shallow tratta da A star is born, la più bella canzone dell’anno cinematografico. Con lei lo zio Oscar ha accontentato tutti quanti.
Elio Rabbione
Nelle immagini “La favorita”, “Green Bokk”, “Roma” e “A star is born”
“Green Book” miglior film, a Lady Gaga la statuetta per la miglior canzone
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