Osvaldo Torrioni, nato ad Angera, poco distante dalla villetta dove si riuniva clandestinamente, durante il fascismo, l’esecutivo nazionale del Partito Comunista Italiano, era un compagno “tutto d’un pezzo”. Così si autodefiniva e, a riprova della scelta, teneva nel portafoglio una foto ingiallita che ritraeva, attorno ad un tavolo, Palmiro Togliatti, Angelo Tasca, Camilla Ravera e Umberto Terracini, immortalati dall’obiettivo di una delle prime Leica. “Guarda qui, che roba. I nostri capi nel mio paese, ad Angera. Siam gente con le balle quadre, altro che storie!”. E pazienza per la compagna Ravera. Osvaldo, giovanissimo, frequentò il convitto scuola Rinascita di Milano, formandosi culturalmente e politicamente. Nel capoluogo lombardo imparò anche il mestiere di elettricista e, negli anni, conobbe molta gente, rimanendo affascinato da persone un po’ ai margini, balorde.In cima alla lista c’era quel Carlo Torrighelli, meglio noto come C.T , suo conterraneo, essendo di Laveno. Al pari diEttore Gagliano , lo schiaffeggiatore di preti, era una delle leggende viventi della vita milanese. Ogni mattina per tutti gli anni sessanta e settanta si aggirava per il centro della città con un triciclo da gelataio e i suoi tre cani – La Bella, L’Umanità e L’Amore -, sostando tra il Castello Sforzesco e la stazione di Porta Garibaldi. Lì, con un megafono gridava gli stessi slogan che scriveva con vernice bianca a caratteri maiuscoli, sui: cartelli, sui muri e sull’asfalto. “Sveglia popolo bue“, “Con più conoscete la gente con più amate gli animali“, e giù un fiume di contestazioni al clero, ai russi e agli americani che usavano le onde magnetiche dei ponti radio “per uccidere l’umanità”. Osvaldo, da come s’intuisce, era un irregolare, poco incline alla disciplina se si escludeva quella del partito, alla quale prestava un’obbedienza quasi cieca. Così, pur restando legato al suo lavoro di elettricista, dedicava il tempo libero alla politica. Girava per le sezioni del milanese e del varesotto, con qualche puntata anche sull’altra sponda del lago Maggiore.
Nonostante tutto, per il Pci lombardo, restava un uomo affidabile e un propagandista di prim’ordine, dotato di un certo carisma e di un’invidiabile parlantina. “Osvaldo, se te la senti, sabato sera, potresti andare a fare un comizio a Premosello, in Val d’Ossola. I compagni di lì hanno chiesto uno da fuori, tanto per avere una presenza nuova. Poi, verso sera, il segretario della sezione ti accompagnerà in macchina fino a Intra dove potrai prendere l’ultimo traghetto per Laveno e poi le Ferrovie Nord fino a Milano. Hai voglia?”. Alla richiesta del responsabile dell’organizzazione della Federazione comunista milanese rispose affermativamente, senz’indugio. Quelle “trasferte” gli piacevano molto. Lo “svariavano”, come più volte aveva avuto modo di confessare agli amici. Detto e fatto, partito dalla Centrale in treno verso Domodossola, scese alla stazione di Verbania- Fondotoce e da lì, in autobus, raggiunta la sua meta, s’incontrò con i compagni del posto. Grandi feste e buon successo dell’iniziativa alla Casa del Popolo alla quale fece seguito un’ottima cena, innaffiata con un allegro vinello che proveniva dai grappoli coltivati sulle “toppie” locali. Quando Osvaldo e il segretario locale ripartirono alla volta di Verbania era già tardi, molto tardi. E, giunti all’imbarcadero di Intra, s’accorsero che era ormai troppo tardi. L’ultimo traghetto era già in mezzo al lago. Congedato l’accompagnatore ossolano che non finiva più di chiedere scusa, Osvaldo si stava per rassegnare ad attendere la prima corsa dell’alba per potersi imbarcare.
Sotto un cielo gonfio di stelle la superficie del lago era liscia come l’olio. Nell’aria non c’era un filo di brezza, cosa veramente rara. Osvaldo, appoggiato con i gomiti alla balaustra, guardava l’altra sponda del Verbano quando vide un uomo vicino ad una barca, sullo scivolo sotto di lui. Un’idea pazza gli frullò in testa. Non esitò un istante e lo chiamò, agitando la mano. Farsi accompagnare in barca fino a Laveno non era una cosetta da nulla, anche per una lancia da lago dotata di motore. E di notte, poi. Tra l’altro si era accorto di avere in tasca pochi spiccioli, appena sufficienti per il biglietto del treno. Sul traghetto , grazie alle amicizie tra il personale della Navigazione, contava di fare il viaggio se non proprio “ a gratis”, almeno con l’impegno di pagare in un’altra occasione. Come convincere il pescatore (perché, nel frattempo, dopo essersi presentato, aveva capito che di un pescatore si trattava) a farlo salire in barca a sbafo? Imbastì una trattativa che si protrasse per quasi mezz’ora, tra i dinieghi dell’uomo – tal Sebastiano Zufoli di Suna – e l’infervorata abilità oratoria di Osvaldo. La riluttanza dell’uomo, a poco a poco, s’affievolì e alla fine, più per curiosità che per convinzione, accettò il patto proposto dal Torrioni. L’intesa era chiara: in cambio del “passaggio”, Osvaldo avrebbe svelato allo Zufoli tre importanti consigli che gli sarebbero stati molto utili nella vita. Il primo a un terzo del viaggio, il secondo oltre la metà e l’ultimo all’arrivo nel porticciolo di Laveno. Acceso il motore, l’imbarcazione puntò la prua verso la sponda lombarda del Verbano. Alla distanza pattuita per il primo “consiglio”, Osvaldo disse: “ Mai mettere la barca in acqua quando soffiano forte l’Inverna o la Tramontana, altrimenti si rischia di finir male”. Apriti cielo! Il pescatore s’arrabbio molto per quello che sentì. “A me lo viene a dire, che faccio questo mestiere da una vita? Ma che razza di consiglio è? “. Osvaldo ci mise un po’ per calmarlo e, procedendo sulla rotta stabilita, in poco tempo arrivarono oltre la metà del tragitto, con le luci di Intra più fioche alle spalle e quelle più vivide del lungolago di Laveno che s’avvicinivano. Il secondo consiglio scatenò il povero Sebastiano come una furia. “Cosa vuol dire che per sentire il vento devo succhiarmi un dito, esponendolo all’aria? Ma sei matto? Mi prendi in giro? Io ti butto in acqua qui in mezzo al lago, sai ?!”. Minacciato dal pescatore che brandiva un remo, preoccupato per il pericoloso ondeggiare della barca, Osvaldo sudò sette camicie per riportare la calma. Ormai, a quel punto, era assurdo tornare indietro e, pur trafiggendo il suo passeggero con sguardi tremendi, lo Zufoli decise di andare fino in fondo. “Ma, attento a cosa mi dirai con l’ultimo consiglio, perché sono incavolato come una bestia, eh?”. Osvaldo, sentendosi minacciato, rassicurò il traghettatore dicendogli che gli avrebbe rivelato il più importante, quello più utile, del quale far tesoro tutta la vita. E infatti, appena la prua della barca tocco la riva, con uno scatto felino, Osvaldo saltò a terra e si mise a correre. Per non venir meno alla parola data, guadagnato un certo vantaggio, rivolto al pescatore, gridò: “ Il terzo consiglio è questo: contratti di questo genere non farne più!”. E sparì nei vicoli bui mentre il pescatore urlava alla luna tutta la sua rabbia. Negli anni a venire non mancarono a Osvaldo Torrioni le occasioni per recarsi in Ossola o nel Verbano. Stette comunque “in campana” perché, dopo quella notte agitata, a scanso d’equivoci, era meglio non rischiare di perdere l’ultima corsa del traghetto, evitando così d’incontrare lo Zufoli.