Già tempo di bilanci per Enrico Brignano. Di vita, di professione soprattutto. Cinquanta per l’una, trenta per l’altra. Bilanci che hanno un titolo, referenziale e preciso, “Enricomincio da me”, se volete anche decisamente spavaldo. Senza mezze misure. Ma lui è bravo, se lo può permettere, prendere di petto un più che ottimistico mezzo del cammin della sua vita e ricamarci su, per il torrenziale divertimento del pubblico, tutto risate e applausi. Iniziando dalle sue giornate, partenza Dragona – dove è nato – direzione Roma e ritorno, con quel treno che è il suo primo palcoscenico, con quei pendolari come lui che sono il suo primo pubblico. Battute, imitazioni, tante imitazioni.
Poi il soggiorno americano, le prime esperienze, il rimpiazzo del comico che una sera non arriva e lui è fatto salire a forza dal proprietario del locale su quella pedana piena di luci, e improvvisa, e sciorina a orecchio lingue di mezzo mondo e ne ricava altri applausi. E poi le prime prove cinematografiche (una faccia che tranquillamente interessa Vanzina e Brizzi), l’amore per il teatro che rimane (uno per tutti, è stato un eccellente “Rugantino”), nato e allevato alla scuola di Gigi Proietti, la televisione che lo fa entrare nelle case di milioni di italiani (molti sono cresciuti con Giacinto del “Medico in famiglia”), sempre più sicuro, sempre più fascinoso, sempre più macchina di spettacolo.
Brignano, insomma, è bravo, bravissimo, un animale da palcoscenico che non si risparmia, che conosce il suo pubblico e a quel pubblico dà quel che gli chiede, un mattatore che canta, balla e recita con una sicurezza e un trasporto invidiabili. Un attore che naviga sicuro nel suo mare, un attore che fila via diritto senza ostacoli. Ma gli ostacoli ci sono. E per quegli ostacoli ci vuole un coraggio che forse ancora Brignano non ha. Quello di sfrondare, di saper rinunciare alla battuta più ammiccante, al pezzo che può sfacciatamente piacere ma che può anche far rischiare allo spettacolo una qualche scivolata (il padrino alle prese con i suoi scagnozzi e con una mira poco raccomandabile), al divertimento che ti si rivolta contro (persino il balcone di Romeo e Giulietta, nelle mani dell’attore, potrebbe avere altre soluzioni e altre immediatezze), alla lunghezza eccessiva che dovresti avvertire necessaria di una interruzione, di un alto là intelligente. Sei autori (oltre Brignano, Mario Scaletta, Renato Cassini, Manuela D’Angelo, Massimiliano Giovanetti e Luciano Federico) – e un signor regista dal fondo della sala buia – dovrebbero darsi di gomito e sottolinearsi a vicenda tutto quello che una bella matita blu dovrebbe correggere, evitando di prendere fuori misura da un repertorio che deve essere più che abbondante. Perché lo spettacolo è bello, il tecnicismo perfetto delle scenografie è una gioia per gli occhi, che il palcoscenico si riempia di colori o giochi con le geometrie del bianco e nero, i solisti riempiono coreografie in vero stato di grazia, la Giulietta di Ilaria De Rosa è una piccola favola di umorismo, e l’Enrico (nazionale?) è degno davvero degli applausi che gli arrivano ad ogni momento a manciate. Per cui, a quello spettacolo, risparmiamo qualche caduta, non roviniamolo.
Elio Rabbione
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